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BIBLIOTECA SCELTA
POETI DELL’ETÀ MEDIA
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DALLA STAMPERIA DI CRAPELET
Rt't DE VA'.GIRARD, 9
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POETI ITALIANI
DELL’ ETÀ MEDIA
ossia
SCELTA E SAGGI DI POESIE
DAI TEMPI DEL BOCCACCIO AL CADERE DEL SECOLO XVIII
PER CL'RA
1)1 TERENZIO M AMI A M
AGGIUSTAVI
INA SI' A PREFAZIONE
PARIGI
BAVSR7, UBR33RIA EUROPEA
3, QIIAI MALAQUAIS , All PREMIER ÉTAUE
PII I.S LE POST DEA A RTD
A
1848
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PREFAZIONE.
$ I
La presente Raccolta fa parte d’ un’ altra molto maggiore con la
quale tener dee proporzione ed accordo. Perciò non si maravigli il
lettore se qui dal poema del Mondo creato in fuori , egli desidera
i versi dell’ Ariosto e del Tasso, c non legge alcuna rima di ottime
poetesse, nè saggio veruno di componimenti drammatici. Tutto ciò
viengli offerto distintamente in altri volumi di questa Biblioteca
scelta. E nondimeno la dovizia del nostro Parnaso è tale che pur
sottratti que’ larghi tesori, ne rimangono altri d’insigne bellezza e di
gran valsente. In questi splende sopratulto una sfoggiala varietà,
invidiabile a molle letterature straniere, e la quale a noi è piaciuto
di far più visibile ordinando il libro per generi e specie di poesia.
Ben sappiamo che ancora in tal forma di distribuzione e di ordina-
mento accadono molte inconvenienze , perchè sovente le specie sono
distinte e sceverate dall’abito estrinseco e accidentale anziché dal-
P intrinseco e sostanziale. E per modo d' esempio ei si vedrà in
questo libro che i componimenti morali , in luogo di mostrarsi tutti
adunati nella classe lor peculiare, vengono ripartiti in più d'unn,
dappoiché la diversità grande e palpabile della forma ci ha mossi a
porne parecchj fra le poesie pindariche ed oraziane ed altri fra le
morali propriamente denominate. Però di tal difetto sentiamo dovere
più presto avvertire i lettori che chiedere scusa e indulgenza; con-
ciossiaché non conosciamo maniera alcuna d’ordinamento in cui
non s’ incontrino alquanti svantaggi e disconci , ed esse tutte sono
trovate meglio per comodo della memoria e come mezzi di para-
gone, che qual genuino ritratto delle vere differenze e disgregazioni
delle cose. In ciascuna specie poi di poetare da noi registrata, i
componimenti (come detta il senso naturale) si succedono secondo
i tempi degli autori, il che fa scorgere con massima agevolezza
qualmente la materia medesima, c non di rado li stessi concetti , col
variare dei tempi variino la significazione e l’ aspetto e , più che al-
tro, il modo particolare con cui sono espressi.
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I!
PREFAZIONE.
§ »'•
Ma per quello che s’ appartiene a tutta insieme la collezione dei ge-
neri , e in ciascuno d’ essi alla scelta dei nomi e per ciascun nome alla
scelta dei versi , noi vogliamo con alquante parole renderne ragione al
lettoree definire un po’ per minuto le considerazioni e i rispetti diversi
con cui l’abbiamo condotta. In prima sarebbe stato nel piacer nostro,
di non escludere dalla Raccolta o niunao pochissime di quelle com-
posizioni a cui sia toccato di riscuoterelode assai generale e durevole.
<'hè per verità primo giudice naturale do’ suoi poeti è il popolo in
mezzo di cui quelli cantano , c rarissimo accade che nelle rime ap-
plaudite comunemente e non troppo fugacemente, una qualche note-
vol bellezza non sia riposta o d’ immagine o d'affetto o di elocuzione.
Ne’ difetti medesimi loro ( quando avviene che n’abbiano e sieno
frequenti e più che leggieri) appare uno sfoggio di fantasia e d’in-
gegno e un siffatto abuso dell’ arte, per giungere al quale fa bisogno
aver sortito facoltà gagliarde e non ordinarie, il che à veduto l’Ita-
lia singolarmente nelle poesie del Marino. Ma dovendo la Collezione
nostra capir tutta in un sol volume , e cionondimeno dar saggio del
poetare di quattro secoli , a noi è convenuto cogliere unicamente
qualche porzione del più bel fiore e scicgliere e vagliare eziandio
nel buono e nell’ ottimo
Non ostante cotale necessità, abbiani procaccialo di porre in
vista tutte le varietà di stile un poco notabili e persino ogni
combinazione o nuova o difficile così di metro come di rime,
benché in ciò volemmo restare assai parchi, potendosi di leg-
gieri scambiare la novità con la bizzaria e la stravaganza. Oltre-
ché torna a gran follia l’andare in accatto di maggiori malagevo-
lezze ed angustie in un' arte già per sé medesima la più malagevole
di quante ne esercita l’ uomo. Il mondo , innanzi ogni cosa , chiede
bella poesia c maravigliasi volentieri delle difficoltà occorse per via
e con felicità superato, ma non di quelle che il poeta fabbrica per
ostentazione e capriccio; il bello é sempre difficile, ma mollo manca
che l’ inversa proposizione sempre si avveri. Certo è poi che quando
i poeti fanno studio e apparato di tal sorta di bravura, annunziano
quasi sempre la decadenza deH’arte. Ma v’à eziandio certi popoli
d’ingegno sottile e abbondante d’arguzie a’ quali simili ricercatezze
vengono facilmente in piacere. E sembra che ciò incontri per ap-
punto negli Arabi , la cui poesia sfoggiò molto presto in lavori strani
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PREFAZIONE. \J - 111
di ritmo, in immaginctle e in bisticci non guari disformi da quei
triti ornamenti di meandri e trafori che girano per le pareti e le
volte degli alcazari. Dagli Arabi si travasò il mal gusto ne’ Catalani
e ne’ Provenzali , e una vena non troppo scarsa ne fu derivata ne’
primi nostri verseggiatori. Dante egli pure non se ne astenne affatto,
e noi stupiamo in pensare che a quel genio sovrano venisse scritta
la canzone lambiccatissima della Pietra. Sa ognuno che nel seicento,
con lo scadere dell’arte, ricomparvero quelle freddure e mattie, e
ogni cosa fu piena di acrostici, d’ anagrammi, d’allitterazioni e
altrettali sccmpiezze. Ma per buona ventura cotesta sorta vanissima
di pedanteria non sembra ai moderni pericolosa, e dico ai moderni
italiani , perchè appresso gli stranieri non ne mancano csempj , e
molti ànno letto in un vivente poeta francese di gran nomea certi
capricci di metri e di rime i quali dimostrano come in lui siensi ve-
nuti rinnovando tutti gli umori e le vertigini dei seiccnlisti. E nem-
manco ci pare immune dalle stranezze di cui parliamo quel conce-
pimento del Goethe di ordire la tragedia del Fausto con questa
singoiar legge che ogni scena fosse dettata in metro diverso ed una
altresì in nuda prosa, onde potesse affermarsi che niuna maniera
del verseggiare ed anzi dello scrivere umano (per quanto ne è ca-
pace il tedesco idioma) mancasse a quel dramma ; nuova maniera c
poco assai naturale e graziosa di porgere idea e figura del pan-
teismo.
§ IH.
Ma tornando alla nostra Scelta, qui ne cade acconcio il notare che
quantunque gl’ Italiani mostrinsi oggidì molto sazj c fastidili del
sonetto , come di forma vieta e troppo dai mediocri ingegni abu-
sata, nientedimeno, esso deve occupare non picciola parte d’una
Raccolta la qual sia fedele rappresentati ice delle più vecchie e radicato
consuetudini del nostro Parnaso. Noi peraltro arbitriamo di avere
trascelto di quella specie i più belli e più celebrati componimenti , e
alcuni pochi eziandio che brillano di falsa luce , ma pur son piaciuti
troppo universalmente e per troppo tempo, come il sonetto famoso
del Maggi : Sciogli, Eurilta , dal lido ; e sta qui ad esempio di quel
sentir manierato e di quello stile lezioso che proseguì a farsi am-
mirare dai medesimi restauratori delle Lettere classiche, e della sem-
plicità antica, come stimarono di essere il Crcscimbcni ed i suoi col-
leghi c Mecenati. In fine facemmo luogo a parecchj sonetti solo
b
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IV
PREFAZIONE.
perchè dimostrano una foggia nuova e particolare nel genere ; e di
questi sono i Mattaccini del Caro, i Polifemici del Casaregi e gli
altri che stimammo bene di domandare sonetti Istorici,
§ iv.
A noi sembrò parimente buon senno di accogliere in questo libro
ogni composizione in cui fosse un cominciamento ed un saggio,
tuttoché imperfetto, d’ alcun nuovo abito di poesia, stato in pro-
cesso di tempo con arte più fina e con maggior felicità coltivato.
Così ci à parso di dover registrare due odi del Tasso seniore, per-
chè mostrano aperto il primo introdursi nella lirica nostra volgare
d'una imitazione più stretta d’ Orazio c de’ latini elegiaci. Con la
medesima considerazione debbe accettarsi lo squarcio non breve
che diamo della Tcseìde del Boccaccio , e qualche altro dettato forse
manchevole e rozzo , ma primitivo ed esemplare. Per lo contrario,
qualunque poeta che poco o nulla del proprio aggiunse alle altrui
invenzioni, ovvero non seppe con bel prodigio dcU’arlc innovare e
ringiovanire le cose antiche, fu da noi ragionevolmente escluso c
taciutone il nome. Questo à fatto che nella poesia Pastorale (per
venire a un caso specificato) da Bernardino Baldi si passi tosto c
senza alcun interponimento ai sonetti del Mcnzini e dello Zappi , nè
incontrisi altra composizione di moderni bucolici ; stantechè quei
sonetti sono il sol fiore campestre (a così domandarlo) che spuntò
leggiadro e odoroso nell’Arcadia romana, benché vi si radunassero
infiniti verseggiatori, nè d’altro per ordinario vi si discorresse clic
di greggi c capanne. Leggansi pure , fatta innanzi provvisione
d’eroica pazienza, l’ egloghe, gl’ idillj e le canzonette alla Nice quivi
recitale per lunghi anni , e crediamo che niuno si richiamerà della
. nostra sentenza ; e per via d’ esempio , leggasi il Veronese Pompei ,
principale di quella schiera, e dicasi con ischiettezza se bene gli
competevà il grido e la fama che mosse di sè con le sue fredde cd
affettale canzoni.
§ v.
Convenientissimo è poi , e quasi non occorre avvertirlo , che ab-
biamo anteposto sempre le composizioni più succose e istruttive
alle meno; quindi l’eleganza sola mai non ci à bastato per titolo di
ammissione ; o per lo manco, à dovuto essa sfolgorare d’ una grazia,
e d’ una venustà esemplare e perfetta. Ciononostante gli è affatto
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PREFAZIONE.
V
impossibile che buona parte della poesia italiana dell’ età media , e
quella segnatamente dei tempi più bassi , non iscompaja da questo
lato a paragone della inglese ed anche talvolta della francese. Ma
non doveva altrimenti accadere laddove al pensierc umano furono
sì di buon'ora appiccati gravissimi piombi e fabbricate mille catene ,
e dove agli affetti profondi e gagliardi , appena spuntavano, si vo-
lean recise tutte le barbe. Ma coloro che dimentichi di queste mi-
sere condizioni d’Italia entrano a spiegare la troppa mollezza e la
ridondanza del nostro Parnaso riferendone le cagioni al clima vo-
luttuoso, alla soverchia facilità del comporre e al predominio del
material mondo sullo spirituale, c della forma sull'idea, scordano o
disconoscono a torto non solo la poesia intera dei Latini padri no-
stri , ma la sacra epopeja di Dante, della quale si convicn dire, e con
molto maggior fondamento, quello che de’ poemi d’Omero afferma-
vano i Greci, starvi cioè incluso tutto il senno ed il sapere della
civiltà antica. Chò anzi per quella poca di cognizione la quale pen-
siamo di avere attinta dai libri e dall’esperienza intorno alla tempera
degl’ingegni e all’ indole delle nazioni, diremo assai francamente
che in niun paese quanto in Italia puossi veder meglio commista ed
uniffcala la idea con la forma c il profondo sentire col vivissimo im-
maginare, e in niuno veder associato con più saldi legami la scienza e
l’ intuizione, equclto che da' filosofi si suol domandare mondo subbie!-
tivo e mondo obbiettivo ; conciossiachò principal carattere del genio
italiano è la lega intima e l’equilibrio delle opposte facoltà ; laddove
ncINorte la potenza astrattiva c speculativa predomina e fassi tiranna;
ed anche agl’lnglesij popolo di mente elevata e caldissima, accade
troppo sovente di trasformare in psicologia la lirica c la drammatica;
nè pel grande studio che anno posto più volte nel greco, nel latino,
e pcranche nell’italiano, sonosi condotti a sentire ed a possedere le
bellezze e gli arlifìej più fini ed occulti della simmetria, della propor-
zione, della dignità, del decoro c della compiuta e continua conve-
nevolezza, ed a toccar l’ eccellenza suprema dell’ eleganza e dell’ atti-
cismo ; o ciò almeno si può asserire senza ombra di dubbio , che non
mai tali doli sonosi lor fatte connaturali c spontanee.
Principalmente abbiamo curato di scegliere qucllcrime che inten-
dono alla educazione civile, e ne infiammano ad amare la patria e con
egregie opere glorlficartàTlUa tali rime per isventura non riescono le
più numerose e le più celebrate ; e per atto d' esempio , noi pigliamo
dall’ Alamauni, degno poeta e degnissimo cittadino, un sonetto poli-
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VI PREFAZIONE.
tico che in niuna Raccolta abbiamo incontralo e da nessuno l’abbiam
sentito mai menzionare^ cionondimeno, per la politezza dello stile
e maggiormente assai per la magnanimità del concetto, merita di
gire innanzi a moltissimi altri stati prescelti e applauditi, non ostante
la frivolezza del lor subbietto, meritevole per lo manco di silenzio c
dimenticanza. Quante lodi invece non si udirono faro e quante ri-
stampe non si annoverano delle ottave di quel medesimo Fiorentino
sulla morte di ÌN' a re isso cambiato in fiore?
§ VI.
Questa noncuranza de’ lettori per la Civile poesia scusa in gran
parte i poeti e significa la ragione pcrchò cantassero eglino così di
rado le cose italiane e poco piangessero le nostre sventure, poco
s’infiammassero de’ nostri lunghi e affannosi desidcrj. Non può nè
deve il poeta scompagnarsi mai troppo dalle opinioni e dai sentimenti
comuni dell’ età sua; chòdaquesti principalmente move l’estro suo,
di questi accende e innamora le moltitudini; d’ogni altro pensiero
ed affetto, ove li possieda e li senta egli solo, avrà pochi intendi-
tori , pochissimi lodatori , c la favella delle Muse languc c muor sulle
labbra se non suona ad orecchie benevole e a cuori profondamente
commossi. Altro volte avviene che i concetti e le passioni civili
• quantunque non tacciano dentro al petto di molti , nientedimeno
mal si adattano alla poesia, perchè non consolati da alcuna spe-
ranza nè infuocati da sdegno generoso c potente, nè promossi e no-
bilitati da successi gloriosi e da splendide svenirne. Tale, a nostro
giudicio, fu il caso de’ poeti italiani dagli ultimi anni del secolo
dccimoquinlo sino al Parini e a Vittorio Alfieri. Questo disperare
. della salute pubblica e veder la patria non pure infelice e serva degli
stranieri , ma prostrata c invilita c fatta quasi sprcgievolc agli occhi
proprj, indusse altresì la persuasione che non s’ ascondesse nella
poesia un’arte educatrice del popolo e un organo de’ più efficaci per
iscaldarlo a sentimenti di grandezza morale c politica, ma fosse in
quel cambio una industria gentile e un grazioso intrattenimento per
consolarsi dei mali comuni, scuotendone via il pensicre, ricreandosi
con fantasie inoltiformi e leggiadro, trasportando lutto l’animo per
entro un mondo affatto ideale e porgendo pascolo alle affezioni private
e luce ed appariscenza a molli accidenti della vita ordinaria. Tal de-
viare della poesia dall’ ufficio suo gravissimo di prima c solenne arte
civile, è abito già vecchio assai c comune, oso dire, a tutte le nuovo
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PREFAZIONE.
VII
letterature. Imperocché* non si vede che altrove la cosa abbia proce-
duto meglio che a casa nostra. La prepotente fortuna c grandezza degli
Spagnuoli a’ tempi di Carlo V e di Filippo II appena à suggerito ai
lirici loro qualche ode, e uno o due drammi al Lopez e al Caldcron,
mentre diluviavano da ogni bandaio egloghe e le rcdonditlas, i sonetti
« le canzoni alla petrarchesca. Nell' Arai/ enti a, medesimo, nota un
buon critico casigliano, se v’à qualcosa di ben descritto, ciò sono
gl’ Indiani e non gli Spagnuoli. In Inghilterra il Milton fierissimo re-
pubblicano c segretario eloquente del gran Cromvetlo, à quasi sempre
poetato di cose mistiche e teologiche e nulla v’à di politico, nulla
«l’inglese e di patrio, né nel Paradiso perduto, né in altri suoi canti.
In fine chi s’indurrebbe a pensare, qualora il fatto certo e patente
non l’insegnasse, che in Francia, innanzi al Voltaire, mai non cor-
resse alla mente d' alcun insigne drammatico di porre in iscena un
caso e un gesto di patria istoria ; nò per altro i nipoti di Carlo Magno
e i soldati di Luigi XIV dovessero impietosirsi e spandere lacrime
se non per le nuore di Priamo e le sventure della casa d’Atreo?
§ VII.
Ma ciò menerebbe tropp’ oltre il discorso, e però tornando a fare
rassegna delle considerazioni che ojutarono a compilare il presente
libro, per ultimo noteremo che ci à parso bene, quante volte l’am-
piezza soverchia del componimento non l’ impediva , darlo ai lettori
nella sua interezza; e però eziandio in fatto di poemi avranno essi
tutto intero il Mondo crealo del Tasso c 1 ' Anyelcide del Valvasone;
avranno le Stanze del Poliziano, le Api del Ruccllai, il Podere del
Tansillo, la Poetica del Menzini, V Invito del Mascheroni; e oltre a
queste dannosi loro molto composizioni non brevi , come le Ottave
del Martelli , il Celeo del Baldi , il Ditirambo del Redi e simili altre.
Dove poi ci è stato forza di troncare il dettalo e produrre di soli
frammenti, abbiam procacciato con diligenza che fossero tali da
chiudere in sé medesimi una parte compiuta e perfetta dell’ opera
onde sono levati; e talvolta abbiamo fatto seguire l'uno all’altro
parecchj brani, in tutti insieme i quali un sol pensiere e un solo di-
segno si vien ripigliando dall'autore. Così del poema del Fortiguerri
furono tolti ed uniti que’ brani dove il carattere mollo strambo e
molto vero di Ferautle, è si maestrevolmente ritratto e spiegato. La
qual cosa abbiamo voluta non pure a vantaggio e onor de’ poeti,
quanto a soddisfazione dei leggitori. A’ poeti torna molte volto assai
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Vili
PERFAZtO.NE.
bene che delle opere loro vengan mostrate unicamente le parli me-
glio condotte; e Virgilio medesimo desiderò di essere tramandato
ai posteri come il torso del Belvedere, il qual fa stupire ognuno delle
rimaste bellezze c fa inlìnilamenlc rimpiangere ciò che ò perduto;
laonde (e questo sia detto per incidenza) riuscirà sempre a gloria
grande c invidiata d’Italia che la Gerusalemme del Tasso compaja
tanto più bella c mirabile quanto più in lei si contempla c considera
intenlivamenlc la perfezione del tutto. Ma ne’ leggitori è certo biso-
gno intellettuale di cogliere l’unità dei concetti c delle composi-
zioni , c lor sembra nell’ opere d’arte di non gustare così pienamente
come desiderano il bello in ciascuna parte diffuso, qualora non sia
paragonato c giudicato insieme col tutto.
§ Vili.
Ma chiederà forse taluno perchè in questa nostra scelta sia rice-
vuto per intero il Mondo creato del Tasso, dove in sul principiare
dicemmo che sì le rime di lui e sì quelle dell’ Ariosto ne sarebbero
escluse. Similmente si chiederà la ragione perchè diasi intera \'An-
geleide del Valvasone conosciuta da pochi e da pochi lodata, e in
egual modo parerà strana la preferenza nostra per qualche altro
nome c scrittura. Noi primamente diciamo, in risguardo del Tasso,
che d’un poeta tragrande siccome egli è, questa Biblioteca del Bau-
dry dee di necessità contenere le opere più solenni. E di fatto la Geru-
salemme sia nel volume de’ Quattro Poeti Maggiori; c in quella ri-
stampa che d’esso volume s’adempirà fra non mollo, compariranno
aggiunte le liriche più celebrate del sommo epico. Nel volume poi
del Teatro scelto italiano, altra ripartizione di essa Biblioteca, leg-
gerannosi V Aminta ed il Torrismondo. A compiere pertanto la col-
lezione dei capolavori del Tasso accadeva di dar luogo in questa
Raccolta al Mondo crealo, poesia nobilissima c, con fermezza il di-
ciamo, degna di più alta fama che forse non gode. Sono nel Mondo
creato rivestiti d’abito spendessimo i più rumorosi sistemi della
metafisica antica e della teodicea cristiana, insieme con tutto ciò
che di vario e dotto c di più immaginoso e poetico suggerivano le
storie naturali d'Eliano, d’ Aristotele, di Teofrasto, di Plinio, di
Dioscoride. Che se gran parte e forse anche la maggiore di quelle
dottrine è venuta meno, debbesi ridurre a mente che ciò non à posto
in dimenticanza e ncmmanco à scemato gloria a Lucrezio ed al suo
poema; conciossiachè ogni discreto lettore procaccia di situar l’in-
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PREFAZIONE.
IX
tellelto nelle condizioni dei tempi e nell’ordine delle cognizioni in
cui scriveva il poeta. Oltre a di che, quella magnificenza continua di
pensieri e di stile che appare nel Mondo crealo, e quell’aura biblica
insieme c platonica che spira in ciascuna pagina con tanta solennità
e con si vera caldezza di sentimento, sono pregi che sopravivono
al mutare delle opinioni; e d'altra parte compensano più che assai
qualche negligenza di elocuzione , e la poca varietà e lo scarso arti-
ficio nella testura dello sciolto, il quale pur nondimeno se a petto a
quello del Caro riesce monotono c languido, lasciasi infinitamente
addietro lo sciolto del Trissino c dell’ Alamanni. Noi non faremo
discorso mollo differente per YAngeleide del Valvasonc, la qual re-
putiamo senza paura d’inganno, una gemma delle più rare e lucenti
del nostro antico Parnaso. E di fermo, a guardare con diligenza,
dopo l’ Ariosto e il Tasso, in qual mai poema del cinquecento trovasi
una maggiore altezza e pellegrinila di pensieri e (come dicesi mo-
dernamente) una più spiccala originalità? Forse che lo stile non
vince di franchezza e di robustezza pressoché tutti i contemporanei?
Certo, il Valvasoneè meno forbito ed armonioso del Tansillo, meno
fluido del Tasso seniore, meno corretto, proprio e limato de’ più
corretti c limati rimatori toscani; ma non per ciò si capisce come
questa minor perfezione di Torma, abbia potuto oscurare nella opi-
nione de’ raccoglitori e de’ critici il gran pregio dell’invenzione.
Che il Milton siasi giovato de\V Angeleide non so, quantunque fra i
dnc poemi si vengan trovando molti e singolari riscontri che non è
facile a credere casuali ; ma questo io so bene che a rispetto della
guerra degli angeli episodicamente introdotta nel Paradiso perduto,
ilValvasone non perde nulla ad esser letto dopo l’Inglese e con
quello essere paragonato ; il che non avviene del sicuro nè per
l' Adamo dell’ Andreini nè per la Strage degl' Innocenti del cavaliere
Marino, due componimenti che dicesi aver suggerito a Milton pa-
rccchj pensieri e T ideal grandezza del suo Lucifero.
§ IX.
Quanto è poi a qualche altra più breve composizione prescelta
da noi ed avuta in pregio contro forse il giudicio de’ passati racco-
glitori , diremo assai volentieri che a noi non par bella quell’ardi-
tezza troppo frequente ne’ moderni scrittori di conlradirc alla sen-
tenza comune; imperocché ciò si compie assai volte per desiderio
di parer singolare e onde si ammiri il senno acutissimo c coraggioso
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X
PREFAZIONE.
del critico. Ma d’altra parte quando la virtù prepotente dell’iniimo
senso nc persuade e nc sforza, c un esame attento, ripetuto ed illu-
minato ne riconduce c conferma nel fatto giudicio, a noi non sem-
bra lodevole l’ostinarsi a deferire o per timidezza o per inopportuna
modestia alla opinione dei più. La quale poi non molto di rado
manlicnsi viva per solo vigore dell’abito e per quella innata pigrizia
degl’ intelletti di recarsi a indagare il vero da sé medesimi. Se per-
tanto in questa Raccolta s’imbatteranno i lettori in alcune rime che
il pubblico non à curate o non tenute per ottime, ciò è proceduto non
da voglia puerile di profferire nuovi e inaspettati giudicj , ma uni-
camente dall’amore di verità e da quell’ufficio gravissimo che sem-
bra incombere agli studiosi di riparare dal canto loro agli oltraggi
e capricci della Fortuna , la quale si mescliia più forse che non si
crede, nella distribuzione della celebrità e nel prospero o sventurato
successo dei libri.
§ X.
Con questi rispetti e considerazioni abbiam noi condotto c ordi-
nato il presente volume, onde sia specchio veritiero benché com-
pendioso della poesia italiana dell’età media-, nel che fare ci siamo
giovati pochissimo del giudicio de’ nostri migliori critici e precet-
tisti; che anzi in leggendoli ordinatamente e secondo i tempi, ci
venne osservato (cosa che per addietro non ben sapevamo) la critica
letteraria incominciata in Italia con Dante essere morta col Tasso e
gli amici suoi; c come cadde con quel mirabile intelletto la nostra
supremazia nel ministero delle Muse, così venne meno la vera filo-
sofia estetica ; e il nuovo dell’arte non fu capito, l’antico fu dalla
pedanteria svisato c agghiadato. L’arte critica antica ebbe ultimi
promulgatoci due grandi ingegni , il Muratori e il Gravina. Della cri-
tica nata dipoi con le nuove speculazioni e con le nuove forme di
poesia, non conosciamo in Italia alcun degno scrittore e rappresen-
talore. Ai tempi del Tasso, l’autorità per certo era di soverchio pre-
valente e le poetiche tiranneggiavano; ma chi ben considera la
sostanza degli scritti polemici del cinquecento e nota quelli segna-
tamente dettali a proposito della Gerusalemme, dee confessare che
appresso de’ letterati mai la notizia de’ classici non fu così vasta e
così famigliare, nò le dottrine grammaticali più affinate c compiute,
nò la filologia greca e latina più profonda c diffusa; c mai nella in-
telligenza e nell’ interpretamenlo degli antichi gran precettori non
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PREFAZIONE.
XI
fu spiegato altrettanto acume, larghezza, erudizione, luce di filo-
sofia, senso squisito d’ogni eleganza.
Nè sembra inutile affatto per risuscitare la buona critica , il porre
d' innanzi agli occhj un volume in cui voltando non molte facce si
possa scorgere e comparare il vario andamento che ebbe in Italia la
volgar poesia dal Boccaccio infino al Varano ed al Cozzi. E perchè
intorno ai pregi di lei, come intorno ai difetti, sono i pareri diffe-
rentissimi nel nostro secolo , mancando per intero la comunanza dei
documenti e del gusto, essendo le tradizioni interrotte c dimenti-
cate, e dominando (massime nella mente de’ giovani) le estetiche
oltramontane, io non so indovinare affatto ciò che i lettori di questo
libro sieno per sentire e per giudicare del suo contenuto. Quindi mi
arbitro di qui esporre in brevi parole il criterio dcGnito ed univer-
sale ch’io n’ò cavato, riconducendo ogni cosa a pochi principj de-
dotti (a quel che mi pare) dalle originali fonti della storia e della
filosofia.
§ XI.
La poesia canta o 1* ampie e l’altre passioni umane, e ciò che versa I
sulla moralità delle nostre opere, ovvero canta le armi e le gesle ,
civili o politiche d’uno o di più eroi , come d’ una o di più nazioni ,
ovvero canta la religione e le cose oltramondanc c celesti. A tali .
subbietti di pocmPè di lirichè*3evesi , per creder mio, aggiunger la
scienza, la quale in mente de’ poeti acquista vaghezza di colori e di
dffìjffi , e con ciò scende dalle cattedre e divicn nudrimcnto e ricrea-
mcnlo del popolo. L’ ingegno poetico , in versificare ciascuno di quei
subbietti, tende a spiegare una novità, un’altezza e una leggiadria
suprema di concetto, di sentimento, di fantasia e di stile. Dove man-
casse l’una di tali eccellenze, l’arte sarebbe diffettosa e quindi in-
crescevole. Di presente noi diciamo che la riunione c composizione
migliore e più nuova di tutte quelle materie trattabili c la sintesi
altresì più perfetta del pensiero, della immaginazione, dell’ affetto c
della elocuzione, è senza contrasto apparita in Dante Alighieri. Ne’ ,
poemi d’Omero, la passione profonda d’amore, ed in generale quel
sentir delicato e molteplice che il progredito incivilimento pro-
muove, è piuttosto in germe ed in facoltà che altramente. In essi del
pari , è deficienza della vita meditativa e interiore, c a lato a molta c
finissima scienza pratica, quella positiva c speculativa dei dotti non
vi si scorge. La fantasia v’è ammiranda, c nell’ Iliade segnatamente
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XII
PREFAZIONE.
fa sbalordire, ma s’avvolge tra cose meno difficili a rivestire di splen-
dide immagini , perche tutte di lor natura son figurale c bello di pri-
mitiva bellezza. ,ln fine lo stile omerico usa per istrumenlo il vaghis-
simo di tutti gl' idiomi c s’adorna della semplicità maestosa de’ tempi
eroici , ma non ancora conosce la metà dei parlili e degli arUiìcj
onde si ottiene la copia la varietà, il numero c l’eleganza.
Dopo CfnICro nessun poeta , per mio giudicio, può alzarsi a compe-
tere con l’ Alighieri, salvo Guglielmo Shakspearo, gloria massima
dell' Inghilterra. E per fermo, ne’ drammi di lui l’animo e la vita
umana vengon ritratti così al vero c scandagliati c disaminali così
nel profondo, che mai noi saranno di più. Ma le condizioni peculiari
della drammatica, c l’ indole propria degl'ingegni settentrionali im-
pedirono a Shakspearo di raggiungere quella perfetta unione di
subbictli c di facoltà onde facciamo discorso. E veramente nelle
composizioni sue la religione si mostra sol di lontano e molto di
rado, e tra le specie diverse e delicatissime d'amore ivi entro signi-
ficate, manca quella eccelsa c spiritualissima di cui si scaldò l’amante
di Beatrice. Il sapere positivo e speculativo similmente vi fa difetto,
e la natura esteriore v’c sì poco descritta quanto poco si lascian di-
stinguere i paesaggi e le architetture nel fondo de’ quadri storiati.
In fine, la elocuzione che sempre è viva e spontanea c insuperabile
sempre di proprietà c d’energia, diviene alcune volte negletta c pro-
saica nè va esente dai falsi tropi c dalle scurrilità.
Nel tutto insieme poi de’ drammi shakspiriani desiderasi quel cor-
retto c finito, quella proporzione c armonia, quella sobrietà c scel-
tezza conlinua, che solo al Genio d’ alcuni popoli meridionali è dato
sentire ed effettuare con piena felicità.
§ XII.
Toccato un poco dei subbietti della poesia , e numerate le qualità
c le doti che principalmente le si appartengono, seguita il conside-
rare la persona medesima del poeta, le condizioni c lo stato della
sua mente c le attinenze di lui con la ragione dei tempi , della civiltà
e del popolo in mezzo a cui vive ; le quali cose noteremo singolar-
mente ne’ lor gradi supremi c nelle intime opposizioni. Conciossia-
cbè il miracolo della poesia consiste principalmente nell’ esercitare
insieme quelle virtù dell’ingegno che sembrano in discordanza o in
confiitlazione, c nell' esercitarle altresì con intensione massima
d’energia.
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PREFAZIONE.
XIII
Diciamo adunque che talvolta il poeta è dall’ispirazione allacciato
e padroneggiato sì forte, da non saper bene sottomettersi all’arte ed
alla meditazione. Da simile sovrabbondanza d’ istinto e scarsità di
riflessione e di scienza, derivano i canti primitivi delle nazioni nei
quali è tanta rozzezza, negligenza c imperizia, quanta inimitabile
semplicità, efficacia e caldezza. Altre volte, e molto più tardi assai
di quelle età iniziatrici ed eroiche, il troppo incivilirsi dei po-
poli aumentando di soverchio l’osservazione e la critica c aflinan-
dovisi l’ arte ogni giorno di più , per effetto medesimo dell’ eser-
cizio c dell’ esperienza e per desiderio di novità, mena il poeta a
scordar forse troppo l’aurea semplicità degli antichi , il sincero
aspetto della natura e i veri e spontanei moli dell’animo. Queste
differenze chi ben le guarda e chi le assume in gradi e aspetti di-
versi , fanno superiore e inferiore ad un tempo Virgilio ad Omero , e
sovrappongono poi ambidue agli epici lutti della media grecità e
latinità. 11 prodigio dell'umano ingegno consiste, senza dubbio, a
tener il mezzo di tali due termini, o a dir più chiaro, consiste a
mantener viva la fiamma pura e spontanea delle antiche ispirazioni ,
e aggiungere a ciò tutto il meglio che inducono dentro il cuore e
dentro i pensieri , la riflessione e speculazione , la critica c l’arte, il
sapere , l’uso e l’esperienza ollremodo cresciuti , l'istruzione c i me-
todi propagati cd assottigliati. Ora, Dante, al mio giudicare, acco-
sta e concilia per appunto in maniera portentosa cotali estremi ; ed
egli è il sommo poeta (come direbbero i metafisici) intuitivo e rifles-
sivo. Ancora, su questo doppio carattere dell’ intuizione e della ri-
flessione , egli è da notare che l’una esprime più volonlieri la natura
universale e comune, c l’altra invece la propria e individuale.
Quando un popolo intero si fa poeta, e ciò è a dire, quando in lui
signoreggiano profonde e comuni credenze cd affetti, in guisa ch’ei
si raccoglie con lo spirito e vivesi tutto o nelle rammemoranze glo-
riose della sua storia o nelle speranze e promesse magnifiche del-
l’avvenire, colui il quale si consacra peculiarmente alle Muse non è
più quivi clic un interprete e un banditore delle ispirazioni comuni ,
e sostiene officio simile a quel degli araldi che in nome e con le pa-
role di lutti favellano ; se non che il poeta trova più felice , più calda
e meglio ornala significazione di ciò che il popolo intero pensa ,
ricorda e desidera. Quando per lo contrario non v’è più vera citta-
dinanza, e le opinioni e gli affetti comuni son dileguati in gran
parte, e ad essi succedono a grado a grado sentimenti e cogitazioni
I
I
XIV
PREFAZIONE.
0 affatto particolari c proprie o d’ una porzione soltanto di popolo ,
e che nientedimeno la coltura dell' intelletto c dell'arte non cade ma
ai propaga e si riforbisce ; allora sorge una poesia o troppo indivi-
duale e affatto fantastica, o troppo boriosa e accademica, ignota e
inaccessibile al volgo, più elegante che passionata, più dotta ed
arguta, ebe vasta, efficace ed originale. Dopo ciò, egli divien mani-
festo che quella mente fortunata, la qual sa ritrarre ed anzi scolpire
1 pensieri varj, gl’ istinti c le passioni speciali del secol suo, e ri-
flette come specchio lucente l’indole e le istituzioni tutte quante
della vita sociale e politica di cui partecipa, quella mente, io dico,
alla quale avviene per tutto questo di dilettare e commovere cosi
bene il volgo come i patrizj , i dotti come gl’ illetterati , e che cio-
nondimeno imprime in ciascuna pagina il suggello dell'animo pro-
prio e i concetti , le opinioni e lo dottrine sue personali , a segno che
il poetare di lei risplcnda d’una novità nè prima nè dopo uguagliata,
cotal mente sovrana raggiunge del sicuro l’ ultima perfezione della
poetica, e l’arte sua similissima alla natura, offre a un tempo me-
desimo la suprema bellezza individuale ed universale. E qui pure io
non m’ imbatto in altro divino ingegno in cui si ravvisi attuata la
grande eccellenza di cui parliamo , eccetto Dante Alighieri. Da ul-
timo accade soventi volte che all’animo del poeta non sia tutta pre-
sente la solennità e importanza del suo magistero e dei fini morali e
civili a cui dee voltarlo. Ma colui per lo certo accostasi in ciò alla
perfezione dell’arte, il qual sente di lei cosi intera la dignità, l’al-
tezza, la proficuità c la morale bellezza che la fa istrumento efficace
di educazione pubblica e veicolo di sapienza; c tanto vuol con esso
> istruire quanto dilettare, c chiama sè stesso sacerdote del vero e
della rettitudine, e canta quasi profeta per mezzo al popolo c tra-
manda alle più lontane generazioni la fiamma de’ suoi magnanimi
affetti e la luce de' suoi apotegmi. E qui di nuovo a chi mai può
tornar difficile il confessare che Dante abbia a rispetto di ciò supe-
rato tutti i poeti del mondo ?
S XIII.
A raccogliere la sostanza del fin qui detto, noi primamente con-
cluderemo che il compiuto e l’ottimo della poesia consisto in rac-
chiudere dentro ai poemi con vaga e proporzionata unità di compo-
sizione tutto quanto il visibile ed il pensabile umano perciò che in
ambedue è più bello e più commovente ; e consiste inoltre a ritrarre
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PREFAZIONE. XV
cotesto subbietto amplissimo c universale con la maggiore novità e
la maggior leggiadria di concepimento, di fantasia, d'affetto e d’elo-
cuzione che possa mai conseguirsi. Il concepimento così nel com-
plesso come nelle sentenze particolari, dee riuscir sostanzioso ed
inaspettato e pieno di recondita dottrina e saggezza; 1’affelto dee
correre, quanto è possibile, per tutti i gradi e le differenze, e toc-
care il sommo della tenerezza e compassione e il sommo della terri-
bilità. Dee l'immaginazione abbracciare lo spirituale e il corporeo,
il mondano e il sopramoudano , talché in compagnia (IcTTaffello e
con la scienza della vita e della natura, descriva e rappresenti le
| meraviglie esteriori, i secreti dell’ animo e le visioni della Fede. In
fine tulli tre insieme, il concepimento, l’immaginazione e l’ affetto
debbono far consuonare la massima idealità con la massima concre-
tezza, onde ogni cosa peculiare riveli per virtù di poesia uno splen-
dido universale e sia al tempo medesimo un ritratto c un archetipo.
Noi fermammo dopo di ciò che ad attingere tal perfezione era
spedicnle sortire un abito d’ intelligenza sì privilegiato c divino da
poter collegare con una intuizione arcana e vivissima la meditazione
e la scienza, c con la impetuosità e caldezza dell’estro, il freddo e
squisito finimento dell’arte. Di costa poi alla descrizione ed enume-
razione di queste doti e attributi , a noi fu lecito di pronunziare che
tulle appaiono impresse c tutte operanti nella Divina Commedia
meglio che in qualunque altro poema, e la quale è però da conside-
rarsi come il più alto prototipo dell’eccellenza poetica, qualora vo-
glia la meute dall’astrazione scendere al fatto e considerar nel con-
creto quel massimo accostamento all’ idea che sino a qui son riuscite
di adempiere le Lettere umane. Noi fermammo eziandio che debbo il
sommo poeta parlare ai cuore cali’ intelletto d’ ogni ragion di lettori,
e farsi specchio tersissimo del comune sentire, c serbare ciò nondi-
meno ben rilevata e ben contornata la effìgie del proprio animo e
della propria natura. In fine ricercasi dall’ ottimo poeta che piena-
mente concepisca la grandezza e magnificenza degli ufficj e de’ fini
suoi, e che a questi venga di continuo concordala e proporzionala
la scelta materia.
§ XIV.
Con la scorta di tali considerazioni e la vista di tal modello a noi
basterà, perchè si colga la ragion poetica vera dell’età media ita-
liana, il venire accennando per ordine, prima le tendenze morali e
c
MI
PREFAZIONE.
civili, c le condizioni qualitative de’ tempi ; appresso , l’ elezione dei
subbietti e il carattere mentale degli scrittori. Ogni rimanente sari»
supplito dalla perspicacia ed erudizione dei leggitori, i quali reche-
ranno pure agevolmente ai principj medesimi le osservazioni e i
giudicj espressi da noi nell'antcrior parte di questo discorso.
§ XV.
Nello spegnersi del secolo xr, quando le Lettere e la poesia volgare
incominciarono a risorgere e rifiorire, un elemento vi si accoppiò
non nuovo ma notabilmente cresciuto, e ciò fu lo studio e l’amore
grande della classica erudizione, e un ossequio e un’ammirazione
forse soverchia per gli scrittori greci c latini. Ma si badi , ebe guar-
dandosi al tutto insieme della volgar poesia , dal primo comparir
suo nella corte di Federico, a questi nostri presenti giorni, ci si
vedrà manifesto che il culto degl’ Italiani inverso le Lettere greche c
latine fu , di rado assai , intermesso , c sempre fra noi è stato a gran
pezza più fervoroso, più tenace e più famigliare che appresso qua-
lunque altro popolo; non rinasce adunque c non prospera esso in
Italia per malta superstizione o per cagioni transitorie ed acciden-
tali, ma conserva e profonda le ultime sue radici nel sentir proprio
c costitutivo della mente c dell’animo nostro. Tal cullo à fatto in-
fra l’altre cose che, a rispetto dell’ eleganza c dell* nMfIÌÌtir]]f>i mai non
siamo stati dalle nazioni moderne, non che superati, manemmanco
raggiunti; e pure in questi ultimi tempi in cui la poesia inglese c
tedesca sembra soverchiare la nostra, per novità e veemenza di
pensamenti e di alletti , nella sola Italia è tuttora ricoverato il per-
fetto buon gusto c il senso delicatissimo della greca venustà; c quivi
ancora qualche dettator fortunato procaccia d’intingere la sua penna
nell’oro di Virgilio. Nò già per questo vogliam negare che più d’una
volta lo studio c la imitazione dei capolavori antichi , non abbiano
ne’ nostri scemato novità e spontaneità, involte le lor fantasie nelle
viete immagini mitologiche ; dato allo stile freddezza ed affettazione.
Solo desideriamo che si rifletta gli studj classici (come suolsioggi
domandarli) essere stali a ciò più presto occasione e concomitauza
di quello, clic cagione prossima ed efficiente. Mai la notizia e medi-
tazione dell’eccellenza antica nona nociuto agl’ingegni veramente
grandi in secolo pur grande c animoso. Dante non mandava egli
alla memoria lutto Virgilio , c noi chiamava dottore e maestro suo?
Chi più versato nella latinità del Petrarca, che di quella fu primo c
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D
PREFAZIONE. XVII
solenne ristoratore? Di Lettere greche e latine si nudri il Buccaefiio
fin da fanciullo, e in compagnia d’esse compiè la vita; le quali cose
non impedirono che Dante, in ogni suo scritto, e il Petrarca nel
Canzoniere e ne* Trionfi, e il Boccaccio nel Novelliere, nella Fiam-
metta, nel Corbaccio c in qualcun’ altra prosa non sien riusciti ori-
ginalissimi. Quelli pertanto i quali osan dire che la illustrazione c
scoperta di molti volumi antichi succeduta nel secolo xv, c l'ardore
vivissimo recato allora nella filologia greca e latina, tornò in somma
sventura per lo svolgimento libero ed originale delle Lettere nostre
volgari, scambiano troppo le cagioni apparenti c fortuite con le
reali ed intrinseche. Di fatto, egli 6 da ricordare che ne’ tempi me-
desimi di Lorenzo de’ Medici , due impulsi ricevette la poesia ita-
liana, e per due strade efiverse prese cammino; l'una fulle aperta
dal Poliziano , l’altra dal bizzarro ingegno del Pulci. Ora, in costui
non trovasi egli somma novità e franchezza di poetare e tanto spirilo
di rivolta contra tutti i documenti dei rettori antichi, quanto il suo
Uargutle ne mostra con tra le cose piu sante? E quella serie lunghis-
sima di poemi cavallereschi che dal Ciriffo Calvaneo scende giù fino
al Ricciardetto, non si scosta pur tutta nella sostanza e nelle forme
dal poetar greco e latino? Nel Furioso medesimo quanti sono i
luoghi dove l’ Ariosto apertamente imita e copiagli antichi? Non
son molti del sicuro , e non tali giammai che tolgano a quel poema
il pieno carattere di novità e noi facciano differentissimo dalla poe-
sia classica. Ciò nondimeno , perchè ai tempi del Pulci il gran moto
repubblicano rallentavasi da ogni banda, e gl' intelletti più culti e
più ardili cessavano dall' infiammarsi dei sentimenti e delle passioni
comuni ; però accadde che il Pulci impresse nella volgar poesia un
carattere, nuovo bensì, ma troppo diverso da quello clic abbiain
notato nell’ Alighieri. Ben si vede da ogni pagina del Morgante che
il Pulci è poeta di corte e fa dell’arte sua un nobile ed elegante
trastullo. Egli ricrea le scelte brigate fiorentine con le avventure ca-
valleresche, e a quelle anime voluttuose ed argute, c spoglie oggimai
delle credenze c passioni gagliarde dei padri , egli sa soddisfare con
la sottile ironia e la beffa leggiadra c dissimulala; c mentre il comune
interesse e la dignità delle plebi s’ affievolisce, egli compiace allo
spirito individuale de’patrizj e de’ doviziosi mercatanti, i quali scor-
dando quasi la patria espregiando la modestia del vivere repubblicano,
avvisavano nei casi de’ paladini quel che possa l’audacia, la forza e
J’ accorgimento d’un uomo per giungere alla potenza e al dominio.
XVIII
PREFAZIONE.
§ XVI.
D'altra parto, il Poliziano nelle ottave della Giostra incominciò
un verseggiare raffinatissimo, c quasi a dire , aristocratico e signo-
rile; tutto impregnalo di latino e di greco, anzi greco e latiuo
espresso in eleganti voci italiane; il quale più non è accostevole al
popolo , e vive d’arte e d’ingegno più assai che d’inspirazione. Vede
ognuno pel semplice paragone dei fatti , quanto mai dissomiglino in
fra di loro i versi del Poliziano o quelli del Pulci ; c solo in ciò si
raffrontano che per ambedue la poesia dantesca sì grande, sì ma-
schia, sì nazionale, è tenuta in disparte.
§ XVII.
Nella stessa corte de’ Medici , ed anzi nelle rime stesse di Lorenzo
il Magnifico, rinacque il petrarcheggiare , genere di poesia che, de-
rivato in parte dai Provenzali, fecesi proprio d'Italia, e durovvi , si
può dire, per cinque secoli; conciossiachò ad Eustachio Manfredi,
ben si compete il nome e la lode di ottimo petrarchista. E però le
Muse vereconde e soavi , ma stanche cd esauste degli amanti pla-
tonici, mandarono in sul finire il canto del cigno , dettando a quel
gentil Bolognese la immortale canzone ; Donna, negli occhi vostri.
Certo in tal foggia di poetare riapparsa nel cadere del quattrocento
in compagnia dell’ altre da noi ricordate , la imitazione divenne più
ancor manifesta c servile , e (come gli accade pur sempre) andò co-
piando il peggiore; nè studiossi di ricalcare eziandio in ciò le orme
dantesche, e partecipare a quella passione ingenua quanto profonda,
e a quel candore e a quella semplicità efficace di stile che adorna di
grazia ineffabile tulio quanto il Canzoniere del gran Ghibellino. Ma
qui pur noteremo che simile imitazione non procedò per nulla dal
soverchio amore dell’ antichi là e dal troppo sfogliare greci c latini
volumi ; bensì ebbe luogo c si dilatò per difetto ( di poi sempre cre-
sciuto) d'un’alta poesia comune cd intuitiva. E ncmmanco è da
credere che il gir sonettando alla petrarchesca sia tanto durato in
Italia, e tanto siasi divulgato per cagioni accidentaric, o per sola
povertà d’ingegno e aridezza di vena. Il cuore tra noi sente assai di
leggieri la voglia impaziente di significare in versi gli affetti gentili
ond’ è mosso ; e per quale anima non passò più o meno intensivo il
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PREFAZIONE.
XIX
gentil fuoco d’amore? e nello spegnersi della vita civile, e nel cre-
scere da ogni banda l'ozio lascivo dei ricchi e dei culli , la galan-
teria non fu rassegnata forse tra le nostre precipue occupazioni ?
D’altra parte quel mantello e quei veli che dal Petrarca ricevè in ,
dono l’Amore, il quale s’aggirava tutto nudo fra i Greci , diè a cia-
scuno facoltà di pubblicamente parlare de’ proprj a fletti salvo il pu- 1
dorè, la convenienza e la dignità; ed anzi procacciando alle amate
donne bella e incolpevole fama. Oltre a ciò , quel platonizzare del
Petrarca confacevasi molto bene con l’altra condizione essenziale e
qualitativa della mente italiana, che è di cercare in qualunque cosa
la bellezza squisita e non qual s’incontra comunemente, o si può
immaginare da ingegni materiali e bizzarri, ma qual dee risultare
dalla perfezione, c comporre un modo eccelso di leggiadria che
segni l’ultimo termine dell'idealità, e però conduca il pensiero per
lo mondo invisibile degli archetipi , e svegli nel cuore le più sublimi
aspirazioni ond' esso è capace. La qual tendenza degl'italiani com-
parisce dispiegata e manifestissima in tutte le arti , crea la maggior
meraviglia delle tavole di Michelangelo e di Raffaello , c a noi con-
serva, pure in questi nostri miseri tempi (sia qui notato per inci-
dente), il privilegio della scoltura, come d’ un’arte solenne che di
necessità porla seco sceltezza c nobiltà tragrande e perfetta di con-
cepimento e di forma.
§ XVIII.
In quello scorcio adunque di secolo tre maniere distinte di poetare
vennero iniziate o rifatte, e furono la romanzesca del Pulci , la clas-
sica del Poliziano e la petrarchesca; e di queste in principal modo I t
si rivesti la susseguente letteratura , eccetto alcune nuove specie di
lirica delle quali farem parola più avanti. Per vero , alcuni altri com-
ponimenti furono dettali in quella rinascenza medicea che raddur
non si possono nè al genere petrarchesco , nè al classico , nè al ro-
manzesco , come certe ballate e canzoni pastorali , come la Beca del
Pulci e la Nencia del Magnifico, e alcuni Rispetti e pochi altri simili
scherzi ed amenità che erano pure le bellissime creazioni e gemme
vere del nostro Parnaso, vaghi fiori d’ ingegno pieni di verità e sem-
plicità, pieni di greca fragranza e di popolari concetti e passioni.
Q nitidi beata la nostra letteratura , se quei fare naturale , affettuoso
«splendido, tanto di evidenza e di grazia natia, fosse stato introdotto
in materie più vaste e più nobili !
— ■*■— — DigifeecfTfy Google
XX
PREFAZIONE.
S XIX.
Ma ripigliando il breve confronto impreso da noi tra i poeti volgari
deH’clà media e il prototipo sublime dell’arte che ci fornisce la Di-
vina Commedia, noi non esiteremo a dire che la poesia dantesca
tentò di risorgere in parte col Tasso, e propriamente a rispetto della
gravila c solennità dei pensieri e dei documenti, e per quell’ufficio
suo d’esprimere c invigorire le comuni aspirazioni e gli alleiti eroici
d’ un’ età e d’una nazione, e di toccare i fini più alti e più profitte-
voli dcH’epopeia, e insomma riuscire in tutto una poesia civile , re-
ligiosa e sapiente. A niuno è nascosto che da Paolo IV in poi , la
Religione vesti in Italia un abito di severità e un rigor di dottrine,
tanLo più stretto e geloso, quanto l’eresia cresceva all’intorno in
Europa e radicavasi forte in Germania , in Inghilterra , in Isvizzcra e
in altre regioni settentrionali. Nè già debbe credersi che in quel
torno di tempo l’ortodossia cattolica non acquistasse veramente
maggiore intensione di fede e di sentimento nella parte più pia e
meno infralita degl’ Italiani. A questi doleva eziandio assaissimo ve-
der declinare ogni giorno la forza e l’autorità teocratica , della quale
stando la sede e lo splendor principale appresso di noi , tutta la pa-
tria comune riscuotevano lustro e potenza ; e maggiormente parea
necessario di conservare c consolidare quel principio d’ autorità, in
quanto che in Italia tutte le altre vie di potere c di predominio si
dileguavano. Col desiderio poi di ritirare inverso alle origini sue il
papato , procedevano di pari passo altri sentimenti c principj , dai
quali si procacciava di fieramente resistere ad ogni spirito d'innova-
zione e rimettere in fiore antiche opinioni e istituti. E come le demo-
crazie in Italia erano tutte crollate e solo perduravano le aristocrazie,
e i baroni moltiplicavano; così entrò nel cuore di molli il pensiere
che alle plebi dovea stringersi forte il freno c ogni cosa dovea spe-
rarsi dalla saggezza degli ottimati e dei principi. Oltre a ciò, nel co-
mune pericolo s’ erano, come ognun sa, concordati alla meglio
l’imperatore c il pontefice; del che era nato che mentre in Italia
spegnevasi di più in più il vigor popolare e le franchigie repubbli-
cane , sembravano crescere per lo contrario e spander radice i privi-
legi feudali e una specie ambigua di cavalleria principesca e corti-
giana. L’autorità poi che sforzavasi di risorgere da tutte parti e
soffocare le novità temerarie, tiranneggiava non pur la scienza sulle
cattedre, ma eziandio l’arte nelle accademie, curvandola sotto il
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PREFAZIONE.
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peso delle teoriche e dei precetti ; e il cullo inverso i capolavori an-
tichi tanto più s'accostava a superstizione , quanto l'Italia nel suo
rapido declinare tenea più preziose e più venerande le ricordanze
del suo passato.
Di tali tutte cose fu rappresentalore fedele il Tasso, anima pia e
generosa, ma in cui (non so dir come) nulla v’era di popolare.
Quindi egli s’infervorò della maestà teocratica dei pontefici e aderì
alla nuova cavalleria cortigiana e feudale; quindi pure accettò coi'
zelo e con osservanza scrupolosa l’ortodossia cattolica, e nella vita
intellettuale come nella civile, fu dall’autorità dei metodi e degli
esempi signoreggialo. Da ciò prese nud ri mento e moto il divino
estro suo e uscirono le maraviglie della Gerusalemme . Pieno ancora
la fantasia della battaglia di Lepanto , e sperando che un’ altro Marco
Antonio Colonna rinnovasse con più ragione quel simulacro degli
antichi trionfi che poco innanzi avea rallegrate le vie di Roma, dettò
quel poema non senza fiducia di persuadere i principi della cristia-
nità a desistere dalle loro discordie e ripetere con più senno e virtù
le gesta eroiche delle crociate ; adempiendo ogni cosa sotto il gran
patrocinio del padre e pastore comune dei popoli , benedicente in
Valicano alle sacre bandiere. Ancora confidavasi d’innamorare e
principi e gentiluomini di quei costumi cavallereschi e magnanimi ,
de’ quali fin dall' infanzia s’era venuto componendo in mente una
norma e un idolo così difforme dal vero come pien di vaghezza e
d’appariscenza , ed a cui pretendeva di dar fondamento scientifico
con un misto di dottrine platoniche e aristoteliche, come da più
d’uno de’ dialoghi suoi si raccoglie. Insomma, a’ dì nostri, in cui
abbonda più la invenzione dei nomi che delle cose, verrebbe in
Francia ed in Inghilterra denominato gran poeta conservatore.
§ XX.
Nel Tasso poi sono tutti i pregi c tutta quanta la luce e magnifi-
cenza della poesia classica, e spiccano altresì in lui alcuni attributi
speciali del genio italiano in ordine al bello. In perpetuo si ammirerà
nella Liberata ciò che l’ arte , i precetti e la dottrina possono fare ,
ajutati e avvivali da una stupenda natura poetica. Quivi toccò il
sommo eziandio quel maestoso decoro e quella sceltezza e nobiltà di
composizione e di forma propria degl’ Italiani , più forse ancora che
J de’ Greci medesimi , e la quale può riputarsi che in noi proceda per
abito e per tradizione della grandezza romana, e per quel severo ed
e..
PREFAZIONE.
XXII
illustre di concetti e di sentimenti che nelle scuole di Pittagora trova
i principj suoi remotissimi. Ugualmente nel Tasso à piena sod-
disfazione quel desiderio continuo dell'ingegno italiano che nel-
l’ opere d’arte apparisca da ogni lato e in qualunque cosa l’unità e
l'armonia , la convenienza c la forbitezza. Ma d'altra parte non è nei
poemi suoi la novità e la creazione altissima della Divina^Cammedia,
non la energia tanto semplice quanto vera e terribile degli alletti e
del lor linguaggio , non la concisa evidenza delle descrizioni che fa
dello stile dantesco una perpetua scultura e cesellatura. Mancavi
1 ; similmente quella continua contemperanza del reale con l’ideale, e
del proprio e individuo col comune ed universsd& Ma l’amore so-
verchio dello scelto e dello squisito, la obbedienza non sempre legit-
tima alle prescrizioni dei retori, il comporre freddo e compassato,
e con in mente modelli troppo discosti dalla natura e per troppa
dignità c magnificenza uniformi , comincialo aveano a predominare
in Italia pure innanzi del Tasso , e venivano ammanierando eziandio
le scuole di Raffaello e di Michelangelo. Sotto quelle esagerazioni e
quei pesi affogò la drammatica, e si falsificò in buona parte il teatro
stesso pastorale ove fin da prima comparve gran novità o gran leg-
giadria , ma tutta fondala sopra l’ idea di tempi e di uomini che mai
non furono, e a cui le volgari opinioni negando fede, toglievano
verosimiglianza. Dai pastori di Virgilio già troppo azzimati, ebbero
nascimento quelli di Sanazzaro, c tutta la bucolica nostra italiana,
se tu n’eccettui il Baldi, fu elegante, ma fattizia; c del certo non
meritava che gli stranieri , massime gli Spagnuoli , si sbracciassero
ad imitarla.
§ XXI.
Dicemmo che allato alla scuola latinizzante e accademica del Po-
liziano e del Sanazzaro , aprissi quella del Pulci , tutta libertà e
scioltezza; c da lui cominciò la serie de’ poeti romanzeschi, i quali
attingendo ai racconti c alle tradizioni straniere , e trattando materie
alienissime dalle storie e dai costumi italiani, seppero ciò nondi-
meno, per sola virtù d’ingegno, produrre poemi invidiabili a quelle
nazioni nel cui seno la cavalleria era sorta e fiorita. Ma se in costoro
move gran maraviglia la somma bravura e 4’ inesauribile fecondità
della fantasia, dall’altra parte, come notammo, sono da deplorare
■ le poco gravi e civili tendenze dell’arte, le quali, più si procede
oltre nei tempi, e più lasciansi riconoscere, talché infine c’imbat-
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PREFAZIONE. XXIII
tiamo nel Ricciardetto, ove la Musa non vuole altro fare che ridere
e piacevolmente burlarsi degli uomini e forse anche un poco del
Cielo. Splende fra essi come gran Sole l’ Ariosto, se forse non è da
dire che egli non appartiene ad alcuna scuola ed è unico piuttosto
che primo. Ma paragonando il Furioso all’ idea dell' ottima poesia qui
sopra delineata e di cui dicemmo essere Dante un ritratto maravi-
gfiosamente condotto e il più prossimo all’ originale, a noi sembra
di poter sentenziare che ritraendo l’occhio dai fini solenni e sapienti
dell’arte, c divisando in essa non più che l’intento immediato di
mover diletto ed esprimere ogni ragione di bello , quel poema cele-
bratissimo s'accosta meglio di tutte l’altre composizioni italiane ai
pregi della Divina Commedia. Se non che, l’ Ariosto significò la
commedia umana quale la veggiamo rappresentarsi nel mondo, lad-
dove Dante fece primo subbietlo suo il sopramondano , e in esso
figurò e simboleggiò le cose terrene. E come il gran Fiorentino nelle
fogge variatissime de’ tormenti e delle espiazioni dipinse i variatis-
simi aspetti delle indoli e delle passioni , il simile adempiva l’ Ariosto
sotto il velo dei portenti magici e delle strane avventure. Ma certo
qual narrazione di fatti umani riuscirà più vasta, più immaginosa e
più moltiforme di quella dell’ Orlando furioso? Quivi sono guerre
tra più nazioni, nascimenti e ruine di molti regni, conflitto sangui-
noso di religione e di culto, infinita diversità c singolarità di co-
stumi, e tutto il Ponente e il Levante per larga scena e strepitoso
teatro di colali imprese e catastrofi. Quivi sono dipinte la vita pri-
vata e la pubblica, le corti e le capanne, i castelli ed i romitaggi ;
quivi s'intrecciano gradevolmente la cronica , la novella e la storia ,
e ciò che il dramma à di patetico, l’epopeia di maestoso, il ro-
manzo di fantastico. Però io credo veramente che sieno pochi gli
aspetti e gli accidenti dell’eslerior natura, poche le colleganze c
gl’inviluppi dei casi , poche infine le differenze e le tempre dei ca-
ratteri e degli appetiti che nel Furioso non abbian luogo , c tutte con
tnagislerio insigne ed inarrivabile vi vengou ritratte. Quivi è pure
la evidenza, la sicurezza c la incantevole flessibilità del pennello
dantesco e quella intuizione immediata e lucente della verità e bel-
lezza di tutte le cose che dalla inspirazione si origina e qualifica
peculiarmente il sommo poeta. Quivi per ultimo è quella difficile
significazione dell’ universale e comune nel particolare e nel proprio,
sicché in ogni personaggio ariostesco appare ben definita e spiccata
una forma esemplare e una speciale e vivente individualità ; e mentre
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XXIV
PREFAZIONE.
il sopranalurale i raccende di tanto la realità e ai spazia in un infinito
fantastico , il complesso degli accidenti e il parlare e operare degli
uomini procede con tale verità e naturalezza che fa verisimile l’im-
possibile. Ma nella Divina Commedia la intuizione si mesebia in
guisa stupenda con la più viva coscienza di sé medesima e con la
profonda e incessante meditazione. Del pari , nella Divina Commedia
con la rappresentazione, può dirsi, di tutto il crealo e con la imma-
gine fedele del secolo e della civiltà in mezzo a cui fu dettata , sem-
pre vi si scorge l' orma c lo stampo , a cosi domandarlo , dell’ animo
e del genio dantesco, e tutta la persona del gran Ghibellino vi sta
improntata. Nel Furioso, la fantasia par sottomettere a se ogni cosa
e, come avviene singolarmente appresso di -Omero, l’arte vi giace
nascosta, e , a volte, piglia l'aspetto della negligenza e della srego^
lajezia; c similmente, la persona e il carattere del poeta rimanvi
occulto e ignorato , salvo che un poco il rivelano le narrazioni e
descrizioni non sempre caste , e quel leggier sorriso e quella blanda
ironia che per tutto il poema si sparge e vince in grazia e in dissimu-
lazione il cantor del Morgan te.
§ XXII.
Non credo che in veruna straniera letteratura possa come nella
nostra volgare annoverarsi una sequela così sterminata di poemi
eroici e di romanzeschi , parecchj de’ quali brillerebbero di gran
luce, ove fossero soli e non li soverchiasse la troppa chiarezza di
Dante, dell’ Ariosto e del Tasso. Nè reputo presuntuoso il dire che
per esempio la Croce racquietata del Brecciolini o il Conquisto di
fìranata di Girolamo Graziani , sostengono bene assai il paragone o
con l’ Araucana dell’ Ercilla o coi medesimi Lusiadi ai quali anno
accresciuta non poca fama le sventure e le virtù del poeta; e per
simile, io giudico che l 'Amadigi del Tasso il vecchio o 1’ Orlando
innamorato del Berni, non temono di gareggiare con la Regina Fata
di Spenser e con quanto di meglio in tal genere ànno prodotto
l' altre nazioni. Ma non è da tacere che in quasi lutti questi nostri
poemi riconoscesi agevolmente o l’uno o l’altro dei tipi che nel
Furioso e nella Gerusalemme ricevettero perfezione , od a cui poca
giunta di novità e poche profonde mutazioni si fecero dagl’ingegni
posteriori ; c ne’ poemi eroici singolarmente a niuno è riuscito di ben
cansare i difetti del Tasso, molli in quel cambio li esagerarono.
I>eesi peraltro sceverare da tutti essi il Trissino , al quale molti anni
PRKFAZIONE. XXV
avanli del cantore di Goffredo, venne desiderio di schiudere agl’ita-
liani la via illustre e regia dell’epopea, c trattar materie più conve-
nienti alla dignità e sapienza delle Muse. Fu il Trissùytjngegno
austero c animoso, ma freddo ed inelegante, e cosi alla cicca passio-
nato della semplicità e maestà omerica da non ravvisare che i carat-
teri della poesia primitiva sono in qualunque altro tempo inimitabili
affali", e clic gli uomini e i casi da Omero descritti toccavano il
sovraumano e il divino, dove quelli descritti nella Italia liberata
non d'altro sentivano che d’una civiltà tutta guasta ed intenebrata.
Nè la scelta medesima del subbictto fu secondo ch’egli pensava,
molto italiana e molto civile; c piacendogli ad ogni modo di poetare
della liberazione d’Italia, come a lui Vicentino non venne in me-
moria la lega lombarda? Ma già colai tema (quale ne sia stata mai
la cagione) a niun poeta illustre italiano affacciossi al pensiero nè
prima nè dopo il Trissino e il Tasso , e solo ne’ volumi del Muratori
incontrasi qualche antico verseggiatore che ne cantò rozzamente e
con depravato latino ; tanto poco gli affetti ed i pensamenti nostri
attuali somigliano a quelli de’ nostri avi.
§ XXIII.
Dal Tasso in poi le sorti d’Italia ruinarono ancor maggiormente,
0 a pai-lare più esalto, col processo del tempo la piaga del comune ser-
vaggio sentir faccvasi più profonda e inguaribile, c T universale stem-
peramento degli animi palesavasi di più in più nel tenore del vivere
e nella novità dei costumi. Ogni grande c generoso affetto era muto, e
1 popoli procacciavano di ripararsi da tutte specie di tirannidi, ineb-
riandosi di piaceri e brigando e bamboleggiando tra frivole occu-
pazioni di teatri , di giostre, di novcndali , di paramenti e di pompe.
E ciò non pertanto è così scolpila e naturala negl’italiani la forma
del bello e così continuo il desiderio di imitarlo c d’ esprimerlo, che
l’arte non si estingueva, ma bene si corrompeva. L’ immoderata
fantasia suppliva ai fiacchi pensieri; l’ affettazione c la bizzarria, al-
l’ingenua c subita ispirazione, l’abbondanza lutulenta c verbosa,
all’antica sobrietà, i colori vistosi ed il liscio, alli schietti e parchi
ornamenti del vero. Ognuno à in mente che caposchiera e maestro
di tal sorta di poetare fu principalmente il Stango? al quale peraltro
non è da imputare colpa maggiore che dell’ aver lusingato e secon-
dato più che troppo il suo secolo ; e a dir più giusto, egli riuscì per
appunto strepitosamente grande e famoso, perch’ebbe natura con-
XXVI
PREFAZIONE.
venientissima a quella specie di tempi e di gusto ; conciossiachè si
avvera nella letteratura il medesimo che Macchiavello viene inse-
gnando a rispetto della poliiica. Scusabile mi si fa il Marino, e scu-
sabili gl’italiani, quand’io considero lo stato di lor nazione sotto
il crudele dominio degli Spagnuoli , e fieramente mi sdegno con
questi medesimi che nella patria lo'-o ancor sì potente e sì fortunata,
plaudivano a que’ delirj e incensavano il Congora, meno ingegnoso
assai del Marino e di lui più strano e affettato. In fine gioverà il
-ricordare che all’Italia serva, scaduta c dilapidala, rimaneva pur
tanto ancora di prevalenza iutcllcttualc appresso l’allrc nazioni, che
de’ trionfi più insigni e delle lodi più sperticate del cavalier Marino
furono autori i Francesi, e per lungo tempo assai nessuno de’ lor
poeti seppe al tutto purgarsi della letteraria corruzione venuta d’ oltre
Alpe; testimonio lo stesso Cornelio, alto e robustissimo ingegno, ma
nel cui stile nondimeno avria dovuto il Boileau ritrovare assai spesso
di quel medesimo talco del quale parcvangli luccicare i versi del
Tasso.
§ XXIV.
Dal Marino incominciò a propagarsi nel mondo una poesia fan-
tastica e meramente coloritrice la quale cerca l’arte solo per l’arte,
Tassi specchio indifferente al falso ed al vero, alle cose buone ed alle
malvage, alle vane c giocose come alle grandi e distruttive; sente
tutti gli affetti, c nessuno con profondità, c nell’ essere suo natu-
ralo, canta di Adone, come di Erode e così delle favole greche come
delle bibliche narrazioni. In tal guisa quella poesia dantesca da noi
contemplala c alla quale convien sempre tornare con l’occhio della
mente, se prima del Marino già compariva incompiuta e dispersa ,
e con l’ Ariosto risorgeva solo in alcune sue doti , e col Tasso nelle
intenzioni finali e nella dignità ed elevazione platonica, ei si può
dire che nel poema dell’alerone più non lasciava riconoscere alcuna
propria sembianza.
§ XXV.
Durò questo corrompi mento ddl’ arte dal chiudersi del cinque-
cento a tutto quasi il secolo mi. E ciò nondimeno fiorirono in tale
intervallo tre ingegni eminenti che mantennero alla lirica nostra una
facile maggioranza su quella d’altre nazioni. Ognuno, io penso, à
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PREFAZIONE.
XXVII
nominato ad una con me il Cbiabrera, il Filicajaed il Cuidi. Dal aolo
Gbiabrera fu l’Italia regalata di tre nuove corone poetiche; cbè ve-
ramente nelle sue mani nacque e grandeggiò prima la canzone pin-
darica, poi la canzone anacreontica e inline il sermone oraziano;
nè mal s’apporrebbe colui che attribuisse al Chiabrera eziandio la
rinnovazione del Ditirambo. Intelletto ardito, inventivo e gagliardo,
serbatosi integro del gusto e severo dell’animo, fece nelle odi sue
ripullulare quel tanto di poesia civile che i tempi e le sventure d' Ita-
lia gli concedevano. Per tutto dove sorgeano faville di valore ita-
liano, o speranze d’italiana gloria accorreva quello spirito generoso
con le ghirlande degl’inni , senza mai parteggiare per una provincia
o per un governo, ma invitando ogni gente della Penisola a ricor-
darsi ne’lor fatti c consiglj del comune sangue latino. Egli Ligure,
e accollo c onorato da un popolo, che avea combattuto a Cbiozza ed
a Malamocco, spandeva lodi magnifiche sui Veneziani morti nelle
guerre contro al Turco; e mentre l’Europa e gran porzione altresì
dell' Italia stavasi indifferente a guardare quella lotta sproporzionata
e sanguinosissima in cui l'infelice Venezia scemava ogni anno di
forzo, di tesoro, d’autorità, di dominio, l’anima gentile del Savonese
la consolava co’ suoi versi degni mollo spesso del cedro.
§ XXVI.
Il Eillcaja venne a tempi ancor più infelici, c quando più non era
possibile di discuoprire ne’ suoi Fiorentini un segno e un vestigio
pure dell’antica fierezza repubblicana. Ma il senso del bene morale e
la pietà religiosa fervevano cosi profondi nell’animo suo che basta-
rono a farlo poeta. E mai nè in questa nostra patria , nè fuori sonosi
udite canzoni così ben temperate di splendore pindarico c di maestà
scritturale come quelle del Filicaja ; onde costui veracemente avrebbe
toccate le ultime cime della lirica nostra dove all’ impeto del senti-
mento e alla bellezza e sublimila del concetto si conformassero sem-
pre la purità e l’eleganza del dire. Nel Guidi poi , che è il terzo deno-
minati, si ripetè un fatto veduto a quando a quando in Italia e il
quale le straniere letterature poco o nulla conoscono, io voglio dire
una mente in cui la invenzione e la vaghezza dei pensieri è scarsa e «
non trapassa i termini del mediocre, e quella dello stile è grandis-
sima e raggiunge la perfezione; o veramente nel Guidi allato a con-
cetti ed a sentimenti spesso comuni e rettorici , splende una forma
non superabile di novità, di bellezza e magnificenza. E d’altra parte
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XXVIII
PREFAZIONE.
che poteva egli un pocla costretto a voltare in versi le latine omelie
di Clemente XI e a cantare le leggi dei pastori d’ Arcadia? Abitava in
Roma, e delle ruinc romane pasceva continuo gli occhi , c da questa
vera e sola grandezza che avea dinanzi, trasse le immagini c i pen-
samenti migliori c più vigorosi. Ma la decadenza trista ed irreparabile
del pontificato non volea vedere o pur non poteva ; di quindi quel
suo fare iperbolico e quel suo vestir di gran nomi e di gran parole
le picciole cose. Certo, se ad Alessandro Guidi fosse toccato di vivere
in seno di una nazione forte e gloriosa, non ostante la poca fecon-
dila e vastità de’ pensieri , io non so bene a qual grado di eccellenza
non sarebbe salila la lirica sua , perche costui propriamente sorli da
natura l’os magna sonaturum, e ce ne porge sicura caparra la sua
canzone alla Fortuna.
Di Fulvio Testi è quasi ingiuria tacere ed è pericolo gravo lodarlo.
Copia di pensieri più che novità ; grandezza che dà nel turgido ;
audacia e forza che si piacciono nell’ ostentazione; un comporre
11*8 l’ oraziano ed il chiabrcresco , ma non come quelli castigato c
continuamente condotto dal buon giudicio e dall’ ottimo gusto. Di-
leltaronlo le maltczzc del Marino , anzi , dal lato dello stile, fu il
Marino medesimo con maggior polso, ma con minore invenzione, ed
ebbe comuni altresì col maestro suo la fluidezza del verso c la riso-
nanza del ritmo, non sufficienti sempre a nascondere il fraseggiare
negletto e prosaico.
§ xxvii.
L’Italia in sul cominciare del settecento affrancandosi in parte del
giogo straniero per lo sgombramento degli Spagnuoli ebbe destino
mcn doloroso e concepì speranza del meglio; appresso, nell’altra
metà di quel secolo ebbe principi riformatori, ingegni tragrandi in
iscienza e in politica, e vide in Roma una restaurazione assennala
del gusto antico in tutte Farti del disegno. Ma l’ effetto di ciò ap-
parve assai tardi e assai lentamente nella poesia ; onde conosccsi
«■li’ ella non precorre il moto civile dei popoli e piuttosto ò l’ ut-
limo fruito che il primo fiore delle pubbliche miglioranze ; nè
queste si fanno materia di poetica inspirazione che quando menano
seco l'abbondanza e l’impeto degli affetti, e quando i pensieri e le
teoriche che le accompagnano, sono di qualità da facilmente vestire
le forme dell’arte. Ma comunque ciò sia, questo rimane pur vero
che fino all’ ultimo scorcio del secolo andato il nostro Parnaso
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PREFAZIONE. XXIX
risuonò più che mai di ciancc canore, e per intero venne occupato
da quello stile or ampolloso e scorretto , or lascivo e burlevole , ma
sempre fiacco, verboso e pedestre di cui rende immagine piena Jn-
nocenzio Frugoni ; e dal culto della semplicità ed eleganza antica
risuscitato in Roma per opera del Winckolman , del Milizia , del
Mengs, del Battoni e d' altri valenti scrittori c disegnatori, cavarono
i poeti sol questo di viepiù pazzeggiare c straniarsi con la mitologia
greca, e di dar nome d'anacreontiche alle lor canzonette prosaiche
e piene di smancerie. Della energia, proprietà e sapienza dantesca
neppure un aspetto e un vestigio; ed anzi fu scritto e fu sindacato >
contro la Divina Commedia, ove, trattone qualche brano, ogni rima-
nente, si giunse a dire, dee reputarsi nojoso e barbaro.
A tanto orgoglio di giudicio c tanta umiltà e grettezza di opere
affermeremo noi essere contrappeso più che bastevole la gloria di
Metastasio? Incertissima è la sentenza, e in qualunque modo si pro-
ferisca, la lascivia e la frivolezza dell’ arte non ricevono alcuna smen-
tita da quel poeta Cesareo. E a chi ormai non dispiace la effemmi-
nata sua Musa? a chi non rincrescono quegli croi cascanti di vezzi
e quei Greci e Romani trasformati così sovente in Filocopi c in Ca-
loandri? Eppure, il buon Gravina avea fin dall’ infanzia menato il
Trapassi a bere alle ingenue fonti della drammatica antica. Ma il
dilicato giovinetto, conforme in tutto alla muliebre natura dei
tempi , piuttosto che imparare da Sofocle a emendare Bacine e
Quinault , aggiunse le proprie alle molte loro svenevolezze. E nep-
pure quando si alzò a cantare di Temistocle , di Attilio Regolo e di
Cotono, seppe purgar la scena degli amoretti e dei madrigali;
miglior esempio aveagli dato Apostolo Zeno.
§ XXYI1I.
Ma come i sensi religiosi in quel che anno di più sublime e di più
scritturale fecero del Filicaja un poeta grande , col quale il secolo
decimoscltimo tanto bene si compiè quanto male fu cominciato dai
Marinisti; del pari nell’ età susseguente le inezie anacreontiche, le
pastorali melensaggiui e i dispregi contro Dante, trovarono fine per
opera d’un ingegno altamente religioso ed austero, il quale in
mezzo alla licenza delle opinioni e alla mollezza e fatuità de’ costumi,
parve in yero infiammato da una fantasia e da una indegnazione pro-
fetica. A me suonerà sempre caro cd insigne il nome di Alfonso Va-
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XXX
PREFAZIONE.
reno, perchè da lui segnatamente , a quello che io giudico, s'iniziò
IT corso della poesia moderna italiana ; e forse la patria non gli si
t, mostra ricordevole e grata quanto dovrebbe. Chi trovasse non poca
similitudine tra la mente del Varano e quella del Young, credo che
male non si apporrebbe. Anime pie e stoiche ambidue, e dischiuse
non pertanto agli affetti gentili , diffondono ne’ lor versi un religioso
terrore e un’ascetica melanconia che nell’ Inglese riescono cupi , in-
consolati e monotoni , e nell’ Italiano s’allegrano spesso alla vista del
nostro bel sole, c dai pensieri del sepolcro volano con gran fede
alla pace e serenità della gloria- immortale.
Varano poi insieme col Gozzi restituì alla Divina Commedia il
debito culto ; il Gozzi con li scritti polemici , egli con la virtù dcl-
l’ esempio ; ed ebbe arbitrio di dire a Dante ciò che questi a Virgilio :
Tu se' lo mio maestro e il mio autore. Se non che il cantore delle vi-
sioni chiuse e conchiuse l’ intero universo nel sentimento della pietà
e nei misteri del dogma, e non bene seppe imitare del suo modello
la nervosa brevità e parsimonia , la varietà inesauribile e la pere-
grina eleganza.
Ma le nostre considerazioni debbonsi tutte fermare alla soglia ove
à termino l’età media e la moderna incomincia. Il Parini stereo ci
sembra travalicarlo c sentir l’aura de’ nuovi studj e del nuovo se-
colo; ond’egli non vuol serbare d’antico se non la grazia del greco
idioma e la dignità del romano , e quella inflessibile alterezza edrit-
tura dell’animo che non obbedisce c non piega di là dall’onesto nè
ai principi nè ai demagoghi.
TERENZIO MAMIANt.
Genoa, 1848.
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POETI
DELL’ETÀ MEDIA.
POEMI EROICI.
BOCCACCIO.
Nel decimo r uflcio funerale
Fanno gli greci re a’ morti loro :
E Teaeo chiama chi «anta dimoro
Poi Arcila a Teaeo racconta quale
Dopo la morte sua del suo tesoro
Il testamento sia; e poi con ploro
Quasi con Palemon fece altrettale :
Poscia presente Emilia seco stesso
Del suo morir si duole , e poi con lei :
Ed elio dopo lui , porgendo ad esso
Gli stremi baci con dolenti omei :
Quindi a Mercurio lita, e piagno appresso,
Po’ l'alma rende agl’immortali Iddei.
TESEIDE.
ARGOMENTO.
0 mal d’Arcita dice easer mortale:
Il gran nido di Leda ogni bellezza
In molte luci di si dimostrava,
E già propinqua a sua maggior cortezza
Tacitamente la notte n’andava,
Forse due ore vicina alla terza
Dove il suo mezzo cerchio già toccava :
Quando di corte 1 regi si partirò.
Ed agli lor oslier proprj rcddiro.
Degna di pira, ciascheduno disse
A’ suoi : Mentre la gente si riposa
Piani al teatro grande ve ne andate ,
E quivi con silenzio ne aspettate.
I morti corpi degli nostri amici
Tutti con diligenza troverete.
Ed acciò che non sian forse mondici
D’ onor di sepoltura , laverete
Lor tutti quanti ; e roghi fate lici ,
Nc’ qua’ con degno onor li metterete :
Po’ venuti saren , ma chetamente
Si tuo! far ciò , che noi senta la gente.
Ed acciocché per lor non s* impedisse
La lieta festa della nuova sposa ,
Anzi che più della notte sen gisse.
Prese con loro ciascheduna cosa
1
2 POEMI
Mosscrsl allor co' lumi I servidori,
E ’n verso il gran lealro se ne andaro ;
E, come avieri comandato i signori,
Gli morti corpi tutti ritrovaro,
E que' con odoriferi licori ,
E con lagrime ancor molto lavaro :
Po' fatte pire per sè a ciascheduno ,
Sopra catana X ej»c poser uno.
Vennero i re, die la turba dolente
Con tristo suono fu apparecchiata,
Ed intorniarla tutta con lor gente ;
E po’ eh' egli ehbcr ciascuna onorata
E d'arme c di grillande c di lucente
Porpora, fu la tromba comandata
A sonar, e a dar v occ a’ tristi guai
E dolenti, clic quivi erano assai
Allora i regi adimorati un poco
Dentro alle pire fatte, con dolore
Al morto suo ciascuno accese il foco ,
E poi a Giove stigio ognun di core
Fe’ sagrificio, acciocché pio in buon loco
Ponesse quelli che per lor valore
Erano 11 giorno morti combattendo ,
L* anima loro per altrui offerendo.
I grossi fuochi e grandi e ben ardenti
Consumar tosto i corpi lor donati ;
I qua' da ognuno delle greche genti
Pietosamente fur mortificati :
E ricolte le ceneri cadenti.
In vasi furo» messe , apparecchiali
Con mano pia , c con dolente verso ,
Durando ancora assai del tempo perso.
E quante Niobe appresso a Sipiiooe
Allorché i figli di Latona fero
Vendetta della sua alta orazione,
Ne portò urne, ed ivi in sasso vero
Si trasmutò, cotanti è openione
Che quiii al tempio del gran Marte altero
Segnati glsscr del nome di quelli,
Le ceneri de’ qual fur messe in dii.
Poi ritornaro agli lasciati ostieri,
Siccome bisognosi di riposo ^
Ed a dormire i regi c i cavalieri,
E qualunque altro, il tempo tenebroso,
Tutti quanti ne giro volentieri.
Infine al nuovo giorno luminoso :
Quindi levati a corte ritornaro,
Dove Teseo levato già trovaro.
Tutti gli Greci i quali avicn difetto
Eran con somma cura medicati ,
E lor donato soiazzo e diletto,
E ne' bisogni lor bene adagiati :
Talché di morte c d’ ogni altro sospetto
EROICI.
Furon in pochi giorni liberali;
E come prima si rifecer sani
I cittadin così come gli strani.
Ma solo Arcita non potè guarire,
Tanto era rotto dentro pel cadere :
Fevvi Teseo il grande lscliion venire
D’Epidauro ad Arcita per vedere,
II qual si mise segreto a sentire
Del mal die Arcita in sè potesse avere ;
E sanza fallo egli si avvide tosto
Come Arcita di dentro era disposto.
Perchè a Teseo rispose di presente
In colai guisa : Nobile signore,
li vostro Arcita è morto veramente,
Nè luogo ci ha di medico valore :
Giove potrebòe in vita solamente
Servarlo, se volesse, ci»’ e’ maggiore
Cihe la Natura, e puote adoperare
Assai più clic Natura non può fare.
Ma lasciando a’ miracoli il lor loco ,
10 dico ch'Kscuiapio non varrebbe
Pier sanità di lui molto, nò poco;
Nè ’l chiaro Apollo ancora, che tutta ebbe
L’ arte con seco, e seppe ii ghiaccio c ’I foco
R I* umido e ’l calore , e clic potrebbe
tàascun’crba, o radice : però eh’ esso,
Per lungo c per traverso è dentro fesso.
Dunque fatica per sua guarigione
Sarie perduta, per quel eli' io uc senta :
Fategli festa e consolazione,
Sicché ne vada f anima contenta
11 più si può air eterna prigione,
Dove ogni luce Dite tiene spenta ,
E dove noi pur dietro a lui ne andremo
Quando di qua più viver non potremo.
Molto colai parlar dolse a Teseo,
Perciocché Arcita sommamente amava ;
Ed a chi questo udiva il simil feo,
Perciocché ognuno alte cose sperava
Della sua vita, sc’l superno Iddco
Vivere In parte antica lo lasciava ;
Nè sapevan di ciò nulla die farsi ,
Se non ciascun di Giove lamentarsi.
Adunque dascun giorno peggiorando ,
Il buon Arcita in sè si fu accorto
Che ’l suo valore in tutto già mancando ,
E che sanza alcun fallo egli era morto :
Nè di ciò trarre il potè ragionando
Alcun giammai, dandogli conforto :
Perchè volle di sè dò che potesse
Disporre , sol che al buon Teseo piacesse.
E fello a sè sanza indugio chiamare,
E cominciò con lagrime in ver lui
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V .£■*'
TESEIDE.
Pietosamente In tal guisa a parlare :
0 nobile signor caro, di cui
Mille Tolte morendo meritare
Vorrei l’ onor, del qual degno non fui ,
Piè potrei mai , lo mi veggio venire
Al passo, il qual nessuno può fuggire.
Al qual si regno , eh’ i’ ne son contento :
Piè vado mal pensando che l’ amore ,
Il qual m’ ha dato già Unto tormento
Per la giovane donna , che nel core
Ancora, come mai per donna sento,
Lascio infinito , e te , caro signore ,
Al quale, appresso lei più distava
Servir, che a Giove , e più mi dilettava.
Ma più non posso , e farlo mi conviene :
Perch’Io ti prego, per ultimo dono.
Se lungamente Iddio tl guardi Atene,
Che, poi del mondo dipartito sono,
E sarò gito a riguardar le pene
De’ miseri che priegan per perdono ,
Quel che dirò tu faccia sia fornito.
Se tu da Marte sia sempre esaudito.
Signor, tu sai che poi che di Creonte
Il giusto Marte tl diè la vittoria
Ch’io t’era con lui uscito a fronte,
E preso fui prigion, della tua gloria
Piccola parte, e certo non isponte,
E Palemone ancor, come a memoria
Esser ti debbe, I qua’ Testi guardare.
Forse temendo di nostro operare.
Mai poiché quindi fummo liberati,
Per tua bontà e per tua cortesia,
1 nostri ben , donde eravam privati ,
G fur renduli. ed ogni baronia.
Come tl piacque, avemmo, ed onorati
Fummo come eravam giammai in pria.
De’ quali a Paiemon tutu mia sorte ,
Ti prego doni , dopo la mia morte.
Similemcnte ancor t’è manifesto
Quanto amor m’abbia per Emilia stretto;
Il quale al tuo servigio sol per questo
Ad esser venni , e quello , che sospetto
Esser doveami, non mi fu molesto;
Anzi con fè serviva e con diletto ;
Nè credo mai ti trovassi ’ngannato
Di cosa, che di me ti sia fidato.
Esso insegnommi a divenir umile :
Esso mi fé’ ancor sanza paura :
Esso mi fé’ grazioso e gentile ;
Esso la fede mia fe’ santa e pura ;
Esso a me dimostrò che mai a vile
I’ non avessi nulla creatura :
Esso mi fe’ cortese cd ubidiente :
<" -,
Esso mi fe’ valoroso e servente.
Tanto mi diede Amor di pronto ardire.
Che sotto nome istran nelle tue mani
Mi misi a rischio di dover morire :
E certo a ciò non mi furon villani
Gl’ Iddi! , anzi facevan ben seguire
I miei pensieri intieri e tutti sani :
Nè mi vergogno punto che ’n tuo onore
Io tl sia stato lungo servitore.
Febo si fece servitor di Aitimelo,
Mosso dalla medesima cagione
Ched io mi mossi , e cosi dolce e quieto
Servi, ch’egli ebbe la sua intenzione :
E certo eh* io ’1 seguiva mansueto ,
S’ egli non fosse stato Palemone ,
Nè dubito che ciò che disiava
M’avessi dato, t’Io mi palesava.
Or cosi va, e non si può stornare
Ciò eh’ è già stato ; ond’ io sono a tal punto
Qual tu mi vedi , e sentomi scemare
Ognor la vita , e già quasi consunto
Del tutto son, nè mi posso aiutare :
A lai partito m’ba or Amor giunto,
A cui ho lo servito il tempo mio
Con pura fede e con sommo disio.
Nè ’i merito di ciò che io attendea
Goder non posso , benché mi sia dato ,
Veggio di me che ciascun Fato avea.
Che cosi fosse, in sè diliberalo,
E che dei mio servir vuole eh’ io stea
Contento, che per merito onoralo
Istato sia della data vittoria,
Cir ella a’ futuri fie sempre in memoria.
Ed io perciò clic più non posso arante,
Voglio aver questo per mio guidardone :
E quel che fu cosi com’ lo amante ,
E la sua vita ha messa In condizione
Di morte, e di periglio simigliatile
A me, io dico del buon Palemone,
Deli’ amar suo per merito riceva
La donna ch’io per me aver doveva.
Io te ne prego per quella salute
Che tu a lui ed a me parimente
Donasti già, per la tua gran virtute
Nota agl’ Iddii ed all’ umana gente ,
E per l’ opere tue, che conosciute
Sono e saranno al mondo dentalmente,
E per la fede la qual ti portai ,
Mentre nel tuo servigio dimorai.
Questa mi Ga tra l’ ombre alma letizia ,
Che Palemone , cui mollo amo , sia
Tratto per me d’ amorosa tristizia ,
Possedendo egli ciò che più disia :
POEMI EROICI.
Pensando ancora ch'egli abbia dovizia
Di ciò eh' egli ama , per tua cortesia ,
Almeno Emilia mentre sarà in vita ,
Vedendo lui, avrà a mente Ardta.
E questo detto, forte sospirando
Tacque, cogli occhi alla terra abbassali,
Tacito seco stesso lagrimando ,
Ni quelli ardiva di tener levati :
Onde Teseo un poco attese, c quando
Vide eh’ e’ suoi parlari eran posati ,
Quasi piangendo , assai di lui pietoso ,
Disse cosi con viso lagrimoso :
Tolgan gl’ Iddìi , Arcita , amico caro ,
Che Lachesls il 1)1 poco tirato
Ancora tronchi, e cessi questo amaro
Dolor da me, sed lo i'iio meritato,
Che non si dia a tua vita riparo;
E gii In ciò Alimelo ha pensato
Insieme con Ischion , c si faranno ,
Che vivo e sano a noi ti renderanno.
Ma pur se degl'iddìi fosse piacere
Di torti a me , che più che luce t’ amo ,
A forza , ciò non ci convien volere ,
Perocché noi sforzargli non possiamo :
Ciò che m' hai detto puoi certo sapere ,
Che poi ti place, siccome te 'I bramo,
E saura fallo tutto e’ tìe fornito
Se tu venisti a si fatto partito.
Ma tu come si forte ti sgomenti.
Pensando clic cosi notabil cosa,
Com'è Emilia, che farie contenti
Qualunque Dii, di sé tanto amorosa
Si fa vedere, e' suoi ocelli lucenti
Pur te disian con vista lagrimosa,
Essa eh’ è tua? deh prendi pur conforto ,
Chè ancor verrai a grazioso porto.
Ben ci ha da render altro guldardone
Delle fatiche da lui sostenute,
1' dico al tuo amico Palemone,
Del quale a me domandi la salute:
Sol che tu sani, io ho opinione
DI porvi ’n parte, per vostra virtute,
Dove di voi tra voi ancor sarete
Contenti si, clic lieti virerete.
Arcita a questo nulla rispondea,
SI lo stringea l'angoscia dell' amore,
Ed il suo stato assai ben eonoscca,
Posto che gli conforti del signore
Divoto udisse quanto più polca :
E già l’ ambascia s’ appressava al core
Della misera morte; onde si volse
In altra parte , ed a Teseo si tolse.
E poi ch'egli fu alquanto dimorato
Sanza mostrare o dire alcuna cosa,
Com'era prima si fu rivoltato,
E ’n voce rotta assai ed angosciosa
Prega che Palemon gli sie chiamato
Anzi eh' e’ lasci està vita noiosa :
Il qual gli venne sanza dimorare
Con altri molti per lui visitare.
Il qual po' vide innanzi a sé venuto ,
E rimirato l'ebbe lungamente
Con luce aguta, quasi conosciuto
Pria non l’ avesse, con voce dolente
Disse : Palemone, egli è voluto
Nel del die qui più i’ non ne stia niente:
Però innanzi il mio tristo partire
Veder ti volli , toccare c si udire.
Tanto n' ha sempre avversati Giunone,
Che del seme di Cadmo solo Arcita
N’è conosciuto, e tu, o Palemone:
Or mi conviene angosciosa partita
Da le parente amico e compagnone
Far; po’ le place ancora alla mia vita
Essere invidiosa, chè potrà
Pur contentarla, s’ella lo volea.
In quella entrata, eh’ io doveva fare.
Ad esser degli suoi raccomandato
Fa ella il mondo lieto a me lasciare.
Per congiungermi a’ nostri primi andati :
Or m’avess’ella pur lasciato entrare
Per tre giornate ne’ suol disiati
Luoghi , ed appresso in pace avrei sofferto
Ch'ella m’avesse morto, ovver deserto.
Non l' è piaciuto, ed io non posso avanti:
Dunque tu solo , che a me se’ rimaso
Del sangue altiero degli avoli tanti
Quando verranne il doloroso caso
Ch’io lascierò la vita c I tristi pianti.
Gli occhi, la bocca e l'anelante naso,
Priegoli che mi chiuda, e faccia ch’io
Tosto trapassi d' Acheronte 11 rio.
E perchè tu, siccom’io, amato
Hai lungamente Emilia graziosa,
lo ito Teseo a mio poter pregato
Che la ti doni per eterna sposa:
Fregoli che da tc non sia negato,
Perchè tu sappi clic di me piatosa
Ella sia stata , ed a me porti amore ,
Ch’ella ha suo dover fatto e suo onore.
E giuroti per quel mondo dolente ,
Al qual io vado sanza ritornata,
Che , a dir vero , giammai al mio vivente
Di lei nluna cosa l' ho levata,
Se non forse alcun bacio solamente;
Sicché tal è qual tu te 1' bai amala :
TESEIDE.
Onde 11 prego, per tua cortesia.
Che lu la premia c che cara U sia.
E lei con quell' amor che tu solevi
Portarle più che a nulla creatura ,
S' egli era vero ciò che mi dicevi ,
Onora e guarda, e si d’oprar procura,
Che ’l tuo valore usato si rilevi
A ricrear la nostra faina oscura ,
Per lo dolente seme eh' è gii spento,
S'a rilevarlo non dai argomento.
Certo questa è manifesta cagione
Che daschedun dell’ operato affanno
Ricever debbe degno guiderdone :
Dunque sari per merito del danno
Che hai già avuto, c disconsolazione ,
Cora' io lo so, e molti ancor lo sanno,
Ricever lei , che credo più clic ’l regno
Di Giove l'avrai cara, e Senne degno.
E s'clla forse, per la morte mia,
Piatosa desse alcuna lagrimctta,
Si la raccheta che contenta sia ;
Perocché la sua vista leggiadretla
Fati’ ha l’ anima mia di lei si pia ,
Che ’l rìso suo più me che lei diletta,
E cosi ’l pianto suo più me contrista:
Onde io mi cambio com’è la sua vista.
In questa guisa, se l’anima sente
Po’ la morte del corpo alcuna cosa
Di queste qua’, tra la turba dolente
Andrà con più di ardire c men dogliosa :
E questo detto , più oltre niente
Allora disse : donde con piatosa
Sembianza e voce appresso Palcmone
Incominciò cosi fatto sermone:
0 luce eterna, orrevole splendore
Del nostro sangue, poderoso Arcita,
S’eglì non è in te spento il valore
l'salo, aiuta la tua cara vita
Con conforto, sperando che ’l Signore
Del ciel soccorre a chi sè stesso aita :
Nè far ragione che in giovine etadc
Antropos ora pigli polestade.
Cessi n gl' Iddìi che io 1' ultimo sia
DI tanto sangue , se tu te ne vai ,
Nè ebed Emilia mai diventi mia :
Tu 1* acquistasti , e tu per tua l' avrai ;
Nè 1* uffizio che chiedi fatto fia
Colla mia man , per mia voglia giammai ,
Ma la tua prole c tu gli chiuderete
A me, che sopra me vivi sarete.
Arcita disse : E’ fte come io t' ho detto :
Il che se awien , ti prego quanl’ lo posso,
Che ’1 mio disio in ciò mandi ad elTclto ,
E questo sia , ogni altro affar rimosso :
Cosi disio, cosi mi Se diletto,
Cosi d' ogni gravezza sarò scosso :
E quinci tacquon tutti due piangendo,
E chi ivi stava ancor pianger facendo.
A colai pianto Ippolita piacente
Vi sopravvenne ed Emilia con lei;
E quando vidon si platosamente
Pianger gii Achìvi c gli duci dlrcel,
D’ Arcita dubitarono, e dolente
Ciascuna domandò li re lcrnei :
Cheti era ciò che i due Teban plangeano,
E tutti loro ancor pianger faceano.
E fu lor detto : onde ognuna di loro
Più ad Arcita si fecero appresso,
E cominciaron , sanza alcun dimoro ,
A ragionar di più cose con esso.
Ed a dargli conforto con costoro
Insieme, ch'cran il venuti adesso;
Ed egli alquanto prese d'allegrezza.
Poiché d’Emilia vide la bellezza.
E poi eh’ Arcita 1’ ebbe rimirata
Con occhio attento, siccome potea.
Ed ebbe bene in sè considerata
La gran bellezza che la donna avea,
Cominciò con sembianza trasmutata
A parlare in tal guisa qual potea,
Premessi avanti dolenti sospiri ,
Caldo ciascun d' amorosi disiri :
Piangerai amor nel doloroso core
I A , onde morte a forza il vuol cacciare ;
Nè vi può star, nè uscirne può egli fuore,
Siedi’ io lo sento In me rammaricare
Con pianti, e con parole di dolore
Accese più che non potrei narrare :
In forma che di sè mi fa platoso.
Ed ohimè , lasso , oltre 11 dover noioso.
Gli spiriti vi sono, e assai sovente
Mostrano a lui l’angelica llgura,
Per la qual esso nel core è possente ,
Dicendo : Deh fia tal nostra sciagura,
Che ci convenga teco Insiemementc
Abbandonar si nobll creatura?
Esso risponde lor, e si gli abbraccia.
Dicendo : Si , die morte me ne caccia.
Io me ne vo coll' anima smarrita ,
La qual io presi col piacer di quella
Che da voi è nel mondo più gradita;
Dunque nelle sue man ricevami ella
Quando farò la dogliosa partita
Dalla presente vita taplnella :
E questo detto , forte lagrimando ,
Abbassò gli occhi In terra sospirando.
6 POEMI
Queste parole gii angelici aspetti
Di quelle donne conturbaron molto,
E con dolore offendevano I petti
Dilleati , in maniera che nel volto
Si parie loro : e ben sentlano i detti
Quali erano , e che fosse in lor raccolto ,
E ben f occulta morte conoscano
Nel viso a lui che già veniva meno.
Perchè Emilia disse : 0 signor mio ,
Poscia che tu del viver ti disperi ,
Deh di me , lassa , come fard lo ?
1' ne verrò con teoo volentieri ;
E già questo appetisce il mio disio :
Perch’ lo non che fuor di te mi speri :
Tu solo eri il mio ben , tu la mia gioia ,
E sansa te non spero altro che noia.
A cui rispose Ardta : Delia amica.
Prendi conforto del mio trapassare.
Non prender nel tuo animo fatica.
Ma per amor di me di confortare
Ti piacda : se giammai cosa eh’ io dica
Intendi nel futuro adoperare,
I’ ho trovalo, a tua consolazione.
Modo assai degno e con giusta ragione.
Palemon caro e stretto mio parente
Non mcn di me t' ha lungamente amata ,
E per lo suo valor veracemente
£ più degno di me die tu isposata
Gli sia; e questo vede tutta gente)
Chè posto die vittoria a me donata
Fosse l’altr’ier, non fu già dirittura.
Ma solo fu la sua disavventura.
Di che gl’ Iddìi errarono, e per certo
Credetter lui alare, e me alaro;
Ma po’ che ’1 loro error fu discoperto ,
Ciò che avien fatto indietro ritornalo,
E me recaro a cosi fatto merlo;
Il qual or piango con dolore amaro ,
Acciocché tu ti rimanessi ad esso.
Coni’ essi avien diliberato appresso.
Ed io che tu sia sua me ne contento
Più che d'altrui, poicb'esser non puoi mia :
Ferma in lui dunque il tuo intendimento ,
E quel pensa di far ch'egli disia;
Ed io son certo eh' ogni piadmento
Di te per lui sempre operato Ha :
Egli £ gentile, bello e grazioso.
Con lui avrai diletto e si riposo.
Io muoio, c già mi sento intorno al core
Quella freddezza ebe suole arrecare
Con seco morte ; ed ogni mio valore
Sanza alcun dubbio i'mi sento a mancare,
Però quel che ti dico, per amore
EROICI.
Farai ; po’ più non posso teco stare :
I Fati t' hanno riserbata a lui :
Me' sarai sua , non saresti d' altrui.
Ma non pertanto l'anima dolente.
Che se ne va per lo tuo amor piangendo ,
TI raccomando, e pregoti che a mente
Ti sia tutt’ ora , mentre eh' lo vivendo ,
Qui starà sotto del bel del lucente ,
A te contenta la verrò caendo :
Io me ne vo , nè so se tu verrai
Là dove 1* sla, eh’i’ tl riveggia mal.
Gli ultimi bad solamente aspetto
Da te , o cara sposa , I qua' mi del ;
Tl prego molto ; questo sol diletto
In vita ornai attendo , ond’ Io gire!
Isconsolato con sommo dispetto ,
Se non avessi , e ma’ non oserei
Gli occhi levar tra’ morti Innamorali ,
Ma sempre gli terrei fra lor bassati.
Fatti erano 1 begli occhi rilucenti
D' Emilia due fontane tagrimando ,
E fuor gittando sospiri cocenti ,
Del suo Arcita il parlare ascoltando :
E ben vedeva per chiari argomenti
Che , com' egli dlcca , venia mancando ;
Perch’ella in boce rotta ed angosciosa
Cosi rispose tutta lagrimosa :
O caro sposo a me più che la vita ,
Non verso te sono crucciati 1 DII :
lo sola son cagion di tua partita :
10 nocevole sono a' tuoi disii.
Gl’ Iddei vecchia Ira incontro a me nutrita
Han ne' lor petti , come già sentii ,
I qua' del tutto lo mio matrimonio
Negano , ed 1’ ne veggio testimonio.
11 gran Teseo m’avca serbata a Acate,
Col quale giovinetta lo mi crescea :
Belio era e fresco nella nuova etate,
E nelli primi amori assai placea
A me : ma la mal nata cruddtate ,
Che ha contro il nostro sangue Citerea ,
Nel tolse, già al maritar vicina,
Bcncbed io fossi ancora assai fantina.
Questa non sazia dd primo operare
Contra di me, or te veggendo mio,
Slmilemeute mi tl vuol levare :
Adunque non l' uedde altri che io ;
Io , lassa , colpa son del tuo passare :
11 mio augurio tristo e '1 mio disio
Ti noccioo, lassa, ed lo rimango in pene
Ed in tormento , non qual si contiene.
0 mè 1 sopra di me ne andasse l' ira
Ched altri nuoce, per la mia bclleiza :
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TESEIDE.
Che colpa ci ha colui che me disira ,
Se la spietata Vener mi dispreizai
Perchè ora coutra te diventa dira 7
Perchè or In te discopre sua fierezza ?
Maledetta sia l' ora eh’ io fui nata ,
Ed a te prima fui appalesata.
E bello Arcita mio , sanza ragione
Orfoss’io morta il di che in questo mondo
Venni , poi ti doveva esser cagione
Di morte , e torli di stalo giocondo :
Donde giammai sentir consolazione
Non credo in me , ma sempre di prorondo
Cor mi dorrò dopo la tua partita.
Se dietro a te rimarrò, caro Arcita.
Ora conosco i dolorosi ardori
Che oscuri mi mostrò l’altr’ ier Diana :
Or so qual fosse P aria che di fuori
N’ usci con vista c con voce profana ,
E quel che della fiamma li furori
A me mostravan con mente non sana :
Chè se allora conosciuti gii avessi ,
Non credo come stai , tu ora stessi.
lo mi sarei dolorosa parata
A te allora che al teatro ne gisti ,
E di pìatà d'amore colorata
Avrei voltati gli tuoi passi tristi ,
E la dolente battaglia (sturbata.
Per la qual morte per me ora acquisti :
Ma io non gli conobbi ; anzi sperai
Tutto ’l contrario di ciò che tu bai.
Or più non posso ; onde morrò dogliosa ;
Nè so veder chi di morir mi tiene.
Vedendo, o sposo, tua vita angosciosa
Istar per me , ed in cotante pene ;
Oh me disventurata, dolorosa.
Quanto mal vidi , e tu si ancora Atene ,
E quanto mal per te mi riguardasti
Il giorno che di me t’innamorasti.
Ohimè che I fiori , I quali allor coglieva,
E ’l canto , anzi fu pianto , eh* io cantava ,
Erinni , o lassa , tutto ciò moveva ;
Ed io il sentii , che talora tremava
Pallida , e la caglon non conosceva ,
Nè le future cose immaginava :
Or le conosco , chè son nel periglio ,
Nè posso porre ad esse alcun consiglio.
Ed ora , caro sposo , mi comandi
Che tu mancato , i' prenda Palemone 1
Certo le tue parole mi son grandi ,
E debbo quelle per ogni ragione
Servar , più che gli eccelsi c venerandi
Iddìi ch'ora m’oOendon, nè cagione
Non a’ hanno; ed io cosi le scrveraggio
In quella guisa ched io ti diraggio.
Io so che Palemon m' ha tanto amata
Quant' uom gentil nessuna donna amasse ;
Di che io non gli voglio essere ingrata ,
Ed eziandio se Giove il comandasse ;
Chiaro conosco che a chiunque data
Fossi, sed esso di grazia abbondasse
D’ ogni vivente , eh' io nei priverei ,
Tanto gli augurj miei conosco rei.
E s' or a te son io cagion di morte
E ad Agate fui, l'aver nociuto
Al mondo tanto assai gravosa sorte
M' è a pensar ; nè quinci spero aiuto
Che possa sostener mia vita forte ,
Che poi Io spirto suo sarà partilo
Che dietro a te , per soperchio dolore ,
lo non venga seguendone il tuo amore.
E se pur fia la mia disavventura
Di vivere oltre a te, non vo' donare
A Palemone della mia sciagura,
Là dove esso per fedele amare
Ila meritato; ma sola mia cura
Ne’ boschi Ile Diana seguitare ,
E ne’ suoi tempj vergine vestita
Serverò sempre mal celibe vita.
E se Teseo vorrà pur ched i' sia
D' alcuno isposa, agli nimici sui
Mi mandi , acciò che la sciagura mia
Ad essi noccia, e sia utile a lui :
Palemone è poi tal , che s’ e’ desia
D'avere isposa, troverà egli altrui
Che gii sarà più non sare' 1’ felice :
Ciò manifesto puro 11 cor mi dice.
Gli stremi baci , omè , gii qua' dolente
MI cerchi, ti darò volonterosa,
E prenderogli ancora parimente
A mio poter, dopo gli qua’ mai cosa
Non fia eh’ lo baci più certanamente :
E la mia bocca sempre come sposa
Dì te co’ baci , che le donerai ,
Guarderò, mentre in vita sarò mai.
E quinci quasi furiosa fatta.
Piangendo con altissimo romore,
Sopra lui corse in guisa d’una matta,
Dicendo : Caro e dolce mio signore.
Ecco colei che per te fie disfatta.
Ecco colei che per te trista more.
Prendi gli baci estremi , dopo 1 quali
Credo finire i miei eterni mali.
E pose 11 viso suo In su quel d’ Arcita ,
Pallido già per la morte vicina.
Nè ’l toccò prima , eh’ ella tramortita
In su la faccia cadde risupina :
Diqitized
g POEMI
Ma poi appresso si fu risentila,
Piangendo cominciò : Orni' tapina,
Son questi i baci i quali io aspettava
Da Arcita, il qual vie più die me amava?
Alle nemiche mie cotal baciare,
0 disputali Iddìi, sia riserbato.
Arcita, che nei elei esser gli pare ,
li bianco collo teneva abbracciato ,
Dicendo : Mal non credo mal andare ,
Tal viso essendo al mio ora accostato :
Qualora piace ornai all’ alto Giove ,
Di questa vita mi tramuti altrove.
Quivi era si gran pianto c si doglioso
Di donne, di signori c d'altra gente.
Che vedean questo ; onde ciascun piatoso
Era assai più elio di stretto parente :
Che non si crede si fosse noioso
Allor che Febo si mostrò dolente ,
Tornando addietro nel tempo che Atreo
Mangiar i figli ai suo Tieste fco.
Ed essa allora , siccom' esso volle ,
E come volle Ippolita, drizzossl,
E sé e lui aveva tutto molle
Di lagrimari da’ begli occhi mossi ,
Nè più nè men come il Menalo colle
Quando che per Ariete riscaldossi,
E consumala sua veste nevosa.
Mostrò la faccia sua tutta guazzosa.
E quel di lutto quanto si posare,
Sanza più rinnovare altro dolore;
Benché nel cor l’avessono si amaro,
Quanto potea esser più a tulle l’ore :
E con parole assai riconfortare
Emilia c Arcita , e ’l corrotto furore
Lor temperare con soavi detti ,
Lena rendendo a* disolati petti.
Nove fiate s' era dimostrato
li Sole, ed altrettante sotto l'onde
D'Esperia s’era col carro tulfato,
Po' si mutare le cose gioconde
Per lo cader d’ Arcita in tristo stato,
Quando nel tempo che tutto nasconde,
D’Emilia avendo il di I baci avuti.
Parlò Arcita a' suoi più conosciuti :
Amici cari, lo me ne vo di certo,
Perchè a Mercurio vorrei pur litare.
Acciò ched esso, per si fatto merlo.
In luogo ameno piacciagli portare
Lo spirto mio, po’ che gli Qa offerto;
E vorrei questo domattina fare :
Però vittime degue ed olocausti
Ne parccchiate a lui decenti e fausti.
Palemon eh’ era a questo dir presente
EROICI.
Come quel che da lui non si partia ,
Fe' apprestar tutto ciò Immantenente
Ched a cotal mesticr si convenla ;
E sangue e latte nuovo di bidente
Gregge, ed armenti, quali all’ara pia
Si richiedcan di cosi fatto Iddio,
Per adempire d’ Arcita il disio.
Il giorno venne oscuro e nuboloso,
E questi Febo s’avea messo avanti
Al viso, acciocché al morire angustioso
D' Arcita non vedesse i tristi pianti
D'Emilia bella, de' qua’ assai piatoso
Si mostrò il giorno , gli suoi luminanti
Raggi celando in fra le nebbie iscure,
Vedendo chiaro le cose future.
Allora l'ara fu apparecchiata,
E' fuochi accesi, e gl’incensi donati,
E ciascun’ altra offerta a ciò portata,
E' sacerdoti versi ebber cantati
Con voce assai tra l' altre trasmutata ,
E fumi furon tutti a’ cieli andati :
Arcita piano cominciò egli a dire
In guisa tal che si potette udire :
0 caro Iddio di Proserplna figlio ,
A cui l’ anime sta di là portare
De’ corpi , e quelle , secondo il consiglio
Che da te prendi , le puoi allegrare ;
Piacciati trarnil di questo periglio
Soavemente per le tue sante are ,
Le quali ancora calde per me sono,
Chè a te su quelle offersi eletto dono.
E quinci mene tra l' anime pie.
Le qua’ sono in Eliso , mi trasporta ;
Chè se tu miri ben l’ opere mie.
Non hanno fatto me dell'aura morta
Degno , siccome furon 1’ alme rie
De' miei maggiori , a qua’ crudele scorta
Fece Giunone adirata con loro,
Con ragion giusta a lor donando ploro.
Io non uccisi il sagrato serpente
Alialo a Marte ne’ campi dlrcei,
Come fe' Cadmo della nostra gente
Avol primario ; nè nell! baccci
Sagriflci tolsi fieramente
La vita ai mio figlluoi, come colei
Che dopo li danno riconobbe il fallo,
Nè potè poi con lagrime emendano.
Nè siccome Semclc in ver Giunone
Mai operai , nè si come Atamante
Contra la prole divenni fellone :
Nè uccisi il padre mio , e non amante
Della mia madre fui, la nazione
Nel sen materno indietro ritornante
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TESEIDE.
Siccome Edippo ; ni i miei fratri uccisi ,
Nè mai regno occupai , nè mal commisi.
Nè di Creonte 1‘ aspra crudeltate
Mi piacque mai , nè mai altrui )' usai :
E s' arme furon giè per me pigliate
Incontro a Pale mori , male operai ,
Ed io ben ho le pene meritate :
Ma certo i’ non le aerei prese giammai ,
Sed esso non mi avesse a ciò recato ;
Pere li’ era siccom' io innamorato.
Dunque tra neri spiriti non deggio,
Piatoso Iddio, a quel eh' io creda, andare :
lo del elei non son degno, ed io noi cheggio,
M è negli Elisi caro sol di stare :
Di ciò ti prego , e di ciò ti riclieggio ,
Sed esser può che tu mel debba fare :
So che’l farai, se, come suo', se’ pio,
E come credo , venerando Iddio.
Detto eh' ebbe cosi , con più dogliosa
Voce parole mosse , dove stava
Ippolita ed Emilia valorosa,
E i greci re e ciascuno l' ascoltava ,
E Palcmon con anima angosciosa
Tanto del tristo caso gli pesava :
Ed esso con parola vinta e trista
Disse cosi con dolorosa vista :
Or mancherà la vita , ora il valore
D'Arcita finirà, ora avrà fine
V acerbo inespugnabile suo amore ;
Ora vedrà d’ Acheronte vicine
la: triste ripe , ora saprà il furore
Delle nere ombre, misere tapine;
Ora se ne va Arcita Innamoralo
Del mondo a forza isbandito c cacciato.
Oh lasso me, che l’età giovinetta
Lascio si tosto , alla quale sperava
Ancor mostrar dov'è virtù perfetta;
Tale speranza l’ardir mi mostrava :
Oraè che troppo la Morte s' affretta ,
E più che in nessun altro in me è prava :
In me si sforza , in ver me la sua ira
Mostra quant' ella puotc c mi martira :
Dov'è, Arcila, la tua forza fuggita?
Dove son l'armi già cotanto amate?
Come non le hai , per la dolente vita
Dalla morte rampare, ora pigliate?
Oimè ch’ella s' è tutta smarrita,
Nè più potricn da me esser guidate :
Perchè ornai io me le rendo , o lasso ,
E per piò non poter oltre trapasso.
.0 bella Emilia, del mio cor disio,
0 bella Emilia, da me sola amata,
0 dolce Emilia , cuor del corpo mio ,
Ora sarai da me abbandonata :
Oimè lasso , non so mai quale Iddio
In ciò mi noccia con voglia turbata :
Chè per te sola m'è noia il morire,
Per te non sarò mai sanza languire.
Deh che farò io allora che vedere
Più non potrottl , donna valorosa ?
Seconda morte non potrò lo avere ,
Benché la cheggia per men dolorosa :
Nè so ancora che luogo mi tenere
Debba di là nella vita dubbiosa :
Ma se con Giove sanza te mi stessi.
Non credo che giammai gioia n'avessi.
Dunque angoscia n'avrò dovunque irag-
Sempre sanza di te, mia luce chiara: [gio
Nè egli mi sarà il secondo viaggio
A qui tornar concesso, o donna cara,
Come Pcleo dal suo slgnoraggio
Già mel concesse , allora ched amara
Vita traeva in Egina, lontano
Dal suo voler, bella donna , sovrano.
Lagrime sempre ed amari sospiri
Ornai attende l’ anima dolente
Per giunta, lasso, alli nuovi martìri.
Ch’avrò io forse ili tra la morta gente;
Gli qua' tanti non fien, che i mici distri
DI te veder faccian cessar niente :
Ma sempre te nell'eterna fornace
Per donna chiamerò della mia pace.
Oimè dove lascio io i cari amici ?
Dove le feste ed il sommo diletto?
Ove I cavalli , ornai fatti mendlcl
Del lor signore? ove quel ben perfetto
Che amor mi dava , qualora i pudici
Occhi d’ Emilia vedeva e l’ aspetto ?
Ed ove lascio Palemon grazioso
Meco d'amor parimente focoso?
E Pcritoo ancor, cui similmente
Più che la vita con ragione amava?
Ove li regi , c l' altra buona gente
Che loro a’ miei servigi seguitava?
Ove Teseo, nobll signor possente,
Che più che caro frate! mi onorava?
Or dove lascio li reverendo Egeo ?
Dove il mio caro c buon signor Peleo?
Certo gli lascio dove rimanere ,
S’ esser potesse , vorrei volentieri ,
In giuoco, In festa, in riso ed in piacere.
Con principi , con donne c cavalieri :
Sicché del rimaner di lor mestieri
Non m'è dolermi; ma sol mi son fieli
Gli aspri pensier, clic a me ne mostran tanti
Perder dovere , e me e tutti quanti.
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10 POEMI
Poscia ch’egli ebbe queste cose dette,
Di cor giltò un profondo sospiro
Amaramente, e di parlar ristette;
E In verso Emilia I suoi occhi s’ aprirò,
Mirando lei , e mirandola stelle
Un poco, e poscia gli rivolse in giro :
E ciascun vide che piangeva forte.
Perocché a lui s’ appressala la morte.
La quale In ciascun membro era venuta
Da’ piedi in su , venendo verso 11 petto ,
Ed ancor nelle braccia era perduta
La vital forza; sol nello Intelletto
EROICI.
E nel cuore era ancora sostenuta
La poca vita , ma gli sì ristretto
Eragli *1 tristo cor del mortai gelo,
Che agli occhi fe' subitamente velo.
Ma po’ ch’egli ebbe perduto il vedere.
Con seco cominciò a mormorare ,
Ognor mancando più del suo podere :
Né troppo fece in dò lungo durare;
Ma il mormorare trasportato In vere
Parole , con assai basso parlare ,
Addio Emilia! e più oltre non disse,
Ché l’anima convenne si partisse.
(Canto X.)
FAZIO DEGLI UBERTI.
D1TTAM0ND0
LIBRO PRIMO.
CAPITOLO I.
Non per trattar gli affanni, di' io soffersi
Nel mio lungo cainmiu , né le paure,
Di rima in rima tesso questi tersi ;
Ma per voler cantar le cose oscure ,
Ch'io vidi , ch’io udii , che son si nuove,
Che a creder pareranno forti e dure.
E se non che di ciò son vere prove
Per più e più autori , che saranno
Per i miei versi nominati altrove.
Non presterei alla peuna la mano
Per notar ciò , eh’ io vidi , con temenza
Perché non fosse da altri casso e vano ;
Ma la lor chiara e vera esperienza
MI assicura nel dir, come persone
Degne di fede ad ogni gran sentenza.
Di nostra eli sonda già la stagione ,
Che all’anno si pon poi che il sol passa
In fronte a virgo , e che lassa il leone ;
Quando m'accorsi eh' ogni vita è cassa,
Salvo che quella , che contempla Iddio ,
‘ La natura di questo poema é assai poco
determinata ; alcuno il chiamò didascalico,
ma pih che altra cosa egli è narrativo , e
0 che alcun pregio dopo morte lassa.
E questo fu , onde accesi il desio
Di volermi affannare in alcun bene,
Clic fesse frutto dopo il tempo mio.
Poi pensando nel qual , fermai la spene
D’ andar cercando e di voler vedere
Lo mondo lutto , e la gente eh’ ei dette ;
E di voler udire e di sapere
Il dove e come e chi furo coloro
Che per virtù cercar più di valere.
E imaginato il mio grave lavoro.
Drizzai i piè , come avea il pensiero ,
E cercai del cantatiti senza dimoro.
lo era ancor dentro dal mal sendero ,
Per lo quai disvialo era ilo adesso ,
Con gli occhi cliiusi , e l’ animo leggero.
Onde al partir si mi pungevan spesso
Gli andehi pruni , che come uotn stanco
Mi sedei tra più fior, che m'eran presso.
Basso era il sol, che s'accendca nei fianco
Del montone , onde io per più riposo
Tutto mi stesi sopra il lato manco.
Poscia m' addormentai cosi pensoso ,
però il poniamo fra i poemi eroici ai quali
lo accosta altresì )a continua dignità delle
idee • dello stile.
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DlTT AMONDO.
Ed appartemi cose nel dormire,
Per ch'io alla mia Impresa fui più oso.
Chè una donna vedea ver me venire
Con l’ale aperte, si degna ed onesta,
Che per esemplo appena il saprei dire.
Bianca , qual neve par, avea la vesta ;
E vidi scritto in forma aperta e piana
Sopra una coronetta, che avea In testa ;
lo son Virtù, per cui la gente umana
Vince ogni altro animai; io son quel lume.
Che onora il corpo , e che 1* anima sana.
Molte donne, aleggiando in varie piarne.
Si vedean tranquillar ne’ suoi splendori,
Come pesci d’estate in chiaro fiume.
E giunta sopra me, tra quei bei fiori ,
Parca dir : Non giacer, anzi sta suso,
E il tempo, ch’hai perduto, si ristori.
Non più restare In questo bosco chiuso,
Non più cercar di su la mala spina
Coglier la rosa , siccome se’ uso.
Pensa, che qual più là giù peregrina,
Da poi che giunge all’ ultimo di suo ,
11 lutto gli par mcn d’ima mattina.
E fame, e sete, e sonno al corpo tuo
Soffrir convien , se onore c prò desiì ,
E seguir me, che qui tcco m’ induo.
E guardar ben , che più non ti desvii :
Pensa , si come 1 compagni d’ l’ilsse
Fur con Circe, onde a pena lo li partii.
E pensa ancor come perduto risse
Con la sua Cleopatra oltre a due anni
Colui , a cui ’l Roman , prima voi disse.
Onor si acquista per soffrire affanni.
Purché l’affanno sia in cosa degna,
E darsi all’ozio è vergogna con danni.
Ancora fa che sempre U sovvegna
Aver di sofferenza buone spalle ,
Siccome Job e Jacob ne insegna.
Perchè se vuoi veder di valle in valle
11 mondo tutto, senza lei non puoi
Cercar di mille il ventesimo calie.
Qui non spiar per tema 1 fati tuoi ,
Se non come Catone In Libia volse
Chieder responso , pregato da’ suou
Tutti non son Papirio. Indi si tolse,
E spirò nel mio petto, e non si mosse;
Onde il mio sonno appunto si disciolse.
Come la sua virtù nel cor percosse.
CAPITOLO II.
Dal sonno sciolto e sviluppato m’ era ,
Quando udii risonar tra verdi rami
La dolce melodia di primavera.
Al vago canto subito voltami.
Rimembrando il piacere , il gran valore .
Per Io qual già soffersi e seti e fami.
Qui provai io il ver, che poiché amore
S’ è barbalo nel core , a gran fatica
Si può schiantar, che non germogli il fiore.
Ma pur non punse si la dolce ortica ,
Ch’ io non tornassi a quel desio proposto,
Del qual in me già granava la spica.
E , come meco fui altresì tosto ,
Tolsi l’udir da quel soave canto.
Tolsi l’imaginar, ch’io v’avea posto.
E levai gii occhi , e vidi che già tanto
Era alto il sol, che sopra l’orizzonte
Parca salito II tauro tutto quanto.
Poi ritornai verso terra la fronte.
Per rimembrare il sogno , e le parole
Di questa donna siccome le ho conte.
E chi se dò mi piacque Intender vuole.
Pensi quanto fu lieto allor Joseppo ,
Che ’l sogno fc’ delia luna e del sole.
I’mi levai diritto sopra nn ceppo.
Per divisar qual fosse il mio cammino ,
E d’ ogni parte ni’ era il bosco e il greppo.
E come avvien talora ai peregrino,
Ch’ha perduta la strada, e che non vede
Cui dimandare, nè per sè è indovino;
Che ricorre a quel Ben , eh’ egli ama e
E , con pura e devota intenzione , [crede,
E consiglio e soccorso gii richiede.
Cosi mi posi allora in ginocchione ,
Le mani giunte , e con fermo desio
Incominciai colale orazione :
0 somma , o prima luce , o vero Iddio,
Che in Ararat salvasti , e dirigesti
L’ arca , c Noè , quando ogni altro pedo ;
E il popol tuo del mare a piè traesti.
Nutricando! di manna infin che appresso
Nella terra promessa il conducesti ;
E che a Tobia Rafael per messo
E per guida mandasti , onde pervenne
A più, che il padre non gli aveva coni*
messo;
E che Abraam salvasti, quando tenne
Per campar Loto , dietro degli Siri
Con la gran fede , e con le poche penne.
Fa, che per grazia tanta luce spiri
Dagli occhi tuoi ne’ miei , che scusa velo
Del mondo i’ scorga tutti quanti i girl.
Te padre, Invoco, te fattor del cielo
Come solean gli antichi a sii» il peso
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POEMI EROICI.
li
Chiamar Apollo, Jupiter, e Belo.
E come l’ slava al prego si sospeso ,
Agli occhi un lume subito m’apparve,
Qual par balen, che vien per l’ acre acceso.
E giunto altresì tosto via disparve.
Vero è, ch’esso apparendo, in mia presenza
lina voce, che disse, udir mi parve :
Paura, vanitate e negligenza,
Fa, che tu sdegni, ed in cui pregiti, spera,
Se vuoi , di quel che brami , esperienza.
Cosi la grazia delia somma spera
M' aperse l’ intelletto oscuro e bruno ,
Confortando la donna , clic quivi era.
E dove pria pur era bosco e pruno,
Vidi si sciolta ed aperta la strada,
Ch’ i’ rendei grazie a Quel eh’ è tre ed uno.
0 vivo amore ! Come cieco bada ,
Qual fugge (e , e pone sua speranza
Nei ben mondan, che son men clic rugiada!
Lettor, pensa per te, quanta baldanza
A seguir la mia impresa presi allora,
Chè non tei saprei dir per simiglianza.
Su mi levai, c più non fei dimora,
E trovai me a seguitar la voglia
Tanto legger, che me ne segno ancora.
Non spino ai piè , nè anco agli ocelli fo-
M1 Iacea noia , orni’ io seguiva il passo [glia
Senza fatica alcuna c senza doglia.
Dinanzi ad una croce, a piè d'un sasso
Un romito trovai, che nell' aspetto
Per lunga etade era pallido c lasso.
La bianca barila gli listava il petto ,
E i cigli tanto gli cadovan gioso,
Che gli erano alla vista gran difetto.
0 padre , che vi stale si nascoso
In questo bosco in tanta penitenza,
Solo per acquistar l’alto riposo,
Da poi che Dio nella vostra presenza
Condotto ni' ha da loco si lontano ,
Piacciavi darmi di voi conoscenza.
Cosi il pregai , ond’ elio con la mano
Le ciglia prese , e la vista scoperse ,
Poi mi guardò con volto onesto e piano.
Appresso disse : Da parti diverse
Son qui venuto, qual piace a Colui,
Che per noi morte In la croce sofferse.
Paulo è il mio nome, e onde, c chi gii fui,
Di più non dico ; ma tu come vai
Si sol per questi boschi oscuri , c bui ?
La vita , e la mia mossa io gli narrai
A parte a parte , ond’ egli a me ne venne ,
E con dolci parole e care assai
La notte seco ad albergar mi tenne.
CAPITOLO III.
Entrati nel suo povero abitacolo ,
Sarebbe lungo a dir le cose strane ,
Ch'ei mi contò d’ uno in altro miracolo.
I j cena nostra fu solo acqua e pane ,
E il letto d’orso una pelle pelosa;
E cosi stemmo Dno alla domane.
Era la mente mia grave e pensosa ,
Volendo ricordar ciascun peccato.
Che fatto i’ avea nella vita noiosa.
Quando quel padre , eli’ era già levalo
Per dir sue ore, mi disse : Che hai,
Clic si sospiri, e mostri tribolato?
Ed io risposi : Ilo dei peccati assai ,
Dubbiosi e grav i ; e mi tacciti appresso.
E nel tacer languendo lacrimai.
In questo tuo cammin se' tu confesso?
Risposi : No ; ma trovandomi vosco ,
Questo era quel, di eh’ io piangeva adesso.
Figliuol mio, disse , il mondo è come un
Pien di serpenti e di fieri animali , [bosco,
E ciascun porla (svariato tosco;
E noi siam tutti mobili e mortali .'
Onde vegliar conviene, c stare attenti,
Per sapersi guardar dalli lor mali.
Se il primo nostro e de’ nostri parenti
Padre avesse provveduto a questo ,
Ei ci vedrebbe liberi c conienti.
Ma di’, chè al tuo voler son fermo e
Ed lo al suo voler tutto devoto, [presto.
Ciascun peccato gli fei manifesto.
Ma poiché di me fu ben chiaro e noto,
Dicmmi la penitenza tanto dura.
Quanto voleva a lavar tanto loto.
Giù venia il sol per alcuna fessura
Del romilor, quando per camminare
Mi apparecchiava, e dovami rancura.
Quand’ei mi disse : Dimmi, che vuoi
Io gli risposi : Alleviar quel carco, [fare?
Che scarcar mi convien sol coll’ andare.
Tu credi forse , che quinci sia un varco
Sccuro, come se fossi a Vinegia,
E dovessi ir da Rialto a San Marco?
Già fu cosi, ma tal più non si pregia :
Chè per tutto le strade son qui tronche.
Coperte d’ erba c di prun clic le fregia.
II monte Gif non ha tante spelonche,
Quante si trovan per questo cammino.
Nè tante oscure , nè profonde conche.
E non dir, i' son povcr peregrino,
Chè i bacherozzo! non guardano a quello.
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DEL D1TTAM0NDO,
Purché porean far male a lor domino.
Per lutto posso dir, eh’ è baccanello,
E però la tua voglia qui sia stretta ,
Tanto che attempi il sol , che vicn novello.
Chè molte volte l’uom per troppa fretta,
Volendo far, disfi; e dico ancora,
Che quel sa guadagnar, che tempo aspetta,
0 chiaro lume mio, risposi allora.
Poco sapria , chi dal vostro consiglio
Si dilungasse il minuto d' un'ora.
E cosi per fuggir morte e periglio,
Credetti a lui , come credere de’
Ammaestrato da buon padre il figlio.
Dolce diletto c caro ancora m' è,
Quando rimembro le sante parole ,
Che allor mi disse della nostra fé.
Già era al cerchio di meriggio il sole,
Quando parlai con grande reverenza :
L’andar mi sprona, e ’l partire mi dote.
Quel padre pien di tutta conoscenza
M’ intese , e disse con soave voce :
Tempo è bene ornai per mia credenza.
Indi mi trassi al sasso della croce ,
Gli occhi portando ove il cammino mio
Mi divisò di una in altra foce.
Devotamente il commendai a Dio;
Ed egli ; Or va , che come salvò Elia
Nel carro, si te salvi al tuo desio.
Mlsirai allor per la mostrata via ,
Avendo sempre attenti gli occhi e ’l viso,
Se alcuna cosa avanti m' apparta.
E mentre ch'io guardava tanto fiso,
lina femmina scorsi assai da lunge
SI sozza, ch'io ne fui quasi conquisd.
E come avvien, che la paura punge
L' uom talor, si che tragge il sangue al coro,
E l’ altre vene per lo corpo munge;
E da poi eh' è ristretto il suo valore ,
In fra sé di sé stesso si rimembra ,
Onde racquista il perduto colore ;
Si persi lo il sangue per le membra
Subitamente , c poi cosi raccolsi
In me virtute con colore insembra.
E quanto i passi miei più ver lei volsi ,
Ed ella i suoi ver me , vieppiù brutta
A membro a membro la sembianza colsi ;
Pensa, qual parve a figurarla tutta.
CAPITOLO IV.
Siccome presso fui a quella strega ,
Vidi la faccia sua livida c smorta,
Qual preso pare, a cui le man si lega.
Vecchia mostrava e in su le gambe
Arricciava la carne c ciascun pelo, [storta,
Come porco per tema talor porla.
Tutta tremava, e nelle labbra un gelo
Mostrava tal, che non copriva i denti.
Ed era scapigliata c senza velo.
Gli occhi smarriti in qua e là moventi
Avca la trista, e cosi sbalordita
Borbottando dicea : Perché consenti ,
Perchè consenti a perder la tua vita ?
Certo tu ne morrai, se non t'avvedi
Di lasciar questa impresa tanto ardita.
Non per morir, ma per campar mi diedi
A seguir tanto ardire , e da più senni
Confortato ne son , che tu noi credi.
Ben so chcal mondo per tal patto venni,
Ch’io dovessi morir, c bene stimo
Che contro ciò tutti I pensicr son menni.
E si so ancor, ch'io non sarò il primo
Nè ’l derctan , che de’ far questa via ,
Chè tutti ne comici! tornare al limo.
E bestiai cosa sarebbe e follia
Di temer quel, che non si può fuggire.
Questa colai fu la risposta mia.
Ben io t' ho inteso, ma tu non del Ire,
Sperimentando si la tua ventura,
In estrani paesi per morire.
Oh , rispos’ io , già non è più dura
Di fuor la morte, che in casa si senta.
Ed ella : Tu non avrai sepoltura, [menta,
Questo che fa? Chè il corpo non tor-
Nè trova cosa , clic gli faccia guerra ,
Poiché la luce sua del tutto è spenta.
E se non fia coperto dalla terra.
Il cielo il coprirà; nè con più degno
Coperchio nlun corpo mai si serra.
Trovo non fu delle tombe lo ingegno,
Acciocché i morti ne avesser dolcezza ,
Ma per 1 vivi , eh’ è d' onore un segno.
Dissemi allor : Morrai in giovinezza.
Per eh’ io risposi : Questa è minor doglia ,
Che l'aspettar di morir in vecchiezza.
Chè allor fa buon morir quando si ha
Di viver, e quel viver tengo reo [voglia
Dove l’ uom senso a senso si dispoglia.
Di ciò s’ avvide il forte Macabeo ,
Di ciò s' avvide il forte Greco , il Magno,
E il buon Troian clic tanto d'arme feo.
Il ben morire è al mondo un guadagno,
E il viver male è peggio che la morte ;
Faccia uom che de', e non si dia più lagno.
E quella a me : E tu puoi per tal sorte
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14
POEMI EROICI.
Cadere In povertate infermo e frale ,
E non sarà chi ti aiuti e conforte.
Di questo , rispos* lo , poco mi cale ,
Chè delle due converrà esser 1* una ,
0 il mal vincerà me , o io il male.
La povertate e i ben della fortuna
Per tutto veggio ; e trovo 1* un di grande
Tal che poi l’altro con fame digiuna.
Già fu chi visse di fronde e di ghiande :
Nostra natura, quando si contenta.
Poco cura di veste o di vivande.
Più son le cose, onde P uom si spaventa,
Che pur non fanno mal , che quelle assai
Che con danno c percosse lo tormenta.
Ed ella a me : Or pensa , se tu vai
In luogo acerbo, strano e sconosciuto
E non sappi la lingua, che farai?
Le mani e l piè natura per aiuto
Mi ha dato, dissi, e l'argomento tutto,
Perchè sarò i' più là, che qui un muto.
Ed ella : Vuo'tu un buon consiglio a-
Pensa di vi ver qui, e stare in pace, [sdutto?
E di quel , eh' hai, prendi diletto c frutto.
Lo tuo parlar, rispos' lo, non mi piace,
Però ch’egli è consiglio da cattivo.
Che mangia e beve c sulla piuma giace.
Chè 1' uom non de' pur dir, i* pappo,
Come nel prato fan le pecorelle ; [e vivo,
Ma cercar farsi , dopo morte , divo.
Ornai va via , chè delle tue novelle
Ammaestrato fui, e, poi m’annoia
Ch' hai le fazìon che non somiglian belle.
Poiché la si pardo dolente e croia,
Ed i’ rimasi , qual riman colui ,
Che fa fra sè di sua vittoria gioia ,
E poiché sviluppato da lei fui.
Lettor, e vidi me disciolto e libro,
Presi il cammin tanto dubbioso altrui,
Come vedrai dal terzo al sesto libro.
CAPITOLO V.
Come il nocchicr, cb’è stato In gran
tempesta ,
Che se vede da lungi piaggia o porto ,
Affretta i remi, e fa letizia e festa;
Cosi arcnd’io da lontano scorto
Uno, in ch’i' sperava alcun consiglio,
Accrebbi i passi con lieto conforto.
Appena era ito un terzo di miglio,
Ch* lo gli fui presso, e tanto il vidi degno,
Che l* Inchinai con la man sopra il ciglio.
Poco del corpo, lettor, tei disegno,
Bianco era e biondo, e la sua faccia onesta,
Con piccoletta bocca, « d’alto ’ngegno.
Qual vuol Mercurio , tal parca la vesta,
Un libro avea nella sinistra mano,
E nella dritta lenoa una sesta.
E giunto a me costui, più che umano
Rispose al cenno, e disse : In chi ti fidi ,
Che vai si sol per luogo si lontano?
Senno non fai , se non hai chi ti guidi.
Perocché tanto è diverso il cammino ,
Che più appena alcun giammai ne vidi.
Per cercar, mi son mosso peregrino.
Del mondo quel che ne concede II sole,
E più , se 11 poter fosse al mio domino.
E qual non può In tutto ciò che vuole ,
Far gli convlen secondo eh’ ha la possa.
Cotal risposta fon le mie parole, [mossa
Poi soppraggiunsl a lui : Questa mia
Non credere si lieve, che per fermo,
Udendo il ver, non tl parrà si grossa.
Perchè a fuggir la morte , ov’era infer-
ii ardir mi prese , che a follia tenete , [mo,
E per consiglio l’ebbi d’altrui sermo.
l’non avea d* udirti si gran sete,
Quando eh’ I’ tl scontrai, qual mi seni* ora.
Che m’ hai preso il pensler in altra rete;
E però non t’ incresca dirmi ancora
Più chiaramente, acciocché me’ compren-
Dovc tu vai ; e un poco qui dimora [da,
E se starai , non creder clic si spenda
Indarno il tempo, e foni’ è tua ventura
Avermi qui trovato, c ch’io t’intenda,
Ch’ io so del mondo il modo e la misura,
E so dei cieli , c sotto quale clima
Andar si puote, c dov’è gran paura.
0 caro padre ! Il tempo non sì stima
Per me , dissi , com’ è vostra credenza
E quanto piace a voi , fia la mìa rima.
Allor gli feci in tutto conoscenza
Del lungo tempo mio senza fren corso,
E senza lume , e senza provvidenza ;
E come me vedendo tanto scorso ,
Vergogna ed ira punse lo ’ntellctto,
E fu del fallo mio grave il rimorso ;
E che per ristaurar tanto difetto,
E non morir nel mondo come belva,
Presi H cammin colai , come ho già detto ;
Poi come dentro della trista selva
Una donna gentil m’era apparita,
E destò il cor, il quale ancor s’inselva.
Tutta gli dissi appunto la mia vita, [sa
Ond’egli a me : Figli uol, questa tua hnpre-
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DITTAMONDO.
Assai mi par da essere gradita.
Ma guarda , che tu sia di tanta spesa
Fornito, quanta a tal cammin bisogna ,
Si che il troppo voler non torni offesa.
Cbè spesso avvicn, eh’ uom riceve ram-
pogna
Di folle impresa , onde sarebbe il meglio
Lasciarla star, ebe portarne vergogna.
Ed lo a lui : Pur mo’a ciò mi sveglio,
Come v' ho detto , e seguirò nei core
La pecchia per esempio , e per (speglio ;
Che va cogliendo d’uno in l’altro fiore
La dolce manna per luoghi diversi ,
Di che poi vive, c donde acquista onore.
Cosi pens’io per paesi sporsi
Ragunare con pena e con fatica [versi.
Quel mcl, che a me sia dolce ed al miei
Quando nell’ uomo un buon voler s’abbl-
E mancagli il poter, rispose adesso, [ca
Alar si de’, come la cosa amica, [messo,
E però all’ alta impresa , in che sei
Giovar ti voglio di alcuna moneta ,
Si die ti aiuti a tempo per te stesso.
D' alpi , di mari , e di fiumi s’ Inreta
La terra, perchè l’uomo alcuna volta
G è preso, come verme, che s' inseta.
Onde se non t’annoia, ora m’ascolta.
Sicché se trovi manco d’ alcun passo ,
Veggi da lo perchè la via t’è tolta.
Cosi come a lui piacque, fermai ’l passo.
CAPITOLO VII.
Poich'Io mi vidi rimaso si solo.
Presi a pensar, sopra I dubbiosi carmi ,
Il gran cammin dall’ uno all' altro polo.
E ricordando, non sapea che farmi,
I molti rischi e la si lunga via,
0 dell' andar innanzi , o delio starmi.
Quando la douna, che mi destò pria
Nel tristo bosco, mi disse : Che pensi?
Fa quei che dei , e poi ciò che vuol sia.
Sempre il cattivo da vili e melensi
Pensieri è vinto, e tal costui è detto,
Quale una bestia , eh’ abbia manchi I sensi.
Così cotesta cacciò dal mio petto
Ogni paura , come da Boezio
Filosofia le triste dal suo letto, [screzio
Spento ogni mio pensler che motea
E dubbio al mio andar, subito presi
Consiglio tal , del quale ancor mi prezio.
Ond’ lo co! core e con gli occhi sospesi
16
Chiamai a giunte mani In verso il ciclo
Colui , che mai non ebbe di uè mesi.
0 sempre uno e tre , a cui non celo
Il gran bisogno , e l’ acceso destre ,
Perocché tutto il vedi senza velo!
Soccorrimi , chè solo non so ire.
Ed appena ebbi finito quei prego,
Ch’Io mi vidi uno dinanzi apparire.
Qui con più fretta I piedi a terra frego
Inverso lui, e poiché mi fu chiaro,
Con riverenza tutto a lui mi piego.
Con un vago latin onesto e caro,
Dimmi chi se’, mi disse, e dove vai?
Poi gli occhi suol In poco s’abbassaro.
Com’ei si tacque, cosi incominciai;
10 mi son un novellamente desto.
E ’l dove c ’l quando , tutto gli narrai.
Appresso anello gli feci manifesto
Dì quel romito, a cui la barba lista,
Cli' era a veder si vecchio e tanto onesto.
Poi della scapigliata magra e trista.
La qual per dare sturbo alla mia impresa,
M’era apparila con si orribil vista :
E siccom’lo dopo lunga contesa
L'avea cacciata, e trovato colui,
11 qual del mondo I dubbj mi palesa :
E che poiché partito da lui fui,
L’Impresa mia si facea vile c scema :
E il conforto eh’ lo presi ; e ciò da cui.
Ciascun d' entrar nella battaglia ha
tema ,
Se non è matto, e quello è più pregiato,
Che poiché v’è, più vede e meno trema.
Ma non dubbiar, poiché m' hai qui
trovato.
Ch'io non ti guidi per tutto 11 cammino,
Purché dal Sommo il tempo ti sia dato.
Così mi disse , ed lo : 0 peregrino ,
Dimmi , chi se’ ? Ed el rispose adesso :
Anticamente fui detto Solino.
Solin, diss'io, sc'tti quel proprio desso,
Che divisò 11 principio, li fine, il mezzo
Del mondo e l' abitato , e ciò eh’ è In esso ?
Colui son io. Onde allora un ribrezzo
Colai mi prese, qual lalor li verno
A chi sta fermo mal vestito ai rezzo.
Per meraviglia al padre sempiterno
Mi trassi , e dissi : Indarno onor procaccia.
Qual te non prega c vuol per suo governo.
Poscia rivolsi al mio Solin la faccia,
E dissi : 0 caro, o buon soccorso mlol
Del tutto qui mi do nelle tue braccia.
Senza più dire allora ci si pardo ,
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18 POEMI
Ed io appresso , sempre dande ’l loco ,
Acceso caldamente d’ un desio.
Orni’ egli accorto : Per sfogare il foco ,
Mi disse , fa die svampi fuor la fiamma ,
Cliè l’andar sema il dir varrebbe poco.
Allor, come il flgliuol che alla sua mani-
Con riverenza parla, dissi : 0 sole, [ma
In cui non manca di mia voglia dramma ;
Quel che da te prima l’ animo vuole.
Sì e d’aver partito per rubrica
11 mondo; e queste fur le mie parole.
Ed egli a me ; Nella mia età antica
Tutto il notai, bench'ora mal s’incappa
L' noni , perchè non intende quel di' lo
E però loco formerò una mappa , [dica.
Tal che l' intenderanno, nn i che tue,
Color che sanno appena ancor dir pappa.
Acciòchc andando listarne purnoi due,
E trovandoci a’ porti ed alle rive ,
Sappi , quando saremo giù c sue.
E tu , coni' io lei conto, tal lo scrive.
CAPITOLO XI.
Ili breve I' ho assai chiaro discoperto
Del mondo l’abitato, c come giace;
Benché ’l veder te ne farà più spedo.
Cosi mi disse , ed io : Forte mi piace
Il tuo parlar; ma in più d' un punto bra-
che lo'nlellctlo mio riposi in pace, [mo,
Dimmi : Quel luogo , onde cacciato Ada-
Con Èva fu , dov’ è , chè tu noi poni [mo
Nè sulla terra , nè mostri alcun ramo ?
Ed egli a me : Diverse opinioni
State vi son , ma suso in Oriente
Per la più parte par che si ragioni.
E questo è un monte ignoto a tutta gente
Alto, che giunge sino al primo cielo,
Onde il puro acre il suo bel grembo sente.
Quivi non è giammai freddo nè gelo ,
Quivi non per fortuna onor si spera ,
Quivi non pioggia, o di nuvolo è velo.
Quivi è F arbor di vita , e primavera
Sempre con gigli , con roso c con fiori ,
Adorno c picn d’una e d'altra riviera.
Quivi tanti piacer di vaghi odori
Vi sono , c tanta dolce melodia ,
Che par che quel che v’è vi s’innamori.
Vecchiezza c infermità non sa che sia
Giammai colui , che dentro ivi giunge :
E questo prova Enoc ed Kli^ [ punge.
Ma muovi i passi ornai, ch'altro mi
EROICI.
Ed lo : Va pur, chè dietro alle tue spalle
Non mi vedrai più d' un passo da lunge.
E così mi guido di calle in calle
Tanto , che noi giugnemmo sopra un fiu-
Che si spandea per una bella valle ; [me ,
Sopra la quale per lo chiaro lume
Del sol, eli' era alto, ivi una donna scorsi:
Vecchia era In vista, e trista per costume.
Gli occhi da lei, andando, mai non torsi ;
Ma poiché presso le fui giunto tanto ,
Ch’io l'avvisava senza nessun forsi.
Vidi 11 suo volto , eh' era picn di pianto.
Vidi la vesta sua rotta e disfatta,
E raso c guasto il suo vedovo manto.
E con tutto che fosse cosi fatta ,
Pur nell' abito suo onesto e degno
Mostrava uscita di gentile schiatta.
Tanto era grande , c di nobil contegno,
Ch’ io diceva fra me : Ben fu costei ,
E pare ancor da posseder bel regno.
Maravigliando più mi trassi a lei,
E dissi : Donna , per Dio non vi noi
Di soddisfare alquanto a’ desìr miei;
Ch' io riguardo dall' una parte voi ,
Che negli alti mostrale si gentile ,
Ch' io dico : il elei qui porse i raggi suoi.
Poi d'altra parte parete si vile.
Si dispregiala , c con nero vestire ,
Che mio pcnsler rivolgo ad altro stile.
Qual piange sì, che vuole e non può dire,
Cosi costei alquanto si disciolse
Bagnandosi nell’ acqua del martire :
Ma poiché il core alquanto lena colse ,
E che sfogata fu la molta voglia,
SI rispondendo inverso me sì volse :
Non ti maravigliare s'io ho doglia ,
Non ti maravigliar se trista piango ,
Nè se me vedi in si misera spoglia ;
Ma fatti maraviglia, ch’io rimango,
E non divento, qual divenne Ecuba,
Quando gitiava altrui le pietre e il fango.
Perchè men suon non diè già la mia tuba,
Nè minor fui di sposo c di figliuoli.
Nè meno ho sostenuto danno c ruba.
Onde quando mi trovo in tanti duoli ,
E ricordo lo stalo in che già fui ,
Clic governava il mondo co' miei stuoli ,
Piango fra me, chè qui non ho con cui.
Ori’ ho risposto a quel , che mi chiedesti,
Forse con versi troppo chiusi e bui.
Se quel clic tutto regge ancor vi presti
Tanto di grazia per la sua piotate ,
Che degli antichi onori vi rivesti ,
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DEL D1TTAM0ND0. IT
Fatemi ancora tanto di bontale,
Ch’io oda, come in vostra giovinezza
Foste cresciuta in tanta degnitate ,
E fino a cui salio vostra grandezza ,
E la cagion perchè da tanto onore
Caduta siete in cotanta bassezza.
Questo prego le fcì con tanto amore ,
Ch'ella rispose : Al tuo piacer soli presta,
Ma non Se il ricordar senza dolore.
Poi cominciò , e la Torma Tu questa :
CAPITOLO XII.
Nel tempo che nel mondo la mia spera
Apparve in prima qui dove noi stiamo ,
Dopo il diluvio ancor poca gente era.
Noè, che si può dire un altro Adamo,
Navigando per mar giunse ai mio iito,
Come piacque a Colui , eli’ io credo ed
E tanto gli Tu dolce questo sito , [amo ;
Che per riposo alla sua fine il prese
Con darmi più del suo, eh' io non ti addilo.
Giano appresso a dominarmi intese,
E costui mi adornò d' una corona ,
Insieme con Jafet e con Camese.
Italo poi un'altra me ne dona.
SI Te’ Saturno , che di Creti venne ,
Lo qual molto onorò la mia persona.
Ercole , quel che nelle braccia tenne
Paliante , per lo suo valor, non meno
Che gli altri , fece ciò che si convenne.
Evandro con gii Arcadj ricco e pieno
Una ne fabbricò nel nome mio ,
Maggiore assai che gii altri non mi feno.
Roma , A ventino , e Glauco non oblio ,
I quai men fenno tre , tal che ciascuna
Per sua beltà in gran pregio salio.
E si ni’ era allor dolce la fortuna ,
Che da Oriente a me venne il re Tibrl ,
Al quai piacendo ancor, me ne fe' una.
Ma perchè d’ogui dubbio ti dclibri ,
E sappi ragionar, se inai t'alfroiui
Con genica cui diletti legger libri,
Piacemi ancor che piu chiaro ti conti.
Sappi , queste corone eh' io ti dico ,
Mi fur donate dentro a sette monti.
Ma qui ritorno a Giano mio antico ,
Del qual ti ho dello , che dopo Noè
Gli piacque il luogo dove i’ mi nutrico.
De' Latin fu costui il primo re ,
Pien di scienza c cotanta virlute.
Che di molte gran cose al mondo fè.
Costui trovò le gemi si perdute
D’ogni argomento, che a fredde vivande
Vivevan , come bestie matte e mute.
Chiare fontane ed erbe crude e ghiande
Eran lor cibo , ed abitavan sparti
A libilo ne' boschi e per le laude.
Esso li raguuò da tutte parti ,
E raddrizzolli nel vivere alquanto,
Mostrando loro e disgrossando Farli.
Della sua morte si fece gran pianto ,
Sette e venti anni regnò, e tra lor era
Tenuto, come è or fra noi un santo.
E s'io debbo seguir ben mia matera ,
E del caldo desio , del quale asseti ,
Trarli la brama, come 1’ hai, intera.
Dir mi conviene siccome da Creti
Saturno sen foggio e venne a Giano,
Perchè il figliuol noi prendesse in le reti.
Crudele e pronto a mal tratto villano ,
Avaro , si che sempre il pugno serra ,
Costui dipingo e con la falce in mano.
Tre figliuoli ebbe, lddii nomati In terra,
Nettuno l’un, qual si dice marino.
Dal mar sorbito nella trista guerra;
L’altro fu Pluto, del quale il destino
Fu tal , che avendo un paese in governo
Sabatico, boscoso e pellegrino ,
Lo padre suo per gola , s’ io dlscerno ,
Del regno, il fe' morire a tradimento ,
E nominato fu Dio dell’inferno;
Giove regnava, secondo ch’io sento.
Sotto l'Olimpo, che pria prova il gelo
Cheli sol del tutto a Virgo scaldi T mento.
Costui , perdi' ebbe ognor diletto e zelo
Nell'alto monte, ed attese a virtute.
Si disse dopo morte il Dio del cielo.
Ora vedendo le mortai ferule
De' suoi fratelli , il padre cacciò via ,
Si per vendetta c si per sua salute.
Di qua fuggio , come ti ho detto pria ,
Nascoso stava , e quando Gian niorio ,
Rimase solo a lui la signoria;
E benché fosse tanto avaro e rio ,
Nondimen era scaltro ed intendente,
E sottil molto ad ogni macslrio.
Costui mostrò di far navi alla gente ,
Scudi , moneta e di terra lavoro ,
Che prima ne sapean poco o niente.
A questa età si disse età dell' oro,
Perchè la gente viveva in comuno
Sobria , casta e libera fra loro ,
Semplice, pura c senza vizio alcuno.
POEMI EROICI.
1»
Ora Io cielo che ogni cosa chiama
Ad ordinato tempo , li suoi lumi
Volse Ter me per darmi onore e fama.
I due gemelli che per bei costumi
Nomare potrei Castore e Polluce ,
E di beltà, per quei eh" avviso, numi,
S’ innamorar della mia bella luce ;
Ma I" un fu morto , e qui si tace il come ,
L’ altro rimase sol signore e duce.
Dal nome di costui presi il mio nome :
E certamente il primo sposo fuc.
Che sentisse il piacer del mio bel pome.
Tonando la tempesta cadde gine ,
E comcchò rapito o morto fosse ,
I’cr me dappoi non si rivide piuc.
Se di lui m" arse il core , e se mi cosse ,
Pensar lo dei , cliè a dirlo sarebbe
Un ri novare duolo alle mie angosce,
E dir non lei saprei , si me n' increbbe.
POLIZIANO.
STANZE
PER LA GIOSTRA DEL MAGNIFICO
GIULIANO DI PIERO DE’ MEDICI.
LIBRO PRIMO.
Le gloriose pompe c 1 fieri ludi
Della città che "1 freno allenta c stringe
A" magnanimi Toschi ; e i regni crudi
Di quella Dea che "1 terzo ciel dipinge ;
E 1 premj degni agli onorali studi ,
La mente audace a celebrar mi spinge ,
Sì che i gran nomi, c 1 fatti egregi e soli
Fortuna o morte o tempo non Involi.
0 bello Dio, eh’ al cor per gli occhi spiri
Dolce desir d" amaro pensicr pieno ,
E pasciti di pianto e di sospiri ,
Nutrisci l’ alme d’ un dolce veneno ;
Gentil fai divenir ciò che tu miri ,
Ni può star cosa vii dentro al tuo seno ;
Amor , del quale i’ son sempre suggello ,
Porgi or la mano al mio basso intelletto.
Sostlen tu ’l fascio die a me tanto pesa ;
Reggi la lingua, Amor, reggi la mano;
Tu principio, tu fin dell'alta impresa:
Tuo fie l’ onor ; s' io già non prego invano.
Di’ Signor , con che lacci da te presa
Fu l' alta mente del baron toscano ,
Piò gtoven figlio dell'etnisca Leda;
Che reti fumo ordite a tanta preda.
E tu , ben nato Laur , sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa ,
Nè teme i venti , o '1 minacciar dei deio ,
0 Giove irato in vista più crucciosa ,
Accogli all’ ombra dd tuo santo ostdo
La voce umil , tremante , e paurosa ;
Principio e fin di tutte le mie voglie ,
Clic sol vivon d’ odor delle tue foglie.
Deh sarà mai che con più alle note.
Se non contrasti al mio voler fortuna ,
Lo spirto delle membra che devote
Ti fur da' fati insin già dalia cuna ,
Risuoni tc dai Numidi a Boote,
Dagl’Indi al marche '1 nostro ciel imbruna;
E, posto '1 nido in tuo felice tigno,
Di roco augel diventi un bianco cigno T
Ma fin eh' all* atta impresa tremo e bra-
E son tarpati i vanni al mio disio , [mo ,
Lo glorioso tuo fratei cantiamo ,
Che di nuovo trofeo rende giullo
il chiaro sangue , e di secondo ramo.
Comien che sudi in questa polverio:
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STANZE.
Or muori prima tu mie' versi , Amore ,
Che ad alto volo impenni ogni vii core.
E se quassù la lama Q ver rimbomba,
Che d* Ecuba la figlia , o sacro Achille ,
Poi che '1 corpo lasciasti entro la tomba ,
T accenda ancor d' amorose faville ;
Lascia tacer un po' tua maggior tromba,
Ch'Io fo squillar per l’ italiche ville ,
E tempra tu la cetra a nuovi carmi ,
Mente' io canto l' amor di Giulio, e Tarmi,
Nel vago tempo di sua verde elale.
Spargendo ancor pel volto 11 primo fiore.
Nè avendo il bel Giulio ancor provale
Le dolci acerbe cure che di Amore ,
Vivessi lieto in pace. In liberiate,
Talor frenando un gentil corridore ,
Che gloria fu de' ciciliani armenti ;
Con esso a correr contendea co’ venti :
Ora a guisa saltar di leopardo ,
Or destro fea rotarlo in brievc giro :
Or fea ronzar per l' aer un lento dardo ,
Dando sovente a fere agro martiro :
Colai vivessi '1 giovane gagliardo :
Nè pensando al suo fato acerbo e diro,
Nè certo ancor de’ suol futuri pianti,
Solea gabbarsi degli afflitti amanti.
Ab quante Ninfe per lui sospiromol
Ha fu si altero sempre li giovinetto.
Che mai le Ninfe amanti Io plcgorno ;
Mal poli riscaldarli *1 freddo petto.
Pacca sovente pe’ boschi soggiorno ;
Incubo sempre , e rigido In aspetto :
Il volto difendea dal solar raggio
Con ghirlanda di pino, o verde faggio.
E poi quando nel del parean le stelle ,
Tutto gioioso a sua magion tornava ,
E ’n compagnia delle nove Sorelle ,
Celesti versi con disio cantava ;
E d’ antica virtù mille fiammelle
Con gli alti carmi ne' petti destava :
Cosi chiamando amor lascivia umana ,
Si godea con le Muse , o con Diana.
E se talor nel cieco labirinto
Errar vedeva un miscredo amante.
Di dolor carco, di pietà dipinto
Seguir de la nemica sua le piante;
E dove Amore il cor gii avesse av vinto ,
Li pascer l’alma di due iud sante ,
Preso nelle amorose crudo! gogne ;
Si l’ assaliva con agre rampogne :
Scuoti, meschin,da! petto il cieco errore
Ch'a le stesso ti fura, ad altrui porge:
Non nutrir di lusinghe un van furore
Che di pigra lascivia e d’ orlo sorge.
Costui che 1 volgo errante chiama Amore,
È dolce Insania a ehi più acuto scorge.
Si bel tftol d' amore ha dato 'I mondo
A una deca peste , a un mal giocondo.
Quanto è meschin colui che cangia voglia
Per donna, o mal per lei s’ allegra, o dole
E qual per lei di libertà si spoglia,
0 crede a' suol sembianti, o a sue parole !
Chè sempre è più leggier ch’ai vento foglia,
E mille volte II di v uole e disvuole :
Segue clil fugge , a chi la vuol s'asconde ;
E vanne e vien come alla riva 1* onde.
Giovane donna sembra veramente
Quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
Ovvcr tra’ fiori un giovinoci serpente
Uscito pur mo fuor del vecchio scoglio.
Ah quanl’è fra’ più miseri dolente
Chi può soffrir di donna il fiero orgoglio !
Chè quanto ha il volto più di beltà pieno,
Più cela Inganni nel fallace seno.
Con esso gli occhi giovenill invesca
Amor , che ogni penslcr maschio vi fura :
E quale un tratto Ingozza la dolce esca ,
Mal di sua propria libertà non cura;
Ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
Tosto obbllate vostra alta natura ;
Nè poi viril pensiero In voi germoglia:
Si del proprie valor costui vi spoglia.
Quanto è più dolce, quanto è più sicuro
Seguir le fere fuggitive in caccia
Fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
E spiar lor covil per lunga traeda!
Veder la valle e '1 colle e l’ aer puro,
L’crbe, I fior, l’acqua viva chiara c ghiaccia!
Udir gli augei svernar, rimbombar l' onde,
E dolce al vento mormorar le fronde!
Quanto giova a mirar pender da un’ erta
Le capre, e pascer questo e quel vir-
gulto ;
E ’l montanaro all’ombra più conserta
Destar la sua zampogna e ’l verso inculto !
Veder la terra di pomi coperta ,
Ogni arbor da’ suo' frutti quasi occulto ;
Veder cozzar monton , vacche mugghiare
E le biade ondeggiar come fa il mare !
Or delle pecorelle 11 rozzo mastro
Si vede alla sua torma aprir la sbarra :
Poi quando muove lor col suo vincastro.
Dolce è a notar come a ciascuna garra :
Or si vede il vlllan domar col rastro
Le dure zolle , or maneggiar la marra :
Or la contadlnella scinta e scalza
io POEMI
Star con l’ oche a filar sotto una balia.
In cotal guisa già l' antiche genti
Si crede esser godute al secol d' oro :
Nè latte ancor le madri eran dolenti
De' morti figli al marzia! lavoro :
Nè si credeva ancor la vita a' venti.
Nè del giogo dolcasl ancora il toro.
Lor casa era fronzuta quercia e grande ,
Ch'avea nel tronco mcl, ne’ rami ghiande.
Non era ancor la scellerata sete
Del crude! oro entrata nel bel mondo :
Vlveansi in libertà le genti liete;
E non solcalo, Il campo era fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
Ruppe ogni legge, c pietà mise in fondo.
Lussuria entrò ne’ petti , e quel furore
Cbe la meschina gente chiama amore.
In colai guisa rimordea sovente
L’altiero giovinetto i sacri amanti;
Come lalor chi sè gioioso sente.
Non sa ben porger fede agli altrui pianti :
Ma qualche misercllo a cui l'ardente
Fiamme struggeano i nervi tutti quanti ,
Gridava al del : Giusto sdegno ti muova ,
Amor, chè costui creda alinen per prova.
Nè fu Cupido sordo al pio lamento;
E ’ncomlnciò crudelmente ridendo:
Dunque non sono Iddio ? dunque è già
spento
Mio foco, conche tulio il mondo accendo?
Io pur fei Giove mugghiar fra l’ armento ,
Io, Febo dietro a Dafne gir piangendo :
Io trassi Plulo dell' internai seggo :
E chi non ubbidisce alla mia legge!
Io fo cadere al tigre la sua rabbia ,
Al leone il ficr roggio , al drago il fischio.
E quale è uom di si secura labbia ,
Che fuggir possa il mio tenace vischio?
E che un superbo in si vii pregio m'abbla,
Che di non esser Dio vengo a gran rìschio?
Orvcggiam se '1 meschin eh’ Amor ri-
prende ,
Da due begli occhi sè stesso difende.
Zefiro già di bei fioretti adorno
Avea da' monti tolta ogni pruina :
Arca fatto al suo nido già ritorno
La stanca rondinella peregrina;
Risonava la selva intorno intorno
Soavemente all'ora mattutina :
E l'ingegnosa pecchia al primo albore
Giva predando or uno or altro fiore.
L’ardito Giulio, al giorno ancora acerbo,
Allor ch’ai tufo toma la civetta,
EROICI.
Fatto frenare II corrldor superbo.
Verso la selva con sua gente eletta
Prese il cammino, e sotto buon riserbo,
Seguia de' fedcl can la schiera stretta ,
Di ciò che fa mestieri a caccia adorni ,
Con archi c lacci e spiedi e dardi e comi.
Già circondata avea la lieta schiera
Il folto bosco; c già con grave orrore
Del suo covll si destava ogni fiera :
Givan seguendo i bracchi '1 lungo odore.
Ogni varco da' lacci, e can chiuso era:
Di stormir , d' abbaiar cresce il romore :
Di fischi e bussi tutto il bosco suona:
Del rimbombar de’ corni 11 elei rintrona.
Con tal romor, qualor l’aer discorda,
Dì Giove il foco d’alta nube piomba:
Con tal tumulto, onde la gente assorda,
Dall'alto cataratlc il Mi rimbomba:
Con tal orror del latin sangue ingorda
Sonò Megera la tartarea tromba.
Qual animai di stizza par si roda;
Qual serra al ventre la tremante coda.
Spargesl tutta la bella campagna.
Altri alle reti , altri alla via più stretta.
Chi serba in coppia i can , chi gli scom-
pagna , [e allctta.
Chi già il suo ammette, chi ’l richiama,
Chi sprona il buon destrier per la cam-
elli l'adirata fera armato aspetta, [pagna.
Chi si sta sopra un ramo, a buon riguardo,
Chi ha In man lo spiede , c chi s’ acconcia
il dardo.
Già le setole arriccia , e arruola i denti
Il porco entro II burron : già d' una grotta
Spunta gìùllcavriol : già i vecchi armenti
De' cervi van pel pian fuggendo in frotta.
Timor gl'inganni delle volpi ha spenti :
Le lepri al primo assalto vanno in rotta.
Di sua tana stordita esce ogni belva*.
L’astuto lupo vie più si rinselva:
E rinselvalo , le sagaci nare
Del picciol bracco pur teme il meschino:
Ma il cervo par del veltro paventare;
De’ lacci 'I porco, o del fiero mastino.
Vedesi lieto or qua or là volare [ grino :
Fuor d'ogni schiera il giovan pelle*
Pel folto bosco 11 ficr cavai mette aie ;
E trista fa , qual fera Giulio assale.
Qual 11 Ccntaur per la nevosa selva
Di Pelio o d' Emo va feroce in caccia ,
Dalle lor tane predando ogni belva;
Or l' orso uccide , or il Don minaccia.
Quanto è più ardita fera, più s’inselva :
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STANZE.
Il sangue a tutte dentro al cor s’agghiaccia.
La selva trema , e gli cede ogni pianta :
Gli arbori abbatte o sveglie , o rami
schianta.
Ah quanto a mirar Giulio è Aera cosa!
Rompe la via dove più il bosco è follo ,
Per trar di macchia la bestia crucciosa ,
Con verde ramo intorno al capo avvolto,
Con la chioma arrulTata e polverosa ,
E d'onesto sudor bagnato il volto.
Ivi consiglio a sua bella vendetta
Prese Amor, clic ben loco e tempo aspetta.
E con sue man di lieve aer compose
L' immagin d' una cena altiera e bella ,
Con alta fronte, con corna ramose.
Candida tutta , leggiadrctta , e snella :
E come tra le fere paventose
Al giovan cacciator si offerse quella ,
Lieto spronò il destrier per lei seguire ,
Pensando in breve darle agro martire.
Ma poi che invan dal braccio il dardo
Del foder trasse fuor la fida spada , [scosse ,
E con tanto furor il corslcr mosse ,
Che ’1 bosco follo sembrava ampia strada.
La bella fiera , come stanca fosse ,
Più lenta tuttavia par che scn vada :
Ma quando par che gii la stringa o tocchi,
PlccioI campo riprende avanti agli occhi.
Quanto più slegue invan la vana effigie,
Tanto più di seguirla invan s'accende :
Tuttavia preme suo stanche vestigio ,
Sempre la giugne; e pur mal non la prende.
Qual fino al labbro sta nell' onde stigie
Tantalo, e’I bel giardin vlcin gli pende :
Ma qualor T acqua o '1 pome vuol gustare,
Subito l’acqua o'I pome via dispare.
Era gii dietro alla sua disianza
Gran tratto da' compagni allontanato;
Nè pur d'un passo ancor la preda avanza;
E gii tutto il destrier sente affannato.
Ma pur seguendo sua vana speranza ,
Pervenne in un fiorito e verde prato :
Ivi sotto un vel candido gli apparve
Lieta una Ninfa ; e via la fiera sparve.
La fiera sparse via dalle sue ciglia.
Ma il giovan della fiera ornai non cura ,
Anzi ristringe al corridor la briglia ,
E lo raffrena sopra alla verdura.
Ivi tutto ripten di maraviglia
Pur della Ninfa mira la figura :
Parglì che dal bel viso e da’ begli occhi
Una nuova dolcezza al cor gli fiocchi.
Qual tigre, a cui dalla petrosa tana
Ha tolto il cacciator suoi cari figli ,
Rabbiosa il segue per la selva irrana,
Chè tosto crede insanguinar gli artigli :
Poi resta d'uno specchio all' ombra vana,
All'ombra che I suoi nati par somigli :
E mentre di tal vista s’innamora
La sciocca, il piedator la via divora.
Tosto Cupido entro a' begli ocelli ascoso
Al nervo adatta del suo strai la cocca,
Poi tira quel col braccio poderoso
Tal che raggiugne l'una all’altra cocca.
La man sinistra col ferro focoso,
La destra poppa con la corda tocca ;
Nè prima fuor ronzando esce il quadrello,
Che Giulio dentro al cor sentito ha quello.
Ah qual divenne tali come al giovanetto
Corse il gran foco in tutte le midolle !
Che tremilo gli scosse il cor nel petto!
D'un ghiaccialo sudore era giù molle;
E fatto ghiotto del suo dolce aspetto
Giammai gli ocelli dagli occhi levar puollc ;
Ma tutto preso dal vago splendore
Non s’ accorge il meschin che quivi è
Amore; [rnato
Non s’accorge che Amor 11 dentro è ar-
Per sol turbar la sua lunga quiete ;
Non s’accorge a che nodo è già legalo;
Non conosce sue piaghe ancor secrcte.
Di piacer, di desir tulio è Invescato;
E cosi il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sè loda , e 'I viso c 'I crino ,
E’n lei discerne non so clic divino.
Candida è ella, e candida la vesta.
Ma pur di rose c fior dipinta e d'erba ;
Lo innanellato crin dell' aurea testa
Scende in la fronte umilmente superba.
Ridete attorno tutta la foresta ,
E quanto può sue cure disacerba.
Nell'atto regalmente è mansueta;
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
Folgoran gli occhi d’ un dolce sereno ,
Ove sue faci tien Cupido ascose ;
L’aer d'intorno si fa tutto ameno,
Ovunque gira le luci amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno
Dolce dipinto di ligustri e rose.
Ogni aura tace al suo parlar divino,
E canta ogni augelletlo in suo latino.
Sembra Talia, se in man prende la cetra ;
Sembra Minerva.se in man prende l'asta:
Se T arco ha in mano, al fianco la faretra,
Giurar potrai clic sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
}1 POEMI
E poco avanti a lei superbia basta.
Ogni dolce virtù l'è in compagnia :
Beiti la mostra a dito e leggiadria.
Con lei scn va onestate umile e piana.
Che d’ ogni chiuso cor volge la chiave :
Con lei va gentilezza in vista umana,
E da lei impara il dolce andar soave.
Non puù mirarle in viso aima villana,
Se pria di suo fallir doglia non ave.
Tanti cori Amor piglia, fere e ancide.
Quanto ella o dolce parla , o dolce ride.
Ella era assisa sopra la verdura
Allegra, e gliirlandelta avea contesta;
Di quanti fior creasse mai Natura ,
Di tanti era dipinta la sua vesta.
E come in prima al giovan pose cura,
Alquanto paurosa alzò la lesta :
Poi con la bianca man ripreso il lembo ,
Bevessi in piè con di fior pieno un grembo.
Gii s' inviava per quindi partire
La Ninfa sopra l’erba lenta lenta.
Lasciando il giovanetto in gran martire ;
Chè fuor di lei nuli’ altro a lui talenta.
Ma non posscndo il miser ciò soffrire ,
Con qualche priego d’ arrestarla tenta;
Perchè , tutto tremando e tutto ardendo.
Cosi umilmente incominciò dicendo :
0 qual che tu ti sia, vergin sovrana,
0 Ninfa, oDca [ma Dea mi sembri certo :
Se Dea ; forse clic se’ la mia Diana :
Se pur mortai; chi tu sia fammi aperto;
Chè tua sembianza è fuor di guisa umana ;
Nè so giù io qual sia tanto mio merlo ,
Qual del del grazia, qual slamica stella,
Ch’ io degno sia veder cosa si bella.
Volta la Ninfa , al suon delle parole
Lampeggiò d’ un si dolce e va^o riso ,
Che i monti avria fatto ir, restare il sole;
Chè ben parve s’ aprisse un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole
Tal , eh’ un marmo per mezzo avria diviso,
Soave , saggia , e di dolcezza piena ,
Da innamorar, non eh’ altri , una Sirena.
Io non son qual tua mente invano augu-
ria;
Non d’aitar degna , non di pura vittima ;
Ma là sopr’Arno nella vostra Etruria
Sto soggiogata alla teda legittima ;
Mia natal patria è nell’ aspra Liguria
Sopr’ una costa alla riva marittima,
Ove fuor de’ gran massi intorno gemere
SI sente il fier Nettuno, c irato fremere.
Sovente In questo loco mi diporto :
EROICI.
Qui vengo a soggiornar tutta soletta.
Questo è de’ miei pensieri un dolce porto ;
Quil’erba,! Dori, e’ifrcscoaer rr.’ alletta.
Quinci ’l tornare a mia magion è corto ;
Qui lieta mi dimoro Simonetta
All’ ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
E spesso in compagnia d’ alcuna Ninfa.
lo soglio pur negli oziosi tempj ,
Quando nostra fatica s’interrompe.
Venire a’ sacri aitar ne’ vostri tempi
Fra l’allre donne, con l’usate pompe.
Ma perch’io iti tutto ilgran desir C adempì,
E ’l dubbio tolga die tua mente rompe.
Maraviglia di mie bellezze tenere
Non premier già ch’i’ nacqui in grembo
a Venere.
Or poi die ’i sol sue rote in basso cala ,
E da quest’ arbor cade maggior l' ombra ,
Già cede al grillo la stanca cicala.
Già il rozzo zappator del campo sgombra}
E già dall’ alte ville il fumo esala;
La villanella all’ uotn suo il desco ingoa-
Omai riprenderò mia via più corta: [bra;
E tu lieto ritorna alla tua scorta.
Poi con ocelli più lieti e più ridenti.
Tal cbe’l del tutto asserenò d’ intorno.
Mosse sopra l’erbetta i passi lenti
Con atto d’ amorosa grazia adorno.
Fcciono i boschi allor dolci lamenti ,
K gli augclietti a pianger coininciorno :
Ma l’erba verde sotto i dolci passi
Bianca , gialla , vermiglia , azzurra fassi.
Che de’ far Giulio? ahimè che pur de-
sidera
Scguirsua stella ; c pur temenza il tiene ;
Sta come un forsennato , e ’l cor gli assi-
dera,
K gli s* agghiaccia il sangue entro le vene :
Sta come un marmo fiso , c pur considera
Lei die sen va , nè pensa di sue pene ;
Fra sè lodando ii dolce andar celeste,
E il ventilar dell’ angelica veste.
E par che ’lcor del petto se gli schianti,
E che del corpo I* alma via si fugga ,
E clic a guisa di brina al sol davanti
In pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti ,
E pargli che ogni vena Amor gli sugga ,
Or teme di seguirla , or pure agogna :
Qui il tira Amor, quinci ’l ritrae vergogna.
U’ sono or, Giulio, le sentenzie gravi ,
Le parole magnifiche c i precetti.
Con che i miseri amanti molestavi?
STANZE. 23
Perchè pur di cacciar non li diletti ?
Or ecco eh’ una donna ha in man le chiavi
I)' ogni tua voglia, e tutti io lei ristretti
Tien, miscredo, i tuoi dolci pensieri :
Vedi che or non se’ chi pur diami eri.
Dianzi eri di una fiera cacciatore :
Più bella fiera or P ha ne’ lacci involto.
Dianzi eri tuo , or se’ fatto d’ Amore :
Se’ or legato , e dianzi eri disciolto.
Dov’ è tua liberti 1 dov’ è tuo core 1
Amore ed una donna te 1’ han tolto :
Ed acciocché a te poco creder deggi ,
Ve’ che a virtù, a fortuna Amor ponteggi.
La notte , che le cose ci nasconde ,
Tornava ombrata di stellato ammanto ,
E ’l lusignluol sotto l’ amate fronde
Cantando ripelea l’ antico pianto.
Ma solo a suoi lamenti Ecco risponde ;
Ch’ ogn’ altro augei queUto avea gii il can-
Dalla cimmeria valle uscian le torme [to.
De' Sogni negri con diverse forine.
I giovan che restati nel bosco erano ,
Vedendoli ciel gii le sue stelle accendere.
Sentito il segno , al cacciar fine imperano.
Ciascun s’ affretta a lacci e reti stendere.
Poi con la preda in un sentier si schiera-
li] s’ attende sol parole a vendere; [no :
Ivi menzogne a «il prezzo sì mcrcano.
Poi tutti dei bel Giulio fra sè cercano.
Ma non reggendo il car compagno in-
Agghiaccia ognun di subirapaura, torno,
Che qualche dura fiera U suo ritorno
Non impedisca , od altra ria sciagura.
Chi mostra fochi , e chi squilla ii suo cor-
chi forte il chiama perla selva oscura, [no;
Le lunghe voci ripercosse abbondano ;
E Giulio parche le valli rispondano.
Ciascun si sta per la paura incerto.
Gelato tutto ; se non che pur chiama ,
Veggendo ii ciel di tenebre coperto ,
Nè sa dove cercare , ed ognun brama.
Pur, Giulio , Giulio , suona il gran diserto ;
Non sa che farsi ornai la gente grama.
Ma poi che molta notte Indarno spesero ,
Dolenti per tornare il camrnin presero.
Cheti sen vanno ; e pur alcun col vero
La dubbia speme alquanto riconforta ,
Che sia reddito per altro sentiero
Al loco ore s’ invia la loro scorta, [siero,
Ne’ petti ondeggia or questo or quel pen-
Chc fra paura e speme il cor trasporta.
Cosi raggio che specchio mobil feria ,
Per la gran sala or qua or U si scherza.
Ma il giovili , che provato avea gii l’ arco
Ch’ ogn’ altra cura sgombra fuor del petto,
D’ altre spemi c paure e pensier carco.
Era arrivato alla magio» soletto.
Ivi pensando ai suo novello incarco
Stava in forti pensier tutto ristretto.
Quando la compagnia piena di doglia
Tutta pensosa cntrù dentro alla soglia.
Ivi ciascun più da vergogna involto
Per gli alli gradi sen va lento lento.
Qual il pastnr a cui T Iter lupo ha tolto
II più bel loro del cornuto armento;
Tornansi al lor signor con basso volto ;
Nè s’ a rdiscon d’ entrare all’ uscio drento:
Stan sospirosi , e di dolor confusi ;
E ciascun pensa pur come si scusi.
Ma tosto ognuno allegro alzò le ciglia
Veggendo salvo il si caro pegno;
Tal si fé’ poi che la sua dolce figlia
Ritrovò Ccres giù nel morto regno.
Tutu festeggia la lieta famiglia :
Con essa Giulio di gioir fa segno;
E quanto può nel cor preme sua pena ,
E ii volto di letizia rasserena.
Ma fatto Amor la sua bella vendetU ,
Mossesi lieto per l’ acre a volo,
E ginne al regno di sua madre in fretta,
Ov’ è de’ picciol suoi fralci Io stuolo.
Al regno ove ogni Grazia si diletta ;
Ove BcIU di fiori al crin fa brolo ;
Ove tutto lascivo dietro a Fiora
Zefiro vola , c la verde erba infiora.
Or canu meco un po’ del dolce regno ,
Erato bella , che il nome hai d’ Amore.
Tu sola, benché casta, puoi nei regno
Sicura entrar di Venere e d’ Amore.
T u de’ versi amorosi hai sola ii regno :
Tcco sovente a cantar viensl Amore;
E posta giù dagli omcr la faretra.
Tenta le corde di tua bella cetra.
Vagheggia Cipri un dilettoso monte.
Che del gran Nilo i sette corni vede
Al primo rosseggiar deli’ orizzonte,
Ove poggiar non lice a mortai piede.
Nel giogo un verde colle alza la fronte ;
Soli’ esso aprico un lieto pratel siede ;
L" scherzando tra’ fior lascive aurcttc.
Fan dolcemente tremolar 1’ erbette.
Corona un muro d’ or l’ estreme sponde
Con valle ombrosa di schietti arboscelli ,
Ove in su’ rami fra novelle fronde
Cantan gii loro amor soavi augelli.
Sditesi un grato mormorio dell' onde
24 POEMI
Che fan duo freschi e lucidi ruscelli ,
Versando dolce con amar liquore ,
Ore arma I' oro de' suoi strali Amore.
Nè mal le chiome del giardino eterno
Tenera brina, o fresca neve imbianca i
Ivi non osa entrar ghiacciato Verno;
Non vento I' erbe , o gli arboscelli stanca ;
Ivi non volgon gli anni il lor quaderno;
Ma lieta Primavera mai non manca ,
Che I suoi crln biondi e crespi all’ aura
E mille fiori in ghirlandata lega, [spiega ,
Lungo le rive I frati di Cupido,
Che solo usati ferir la plebe Ignota ,
Con alte voci e fanciullesco grido
Aguzzan lor saette ad una cola.
Piacere , Insidia posati In su '1 lido
Volgono il perno alla sanguigna rota :
Il fallace Sperar col van Disio
Spargon nel sasso 1' acqua del bel rio.
Dolce Paura , e timido Diletto,
Dolci Ire, e dolci Paci Insieme vanno :
Le Lagrime si lavan tutto il petto,
E ’1 fiumiccllo amaro crescer fanno :
Pallore smorto , e paventoso Alletto
Con Magrezza si duole , c con Affanno :
VigilSospetto ogni sentiero spia :
Letizia balla in mezzo della via.
Voluttà con Bellezza si gavazza ;
Va fuggendo il Contento, e siede Angoscia:
11 cieco Errore or qua or li svolazza :
Percotesi II Furor con man la coscia :
La Penitenzia misera stramazza ,
Che del passato errar s’ è accorta poscia :
Nel sangue Crudeltà lieta si ficca ,
E la Disperazion sè stessa impicca.
Tacito Inganno, e simulato Riso
Con Cenni astuti , messaggicr de' cuori ,
E fissi Sguardi con pietoso Viso
Tendon lacciuoli a' giovani tra' fiori.
Stassi coi volto in su la palma assiso
11 Pianto in compagnia de' suoi Dolori :
E quinci c quindi vola senza modo
Licenzia non ristretta In alcun nodo.
Cola) milizia 1 tuoi figli accompagna,
Venere bella, madre degli Amori,
Zeliro il prato di rugiada bagna ,
Spargendolo di mille vaghi odori :
Ovunque vola, veste la campagna
DI rose, gigli, violette e fiori :
L' erba di sua bellezza ha maraviglia ;
Bianca, cilestra, pallida e vermiglia.
Trema la mammolelta verginella
Con occhi bassi onesta e vergognosa :
EROICI.
Ma vie più lieta , più ridente c bella
Ardisce aprire il seno al sol la rosa :
Questa di verdi gemme s' incapella :
Quella si mostra allo sporte! vezzosa,
L' altra che ’n dolce fuoco ardea pur ora ,
Languida cade , e ’1 bel pratello Infiora.
L’ alba nutrica d’ amoroso nembo
Giallcsanguigne candide viole : [grembo;
Descritto ha il suo dolor Giacinto In
Narciso al rio si specchia come suole :
In bianca vesta con purpureo lembo
Si gira Clizia pallidetta al Sole :
Adon rinfresca a Venere il suo pianto :
Tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.
Mal rivesti di tante gemme 1’ erba
La novella siagion clic ’l mondo avviva.
Sovr' esso il verde colle alza superba
L’ ombrosa chioma , u' il Sol mai non ar-
E sotto vel di spessi rami serba [riva :
Fresca e gelata una fontana viva,
Con si pura tranquilla e chiara vena ,
Che gli occhi non olfesi al fondo mena.
L' acqua da viva pomice zampilla ,
Che con suo arco il bel monte sospende ;
E per fiorito solco indi tranquilla
Pingendo ogni sua orma al fonte scende :
Dalle cui labbra un grato umor distilla ,
Chc’l premio di lorombreagliarbor ren-
Ciascun si pasce a mensa non avara; [de.
E par che 1’ un dell' altro cresca a gara.
Cresce l' abelo schietto e senza nocchi ,
Da spander l'alea Borea in mezzo i'onde :
L' elee , che par di mel tutta trabocchi ;
E 11 laur, che tanto fa bramar sue fronde :
Bagna Cipresso ancor pel cervo gli occhi.
Con chiome or aspre or giù distese e
bionde :
Ma l’ arbor clic giù tanto ad Ercol piacque.
Col piatati si trastulla intorno all' acque.
Surge robusto il ccrro , ed alto il faggio.
Nodoso il cornio , e '1 salcio umido e lento,
L’ olmo fronzuto, e '1 frassin piùselvaggio.
Il pino alletta con suo fischio il vento,
L’ avornio tesse ghirlandette al Maggio ;
Ma l’ acer d’ un color non è contento.
La lenta palma serba pregio a’ forti :
L’ edera va carpon co' piè distorti.
Mostransi adorne le viti novelle
D' abiti vari, e con diversa faccia.
Questa gonfiando fa crepar la pelle ;
Questa racquista le perdute braccia :
Quella tessendo vaghe c liete ombrelle
Pur con pampiuee fronde Apollo scaccia
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STANZE.
25
Quella ancor monca piange a capo chino,
Spargendo or acqua, per versar poi vino.
Il chiuso e crespo bosso al vento on-
E fa la piaggia di verdura adorna : [deggia,
Il mirto , clic sua Dea sempre v agheggia ,
Di bianchi fiori i verdi capelli orna.
Ivi ogni fiera per amor vaneggia :
L’ un ver l'altro i montoni armanlccoma;
L’ un l’ altro cozza , e l' un l' altro martella
Davanti all’ amorosa pecorella.
I muggii ianti giovenchi appiè del colle
Fan vie più cruda e disperala guerra
Col collo e '1 petto insanguinato c molle ,
Spargendo al ciel co' piè l’ erbosa terra.
Pien di sanguigna schiuma il cinghiai
bolle ,
Le targhe zanne arruola , c ’1 grifo serra ,
E rugge e raspa , e per armar sue forze
Frega il calloso cuoio a dure scorze.
Provan lor pugna 1 daini paurosi ,
E per I' amata druda ardili fansì :
Ha con pelle vergala aspri e rabbiosi
I Ugrl infuriali a ferir vansi.
Sbatton le code , e con occhi focosi
Ruggendo II Ber leon di petto dansi.
Zufola e soffia il serpe per la biscia ,
Mentr’ ella con tre lingue al Sol si liscia.
Il cervo appresso alla Massilia fera
Co’ piè levati la sua sposa abbraccia :
Fra 1’ erba ove piu ride Primavera,
L’ un coniglio coli 1’ altro s’ accovaccia.
Le semplicette capre vanno a schiera
Da' can sicure all’ amorosa traccia ;
Si I’ odio antico , e T naturai timore
Ne’ petti ammorza, quando vuole, Amore.
1 muti pesci in frotu van notando
Dentro al vivente e tenero cristallo ,
E spesso intorno al fonte roteando
Guidan felice e dilettoso ballo :
Tal volu sopra 1’ acqua un po’ guizzando.
Mentre l’ un 1’ altro segue , escono a gallo :
Ogni lor atto sembra festa e giuoco ;
Nè spengon le fredde acque il dolce foco.
Gli augellettl dipinti Intra le foglie
Fan l' aere addolcir con nuove rime ;
E fra più voci un’ armonia s’ accoglie
Di sì beate note , e si sublime ,
Che mente involta in queste umane spoglie
Non potria sormontare alle sue cime s
E dove Amor gli scorge pel boschetto,
Saltan di ramo In ramo a lor diletto.
Al canto della selva Ecco rimbomba :
Ma sotto I’ ombra che ogni ramo annoda
La passerella gracchia , e attorno romba ì
Spiega 11 pavon la sua gemmata coda :
Bacia il suo dolce sposo la colomba :
I bianchi cigni fan sonar la proda :
E presso alla sua vaga tortorella
II pappagallo squittisce e favella.
Quivi Cupido, e 1 suol pennuti frati.
Lassi già di ferire uomini e Dei ,
Prcndon diporto, e con gli strali aurati
Fan sentire alle fiere 1 crudi omei.
La Dea Ciprigna fra’ suoi dolci nati
Spesso sen viene , e Pasitea con lei ,
Quotando in lieve sonno gli occhi belli
Fra 1’ erbe e’ fiori e’ gioveni arboscelli.
Move dal colle mansueta e dolce
La schiena del bel monte , e sopra 1 crini,
D’ oro e di gemme un grati palazzo folce.
Sudato già nei cicilian cammini.
Le tre Ore , che ’n cima son bobolce ,
Pascon d' ambrosia i fior sacri e divini :
Nè prima dal suo gambo un se ne coglie,
Ch’ un altro al ciel più apre le sue foglie.
Raggia davanti all’ uscio una gran pian*
ta,
Che fronde ha di smeraldo , e pomi d' oro ;
E pomi eh’ arrestar femo Atalanta ,
Che ad Ippomenc dierno il verde alloro.
Sempre sovr’ essa Filomena canta ;
Sempre solt’ essa è delle Ninfe un coro.
Spesso Imeneo col suon di sua zampogna
Tempra lor danze , c pur le nozze agogna.
La regia casa il sereno aer fende ,
Fiammeggiante di gemme e di fin oro,
Che chiaro giorno a mezza notte accende
Ma vinta è la materia dal lavoro.
Sopra colonne adamantine pende
Un palco di smeraldo, in cui già foro
Aneli e stanchi dentro a MongiboUo
Slcrope e Brente ed ogni lor martello.
Le mura attorno d’ artificio miro
Forma un soave c lucido berillo.
Passa pel dolce orientai zaffiro
Nell’ ampioalbergo il di pure e tranquillo ;
Ma il letto d’ oro in cui 1’ estremo giro
Si chiude contea Febo apre il vessillo.
Per varie pietre il pavimento ameno
Di mlrabil pittura adorna il seno.
Mille e mille color forman le porte ,
Di gemme c di si vivi Intagli chiare ,
Che tutte altre opre sarian rozze c morte ,
Da far ili s è Natura vergognare.
Nell’ una è sculla l’ infelice sorte
Del vecchio Celio ; e in visto Irato pare
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26 POEMI
Suo figlio, c con la falce adunca sembra
Tagliar del padre le feconde membra.
hi la Terra con distesi ammonti [glia;
Par eh* ogni goccia di quel sangue acco-
Ondc nate le Furie e 1 fier Giganti
Di sparger sangue in rista mostran voglia.
D’ un seme stesso in diversi sembianti
Paion le Ninfe uscite senza spoglia ,
Pur come snelle cacciatrici in selva ,
Gir saettando or una or altra belva.
Nel tempestoso Egeo in grembo a Teli
Si vide il fusto genitale accolto,
Sotto diverso volger di pianeti [volto;
Errar per P onde in bianca schiuma av-
E dentro nata in atti vaghi e lieti
Una donzella non con uman volto.
Da* Zefiri lascivi spinta a proda , [goda.
Gir sopra un nicchio; e par che ’l ciel nc
Vera la schiuma , e vero il mar direste,
Il nicchio ver, vero il soffiar de’ venti.
La Dea negli ocelli folgorar vedreste ,
E *1 elei riderle attorno e gli clementi :
L* Ore premer 1* arena in bianche veste ,
L’ aura increspar 11 crin distesi c lenti :
Non una, non diversa esser lor faccia,
Come par che a sorelle ben confacela.
Giurar potresti che dell’ onde uscisse
La Dea premendo con la destra il crino,
Con 1* altra il dolce pomo ricoprisse;
E stampata dal piè sacro c divino,
D’ erba c dì fior la rena si vestisse ;
Poi con sembiante lieto e pellegrino
Dalle tre Ninfe in grembo fosse accolla ,
E di stellato vestimento involta.
Questa con ambe man le licn sospesa
Sopra I* umide trecce una ghirlanda
D’ oro c di gemme orientali accesa :
Quella una perla agli orecchi accomanda :
L* altra al bel petto c bianchi omeri intesa
Par che ricchi monili intorno spanda,
De’ qua* solcati cerchiar le proprie gole
Quando nel ciel guidavan le carole.
Indi paion levale in ver le spere
Seder sopra una nu\ola d’ argento :
L’ aer tremante ti parria vedere
Nel duro sasso , c tutto ’l ciel contento :
Tutti li Dii di sua beltà godere,
E del felice letto aver talento :
Ciascun sembrar nel volto maraviglia.
Con fronte crespa e rilevate ciglia.
Nello estremo sè stesso il divin Fabro
Formò , felice di si dolce palma ,
Ancor delia fucina irsuto e scabro ,
EROICI.
Quasi obbliando per lei ogni salma,
Con disire aggiungendo labro a labro,
Come tutta d’ amor gli ardesse I* alma :
E par via maggior foco acceso in elio ,
Che quel eh* avea lasciato In Mongibello.
Nell* altra, in un formoso e bianco tauro
Si vede Giove per amor converso
Portarne il dolce suo ricco tesauro ,
E le! volgere II viso al li lo perso
In atto paventosa; cl be’ crin d’ atiro
Scherzan nel petto per lo vento avverso :
La vesta ondeggia e indietro fa ritorno;
L’ una man lien al dorso, e I* altra al corno.
Le ignudo piante a sè ristrette accoglie ,
Quasi temendo *1 mar che non le bagne :
Tale atteggiata di paure e doglie
Par chiami in van le sue dolci compagne;
Le quali assise tra fioretti c foglie
Dolenti Europa ciascheduna piagne.
Europa sona il filo, Europa, riedì :
il toro nota, c talor bacia i piedi, [d’oro;
Or si fa Giove un cigno, or pioggia
Or di serpente, or di pastor fa fede,
Per fornir 1* amoroso suo lavoro;
Or trasformarsi in aquila si vede ,
(ionie Amor vuole, e nel celeste coro
Portar sospeso il suo bel Ganimede;
Lo quale ha di cipresso il capo avvìnto ,
Ignudo tutto, e sol d* erbetta cinto.
Passi Nettuno un lanoso montone;
Passi un torvo giovenco per amore :
Passi un cavallo il padre di Ghironc :
Diventa Febo in Tessaglia un pastore;
E *n picciola capanna si ripone
Colui eh’ a tutto ’l mondo dà splendore;
Nè gli giova a sanar sue piaghe acerbe,
Perchè conosca le virtù dell’ erbe.
Poi segue Dafne, c *n sembianza si lagna
Come dicesse: O Ninfa, non ten gire :
Ferma il piè , Ninfa , sopra la campagna,
Gli’ io non li seguo per farti morire :
Così cerva Icon , cosi lupo agua ,
Ciascuno H suo nemico suol fuggire;
Me perchè fuggi , o donna del mio core ,
Cui di seguirti è sol cagione amore ?
Dall’ altra parte la bella Arlauna
Con le sorde acque di Teseo si dolo,
E dell’ aura c del sonno che la inganna ;
Di paura tremando , come sole
Per piccioi vcntolin palustre canna :
Par che in atto abbia impresse lai parole s
Ogni fiera di tc meno è crudele :
Oguun di te più mi saria fedele.
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STANZE. 57
Vien sopra un carro d’ ellera e di pam-
[pino
Coperto Bacco , Il qual duo tigri guidano ,
E con lui par che I* alta rena stampino
Satiri e Bacche, e con voci alte gridano,
Quei si Tede ondeggiar; quel par eh’ in-
ciampino ; [ridano :
Quel con un cembai bee : quei par che
Qual fa d’ nn corno, e qual delle man
ciotola ,
Qual ha preso unaNinfa , e qual si rotola.
Sopra T asln Silen , di ber sempre avido.
Con vene grosse , nere , e dì mosto umide
Marchio sembra, sonnacchioso, e gravido;
Leluci badi vin rosse , enfiate e tumide :
L’ ardite Ninfe 1' asinel suo pavido
Pungon col tirso ; ed ei con le man tumide
A’ crin s' appiglia ; e mentre si l’ attizzano,
Casca nei collo , e 1 Satiri lo rizzano.
Quasi in un tratto vista . amata , e tolta
Dal fiero Pluto Proserpina pare [sciolta
Sopra un gran carro, e la sua chioma
A’ zefiri amorosi ventilare;
La bianca vesta In un bel gremboaecolta
Sembra i colti fioretti giù versare :
Si percuote ella il petto , e in vista piagne.
Or la madre chiamando, or le compagne.
Posa giù dei leone il fiero spoglio
Ercole , e veste femminina gonna :
Colui che ’l mondo da grave cordoglio
Avea scampato ; ed or serve una donna.
E può soffrir d' Amori’ indegno orgoglio.
Chi con gli omcr gii fece al elei colonna ,
E quella man con che era a tenere uso
La clava poderosa , or torce un fuso.
Gli omer setosi a Polifemo ingombrano
L’ orribil chiome , e nel gran petto ca-
scano; [brano;
E fresche ghiande 1’ aspre tempie adom-
Presso a sè par sue pecore che pascano ;
Nè a costui dai cor giammai disgombrano
Li dolci acerbi lai , che d’ amor nascano ;
Anzi tuttodì piantocdolormacero [cero.
Seggia in un freddo sasso appiè d’ un a-
Daii’ una all’ altra orecchiami arco face
Il ciglio irsuto lungo ben sei spanne :
Largo sotto la fronte il naso giace ;
Paion di schiuma biancheggiar le zanne.
Tra’ piedi ha il cane ; e sotto il braccio tace
Una zampogna ben di cento canne, [note
E guarda il mar eh’ ondeggia , e alpestre
Par canti , e mova le lanose gote.
E dica eh’ ella è bianca più che il latte ,
Ma più superba assai eh’ una vitella ;
E che molte ghirlande le ha già fatte ,
E serbale una cerva molto bella ,
Un orsacchln clic gii col can combatte t
E che per lei si macera e flagella ;
E che ha gran voglia di saper notare
Per andare a trovarla Infili nel mare.
Duo formosi delfini un carro tirano;
Sovr* esso è Galatea, che’l fren corregge :
E quei notando parimente spirano;
Ruotasi attorno più lasciva gregge.
Qual le salse onde sputa.e qual s’ aggi rano,
Qual parche per amor giuochi e vanegge.
La beila Ninfa con le suore fide
Di si rozzo cantar vezzosa ride.
Intorno al bel lavor serpeggia acanto
Di rose e mirti e lieti fior contesto,
Con vari auge! si fatti , che il ior canto
Pare udir negli orecchi manifesto :
Nè d' altro si pregiò Vulcan mai tanto.
Nè ’l vero stesso ha più del ver clic questo:
E quanto 1’ arte Intra sè non comprende.
La mente immaginando chiaro intende.
Questo è il loco che tanto a Vener piac-
A Vener bella, alla madre d’ Amore, [que,
Qui l' arder fraudolente In prima nacque ,
Che spesso fa cangiar voglia c colore :
Quei che soggioga II del, la terra e l’acque,
Cile tende agli occhi reti , e prende il core ;
Dolce In sembianti , in atto aceri» e fello ,
Giovane nudo, e faretrato augello.
Or poi che ad ali tese ivi pervenne ,
Forte le scosse , c giù calossi a piombo ,
Tutto serrato nelle sacre penne,
Come a suo nido fa lieto colombo.
L' acr ferrato assai stagion ritenne
Della pennuta striscia il forte rombo.
Ivi racquete le trionfanti ale,
Superbamente Invcr la madre saie.
Trovolla assisa in Ietto fuordel lembo
Pur mo di Marte sciolta dalle braccia,
Il qual rovescio le giaceva in grembo
Pascendo gli occhi pur deila sua faccia.
Di rose sopra Ior pioveva un nembo
Per rinnovargli all’ amorosa traeda :
Ma Vener dava a lui con voglie pronte
Mille baci negli occhi e nella fronte.
Sopra e d’ intorno I pleelolett! Amori
Schcrzavan nudi or qua or la volando ,
E qnal con alt di mille colori
Giva le sparte rose ventilando :
Qual la faretra emptea di freschi fiori ,
Poi sopra il Ietto la venta versando :
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28 POEMI
Qual la cadente nuvola rompea
Fermo in su P ali , e poi giù In scotea :
Come avea dalle penne dato un crollo ,
Cosi P erranti roso cran riprese :
Nessun del vaneggiare era satollo.
Quando apparve Cupido ad ali tese
Ansando tutto , e di sua madre al collo
Giltossi , e pur co’ vanni il cor le accese
Allegro in vista, e si lasso, che appena
Potea ben per parlar riprender lena.
EROICI.
Onde vien’ , figlio? o quai n’apporti no-
Vencr gli disse , e lo baciò nel volto ; [ve?
Ond’ eslo tuo sudor ? quai fa t le hai prove ?
Qual Dio, qual uom hai ne’ tuoi lacci in-
volto ?
Fai tu di nuovo In Tiro mugghiar Giove ?
0 Saturno ringhiar per Delio folto?
Quel che ciò sia , non uuiil cosa parmi ,
0 figlio , o sola mia potenzia ed armi.
LIBRO SECONDO.
Eran già tutti alla risposta attenti
I pargoletti intorno all’aureo letto.
Quando Cupido con occhi ridenti
Tutto protervo nel lascivo aspetto
Si stringe a Marte, e con gli strali ardenti
Della faretra gli ripunse li petto,
E con le labbra tinte di veleno
Baciollo, c ’l foco suo gli mise In seno.
Poi rispose alla madre : E’ non è vana
La cagion che si lieto a te mi guida ,
Ch'io ho tolto dal coro di Diana
II primo conduttor, la prima guida.
Colui di cui gioir vedi Toscana ,
Di cui già infin ai del la fama grida ,
Infili agl'indi, infìn al vecchio Mauro,
Giulio, minor fralcl del nostro Lauro.
L'antica gloria e '1 celebrato onore
Chi non sa della Medica famiglia?
E del gran Cosmo, italico splendore.
Di cui la patria sua si chiamò figlia?
E quanto Pietro al paterno valore
Aggiunse pregio, e con qual maraviglia
Dal corpo di sua patria rimosse abbia
Le scellerate man, la crude! rabbia?
Di questo e della nobile Lucrezia
Nacquenc Giulio, e pria ne nacque [.auro ;
Lauro, eh’ ancor della bella Lucrezia,
Arde ; c dura ella ancor si mostra a Lauro ;
Rigida più eh’ in Roma già Lucrezia,
0 in Tessaglia colei eh* è fatta un lauro;
Nè mai degnò mostrar di Lauro agli occhi
Se non tutta superba l suoi begli occhi.
Non priego, non lamento al mescliin va-
Ch'ella sta fissa come torre al vento; [le
Perch'io lei punsi col piombato strale,
E col dorato lui ; di che or mi pento.
Ma tanto scolerò , madre , queste ale ,
Che foco accenderollc al petto drcnto.
Richiede ormai da noi qualche restauro
La lunga fedeltà del franco Lauro.
Gilè tultor parmi pur veder pel campo
Armato lui, armato il corridore,
Come un fier drago gir menando vampo,
Abbatter questo c quello a gran furore :
L'armi lucenti sue spargere un lampo
Clic facciali tremar l’aere di splendore ;
Poi fatto di virtulc a tutti esempio,
Riportarne il trionfo al nostro tempio.
E che lamenti già le Muse forno 1
E quanto Apollo s’è già moto dolio.
Ch'io tenga il lor poeta in tanto scherno!
Ed io con che pietà suoi versi ascolto!
Ch’Io 1* ho già visto al più rigido verno,
Pien di pruina I crln , le spalle e '1 volto
Dolersi con le stelle e con la luna
Di lei , di noi , di sua crude! fortuna, [te :
Per tutto il mondo ha nostre laudi spar-
Mai d’altro, mai, se non d’ amor ragiona;
E polca dir le tue fatiche, o Marte,
Le trombe c l’arme e '1 furor di Bellona:
Ma volle sol di noi vergar le carte,
E di quella gentil eh' a dir lo sprona.
Ond’ io lei farò pia, madre, al suo amante;
Gilè pur son tuo, non nato d’adamante.
Io non son nato di ruvida scorza.
Ma di te, madre bella, e son tuo figlio;
Nè crudele esser deggio ; ed ci mi sforza
A riguardarlo con pietoso ciglio;
Assai provato ha l’ amorosa forza ,
Assai giaciuto è sotto il nostro artiglio.
Giusto è ch’ei faccia ornai co’ sospir tregua;
E del suo buon servir premio consegua.
I Ma il bel Giulio, ch’a noi stato è ribello,
> E sol di Delia seguito ha il trionfo ,
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STANZE. 29
Or dietro all’ orme del suo buon fratello
Yien catenato innanzi al mio trionfo :
Nè mostrerò giammai pietate ad elio
Fio che ne porterà nuovo trionfo ;
Ch’io gli ho ne! core dritta una saetta
Dagli occhi della bella Simonetta.
E sai quanto nel petto e nelle braccia ,
Quanto sopra il destriero è poderoso :
Pur mo lo vidi si feroce In caccia ,
Che parca il bosco di lui paventoso;
Tutta aspreggiata avea la bella faccia ,
Tutto adirato, tutto era focoso.
Tal vld’io te là sopra al Termodonte
Cavalcar, Marte, e non con està fronte.
Quest’è, madre gentil , la mia vittoria;
Quinci è *1 mio travagliar, quinci è ’l su-
Cosi va sovr ’ al ciel la nostra gloria , [dorè ;
Il nostro pregio, il nostro antico onore :
Così mai cancellala la memoria
Di te non fia, nè del tuo figlio Amore;
Cosi canterali sempre c versi e cetre
Gli strai, le fiamme, gli archi c le faretre.
Fatta ella allor più gaia nel sembiante,
Balenò intorno uno splendor vermiglio,
Da fare un sasso diventare amante.
Non pur te, Marte : e tale ardea nel ciglio,
Qual suol la bella Aurora fiammeggiante:
Poi tutto al petto si ristringe il figlio;
E trattando con man sue chiome bionde,
Tutto il vagheggia ; e lieta gli risponde :
Assai, bel figlio, il tuo desir ni’ aggrada,
Chè nostra gloria ognor più l’ale spanda.
Chi erra , torni alla verace strada :
Obbligo è di servir chi ben comanda.
Purcomien che di nuovo in campo vada
Lauro, c si cinga di nova ghirlanda;
Chè virtù negli affanni più s’ accende,
Come l’oro nel foco più risplende.
Ma in prima fa mestier clic Giulio s'arml,
Sì clic di nostra fama il mondo adempì :
E tal del forte Achille or canta Tanni,
E rinnova in suo stil gli antichi tempi ,
Che diverrà testor de’ nostri carmi ,
Cantando pur degli amorosi esempi ;
Onde la nostra gloria, o bel figliuolo,
Vedrern sopra le stelle alzarsi a volo.
E voi altri, mici figli, al popol tosco
Lieti volgete le trionfanti ale :
Gite tutti fendendo T aer fosco ;
Tosto prendete ognun l’arco e lo strale:
Di Marte il fiero ardor sen venga vosco.
Or vedrò, figli, qual di voi più vale :
Gite tutti a ferir nel toscan coro;
Ch* i’ serbo a chi fier prima un arco d’oro.
Tosto al suo dire ognun arco e quadrella
Riprende, e la faretra al fianco alloga;
Come al fischiar del comlto sfrondila
La nuda ciurma , e I remi mette in voga.
Già per Taer ne va la schiera snella :
Già sopra alla città calan con foga.
Cosi i vapor pel bel scren giù scendono,
Che paion stelle, mentre l’aer fendono.
Vanno spiando gli animi gentili ,
Che son dolce esca all’amoroso foco:
Sovr’ essi batton forte i lor fucili,
E fangli apprender tutti a poco a poco:
L’ardor di Marte ne' cuor giovenill
S' affigge e quelli infiamma del suo giuoco:
E mentre stanno Involti nel sopore ,
Pare a’ giovai: far guerra per Amore.
E come quando il Sole l Pesci accende,
Di sua virtù la terra è tutta pregna;
Gilè poscia Primavera fuor si stende
Mostrando al ciel verde c fiorita insegna :
Cosi ne’ pelli ove lor foco scende.
S'abbarbica un disio che dentro regna;
Un disio sol d’eterna gloria c fama,
Clic T infiammale nienti a virtù chiama.
Esce sbandita la viltà d’ogni alma,
E, benché tarda sia, pigrizia fugge :
A libcrtate l’ima e l’altra palma
Lcgan gii Amori ; c quella irata rugge.
Solo in disio di gloriosa palina
Ogni cor giovcnil s’accende e strugge:
E dentro al petto sopito dal sonno
Gli spiriti d' Amor posar non ponno.
E così mentre ognun dormendo langue,
Ne’ lacci è involto, onde giammai non esce:
Ma come suol fra l’erba il picciol angue
Tacito errare, o sotto Tonde il pesce,
Si van correndo per Tossa c pel sangue
Gli ardenti spiritelli , c ’l foco cresce.
Ma Vener, come I presti suoi corrieri
Vide parlili , mosse altri pensieri.
Pasitca fe’ chiamar, del Sonno sposa,
Pasilea delle Grazie una sorella,
Pasilea, che dell’ altre è più famosa,
Quella che sopra tutte è la più bella;
E disse : Muovi, o Ninfa graziosa.
Trov a il consorte tuo veloce e snella :
Fa clic mostri al bel Giulio tale inimago.
Che ’l faccia dimostrarsi al campo vago.
Cosi le disse ; e già la Ninfa accorta
Correa sospesa per T aria serena :
Quote senz* alcun rombo Tale porta,
E lo ritrova in men che non balena :
30 POEMI
Al carro della Nolte lacca scorta ,
E l'aria intorno avea di Sogni piena
Di varie (orme , e stranier portamenti ;
E Iacea racquetare i fiumi e I venti, [ve.
Come la Ninfa a’ suoi gravi occhi apjiar-
Gol folgorar d’ un riso glieli aperse :
Ogni nube dal ciglio via disparve,
Cbè la forza del raggio non sofferse.
Ciascun de' Sogni dentro alle lor larve
Gli sì fe’ incontro, e ’l viso discoperse:
Ma poi ch’ella Morfeo tra gli altri scelse,
Lo chiese al Sonno-, e tosto indi si svelse.
Indi si svelse , e di questo convenne
Tosto ammonirlo ; e parti senza posa.
Appena Unto il ciglio alto sostenne ,
Che fatU era già tutu sonnacchiosa.
Yassen volando senza mover penne ,
E ritorna a sua Dea, lieta c gioiosa.
Gli scelti Sogni ad obbedir s'affrettano,
E sotto nuove fogge si rassettano.
Quali i soldati che di fuor s’attendono,
Quando senza sospetto par che giacciano.
Per suon di tromba al guerreggiar s' ac-
cendono ,
Vestonsi le corazze , e gli elmi allacciano ;
E giù dal fianco le spade sospendono ,
Grappali le lance , e i forti scudi imbrac-
E cosi divisati i dcstricr pungono [ciano:
Tanto , ciie la nemica schiera giungono.
Tempo era quando l' alba s’ avvicina ,
E divien fosca l'aria, ov’era bruna ;
E giù il carro stellato Icaro inchina ,
E par nel volto scolorir la Luna ;
Quando ciò eh' al bel Giulio il elei destina
Mostrano i Sogni e sua dolce Fortuna ;
Dolce al principio, al fin poi troppo amara;
Perocché sempre dolce al mondo è rara.
Pargli veder feroce la sua donna ,
Tutu nel volto rigida e proterva
Legar Cupido alla verde colonna
Della felice pianta di Minerva ,
Annata sopra alla candida gonna ,
Che ’l casto petto coi Gorgon conserva ,
E par che tutte gli spennacchi l’ali ,
E che rompa ai ineschili l’arcoe gli strali.
Ahimè ! quanto era muUto da quello
Amor , che me tornò tutto gioioso !
Non era sopra l'ale altiero c snello,
Non del trionfo suo punto orgoglioso:
Anzi mercè chiamava il meschineilo
Miseramente, e con volto pietoso ;
Gridando a Giulio: Miserere uiei;
Difendimi , o boi Giulio , da costei.
EROICI.
E Giulio a lui dentro al fallace sonuo
Parca risponder con mente confusa :
Come poss' io ciò far, dolce mio donno!
Chè nell' armi di Palla è tutta chiusa.
Vedi i miei spirti, che sofTrir non ponno
La terribU sembianza di Medusa,
li rabbioso fischiar delle ceraste ,
E ’l volto e l' elmo e '1 folgorar dell- aste.
Alza gii occhi, alza, Giulio, a quella
fiamma [bra:
Che come un sol col suo splendor t’adom-
Qulvi è colei che l’aite menti infiamma,
E che da' petti ogni vilU disgombra.
Con essa , a guisa di semplice damma ,
Prenderai questa, ch’or nel cor l’ingom-
Tanta paura, e t’invilisce l'alma, [bra
Ch'ella ti serba sol trionfai palma.
Cosi dicea Cupido ; c gii la Gloria
Scendca giù folgorando ardente vampo:
Con essa Poesia , con essa Istoria
Volatati [ulte accese del suo lampo.
Costei parea che ad acquìsUr vittoria
Rapisse Giulio orribilmente in campo;
E che l'arme di Palla alia sua donna
Spogliasse, e lei lasciasse in bianca gonna.
Poi Giulio di sue spoglie armava tutto,
E tutto fiammeggiar lo facea d’auro :
Quando era al fin del guerreggiar con-
dii ito ,
Al capo gl' intrecciava oliva e lauro :
Ivi tornar parca sua gioia in lutto;
Yedcasi tolto il suo dolce tcsauro :
Vcdea sua Ninfa in trista nube avvolta
Dagli occhi crudelmente essergli tolta.
L'aria tutta parca divenir bruna,
E tremar tutto dell’ abisso il fondo :
Parea sanguigna in ciel farsi la luna ,
E cader giù le stelle nei profondo.
Poi vedea lieta In forma di Fortuna
Sorger sua Ninfa; e rabbellirsi il mondo t
E prender lei di sua vita governo ;
E lui con seco far per fama eterno.
Sotto cotali ambagi al giovanetto
Fu mostro de’ suoi fati U leggier corso ,
Troppo felice , se nel suo diletto
Non melica Morte acerba il crudel morso.
Ma die puote a Fortuna esser disdetto 1
Ch' a nostre cose allenta e stringe il morso;
Nè vai perdi' altri la lusinghi o morda,
Ch’a suo modo ci guida, e sta pur sorda.
Adunque il tanto lamentar che giova ?
A che di pianto pur bagnlam le gote !
Se pur convien eh’ ella ne guidi e muova ;
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STANZE. 3
Se mortai forza contra lei non puote,
Se con sue penne il nostro mondo cova;
E tempra e volge come vuol le ruote.
Beato qual da lei suoi pensier solve,
E tutto dentro alla Virtù s' Involse 1
Oh felice colui che lei non cura,
E che a’ suol gravi assalti non s’arrende ,
Ma come scoglio che incontro al mar dura,
0 torre che da Borea si difende ,
Suoi colpi aspetta con fronte sicura,
E sta sempre provvisto a sue vicende :
Da sè sol pende ; in sò stesso si fida ;
Ni guidato i dal caso, anzi lui guida.
Già carreggiando il giorno Aurora lieta
Di Pegaso stringea l’ ardente briglia :
Surgea dal Gange il bel solar pianeta ,
Raggiando Intorno con l' aurate ciglia:
Già tutto parea d’oro il monte Oeta :
Fuggita di I.aton era la figlia :
Surgevan rugiadosi in loro stelo
1 fior chinati dal notturno gelo.
La rondinella sopra il nido allegra
Cantando salutava il nuovo giorno :
E già de' Sogni la compagna negra
A sua spelonca area fatto ritorno;
Quando con mente insieme lieta ed egra
Si destò Giulio, e girò gli ocelli intorno;
Gli occhi intorno girò tutto stupendo.
D’amore c d’un disio di gloria ardendo.
Pargli vedersi tuttavia davanti
La Gloria armata in su l'ali veloce
Chiamare a giostra i valorosi amanti ,
E gridar, Giulio, Giulio, ad alta voce.
Già sentir pargli le trombe sonanti ,
Già divien tutto nell’ armi feroce.
Cosi tutto focoso in piò risorge ,
E verso il ciel colai parole porge :
0 sacrosanta Dea, figlia di Giove,
Per cui il tempio di Giano s' apre e serra ;
La cui polente destra serba c move
Intiero arbitrio c di pace c di guerra ,
Virglne santa, che mirabil prove
Mostri del tuo gran nume in ciclo e ’n terra,
Che 1 valorosi cuori a virtù infiammi ,
Soccorrimi or, Trllonia, c virtù dammi.
S'Io vidi dentro alle tue armi chiusa
La sembianza di lei che me a me fura :
S’Io vidi il volto orribil di Medusa
Farle! contro ad Amor troppo esser dura:
Se poi mia mente dal tremor confusa
Sotto il tuo schermo diventò sicura :
S’ Amor con (eco a grandi opre mi chiama.
Mostrami il porto, o Dea, d'eterna fama.
E tu che dentro all’ allocata nube
Degnasti tua sembianza dimostrarmi,
E ch’ogni altro pensier dai cor ini rubo,
Fuor che d'amor, dal qual non posso
aitarmi ;
E m' infiammasti , come a suon di tube
Animoso cavai s’infiamma all’ armi ,
Fammi Intra gli altri, oGIoria, si solenne,
Che Io balta ìnfuio al ciel teco le penne.
E s’ io son, dolce Amor, se son pur degno
Essere il tuo camplon contra costei ,
Contra costei, da cui con forza e Ingegno
(Se *1 ver mi dice il Sonno) avvinto sei.
Fa si del tuo furor mio pensier pregno,
Che spirto di pietà nel cor le crei.
Ma virtù per sò stessa ha l' ali corte ;
Perché troppo è il valor di costei forte.
Troppo forte, Signor, ò’I suo valore,
Chè , come vedi , il tuo poter non cura
E tu pur suoli al cor gentil , Amore ,
Riparar come augello alla verdura :
Ma se mi presti il tuo santo furore ,
Leverai me sopra la tua natura ,
E farai, come suol marmorea rota,
Cli’ ella uon taglia , c pure il ferro arrota.
Con voi men vengo. Amor, Minerva,
e Gloria,
Chè ’l vostro foco tutto il corm’avvampa:
Da voi spero acquistar l’ alta vittoria ;
Chè tutto acceso son di vostra lampa :
Datemi aita si, clic ogni memoria
Segnar si possa di mia eterna stampa,
E faccia umil colei eh' or mi disdegna ;
di' io porterò di voi nel campo insegna.
32
POEMI EROICI.
TRISSINO.
ITALIA LIBERATA.
LIBRO IX.
ARGOMENTO.
Da Partcnopo escilo il capitano
Giunge a Cassino, ove lasciato il campo
Sale iil]’ osici d'un eremita santo :
Ivi da lui condullo in uno speco
Vede del padre l'ombra, e per virtude
D'un anget entra in un llurito prato.
Golii su due miragli, ed il passato
Ed il futuro scorge; e quindi l’ombra
De’ poeti , de’ soli e do’ guerrieri
Illustri un tempo, a lui si fanno innanzi.
Vede sue glorie , c dell’ imperio il fulo ;
Inlìn che torna con Traiano al vallo.
La bella Aurora da 1’ aurato letto
Del suo caro Titon sì risurgea ,
Per apportare a noi 1' eterna luce;
Quando ’l gran capitallio de le genti,
Essendo stato in Napoli tre giorni ,
Se n’ usci fuor con tutto quanto’! campo,
E lasclov v'entro Erodlano altero
Con molta gente a guardia de le mura.
Ed egli se n’ andò verso Cassino ,
Per irsen quindi a la cittì di Roma.
E come pose il quarto alloggiamento ,
Trovossi a piè del solitario monte ,
Ov'era posta la sacrata cella
Di Benedetto; veramente spirto
Benedetto da Dìo , salubre al mondo.
Quivi il buon capitan mandando gli occhi
Verso la cima, vide un bel pratcllo ,
Cinto di alcuni altissimi cipressi ,
E di tre grandi e ben fronduti allori ,
Avanti ad una piccoletta stanza ,
Tanto divoto, c venerando in vista,
Quanto altra cosa mai che avesse scorta.
Onde gli nacque un desiderio ardente
DI visitar quell’ onorata cella ;
Ma non ardiva abbandonare il vallo ,
Pcrch'ei non era ancor tutto munito.
E stando in quel pcnsicr, venne la notte ;
Poi la mattina, anz'il spuntar de 1' alba
Gli apparve in sogno l’ ombra di suo padre,
Che spinse fuor di bocca este parole :
Figliuol mìo caro , che per tanti mari,
E per tanti perigli sei condotto
Al soave terren dove ch'io nacqui ;
Ascendi ancora a la divota stanza,
Ch' ha quell’ adorno e bel pratcllo avanU.
Quivi dimora un benedetto vecchio,
Tanto diletto a Dio, che gli fa noto
Tutto ’l secreto suo, tutto ’l futuro.
Pricgal soavemente, ch’c’ il mostri
Ciò che tu ilei schivare in questa impresa,
E ciò che tu dei far, per ottenere
Certa vittoria de la gente gota.
E priegaio anco ad impetrarmi grazia,
Dal Padre onnipotente de le stelle,
Ch’ io possa alquanto dimorar con teco
Visibilmente ne la propria forma.
Cosi gli disse l' ombra di suo padre ;
E poi subitamente indi disparve.
Onde T gran capitanio in piè levossi ,
E si vestì di panni, c poscia d'armi;
E tolto seco il callido Traiano ,
Andò sul monte a la dlv ota cella
Scnz' altra compagnia, senz' altra scorta.
E come fur tra quelli antiqui allori ,
33
ITALIA LIBERATA.
Che sono Intorno al prato , un vecchio
aperse
L’ uscio d’ un oratorio , e venne fuora ,
Degno di tanta riverenza in vista.
Quanto aver possa una terrena fronte.
Egli avea in dosso una cuculia bianca ,
Lunga lino a la terra , e la sua barba
Tutta canuta gli copriva il petto.
Questi andò contra Beiisario, e disse :
Capitanio gentil , quanto mi piace
Vedervi al nostro solitario albergo.
Buon tempo è , eh’ lo v' aspetto in queste
Per porre in liberti l’ Italia afflitta. [ parti ,
Or sia lodato Iddio , che siete giunto ;
Andiamo entr'a lachiesa , a renderprima
Grazie cd onore al Re de 1’ universo,
Ghc n’ ha condotti a si felice giorno ,
Dappoi ragionerem de l’ altre cose.
Cosi diss’ egli , e per la mano il prese ,
E dolcemente lo stringea, mirando
La faccia sua con un paterno affetto.
Poi lo menò ne l’ oratorio santo ,
E quivi udita una divota messa.
Che celebrò quel benedetto vecchio ,
Si poscr tutti a ragionare Insieme :
E prima il capitan cosi gli disse :
Padre gentil d' ogni virtute adorno ,
Grande amico di Dio , quando vi mostra
E v’ apre ogni celato suo secreto ;
Vedendo , clic sapete c quel eh’ io sono ,
E 1' alta impresa eh' lo son posto a fare ,
Penso, che ancor sappiate ogni pensiero
Che si rilruovi chiuso cnlr’al mio petto.
Pur vi discoprirò con la mia lingua
L' onesto mio desire , e quel eh' io bramo
Da la vostra santissima persona.
Vorrei saper, padre beato , come
Si deggia governar quest' alta impresa;
E ciò di' io debbia far, per ottenere
Certa vittoria de la gente gota.
Ancor vi priego ad impetrarmi grazia
Dal Padre onnipotente de le stelle ,
Che’l caro genitor possa parlarmi
Visibilmente ne la propria forma.
Deli fate , padre, questi onesti doni
Al divoto orator, che ve gii chiede ,
Cb' agevolmente gli potete fare,
Sendoco! Re dei del tanto congiunto.
Non gli negate a me , eh' lo vengo a porre
La vostra cara Esperia in libertade
Con le nostre fatiche , e 'I nostro sangue.
Cosi disse il barone; a cui rispose
Il buon servo di Dio con tal parole :
Illustre capitan, voi dite II vero,
Ch’io so l’alta cagion eh’ a noi vi mena :
Perchè sta mane , anz’ il spuntar de l’ alba,
L’angel Erminio, e l’ombra di Camillo
Mi disse ii tutto, c mi richiese a farlo:
Ed io liberamente gli promisi.
Ond’ ho pregato il Re de l' universo
Di queste grazie , cd ei ne fia cortese ;
Ma vi bisogna entrar dentr’a quel speco
Senz’aitra compagnia che le vostr’armc.
E quest’ almo signor starò qui fuori ,
Fin che s’adempia il bel vostro desire.
Cosi diss’ egli , e prese una gran chiave
Ch’ avea da canto , e disserrò la porta
D'una profonda e paventosa bucca ,
Tal clic ’l baron senti rizzarsi i peli
Per la persona a quell' orribil vista.
Pur entrò dentro, e la ferrata porta
Per sè medesma se gii chiuse dietro :
Onde restò nel cuor tutto confuso.
Mal' angelo , che stava ad aspettarlo
Ne la spelonca , gli toccò la testa
Con una verga che teneva In mano;
Ond' ei fu preso da profondo sonno ,
E cadde In terra , come fosse morto.
Dappoi lo tolse leggermente in braccio ,
E lo portò sopra un erboso colle
D'un più meraviglioso e lieto mondo.
Questo è la faccia del Signore eterno,
In cui descritte son tutte le cose,
Clic son , clic furo , e che dovran venire ;
Ma non la può , se non per grazia estrema,
Veder uom vivo ; e con tal grazia ancora
Non gli si mostra mal ne la sua forma.
Ma voi , che avete in elei divino albergo,
Eterne Muse , or mi donale aiuto ,
SI eh’ io possa narrar qual ei là vide.
Quel colle avea dal suo sinistro canto
lln specchio grande , assai maggior che ’l
Ov’ eran tutte le passate cose. [sole,
E poi dai destro ne teneva un altro ,
Ch’avca dipinto in sè lutto ’l futuro.
E per quel colle ogni presente effetto,
Ch’ usciva fuor del destro albergo, andava
Correndo a l’ altro con mirabil fuga.
Ma questi sono a Dio tutti un sol specchio
Se ben paion diversi a noi mortali.
Or quivi adunque in un erboso prato
L’ angel depose Belisario ii grande ,
Ov’ era allegra l’ ombra di Camillo
Suo padre , uscita del sinistro cerchio,
Per dimorar col suo figliuol diletto.
Ma come poi ih smisurata luce,
Di
34 POEMI
Ch'acca quel loco, aperse gli occhi gravi
Di Belisario , e gli disdoisc li sonno ,
Conobbe 11 padre ; e fattoseli centra
Per abbracciarlo , lacrimando disse :
0 caro padre mio, quanto ni' allegro
Vedervi in questi fortunati alberghi ,
Dopo tante fatiche e tanti affanni !
Cosi dicca piangendo e sospirando ;
E poi voleva circondarli il collo
Con le sue braccia ; ma quell’ ombra lieve
Si risolveva , come fa una spera
Di sole , o come una compressa nebbia ;
Tal ebe le braccia non strlugevan nulla.
Edei piangea dicendo : Ah nou fuggite,
Lasciatemi abbracciar si care membra.
Dopo queste accogliente , il buon i’a-
Guardava Oso Belisario io volto , [ rnillo
Com’ uom elio vede tutto il suo conlento ;
Poi dolcemente sospirando, disse :
Diletto mio figlino! , che grave soma
T' ha posto adesso il corrcttor del inondo t
Guarda ben , che sott’ essa non trabocchi ;
Acciò che poi qualche fortuna avversa
Non t'adombrasse le vittorie avute.
L' angelo Erminio aiior segui dicendo :
Dunque, Camillo mio, percU’ei non
caselli
Ne l’error che tu temi , io vo’ mostrarli
Quest’ onorato specchio da man destra ,
Ch' ha in sé raccolto tutto l'avvenire;
Qte ’l Re del del m' ha detto, di' io gli mo-
Le cose che verran fin’ a miil'anni, [stri
E ch'io non debbia trapassar quel segno.
Ma perchè meglio lo comprenda , c noli ,
Fla buon che porga una leggera occhiala
Nel specchio a man sinistra del passalo.
E cosi dello, gli disdoise il velo
Che l’ incarco d'Adamo intorno gii occhi
Gli aveva involto ; e poi gli disse : Or mira
L’ anime ch'cscon da la destra sfera ,
E se ne vari correndo a la sinistra
Per questa nostra commutabii parte.
Questi son quei , che vengono a la vita ,
E prendono un boccoli per ciascun vaso
De i dui, che son ne' lati de la porta,
L' un plcn di dolce, e l’ altro plen d' amaro.
Tenuti saldi in man da dui donzelli ;
Nè ponno a vita andar senza gustarne. »
Mira colui , che tol dal destro vaso
IL boccon primo di dolcezza immensa.
Poi si rivolge con diletto a l’altro.
Perchè lo crede parimente dolce;
E pigliane un boccon maggior del primo
EROICI.
Ma trova questo esser si forte amaro,
Ch' a pena a mal suo grado può giottirlo.
Vedi quell’ altro, che '1 boccon primiero
Tol da l’amaro del secondo vaso,
E poi si volge timoroso a l' altro ,
Perchè lo crede parimente amaro;
Onde piglia un boccon minor che '1 primo,
Dal vaso dei dolcissimo liquore.
E però avvien, che questa vita umana [ce.
Sempre ha l'amaro suo maggior, che 1 dol-
Qucl giovinetto poscia , e quella donna
Che dopo il manducar gli porgon bere;
L' uno è l' Errore, e l’ altra è l’ Ignoranza.
Guarda quelle lascive meretrici ,
Varie di veste e d’ apparenzta vaga ,
Clic vanno intorno a i giovinetti incauti ,
E cercano d' indurii al loro amore :
Queste son le diverse opinioni ,
E le diverse voluttà!! umane ,
Che reggono la vita de le genti ;
Mira, eh' alcuna guida i loro amanti
A dritto calle , e l' altre i scorgon poi
A mal cammino, c precipizio orrendo.
Quelle tre belle giovinette ignude ,
Che due di loro a noi mostrano il volto,
Ma quella, cb’ è nel mezzo, e tien le braccia
Sul petto a i' altre, volge In qua le spalle,
Per non mirare il beneficio latto ,
Poi che quell’ altre due con vista allegra
Risguardan sempre al ricevuto bene :
Queste son le tre Grazie, il cui bel nodo
Conferma c lega il buon commercio umano
Vedi una donna la sopra un gran sasso
Quadrato, e sodo, quella è la Dottrina :
E l’ altre due , che poi le stanno a canto
Son sue figliuole , e si dimanda i' una
La Vcritade e la Ragione è l’altra.
Quella eli' è cieca là sopra una palla
Rotonda, c che non posa, è la Fortuna,
Ma le tre vecchie poi , che insieme stanno,
E l’ una tien la rocca , e l' altra il fuso ,
I.a terza il stame tronca , son le Parche ,
Che filano le vite de i mortali.
Quella rbe è si superba, è la Bellezza;
L'altra è la Nobiltà, l’ altra la Gloria;
E l' altra è la Ricchezza , che non cura
Infamia ed odio, e di sò stessa gode.
Quel fanciulli-! lo è il Riso eh' è si allegro ;
Quell' altro è ’l Giuoco poi che con lui
scherza.
Vedi due belle donne , e dui fanciulli ,
Che I' una guarda il elei , l’ altra la terra ;
Quelle son le due Veneri , e gli Amori ,
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ITALIA LIBERATA. 55
Celesti P una , e P un : gli altri del vulgo.
Quella che è II, tutta vestila a verde,
E mai non gli abbandona , è la Speranza :
E quello è 11 Sonno neghittoso e lento.
La donna poi , che su quell’ alto scoglio
Siede gioconda , e tiene il scettro in mano,
È la Feliciti , che voi mortali
Cercate sempre , e mai non la trovate.
E quelle damigelle , eh’ Ivi intorno
Stanno ad servigio suo, son le Virtuti.
Rivolta gli occhi a la sinistra parte ,
Mira quell’ altre sanguinose e crude
Donne , che paion ti feroci in vista ;
L’ una t la Guerra e l'altra è la Vendetta.
Vedi la Povertà , conosci il Pianto ;
E la Pena più fiera assai che un drago.
Conosci P Avarizia e la Vecchiezza ,
E la Fame e ’l Fastidio e la Fatica ,
La Discordia, P Affanno e'i Tradimento,
E l’empia Ingratitudine, eh' è sola
Causa e radice d’ infiniti mali.
Oìmè ! non dimoriam più lungamente
Fra queste orrende c venenose serpi.
Andiamo, andiamo a la sinistra sfera.
Che ha le cose passate; entriamo in essa.
Per starvi un poco, e poscia andar ne Pai-
Cosi parlando l'angelo , menoili [tra.
Con gran celerità nel manco albergo.
Quella amplissima sfera avea tre porte,
La maggior de le quali era guardata
Da le figliuole de P antico Cadmo ;
Queste aveano con seco il bel Poema ,
E la gentile Istoria sua consorte ,
Con altre molte generose ancelle.
L’ altre due porte poi , eh’ eran minori ,
L' una lenea la Favola per guardia ,
L’ altra la Statuaria e la Pittura ;
Ma quello eterno messaggier del deio
Gli fece intrar per la primiera porta ,
De le brunette giovani Fenid.
Come fur dentro , videro un gran mondo.
Con più bel lume assai che ’l nostro Sole ;
Con altra Luna e con più chiare stelle.
Eranvi prati, con fontane e rivi,
E si cari arbuscei , si vaghi fratti ,
Ch’ era diletto estremo a riguardarli.
Belisario stupì di quella vista ;
E rivolgendo gli occhi In ogni parte ,
Vide a man destra un bel fiorito colie.
Ne la cui cima era una vaga fonte ,
Con più chiar’acqua.e di più larga vena,
Ch' aere converso mai mostrasse al sole.
Quivi un bel vecchio con intonsa chioma,
E con barba canuta, ed occhi oscuri,
L' aveva in guardia , e dispensava a tutti
Il buon liquor de P onorato monte.
Allora nacque un desiderio immenso
A Belisario di saper chi egli era,
E dimandonne a P angelo in tal modo ;
Vero amico di Dio, celeste messo.
Non vi sia grave dir , chi sia quei vecchio
Che dispensa tant’ acqua ; e quella gente
Clie sitibonda va d’ intorno al colle.
A cui rispose il messaggier del cielo :
Quello è ’l di viti da voi chiamato Omero,
Che parve cieco al mondo ; ma più vide ,
E seppe più ch'attr'uom ebe fosse In terra ,
Per la cui patria ancora Atene e Smirna;
E cinque altre città fanno contesa.
E le donne leggiadre , che d’ intorno
Gli stanno e per ancelle, e per ministre,
Son le da voi si celebrate Muse ,
Figlie de la Memoria e de P Ingegno.
Quel che tol l’ acqua con si largo vaso
Dal sacro vecchio, e il buon Virgilio vostro,
Chesegul priinaSiracttsa,edAscra ,
Per selve e campi , e poi divenne a l'arme.
Ecco Euripide e Sofocle , ecco il Calvo ,
Che parve pietra a quel volante uccello j
Onde lasci ovv i ir la testuggìn sopra ,
Per lei spezzare e lui condusse a morte.
Vedi con lor Pacuvio , ed Azzlo ; o Varo ,
Fra la non molta tragica caterva.
Mira quell’ altra gente , che ridendo
Pigliano P acqua ; il primo è il gran Menati-
Poi Filcmo, Aristofane e Fratino, [dro,
Cecilìo grave , con Terenzio e Pianto.
Risgttarda poi la lirica famiglia,
Pindaro, Saffo, Anaereonte, Alceo,
Catullo il dotto , e poscia Orazio e Basso.
Volgi la vista a la Elegia , che mena
Al dolce ber Callimaco , e Fìleta ,
E Properzio , e Tibullo , Ovidio e Gallo.
L’ Egloga il suo Teocrito conduce ,
Senza nuli’ altro Greco; c l’accompagna
Il vostro Mantovan da lunge alquanto.
Già potuta fine al sito parlare accorto
L’ angel di Dio , quando ’l baron gli disse :
Deh grave non vi sia , celeste messo ,
Di nominarci ancor quella bell* ombra ,
Che par si dotta , ed ha la coscia d’ oro ;
E di quegli altri che gli stanno intorno.
A cui rispose il messaggier del cielo t
Questi è il dotto Pitagora da Samo ,
Quell’ altro 6 Archita , e quello * quel , che
Nomò per savio P apollinea rote , [solo
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36 POEMI
Socrate, ch’ebbe si ritrosa moglie,
E fu li primo inventor de la morale.
L* altro è ’l divin Platone, e quel eh’ è seco,
È il gran speculator de la natura ,
Onde i Peripatetici ebber orto.
E quello è Zenofontc attica musa.
Vedi il buon Epicuro e i duri stoici ,
Che volean fare ogni peccato eguale :
E Diogene Cinico e Aristippo,
Molto contrari ne le sette loro.
Ecco Nigidio Figulo c Varronc,
Fra quella turba italica sì rara.
Volgi la vista un poco a l'altra parte ,
Vedi Ippocrate medico eccellente ,
Con quello Eccellentissimo Galeno,
Clic vinse ognun d’ esperienza, e d’arte.
Vedi Oribasio c Paulo , clic ’l seconda.
Efrai Latini Antonio Musa e Celso.
Risguarda alquanto quelli acuti ingegni
Euclide e Tolomeo , con quel da Porga ,
Che la materia conica pertratta ,
Con le sue sezlon, che sono il cerchio,
E l’ elipsi e l’iperbole, con 1’ altra ,
Che sola è differente dal cilindro.
Ma dove lasciam noi le chiare trombe
Demostene ed Escliin ? guarda più in alto ,
Gilè gli vedrai contendere, ed urtarsi,
Presso a l’ antico Isocrate e Lisia.
Vedi quel Marco Tullio fra i Romani,
Che fu la idea de 1’ eloquenzia vostra.
Vedi Messalla, vedi il buon Sulpizio,
Antonio e Crasso fra 1* immensa turba
Di tanti degni spirili eloquenti.
Non vo’ lasciar gl' istorici da canto;
Quel vecchio, che si sta fra quelle Ninfe ,
Erodoto è, Tucidide ò quell’ altro,
Che con lui giostra , e ’l buon Polibio è ’l
VediSalustioc Cesare , che vanno [terzo;
Innanzi a Livio , orni’ ei gli guarda torti.
Vedi Plutarco e Plinio, c quelli acuti
Grammatici, Apollonio e Prisciano.
Ma non star più , baron, fra tanti ingegni ;
Chi cbi volesse riguardarli tutti ,
Non si potria mirar nuli’ altra cosa ;
Bastiti avere i più famosi udito,
Però volgiamo! a quei eh’ ebber possanza
Maggiore, e fur più cari a la Fortuna ,
Bieca l’angcl di Dio ; d’ indi nicnollo
Ov' eran duchi , impcradori c regi,
Tutti divisi in tre vallette amene.
E come giunse ne la prima valle,
Si volse lieto a Belisario , e disse :
Qui si dimoran 1' ombre di coloro,
EROICI.
Cli’ ebbero I regni gloriosi In terra.
Guarda colui , eh’ a pena si discerne ,
Tanl' è lontan; quello è 1' antiquo Nino ,
Cli’ ebbe ne l’ Asia si famoso impero :
E la sua moglie Babilonia cinse
Di mura laterizie con bitume.
Quel , che da gii altri è separalo alquanto,
È Moisè, il qual per volontà divina
Condusse il popol suo fuor de l’Egitto;
E quello è David re , che cantò i Salmi ,
Che son da voi si frequentati e letti ; [pio.
Quell’ altro ò Salomon , che fe’ il gran tem-
Rivoita gli occhi ov’è quella gran luce,
Vedi Agamennon re degli altri regi ,
Che andaro a Troia ; c Menelao suo frate .
Quell'altro è Achille, che ne l’aspre guerre
Non si polca nè vincer, nè ferire.
Vedi Diomede , Aiace, Idomcnco,
Neslor, Ulisse e Stendo , con gli altri
Clic stcr dicci anni Intorno a quelle mura.
Da l' altra parte è Priamo ed Alessandro,
Ed Ettor, quasi incspugnabil torre
De la sua patria , col fìgliuol d’ Anchtse ,
E con Polidamante, ed altri molti ,
Gie la difescr quel si lungo tempo.
Dopo costor mira 11 fìgliuol di Marte
Romulo, questi diè l’ inizio e *1 nome
A la citlà , che ha dominato il mondo;
A la città, che la sua gloria innalza
Fili al supremo cerchio de le stelle ;
Ed ebbe sotto il suo divino impero
Ciò che ’1 elei copre e che circonda il mare.
Vedi dlctroa costui Pompilio eTiillo [ tro
Sedere , e Marzio, cl’un Tarqulnioe Pai-
Che ’l sangue di Lucrezia Indi l'espulse.
Mira quel re , eli* ha si benigno aspetto ;
Quello è II gran Perso, nominato Ciro,
Padre de la milizia c de i soldati ;
Da la cui vita ancor si tol la norma
D’ acquistar regni e governare imperj. [de,
Quel eh’ è si ardito , fu Alessandro UGran-
Clic andò vincendoli mondo lino a gl’indi.
Seleuco e Tolomeo gli vanno dietro,
Soldati suoi , poi re de l’Oriente.
Non ti vo' nominar Catnbis c Scrsc,
E Dario, ed altri di ntinor virtute,
Se ben fur regi sontuosi c grandi ;
Basti il notar le più famose teste.
Vedi dui Macedonici Filippi ,
Vedi un Demetrio espugnator di terre.
Quello è Pirro Epirota , e quello è il vec-
Rc Massinissa, e poi lugurta e Rocco, [chio
Quei sono Antioco, Mitridate e Perseo,
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ITALIA
di’ ebbero al loro ardir sì dura sorte.
Guarda color, che son pressoa l'entrata,
Atila II crudo, che Aquilcìa prese,
Mosso dal dipartir de le cicogne.
Vedi Alarico, che dopo mill’anni
E cento, e più, con ingegnosa fraudo
Saccheggia e prende la città di Roma;
E poi sepulto fia presso a Cossenza
Sotto ’l gran letto del corrente fiume.
Dopo costui Giscrìeo a tal preda
Corre chiamato da l' irata Eudossa
E spoglia Roma con rapina immensa.
Vedi poi Teodorico, che in Ravenna
Con fraude uccide II perfido Odoacro;
D’indi governa ben l'Italia afflitta.
E quel clic gli vieti dietro , è suo nipote
Teodalo re, che qui sen veti' iersera,
Deposlo del suo regno , e poscia estinto.
Come fu nota l’ ombra di Teodato
A Belisario, in lei guardando, disse :
0 mal felice re , quanto era meglio
A non mandar la tua cugina a morte,
E servar fede al correltor del mondo !
Perchè del mal non suole uscir mai Itene.
Cosi diss' egli ; a cui rispose 1’ ombra :
Ognun dopo l’ error diventa saggio ,
Se la fortuna al suo pensier ribella.
Cosi face' io, cosi farà colui,
Che mi fece ire ani’ il mio tempo a morte.
Quando sarà prigion ne le tue mani.
E detto questo , subito si tacque.
Allora l’angel glorioso disse :
Non è da star più tempo In questa valle.
Andiamo a l’altra, ove l'imperio siede,
Che solca tutto governare 11 mondo.
Cosi parlando, se n’enlraro in essa.
Poi l’ angel seguitò : Guarda quell’ ombra,
Che par si ardente e si feroce In vista ,
Quello è’I gran dittator.che vinse I Galli,
E poi ruppe In Tessalia il gran Pompeo;
E si fe’ serva la città di Roma ,
Che l’ avea generato , ond’ el fu morto
Da i veri amici de la patria loro.
Colui, che ’l sieguc,òil fortunato Augu-
Che fece dirsi impcrador del mondo , [sto ,
Quando ebbe rimo Marcantonio in mare,
Con la regina del secondo Egitto ;
E chiuse il tempio del bifronte Giano.
Non riguardar Tiberio , c Caio e Claudio ,
Ch’ imperar dopo lui , nè il Ber Nerone ,
Nè Galba.ed Oto, nèVitcllioil grasso,
Che non fur degni di sì gran fortuna.
Guarda Vcspaslan , col figlio Tito;
LIBERATA. 37
L’ altro non già , eh’ ebbe condegna morte.
Guarda ancor Ncrva e l’ ottimo Traiano,
Assunto al grande imperio fuor di Spagna ,
Di Spagna genitrice de la gente.
Più vaga de l’ onor che de la vita.
Mira Adriano ed Antonino il Pio,
Principi eccelsi , e quel mirabil Marco ,
Di cui non fu già mai signore In terra
Di piti sant* opre, e di maggior virtute.
Non risgttardare il suo figliuolo indegno
Di tanto padre; mira Pertinace ,
E lascia Giullan, guarda Severo;
Ma non guardar nè il figlio , nè Macrino ,
N' Eliogaballo infamia de le genti.
Mira il buon Alessandro, e lascia stare
Massimino, e Baibino, e Pupleno,
E gl’ infelici Gordiani , e I tristi
Filippi , c Dccio , e Gallo e Valcriatto ,
Con Gallono suo figlluol , eli' afflisse
L’ imperio, e fu di molta ignavia carco.
E guarda Claudio poi che vinse I Goti ,
E tanti n’ uccìdeo , tanti ne prese ,
Che empio di servi ogni provincia vostra.
Vedi il valente Aureliano In arme.
Che Zcnobia menò nel suo trionfo,
E mira quello eletto dal senato ,
Tacito, pioti d’ ogni gentil virtute.
Guarda il gran Probo, eh’ acquistò la pace
Universale a tutto quanto 11 mondo ;
Onde per sdegno i pessimi soldati ,
Che la guerra volean , gli dier la morte.
Quell’ altro è Caro; c quello è quel buon
prence
Dioclezlan , clic poi che ’l mondo vinse,
E governol veni' anni in tanta altezza ,
Depose giù quell’ acquistato Impero;
E visse poi dieci anni in bel giardini
Privatamente ià presso a Satana;
Nè volse ripigliar l' imperio mal ,
Ben che di ciò ne fosse assai pregato.
Dopo Masslmlan, Galerio e Cloro,
E Severo c Licinio, che nimico
Fu de le lettre , c le appellava peste.
Vicn il gran Costantino , il qual fu il primo
Fautore aperto a la cristiana fede ,
Questi instaurò Bisanzo , e fece! tale ,
Che concorrea con la città di Roma;
Ond’ or Costantinopoli si chiama.
Quello è 11 buon Giullan , eh’ è suo nipote ,
E fu si amico a I studj de le Muse ,
Ma non a Cristo , onde fu forse estinto.
Non risguardar Giovìnlano , e mira
Quel Vaienti nlan che gli vicn dietro
Digi
38 POEMI
Con Valente suo frate , e col figliuolo
Nomato Graziano , e col nipote ,
Ch' Imitò 1' avo suo se non col nome.
Quello è Teodosio poi , che ’l mondo parte
Ad Onorio, ed Arcadio suol figliuoli.
Onde ne seguitò si gran ruina
A l'onorato imperio del Ponente;
Chi Roma fu veduta andare a sacco
Dal fiero inganno de la gente gota.
Poi Valcnlintan , eh’ Aezio estinsc
Lascia , ed Avito , e Maiorano , ed anco
Severlano , Antemlo , e poi Liberio ,
E Gllcerlo , c Nepotc , e quello Augusto ,
In cui fini l’imperio d’Occidcnte;
Perciò che ’1 re de gli Eruli il deposc ;
E dopo lui vacò quella gran sede,
E vacherà , se ben tu la racquistl.
Da l' altra parte è Marziano, e Leo,
Mira, e Zenone Isauro, che fu vivo
Da la moglie sepolto ; e dopo lui
Vedi Anastagio fulminato In terra.
Quand'ebbe gli anni prossimi a nonanta ;
Costor l'imperio avean de l'Oriente.
Allora il capitan rivolse gii occhi ,
E visto che Giuslin dopo Nastagio
Sedea ne l’ alto e glorioso seggio ,
Corse divoto ad abbracciarli I piedi ,
Per onorar 1' antiquo suo signore ;
Ma nulla strinse , onde sorrìse l' ombra ,
E disse : Belisario mio gentile,
Quel che ti mena in questa nostra sfera ,
Ti dovea dir , che cosi fatti offici
Mai non si fan tra I’ alme de i defontl ;
Perchè slam tutti in questi luoghi eguali.
Vattene pur al dritto tuo tiaggio;
E se ritorni su, narra al mio figlio,
Che si prepara a lui quell’ ampia sede.
Che vedi là , si gloriosa ed alta.
Quanto alcun’ altra de la nostra valle.
Cosi disse Giustino; c’I capitano
Già volea fare a lui lunga risposta.
Quando l' angcl di Dio disse : Barone ,
Non star a consumar parlando II tempo
Con l’ ombre lievi , bastiti 11 vederle.
E detto questo , il pose ne la terza
Valle, che aveva i capitani antichi :
E gli mostrò Temistocle, che vinse
Con trecento galee tre mllia navi
Nel stretto, che è vicino a Salamfna,
E Milziade, e l’invitto Epaminonda,
Alcibiade e Gilippo , e Agesilao ,
Trasibulo, Lisandro c Timoteo,
Con molti c molti valorosi Greci.
EROICI.
D' indi rivolto al gran popol di Marte,
Mostrolli I dui Scipioni , c ’l buon ( .ani ilio,
li gran Pompelo , e il fortunato Siila ,
Marcello, Mario, Paulo Emilio e Fabio,
E Metello Numidico e Lucullo,
E quei di libertà sì grandi amici
Fabrizio , Decio , Calo , Cassio e Bruto ;
Con tanti capitan d’una sol terra.
Quanti di tutti e popoli del mondo.
Poi fra i Cartaginesi dimostroili
Annibaie eh' andava Innanzi a gli altri ,
E ’l suo destr’ occhio avea privo di luce.
Ed era seco Amilcare suo padre ,
Cognominato Barca, onde fur poi
Detti i Barchini, e Barellinomi in Spagna.
Poi seguitando, disse a lui rivolto :
Vedi aneli’ Aezio, eh' Alila sconfisse
Ne’ campi catclaunici , e se questi
Da l’ingrato signor non era estinto.
Alila mai non vi Tacca quei danni.
Ve’ Bonifacio, ed Aspare che puotc.
Far altri impcrador, ma non sè stesso ;
Perciò eh' era ariano , e quella setta
Era in quel tempo da I' imperio esclusa.
Qui , Belisario mio , sarà il tuo nido ,
Poi eh’ arai vinta l' Africa e I' Europa ,
E consonata l' Asia al grand' impero,
Avendo appresso te dui re prigioni,
E dui notabilissimi trionfi.
Come s' avviva al sospirar de* venti
Carbone acceso , o quasi estinta fiamma ,
Colai divenne Belisario in fronte
Al dolce suon del destinato onore.
Nè mcn fu lieta I’ alma di Camillo ,
Vedendo al suo Ogliuol si degno albergo.
Ma tempo è che si vada a l’ altra sfera ,
Disse quell' angel glorioso c santo.
Si che non guardar più quei sacerdoti,
Nè quei eh’ han sparso per la patria il san-
Nèl condì lorde le ben poste leggi, [gue,
Nè gli ottim’ Inventor de 1’ ulti arti.
E detto questo , uscì di quel gran loco ,
E s' avviò per gire al destro cerchio
Con Belisario e 1' ombra di Camillo.
Quel cerchio avea sei porte, onde s'inlrava
Al contemplar de le future cose.
La prima avea la Profezia per guardia ,
E la seconda il Sogno , e la Mania
Tenea la terza , e poi l’ Astrologia ;
Ma la Negromanzia reggea la quinta,
La sesta era in custodia de le Sorti.
L’ angelo Erminio poi menò i baroni
Per quella porta che guardava il Sogno ;
ITALIA LIBERATA. J9
E come fu roti uè la destra sfera,
Trovaron l’ acre nebuloso e bruno ,
Simile a quel eh' al giunger de la notte
Si sparge lo eie! con 1* oscurata Luna.
Perù gli disse il messaggier divino :
Capitatilo gentil, volgi la vista,
E ben affisa gli occhi in quella gente,
Che siede Intorno ad una gran cittade ,
E tenta mille modi per pigliarla ;
Ma quel baron , che è dentro , la difende ;
Onde s' adopra ogni lor forra indarno.
Guarda se ti conosci esser colui ,
Che la difende ; e se conosci Roma ,
E gli aspri Goti che gli stanno intorno ,
Più numerosi , che non è l’ arena
Ne’ marittimi liti , o i pesci in l’ onde.
Quivi darantì assai fatiche e danni ;
Ma guarda un poco in là che tu gli cacci
Con vituperio lor fin a Ravenna.
Mira poi , che Ravenna ancor si rende ,
Dopo quelle vittorie , a le tu mani ;
E meni U re prigton dentri a Disamo ,
Con tanta preda e tanta gloria teco ,
Quant’ avesse uom gii mal che fosse al
Allora il capitanio alzò le mani , [mondo.
E gii occhi a] deio , e sospirando disse :
Quanto vi debbo , o Provvidenza eterna,
Ch’ apparecchiate a le fatiche nostre
Questo sì caro e glorioso pregio !
Poi l’ angui santo seguitò ’l suo dire :
Mira color che restano al governo
D’ Italia dopo te , come son lenti
A riparare a la surgente fiamma ;
Onde i rimedj lor saranno indarno.
Vedi Aldibaldo nuovo re de’ Goti
Romper VitcUio lì presso a Trivigi ;
Vedi poi Belio, eh’ Aldibaldo uccide
Per la moglie d’ Urei che gii fu tolta.
Ne la cui sede Alarico vien posto :
Ma poscia aneli’ egli è parimente ucciso ;
Onde Tolda ascende a quell’ altezza.
Mira ancor qui la presa di Verona
Dal valoroso Arlabazo, e dappoi
L’ ignavia de i prefetti che la perde.
Vedi poi come Totila combatte
Con quei Romani lì presso a Faenza,
E tosto i rompe ; e parimente ancora
Rompe a Fiorenza le romane squadre.
Poi prende Benevento , e manda a terra
Le mura ; e piglia i Calabri , e i Lucani ,
Ed i Pugliesi con prestezza immensa.
Vince Demetrio con l’ annata in mare ,
E poscia il prende, e coi capestro al colio
A le mura di Napoli ii conduce ;
Onde la terra misera si rende j
Ed el le spiana le eminenti mura.
Poi mette assedio a la cittì di Roma,
Onde r imperador II fa tornarvi
Con poca , e poco valorosa gente ,
E senza alcun favor de la Fortuna ;
Chè ’l Re del elei sarà con lui sdegnato ,
Ch' avendo avuta una vittoria tale ,
Qual tu gli dai , non riconosce averla
Da Dio , nè da 1’ estreme tue fatiche ;
E non vi rende i meritati onori.
E però non potrai donare aiuto
A l’ infelice assediata Roma ;
Onde con tradimento ella fia presa
Dal crudo re disposto di spianarla.
E manda i muri primamente a terra ,
Poi vuol distrugger gli edifici tutti ,
Ma per lo scriver tuo gli lascia In piedi.
Ben la fa vota d’ uomini ; onde resta
Quella cittì eh’ ha dominato il mondo ,
Con le sue case desolate ed arse.
Nè solamente la cittì di Roma
Vedi per terra, ma I’ Italia latta
Veder potrai con le spianate mura
De le cittì eli’ a Totila si dlero.
Tu ben dappoi ti sforzi ancor munire
L’ onorata regina de le terre,
E le fai ritornar la gente dentro.
Ma poi che con grand’ arte 1’ hai munita ,
Quel dispietato Totila ritorna
Con 1’ esercito suo per prenderl’ anco;
Ma nulla fa , eh’ ella è da te difesa.
Onde senza profitto indi si parte
Con vergogna e con danno ; e qui s’ avve-
di 'esser potrebbe alcuna volta vinto, [de,
Tu poi ti parti fuor d' Italia , e vai
A guardar I’ Asia dal furor dei Persi ;
Come t’ Impone il corrcttor del mondo ,
Per volontà de le superne rote.
Ma quando poi sarai partito quludi ,
Totila piglierà I' afflitta Roma,
Col nuovo tradimento de gl’ Isauri;
E manderà quei cittadini a morte.
Vedi che prende Corsica e Sardegna,
E scorre la Sicilia , e fa gran prede ;
Poi divien possessor d' Italia tutta.
Da poche terre in fuor eh’ avean gii Esar-
Onde l’ imperador placando prima [ ehi.
Il Signor di là su , eh’ era sdegnato ,
Manda il prudente c callido Narsete
Contra questo crudel , con tanta gente ,
Che cuopre tutu la campagna d’ arme;
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POEMI EROICI.
E quando giunto fia ne la Toscana ,
Verrai» il crudo Tolila a T Incontro,
Con tutto quanto 11 fior de’ suol soldati ;
Ivi combatte , ivi fia rotto e vinto
Totila , ed ivi ancor correndo in fuga ,
Vedi clic Asbado Gepido il ferisce ,
Onde ne more ed è sepulto a Capra.
E vedi poi la femminella gola ,
Che mostra 11 loco , ove sotterra è posto.
Ecco i Romani die lo traggon fuori ,
E veduto che 1' bau, lo tornan sotto;
Vedi die ’l forte Teio a luì succede ;
Vedi di' ucciso è là presso al Vesevo,
Mentre che piglia in braccio il terzo scudo,
Ch' arca cangiato il primoe poi il secondo
In quella ferocissima battaglia;
Perdi’ cran pieni di saette e lance.
Quello ó ’l suo capo che si porta intorno
Sopra quell' asta , c si dimostra a tutti.
Ne però I Goti lasciali la battaglia,
Per esser senza re; ma si combatte
Fin a l’oscuro tempo de la notte.
Il di seguente si combatte ancora
Infin al tardi e poi si viene a patti ;
Chò i Goti si cnnlcntan di lasciare
Tutta la Italia libera a i Romani ,
E passar l’ alpi con le mogli loro ;
Nè mai per tempo alcun venirgli contra.
Cosi con questi patti se n' andranno ,
E passeranno a I' isola di Tuie;
Onde arà Un quella lerribil guerra ,
Poi clic durata fia presso a vent* anui.
A quel parlare il capitanio detto
S’ allegrò tutto , e sorridendo disse :
Or avverrà quel clic Procopìo espose
Nel primo cominciar di questa impresa;
Quando mirando il grand’ augurio, disse :
Clic 1’ altro drago ancor rimarria morto
Per le man nostre , e fia l'Italia sciolta.
Quel drago adunque e Totila, ch'ucciso
Sarà per la vittoria di Narsete,
Che riporrà l’Esperia in liberladc.
Cosi diceva il figlio di Camillo ;
Onde l’ eterno messaggier del cielo
Con la fronte assentii» , e poi seguette :
Vedi , che ’l grande Giustiniano arriva
Al fine , c satisface a la natura ,
Volando al del con le purpuree piume.
Vedi poi , clic succede al grande impero
Giuslino e la bellissima Sofia,
E rivocan d’ Italia il buon Narsete ;
Poi quella donna garrula si vanta,
Che lo farà filar tra le sue serve ;
Ond' ei per sdegno ordisce un' aspra tela
Col fiero Albino re de' Longobardi.
Il qual , come Narsete a morte giunga.
Si piglierà l’Ausonia intorno al Pado;
Si clic l’ ingratitudine ancor fia
Nuova ragion clic Italia si ruini.
Ah vizio intollerabil de le genti,
Vizio, elle mandi a terra ogni virtute;
E noci al mondo più d' ogni altro errore !
Vedi poi , come il scellerato Albino
Fa , che Rosmonda sua consorte beva
Col vaso de la testa di suo padre,
Clic fia da lui ne la battaglia ucciso ;
Onde la donna da glusl' ira mossa
Uccide il fiero suo marito, e fugge
Con Almachildc poi dentr' a Ravenna.
Vedi anco come dietro al bel Giustino
Siede Tiberio , e poi Maurizio c Foca;
E d' indi il buon Eraclio, che sconfisse.
Corrode , ed arde Persia , e ne riporla
Un gran trionfo con la croce avanti;
La fiamma là , che ne l' Arabia nasce ,
E di' arde l’Asia e l’Africa, e trapassa
In mezzo Europa , c fagli immensi danni ,
Fia di Maumctto; il qual con nuova setta,
Che Sergio gli darà , farà adorarsi;
E fia il flagcl de la cristiana fede.
Vedi la stirpe, che d’ Eraclio nasce.
Governare ottani’ anni il grande impero.
Mira l.eonzo, e Absiiniro , con gli altri
Eletti Imperador de l'Oriente,
Infino al tempo de la bella Irene.
Quivi l' imperio occidentale ancora
Ritorna in piedi, c si riporta in Francia;
Coronandosi in Roma Carlo Magno
Da Leon papa, quando arà difesa
La Chiesa , e preso il re de' Longobardi ,
Ch' avean tenuto quasi Italia tutta
In dura servitù cento c cent' anni.
Vedi l’ imperio d’ Oriente posda
Calare, infin che Balduino acquista
La famosa città di Costautluo;
La qual il Palcologo poi ripiglia,
Avendo ucciso il suo pupillo , e tolto
Al successor de i Lascari l’impero,
Che poi starà ne 1' onorata stirpe
De i Psicologi», d‘ uno in altro erede.
Fin che Maumctto gran signor de’ Turchi
Prenda Costantinopoli , e ruini
La casa palcologa; perchè ucciso
bla Costantino in quel conflitto amaro;
Onde arà fin l’ imperio d’ Oriente.
Come udì questo il capitanio eccelso,
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41
ITALIA LIBERATA.
Non poleo ritener le guance asciutte;
Ma fur d’amaro lacrime coperte,
Per la pietà del miserabil fine ,
Cb’ aver dovea quel glorioso impero.
Poi seguitando , l’ angelo gli disse :
L’ imperio d’ Occidente, dopo Carlo,
Arà tre Lodovici, con dui Carli ,
Un Lotario, un Arnolfo; c poi si parte
Di Francia , e vicn condotto in Alemagna ;
E dassi ad Otto duca di Sassogira
A cui succede il second’ Otto, c’1 terzo.
Questi ritornerà Gregorio papa
In sede; onde elettori al grande impero
Dappoi faransi principi germani.
Tre saran sacri; il primo fia Cologna,
Treveri V altro, c ’l Maguntino è ’l terzo.
E tre soluti ; il duca di Sassogna ,
Il conte Palatino e ’l Brandomburgo.
Ma se fosscr discordi , e tre per parte ,
Allora il re, che la Boemia regge.
Sarà fatto elettore , e potrà dare
A qual parte vorrà vittoria certa.
Ad Otto terzo sicgue Arrigo primo ,
E poi Currado, c po’ il secondo Arrigo,
Poi viene il terzo , si ne l’arme fiero,
Che combatteo sessantadue battaglie.
A cui seguita il quarto e poi Lotario,
E Currado secondo, e Federico,
Che da la rossa barba ebbe il cognome ,
Principe eletto e dì virtù suprema.
Dietro a luì siede Arrigo c poi Filippo ,
Ed Otto quarto; a cui siegue il secondo
Federico gentil , pien d’ ogni loda ,
Simile a l’avo di prudenzia, c d’arme,
Ma più fautor d’ Italia e de le Muse.
Poi vien la casa d’ Austria al grande impc-
La casa d’Austria , veramente capo [ro ;
De 1’ altre case che mai furo al mondo;
Madre di tanti imperadori c duchi,
E re, d’ ogni gentil virlute adorni.
Il primo d’ essa , eli’ a l’ Imperio ascenda,
Sarà il conte Rodolfo, che combatte
Con Oltachiero, c vincolo, c 1* uccide;
Poi vince il falso Federico , e 1’ arde.
Dietro a costui , ne 1’ alto imperio siede
Alberto suo figliuol , che rompe e vince
Adolfo d’ Fsia , e fallo andare a morte.
Vicn poscia Arrigo, quel da Lucimborgo:
E Ludovico di Baviera , e Carlo ,
E Vincislao , Ruberto e Sigismondo ,
Tutti de i Lucimborghi ; e dopo questi
L* imperio torna a ia gran casa d’ Austria,
E starà io essa ancor di grado in grado,
Fin che trapasserà questo millcsmo.
Nel quale il sommo Imperadordel cielo
Vuol, eh’ io ti mostri le future cose.
Ma quanto durerà dopo mill' anni
L’ imperio in Austria, mi convien tacere,
Per non passare il deputato segno
Da questo di fin al millesim’ anno.
Vedi là, dietro a Sigismondo altero,
Alberto d’Austria , eh* a 1* imperio ascen-
Ercde univcrsal de i Lucimborghi. [de ,
Dopo costui vien Federico il terzo ,
Principe giusto cd amator di pace ,
Ch’ anni cinquantaquattro arà il governo
Do l'Imperio di Roma; a la qual meta
Nuli’ altroaggiunse imperadordel mondo.
Mcravigliossl Belisario il grande,
Quando l’angel dicca, eh’ a quella meta
Nult'allro aggiunse impcrador del mondo:
Perciò che aver solca per cosa ferma,
Ch’ anni cinquantasei regnasse Augusto.
Ma quel celeste messaggìer, che vide
Come foglia , eh' ò chiusa in lucld’ ambra ,
li dubbioso pensier di quel barone,
A lui sì volse , c sorridendo disse :
Valoroso signor, che illustri il mondo,
Sappi che Ottavio e Marcantonio , poi
Che fu ’l ventoso Lepido deposto.
Signoreggiar più di dieci anni insieme.
Ma come Ottavio vinse il suo collega
In Azzìo , eh’ or la Prevcsa si chiama ,
Allor fu solo imperador di Roma,
Allor fu Augusto, allora ii mondo resse
Quattri anni o poco men sopra quaranta :
Si che non t’ammirar di quel eh’ io dissi.
Vedi poi dietro a Federico terzo,
Quel Massimìlian che è suo figliuolo.
Questi sarà si valoroso in guerra.
Sì liberale c si benigno in pace ,
Che le delizie fia di quella etade.
Guarda il nipote di costui , eh’ arriva
Al grande impero anz’ il millesim' anno.
Che m* lia prefisso a dimostrarti il cielo.
Questo fia Carlo, figlio dì Filippo,
Mandato a voi da la divina altezza,
Per adornare c rassettare il mondo.
Costui farà col suo valore immenso
Ritornare a l’ Italia il secol d' oro.
Nò solo andrà da i Garamanti a gl’ Indi ,
E dal gran Nilo al fiume de la Tana
Soggiogando a l’ imperio ogni paese;
Ma anco trapasserà con grande armata
Di là da l’ equinozio a V altro polo,
E piglierà più terra assai , che questa
« POKMI
Di qua , che ’n tre gran parti fu di\isa ;
Quindi riporterà lanl' oro e gemme ,
Ch’ adorneran tutti i paesi rostri.
Al muorer di costui , tremar vedrassi
La Gallia , e spaventarsi il re de' Turchi ,
E 1’ Africa adorare il suo vessillo.
Ma non ti ro' più dir, chei suoi gran fatti
Trapasserlano in quell' altro millesimi ,
Che ’I Motor di là su vuol ch'io ti celi.
Ma vo* lasciare I capitani e I regi ,
E I pontefici sommi ; in cui vedresti
Nicola quinto, c T decimo Leone,
Si veri amici a i studj ed a gl* ingegni ,
Che de I lor frutti allcgrcrassi ’I mondo.
Dunque lasciam tutti costor da canto,
Chè saria lungo il nominare ognuno;
E voltiam gli ocelli al monte de le Muse.
Vedi quel che è la su presso a la cima ,
Colui fia Dante , mastro de la lingua,
Ch* allor l' Italia nomerà materna;
Questi dipingerà con le sue rime
Divinamente tutta quella etade.
L* altro, clic slegue lui , sarà il Petrarca ,
Che con bel stile , e con parole dolci
Descriverà quegli amorosi affetti.
Che desta amor ne gli animi gentili ;
Vincendo ogni altroché già mal ne scrisse.
Il terzo fia il Boccaccio , le cui prose
Saranno ingombre di pensier lascivi.
Risguarda un poco gl’ inventor de I' arti ;
Lustra con gii occhi , e mira quei Tedeschi
Gli' han ritrovato I* arte de la stampa
In Argentina, là vicino al Reno ;
Per cui si scriverà tanto in un giorno,
Quanto altrimente si faria in un anno.
Ma guarda ancor più là verso coloro ,
Che prendon nitro con carbone e solfo ,
E ne fan polve , e pongonla in quel ferro
Cacato e poscia una pallotta sopra,
E dangli fuoco , e fan tanto rimbombo,
Che si vede il terren tremarli intorno.
Questi son quei che truovanla bombarda,
La qual divisa in colubrine , e sacri,
E cannoni , e schiopetti , ed archibusi ,
Farà tal danno a i muri , ed a le genti ;
Che non si potrà farvi alcun riparo ,
Più che si faccia a i folguri del cielo.
À questo Belisario , alzò la fronte,
E riguardando assai quel nuovo ingegno,
Desiderava di portarlo seco
Giù nella vita , a debellare i Goti ;
EROICI.
Di che s’ av \ ide il inessaggier del cielo ,
E disse a lui queste parole tali :
Capitario gentil , volgi la mente
Ad altro, perchè Dio non ha permesso
Ancora al mondo quel flagello orrendo,
Che se indugiasse a darlo ben mill’ anni ,
E mille, e mille, fia troppo per tempo.
Mira quella città , che ’n mezzo 1’ acque
Surge tra il Sile , c 1* Adige , e la Brenta ;
Quella è Venezia , gloria del terreno
Italico, c rifugio de le genti.
Da la sevizia barbara percosse.
Questa regina fia di tutto *1 mare ,
Specchio di libertà, madre di fede,
Albergo di giustizia, e di quiete.
Le cui virtù sempre saranno eccelse ,
Ed ampie in ogni sua futura etade;
Ma più sotto P imperio del buon Grilli ,
Che pollerà la vita in abbandono ,
E la difenderà da tutta Europa,
Che fiali a torto congiurata contra;
E come poi sarà nel gran governo.
Che quell’ ampia città chiamerà duce,
La tenirà sicura in tant’ altezza,
Che tutti quanti i principi del mondo,
A pruova ccrcheran d’ esserli amici.
Ma s’ io volesse correr le sue lodi ,
Mi mancheriano le parole , e *1 tempo ,
Chè forse non fu mai sopra la terra
Nessun eh* avesse in sè tante virtuti.
Or sarà ben dappoi , ch* io t* ho mostrato
Ciò eli* è piaciuto a la bontà divina,
Ch’ io ti rimandi al tuo munito vallo;
E costui vada a la sua sede eterna.
Cosi gli disse 1’ angelo , e toccollo
Poi con la verga, eli’ ei teneva in mano ,
Onde P assai se fieramente il sonno;
E gii fece lasciar quella licenza,
Che volea tor da P ombra di suo padre.
Quindi l’angelo il prese, c riportoilo
Addormentato sopra il bel pratello,
Ed appoggiollo ad un di quelli allori ,
E lieto se n’ andò volando al cielo;
Ma quel baron cadrò subito a P erba ,
E tutte P armi gli sonaro intorno ,
Tal clic deslossi , e soilevossi in piedi.
Poi ratto a quel rumore usci di cella
Con dolce aspetto il venerando vecchio ;
Onde il gran Belisario inginocchiossi
Nanzi a i suoi piedi , e benedir si fece,
E poi tornossi con Traiano al vallo.
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ITALIA LIBERATA.
43
LIBRO XXII.
MORTE 01 CORSAMONTE.
Al fin de le parole II mal Sarmento
Mostrò una lettra falsa che parea
DI man d' Elpidia che scrivesse questo.
Onde T gran duca stimulato molto
Dal' amore e da l’ ira e dal sapere ,
Chè non mancava a lui virtù nè forza ,
Rodessi dentroc disse : Andiamo. andiamo
A trar questa meschina fuor di pene.
Allor Sarmento preparato avendo
E lumi e fuochi cominciò la strada ,
E Corsamente dlsmontato a piedi
Lasciò 11 cavallo e l’ armi in quella grotta
A guardia di Doletto c portò seco
La spada sola c la celada e '1 scudo ,
Chè non pensava aver bisogno d’arme;
Perciò che posta avea tutta la speme
DI liberar la sua diletta sposa ,
Ne le promesse false di Burgenzo.
Ma chi spera aver ben , da chi gli è stato
Nimico espresso, ha debole II consiglio.
Come Doletto, ch’era ivi rimaso,
Vide 1 baroni in quella occulta via ,
Andò per T altra parte entro al castello ,
E giunto in esso pose, in su le mura
Una facella accesa per signale ,
Che si movesser prestamente 1 Goti ,
Perciò che Corsamonte era In quel luogo.
Ma come il duca per l'occulta via
Insieme con Burgenzo e con Sarmento ,
SI ritrovar vicini a quella torre ,
Ov’ era chiusa Elpidia, uscir del buco;
E mentre che Sarmento ad una guardia
De la prigion dlcea che aprisse tosto ,
Ed ella pur tcnea la cosa In lungo ,
Fingendo non saper trovar le chiavi ,
Giunsero 1 Goti dentro a quel castello ,
Con gran furore e con gridori immensi ,
Ch' erano stati aperti da Doletto.
Allor s’ accorse il duca esser tradito,
E volsesl a Sarmento Irato e disse :
Ahi falso traditor tu m’hal pur colto,
Come si colge il lupo entro a la fossa ;
F. dlelli un pugno tale in una tempia ,
Che franse l’ osso e ruppell il cervello ,
E lo distese morto In sul terreno ;
Poi si volse per dare anco a Burgenzo ,
Ma non lo vide, chè ’l ribaldo cauto
Restò nel buco e chiuse Ivi la porta.
In questo aggiunse il duca di Vicenza ,
Con trenta milia Goti in un squadrone;
Questi era a piè con gli altri che i cavalli
Avcan lasciati ognun fuor de la porta,
Ed andò contra Corsamonte e disse :
Tu sarai colto pur a questa volta,
Acerbo cane c non potrai fuggire.
E detto questo lasciò gire un'asta
Possente e grossa e colselo nel scudo ,
Tal clic l’acerbo e impetuoso ferro
DI quella gli passò sei grosse piastre
Di fino acciaro che '1 copriano tutto,
E poscia ne la settima si tenne.
Ma Corsamonte intrepido e virile
Torse quell'asta con la mano ed ella
Ruppe la punta sua presso a l’acciaro
Primo dov’ era sculto il gran leone ,
Che quel baron portava per insegna.
Nè perchè fosse rotta la sua punta ,
Lasciò di trarla aneli' ei verso il nimico,
Che lanciata l' avea dentro al suo scudo ,
Ma non l'accolse chè saltò da un lato,
E sì schermi ; ben colse Spinabello ,
Flglluol di Sergio conte di Valdagno,
Ch’era ivi appresso In mezzo de la fronte,
E cosi senza punta franse l’osso
Del capo , e penetrò fin al cervello ;
Onde cadeo disteso in terra morto.
11 che vedendo Marzio ebbe paura,
E ’n dietro si tirò tra le sue genti ,
E poi gridava con orribll voce :
Fatevi innanzi , o generosi Goti ,
Ora che avemo 11 lupo entro a la cava:
Non vi smarrite no per 1 suoi colpi ,
Clic non possono aver lunga durata,
Nè risparmiate saettami c lande,
Chè tosto morto il vederete in terra.
Cosi gridava Marzio ; onde volaro
Infinite saette entro al gran scudo
Di Corsamonte ed e' volgessi intorno,
E presa avendo in man l’orribil spada.
La facea sfavillar per ogni parte.
E feri Sulimano in una tempia,
Flglluol di Galio conte di Asigiiaco,
E lo mandò disteso In sul terreno.
Uccise poi Grifiaido e Galabronle,
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44 POEMI
Ch’eran figliuoi di Durlo e Crispatora;
Prima a GrilTaldo trapassò la pancia,
A Galabronte poi parti la testa ;
Che gli cadeo su l’una c V altra spalla;
Onde vedendo quelli orribil corpi,
Tutta si ritirò la gente gota,
E ’l duca Marzio ancor rimase avanti ,
E vedendosi quivi alzò la spada,
Chè la necessità lo fece ardito,
E menò su la testa a Corsamonte
E se non era l'ottima celada,
E la maniglia de la buona Areta,
Lo mandava in due parti sul sabbione,
Ma quelle due difese lo saivaro;
Poi Corsamonte a lui tirò una punta,
E colse) proprio sotto ’) destro fianco,
E senza dubbio lo mandava a morte ,
S’egli non si schernita, tal che sospinse
Disbrizzo il ferro e andò tra carnee pelle;
Pur il sangue gli uscì fuor de la piaga.
Ma quando Marzio si senti ferito,
E vide il sangue suo cadere in terra,
Si tenne morto sena' alcun rimedio,
E per disperazlon fatto sicuro,
Alzò con ambe man 1* acuta spada,
E diede a Corsamonte su la lesta
Un fiero colpo c con si gran furore
Clic quasi lo mandò stordito al piano.
E Corsamonte allor empio ’l suo petto
Tanto di sdegno c di vergogna e d’ira,
Che raddoppiaro in lui tutte le forze:
Onde prese ancor ei la spada orrenda
Con ambe due le sue possenti mani,
E diede a Marzio su la spalla manca
11 maggior colpo che mai fosse udito,
E ’l petto gli narlì , la schcna c ’l busto ,
E gli usci fuori appresso il destro fianco,
E ’n due pezzi il mandò sopra l’arena,
Chè ciascun d’essi avea una man c un
braccio
E l’un tenea la spada e l’altro il scudo;
Cosi quel duca ebbe spietata morte
Per man de l’animoso Corsamonte.
E come il lupo che in un chiuso ovile
Per arte del pastor si truova colto;
E i giovinetti pastorelli e i cani
Gli sono intorno per mandarlo a morte
Ed c’ s’aiuta con 1’ acuto dente;
Poi quando afferra un cane entro a la gola
E sanguinoso lo distende a terra,
Fuggono i pastore] , fuggono i cani
Per la paura de l’ orribil fiera;
Cosi tutta fuggia la gente gota
EROICI.
Per la paura del possente duca ,
Che’n dui pezzi mandò il nimico a) piano.
E dopo questo quel barone audace
Si messe dietro a la fugace gente ,
E tanti n’uccidea con l’empio brando,
Ch’altro non sìvedea che morti c sangue;
E certamente tutti erano uccisi ,
Se non giungeva Tolila e Risandro,
E Telo ed Asinario c llodorico,
Col secondo squadrone a darli aiuto ;
Questi venian gridando : Morte, morte
Al nimico crudel eh’ è chiuso in gabbia;
E cosi enlraro dentro a la gran rocca
Con quelli orrendi e paventosi gridi ;
Ma Corsamonte non si masse nulla,
Chè nel suo cuor non entrò mai paura ;
E si cacciò tra lor col brando in mano ,
E ’l primo clic ferì, fu Squarciafcrro ,
Signor di Campo Lungo e San Germano,
Poscia uccìse Rodon , Pilasso c Targo ,
Rodon nel collo e Targo ne la tempia
Ferine, e ’l fier Pilasso ne la pancia.
E sbaragliava ancor quest’aura schiera.
Se ’l re de* Goti e ’l resto de la gente
Non fossero saliti in su le mura
Da la parte di fuor con molte scale,
Lasciando a basso guastatori c fabbri
Circa le torri con livicre c picchi ,
Per ruinarlc addosso a Corsamonte.
E questo fece il re perchè Burgenzo
Dello gli avea clic ’l duca ha una managlia
Ch’a Gnalia gli donò la buona Areta,
Ch* esser non può nè punto nè ferito:
Però bisogna ovver gettarli addosso
Qualche gran torre ovver fiaccarlo in modo
Che per stanchezza sìa condotto a morte;
E questo parve a lui consiglio eletto,
Perdi’ era più sicuro il star lontano
E ferir quel baron , che andarli appresso.
Onde fece salir la terza schiera
Sopra le mura al lume de la luna.
Che rilucea come se fosse giorno,
E lasciò a basso l guastatori e i fabbri
Con ferri a scalpellar circa le torri.
Poi nella piazza Totila e Bisandro,
E Telo c gli altri principi de i Goti
Erano intorno il glorioso duca
Con spade e lance c con orribil sassi ,
Ed c’ si stava intrepido e col scudo
Si difendeva c col tagliente brando,
Col quale uccise il giovane Gradarco,
Ch’era fratei di Totila bastardo,
Figliuoi di Scrpcntano c di Armerina,
ITALIA L
D’ Armerina gentil che ascosamente
Lo partorì nel bosco del Martello ,
Per tema di Altamonda, ch’era madre
Di Totita e moglier di Serpcntano,
Ma non schifò però l'odio c *1 furore
Di quella donna, che com’ebbe inteso
Il parto di costei , fece annegarla
Nel fiume impetuoso de la Piave:
E ’l fanciullin di lei fu poi nutrito
Da certe pastorelle in quella selva ,
E cresciuto dì forza e dì bellezza ,
Venne a Trivlgi a ritrovare il padre,
E Totila suo frate che l’accolse
Con gran diletto e* poi inenollo a Roma,
E quivi era con lui; ma troppo innanzi
Si spinse, onde ’l feroce Corsamonte
Con la sua spada gii trafisse il petto,
E morto lo mandò sopra la piazza.
II che vedendo ognun, stava lontano,
Facendo guerra con le lance e i sassi
Più volentieri assai che con le spade ;
E Corsamonte col suo scudo In braccio
Sostenea tutto il stuol , come un cingialc.
Ch’abbia d’intorno cacciatori e cani,
Con spiedi c dardi , ed e’ si volge e freme
Col pelo irsuto e col feroce dente,
Tal che non osa alcuno andarli appresso.
Perchè qualunque a lui si fa vicino.
Non si diparte senza sparger sangue.
Così faceano i principi de i Goti ,
Ch’ erano a basso intorno a Corsamonte;
Ma quei ch'cran saliti su le mura,
Gettavan tante lance e tanti sassi ,
Sopra il baron che combatteva in piazza,
Ch’era cosa mirabile a vederla.
Nè mai fioccò dal ciel sì spessa neve ,
Nel freddo tempo de l’algente bruma.
Nè si spessa gragnuola a i giorni estivi
Tempestò mai su le terrene piante,
Come spesse cadean le dure pietre ,
E l’ aste forti e i penetranti dardi
Sopra il gran scudo del possente duca ;
Tal che faceanlo alcuna volta andare
A mal suo grado col ginocchio in terra;
Ma non possendo riparare a un tempo
Col scudo a quei di sotto e a quei di sopra,
Si trasse indietro al piè d’ un’ alta torre,
Ch'era posta in un canto de la piazza,
Coperta d’ un gran vólto , e da le spalle
Del muro de la rocca era difesa,
E sol davanti avea la strada aperta.
Quivi fermossi l'animoso duca.
Facendo un’ incredìbile difesa ,
JBERATA. 45
E parca proprio un scoglio avanti un porto,
Che da Tonde del mar tutto è percosso
Con estremo romor d’orribil vento.
Ed ci sta saldo e col suo starsi immoto
Frange e disperde ciò che a lui s’appressa;
Cosi parca quel Corsamonte audace ;
E ben da tutto il stuol s’aria difeso.
Se quei ch’cran di fuor co I picchi in mano ,
E che più di quattr’ore avean picchiato
Intorno ai fondamenti de la torre,
Non la facean cader sopra il suo capo.
E nel cader che fece , ancora accolse
Turbone e Baricardo e Fullgante,
Due cugini di Telo, un di Bisandro,
Con più di novecento altre persone;
Ma questo parve nulla al re de’ Goti ,
Poiché ’l suo gran nimico era sott' essa.
Le genti come vider quella torre
Caduta sopra T animoso duca,
Mandarono un gridor fin a le stelle;
E cosi morto fu quel gran guerriero.
Con danno estremo de T Italia afflitta.
Poi non fu Goto alcun che non pigliasse
Legnami o sassi e no i gettasse sopra
La gran mina c le cadute pietre ,
Quasi temendo ancor che quindi uscisse,
| E tutti quanti gii mandasse a morte.
Cosi gettando ognun materia molta ,
Crebbe su quella piazza un alto monte,
Non minor del Testaccio e non men grave
Di quel che *1 grande Encclado ricuopre.
Il Re del cielo, a cui dispiacque e dolve
La morte d’un tant’uom, ma consenti Ila,
Per non si contrapporre al suo destino.
Chiamò l’angelo Erminio, e cosi disse:
Diletto e fido messaggier del cielo ,
Tu vedi 11 grave ed immaturo fine
Del più forte gucrricr che fusse in terra;
Vestiti Tale e va volando a Roma,
E narra al capitano de le genti ,
Che ’1 buon duca di Scizia è in gran pc-
Di lasciarli la vita, e digli appresso [riglio
La causa de l’orribil sua sciagura,
Ma non gli dir però che sia caduta
La torre addosso lui, nè che sia morto,
Acciò che vada tosto a darli aiuto.
L’angel di Dio, dopo il divin precetto,
Aggiunse Tali a sue veloci piante,
E venne giuso, come fa il baleno,
Che ne la notte limpida scintilla ,
E nunzia che sarà sereno e caldo.
Poi presa la sembianza d’ Orsicino ,
Andò dov’era il capitano, c disse:
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46 POEMI
Illustre capitan, gloria del mondo,
Io stara in guardia a la Flaminia porta,
E questa notte in l’ ora de le squille
Venne a trovarmi un uom di tal presenza,
Ch’ un de' messi parca del paradiso ;
E mi disse : Orsicin, vattene tosto
Al vice imperador de l’Occidente,
E digli , come I) forte Corsamente
Stato è rinchiuso dentro del castello
Di Prima Porta, c tutto il campo goto
V’è posto Intorno per mandarlo a morte,
E quivi fu condotto da Burgenzo ,
Con arte e con promessa di trae quindi
La bella Elpldia c di condurla a Ruma.
Digli clic vada tosto a darli aiuto,
Chè questo è il di che caccieranno i Goti
Con gran mina ior dentro a Ravenna.
Cosi da parte di quel messo eterno
Vi dico c parimente ancor v’esorto.
Ch'andiate prestamente a darli aiuto.
E detto questo , via spari come ombra :
Onde ’I gran capitano ben conobbe.
Ch’egli era un messaggier del paradiso,
E senza indugio alcun levossi in piedi ,
E ratto si vesti di panni e d’ arme.
Poi quell’ angui di Dio con gran prestezza
Sotto la forma di Carterio araldo ,
Se n’ andò a risvegliar tutta la gente ;
E trovò prima l’ onorato Achille ,
Che come intese la spietata nuova
Di Corsamente e ’l suo periglio estremo,
Senza curar d' alcun futuro male,
Perchè non era salda ancor la piaga ,
Cli' Ablavio diedi1 a lui sotto ’l costato ,
Che fu più perigliosa che non parve ,
Levossi c si vesti di lucid’armc,
E ratto s’ avviò verso la corte.
Quivi trovò che Belisario armato
Sopra Vallarco volea gire a. campo ,
E le schiere vcnlan con molta fretta,
Ch' cran sollecitate da gli araldi.
Al giunger di costui si rallegraro
Alquanto in vista le adunate genti ,
Come entropia a l’apparir del sole;
Ed e' poi disse il capitano eccelso :
Illustre capitano de le genti ,
Andiamo a dare aiuto a Corsara onte.
Ed andlam tosto, ehè ’1 soccorso lento
Suol giovar poco c poca grazia acquista;
E cosi detto, tutti s'awlaro
Verso ’l castello al lume de la luna ;
E come furo appresso a la gran rocca
Trovar Burgenzo insieme con DolettO ,
EROICI.
I quai , dappoi che fu sepolto il duca
Da la rulna di quell' alta torre,
Ritornaro a la grotta di Sarmento ,
Per prender il cavai di Corsamonte,
E per donarlo a l' empio re de’ Goti ;
E seco aveano a man quel buon corsiero.
Perchè non volse alcun di loro in sella ;
Ma come s' incontrerò in quella gente ,
Ch’avea condotta Belisario il grande.
Si smarrir tutti e si volean fuggire.
Pur presero ardimento e se n’ andaro
Al capitano lagrimosi in vista,
E Burgenzo gli disse in questa forma :
Illustre capitano de le genti
Assai mi duol de l' immatura morte
Di Corsamonte e del suo caso acerbo;
Dio sa ch'io non volea menarlo meco
111 quel periglio, ed e’ venir vi volse.
Spinto d’amore e da soverchio ardire;
Ma chi si iìda troppo ne la forza,
E spesso vinto da l’altrui consiglio.
Cosi disse Burgenzo , e quel signore ,
Che per bocca de l’angelo sapeva
II tradimento fatto e non la morte
Di Corsamonte, anzi l’avea per vivo;
Come udi quella ebbe dolore immenso
E focosi narrar tutta la cosa ,
Ed egli la narrò , dicendo spesso ,
Che questo fatto fu senza sua colpa.
Coni’ ei si tacque il capitano eccelso
Guardollo torto e. con favella acerba
Gli disse : Ali traditor tu l’ hai condotto
In quella rocca con fallaci inganni,
E sei stato cagion del suo morire ,
Ma non Io vo’ lasciar senza vendetta ;
E subito ordinò che fosser presi
Dolctto e lui , poi gli mandò legati
Sotto la guardia di Traiano a Roma.
Achille come udì l'acerba morte
Di Corsamonte suo perfetto amico ,
Ch'era amato da lui più che sè stesso.
Con le man gravi si percosse il capo ,
E poi gemendo c lacrimando molto ,
Si lamentava esser rimaso In vita ,
E che’l crudele Ablavio non l’uccise;
Onde per consolarlo il buon Lucilio,
Che tenui avea che non si desse morte ,
Per man lo prese e iagrimava seco ;
Lagrimava con lui Sertorio e Ciro,
Bessano e Magno e molti altri baroni
Per l’ empia morte de l' eccelso duca.
Nè finito saria quel duro pianto.
Se T capitano eccelso de le genti
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ITALIA LIBERATA.
Non gli dicea queste parole tali :
Non consumale lagrimando il tempo ,
Baroni illustri e cavalieri eletti ;
Ma ognun di voi ch’amava Corsa monte
S’adopri a far di lui chiara vendetta;
Chè più grata le Ha che doglie e pianti ;
Cbè la vendetta è il pianto de 1 guerrieri ,
Nè mai sta bene a gli uomini robusti
11 lacrimar, come fanciulli o donne.
Cosi parlò quel capitano eccelso;
E poi fece ordinar le ardile schiere,
Ed assalì con molta furia i Goti ,
Ch’ erano inteuti ad atterrar le torri ,
E a gettar pietre in sul barone estinto :
Onde in poc’ora tutti gli disperse;
Perchè da Ja vigilia de la notte ,
E da la tema dei ferir del duca ,
E dal piacer ch’avean de la sua morte,
Erano tutti affaticati e stanchi.
Or chi vedesse Addile avanti gli altri,
E Mundello e Bessan , Lucilio e Ciro
Urtare in essi e far del sangue loro
Vermiglio il prato ed innalzarsi il fiume,
Dirla che non fu mai sunti macello.
L’ardito Grò uccise Sacripardo,
Fratei cugin del principe Bi sandro;
Questi era il più superbo c ’J più arrogante
Baron de 1* Istria e combat tea con tutti
Que’suoi vicini senza alcun vantaggio;
Questi percosso fu da T asta fiera
Del conte Uro e fu mandato a morte ,
Chè *1 petto gli passò fin a le spalle ;
Tal che desiderò d’ aver avuto
Vantaggio d’arnie c di destrier gagliardo,
Per uscir da le man di quel barone ,
A cui non era e guai , se non di grado ;
Citò fu ancor egli conte di Trieste.
Achille ucdse Folco e Marco listo ,
Tarponc e Biltngaro e Garimbaido,
L'un dopo l'altro con diversi colpi;
Folco feri nel petto, e Marcolisto
In fronte, c poi Tarpone e Bilingaro,
L'un nel bellico e l'altro ne la pancia,
E Garimbaido nel sinistro fianco.
Mundello ucdse Oveno cd Origlilo ;
Bessano Ai fardo, e ’l bel Lucilio Orsaldo,
E Magno uccise Urante, e *1 capitano
Ne mandò tre con la sua lancia a morte ,
Aridarco e Grancone ed Orionte,
Oriontc crude! ch’avea le membra
Come un gigante e T cuor come un leone;
Ma l'uno e l'altro a lui dier poco aiuto;
Chè Belisario gli passò la gola
E lo distese morto in sul terreno.
Allor si messe totalmente in fuga
La gente gota e ognun di lor fuggia
Chi qua, chi là verso i vicini colli,
li re s’era fuggito al primo assalto.
Sopra un suo corridor verso Vaienti ,
E Totila fuggì verso Kignano,
Lisandro a Castel Nuovo, c Rodorico
A Monte Rosso ed Luigastro a Suttri,
Telo a Baccano c fuvvi alcun di loro.
Che correndo n’andò fino a Viterbo:
Ma seguitati un pezzo da i Romani,
Tanti ne fur feriti e tanti uccisi,
Ch’era coperta la campagna tutta
Di cavai morti e d’ uomini c dì sangue.
Allora il capitano de le genti
Fece sonar raccolta e posda disse
A la ridotta gente oste parole :
Signori eletti a liberare il mondo.
Or che fuggita s’è la gente gota.
Con tanta ocdslone e tanto sangue.
Quanto spargesser mai fuor de i lor petti,
Fia ben che noi si ritorniamo in Roma
Acdò che tosto andiam verso Ravenna ,
Chè per la rotta acerba eh’ hanno avuta,
E per la fuga lor molto dispersa
Non ridurransi agevolmente insieme;
E noi si tosto gli saremo addosso
Che tempo non aran da far difesa;
Perchè dopo le rotte de 1 niniici.
Chi vuole aver di lor vittoria a pieno,
Non gli dia spazio mai di ristorarsi.
Sarà poi ben che resti il conte Ciro ,
Con le sue genti c faccia trarre il corpo
Di Corsamonte fuor de le ruine,
E con Elpidia lo conducili a Roma ,
Ch'Ivi faremli i meritati onori;
Ed ivi ordinerem la nostra andata
Con diligenza e con prestezza immensa.
Così diss’ egli , e subito partissi ,
E rimcnò tutta la gente in Roma,
Da quella in fuor di’ ivi lasdò con Ciro.
Ma Òro che rimase entro a la rocca,
Fece cavar di sotto a quelle pietre
Il morto Corsamonte e poi lavarlo ,
E rinvestirlo de le lucid’ arme ,
Per farlo indi portar da i suoi soldati
A seppellir ne la città di Roma :
Ma l’ onorata Elpidia eh' era chiusa
Ne l’ alta rocca , udendo il gran romorc ,
Che si facca la notte in su la piazza,
Avca dentro al suo petto aspro cordoglio ;
Poi dicca nel suo cuor : Di che pavento ,
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48 POEMI
Meschina me? Meschina, ch’io mi trovo
Nel peggior stato clic mai fosse al mondo
Nè cosa aver poss’io che non sia meglio.
Se Corsamonte fosse in queste parti ,
Arei giusta cagion d’aver timore
De la sua vita, a me più di me cara;
Or ei , si come credo , si ritrova
In luogo assai lontan da questa rocca ,
Tal che non può sapere I miei tormenti ,
Chè sarebbe venuto a darmi aiuto ;
Ma pur mi trema il cuor, nè so la causa.
Cosi fra sè dicca la bella donna ;
Ma come poi col di s’ aperse l’uscio
De la gran torre per le man di Ciro ,
Ch’ e’ *' entrò dentro c disse este parole :
Illustre principessa di Tarento,
Uscite ornai de la prigione amara ;
Venite meco a la cittì di Doma ;
Chè Corsamente mio Tralci cugino
V'ha posto in libertà con la sua morte.
Cosi le disse Ciro, ed ella tosto.
Udendo quella asperrima novella,
Come una insplritata corse fuori
Di quella prigionia col cuor trafitto,
Per veder s' era ver che fosse estinto
11 suo diletto ed onorato duca ;
Ma come ti de Corsamonte morto
Nel cataletto in mezzo a suoi soldati ,
Cadde a rinverso tramortita in terra j
E le donzelle sue che gli eran dietro ,
La raccolsero in braccio c tutte intorno
Stavano a tei con lagrimosa fronte ;
Ed ella poi clic ritornolli il spirto,
Dimandò a Ciro , come era venuto
Il duca in quel castello e chi 1’ uccise ;
E Ciro le narrò tuttala cosa;
Onde l' afflitta c sconsolata donna
Con le man bianche si percosse il petto ,
E i capei d'oro si traca di testa,
E poi piangendo e sospirando disse : [sorte
Qual donna al mondo ha piò contraria
Di me , che solamente al mondo nacqui
Per segno ovver bersaglio a la fortuna?
Il padre mio fu da Tebaldo ucciso
A tradimento con orribil modo;
E la mia madre poi vedendo il teschio
Di suo marito cadde in terra morta :
Ond’io dolente ed orfana ritnasa
Nel mezzo de le forze de i nimici ,
Venni a Brandizio a Belisario il grande,
Per dimandarli in questi alTanni aiuto ,
Ed e' mi diè per moglie a Corsamonte ,
Duca di Scizia , uotn di valore immenso ,
EROICI.
Ch’ avea Tebaldo di sua mano ucciso ,
E fatta la vendetta di mio padre ;
Ond' io sperava che costui dovesse
Esser la mia difesa e’I mio contento :
Poi mentre eh’ io venia per far le nozze
A Roma presa fui da Turrismondo,
E posta in questa asperrima prigione ;
Clic Dio volesse allor eh' io fosse estinta;
Poscia il gran duca per cavarmi quindi,
È stato ucciso aneti' ei da gli emp] Goti ,
Per l’ empio tradimento di Burgenzo;
Ed io pur vivo e fra miserie tante ,
Ancora ardisco di guardare il sole.
0 come è ver che non è mal si grave ,
Che noi sopporti la natura umana ;
Ma se la sorte mia non vorrà trarmi
Di vita, spero di trovare un modo,
Da non veder mai più luce del sole.
Cosi dicca quella dolente donna.
Con si gravi sospiri e tai lamenti ,
Ch’ arian mosso a pietà le piante e 1 marmi ;
Dappoi salita sopra un palafreno,
Che fece darli l' onorato Ciro,
Con le donzelle sue colme di pianto ,
Accompagnare il corpo entro a la terra.
E Ciro ancor con l'altra gente d’arme
GII andavan dietro e con sospiri amari
Fondean da gli occhi lor lacrime calde ;
Ma quando furo a la Flamini porta ,
Trovaron tutti I chierici di Roma,
Clic sfavali quivi con doppieri accesi
Ad aspettarlo, e poi gli andare avanti ,
Cantando salmi in lamentevo) note;
E dopo questi andare a cinque a cinque ;
Tutta la legion eh’ avea in governo,
Con le bandiere lor tratte per terra ;
Ediclro a quei stendardi andava un paggio
Il qual menava il suo cavallo ircano
Poco avanti al feretro tanto mesto ,
Clic parca lagrlmare il suo signore :
E ’l vice inipcrador dietro al feretro,
Con tutti gli altri principi romani.
Vestiti a bruno e lagrimosi e mesti
Accompagnare quel baron defunto
Al loco eletto per lo suo sepolcro.
Poi non fu alcun del gran popol di Roma
Nè giovane, nè femmina, nè vecchio.
Clic non si ritrovasse ad onorarlo,
E non piangesse la sua dura morte.
Cosi con quel bell’ ordine n’ andare
Fino a la chiesa u’ fu deposto il corpo ,
Con tanti torchi c luminari intorno.
Che parca tutta quanta arder di fiamme.
ITALIA LIBERATA.
Quivi U bella Elpidia c le sue donne ,
Tagliar, piangendo , le lor chiome blonde,
E le gettar sopra il barone estinto ;
Ma prima Elpidia disse oste parole :
Signor, pigliate le infelici chiome
Di quella che doveva esserv i sposa ,
Se ben unqua da voi non fu veduta ,
Se non presso a Brandizio una sol volta ,
La cui vista crudel v’ ha date molte
Fatiche, e ne la fln mandovvi a morte,
Senza sua colpa; ond'elia per dolore
Non vuol mai più veder luce del sole.
Cosi dicendo e lacrimando insieme.
Pose le chiome d' or dentro a le mani
Soluto, e molli de l’ estinto duca ,
Che mosse in quei baron dirotto pianto ;
40
Ma più d’ogni altro l'onorato Achille,
Piangea con voci dolorose ed alte.
Che facea lacrimar tutta la gente.
Poi ne la piazza eh’ t ’nanzi a la chiesa ,
S'apparecchiava una superba tomba
Di finissimi marmi , e dentro a quella,
Dopo la mesta orazlon funebre
Ne la qual dottamente 11 buon Terpandro
Narrò tutte le laudi del defunto ,
E dietro al canto de i devoti preti ,
Vi fu rinchiuso l'onorato corpo,
Con molte spoglie gloriose Intorno ,
Che acquistò già ne le battaglie orrende.
Poi tutti I gesti suoi furon descritti
Entro a quei bianchi e ben politi marmi
Con lettre d’ oro e con parole elette.
MARINO.
ADONE.
CANTO DI FAUNI.
Quanti favoleggiò numi profani
L'etade antica, han quivi I lor soggiorni.
Lari , sileni , semicapri , e pani ,
La man dì tirso, Il crin di vite adorni ,
Geni salaci , c rustici silvani ,
Fauni saltanti , e satiri bicorni ,
E di ferule verdi ombrosi i capi
Senza fren, senza vel bacchi, e prìapi.
E menadi , e bassaridi vi scemi [ce,
Ebbre pur sempre, c sempre a bere accon-
Cbc intente or di latini , or di falerni
A votar tazze, ed asciugar bigonce.
Ed agitate dai furori interni
Rotando i membri in sozze guise e sconce
Celebran l' orgie lor con queste o tali
Fcsccnninc canzoni , c baccanali.
Or d'ellera si adornino, c di pampino
1 giovani , c le vergini piu tenere ,
E gemina nell’ anima si stampino
L’ immagine di Libero, e di Venere.
Tutti ardano, si accendano, ed avvampino
Qual Semole , che al folgore fu cenere ;
E cantino a Cupidìnc , ed a Bromio
Con numeri poetici un encomio.
La cctcra col crotalo , e con l' organo
Sui margini del pascolo odorifero ,
li cembalo, e la fistula si scorgano
Col zufolo, col timpano, e col piffero;
E giubbilo festevole a lei porgano ,
Che or espero si nomina, or lucifero;
Ed empiano con musica, che crepiti,
Quest'isola di fremiti, e di strepili.
I satiri con cantici , e con frottole
Tracannino di nettare un diluvio.
Trabocchino di lagrima le ciotole,
Che stillano Pusllipo, e Vesuvio.
Sien cariche di fcscine le groltolc ,
E versino dolcissimo profluvio.
Tra frassini , tra platani , c tra salici
Esprimansi dei grapDOll nei calici.
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50 POEMI
Chi cupido è di suggcre l'amabile
Del balsamo aromatico , e del pevere ,
Non mescoli il carbuncolo potabile
Col Rodano, con l’ Adice, o col Tevere;
Che fc perfido, sacrilego, e dannabile,
E gocciola non merita di bovcre
Chi tempera , chi intorbida , chi incorpora
Coi rivoli il crisolito , e la porpora.
Ma guardimi gli spiriti die fumano.
Non facciano del cantaro alcun strazio,
E l’ anfore non rompano, che spumano ,
Già gravide di liquido topazio ,
EROICI.
Citò gli uomini Ire in estasi costumano,
E si altera ogni stomaco che è sazio;
E il cerebro che fervido lussuria.
Più d’Èrcole con impeto si infuria.
Mentr’elle ivan cosi con canti e balli
Alternando evoè giollvo e liete.
Intente tuttavia negl’ intervalli
Sgonfiando gii otri, ad inaffiar la sete;
Passando Adon di quelle amene valli
Nelle più chiuse viscere segrete ,
Trovò morbida mensa , ed apprestati
Erano intorno al desco i seggi aurati.
(Canto settimo, intitolato Le Dtliae.)
LE MARAVIGLIE.
ARGOMENTO. •
Di sfera in sfera colassi salita
Venere con Adone in cict scn viene
A cui Mercurio poi quanto contiene
li maggior mondo in piccol mondo addita.
CANTO
Musa, tu che del elei per torti calli
Infaticabilmente II corso roti ,
E mentre de’ volubili cristalli
Qual veloce , c qual pigro accordi i moli ,
Con armonico piede in lieti balli
Dell’ Olimpo stellante il suol percoli.
Onde di quel concento il suon si forma ,
Che è del nostro cantar misura e norma;
Tu, divina virtù, mente immortale,
Scorgi l’audace ingegno, Urania saggia,
Cile oltre I propri confin si leva c sale
A spaziar per la celeste piaggia.
Aura di tuo favor mi regga l’ale
Per si alto scntier siedi’ io non caggia.
Movi la penna mia, tu clic il del movi,
E detta a uovo stil concetti novi.
Tifiprimicr per l’ acque alzò l’ antenne,
Con la cetra sotterra Orfeo discese.
Spiegò per l’ aure Dedalo le penne ,
Prometeo al cerchio ardente il volo stese.
Ben conforme all’ ardir la pena venne
Per cosi stolte e temerarie imprese;
DECIMO.
Ma più troppo badi rischio, e di spavento
La strada inaccessibile ch’io tento.
Tento insolite vie, dal nostro senso,
E dal nostro intelletto assai lontane.
Onde qualor di sollevarvi io penso
0 di questo , o di quel le voglie insane ,
Quasi debil potenza a lume immenso ,
Che abbacinala in cecità rimane, [po
L’ uno abbagliato , c l’ altro infermo ezop-
Si stanca al sommo, csi confonde al troppo.
E se pur, che noi vinca , c noi soverchi
L’infinito splendor, talvolta avviene,
E che il pcnsicr vi poggi , c che ricerchi
Del non trito cammin le vie serene.
Immaginando quei superni cerchi.
Non sa, se non trovar forme terrene.
So ben , che senza te toccar si vieta
A si tardo cursor si eccelsa meta.
Tu, che di Beatrice il dotto amante
Gii rapisti lassù di scanno in scanno,
E il felice scrittor, che d’Agramante
Immortalò l’alta mina, e il danno,
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ADONE. Si
Guidasti si, cbc sul destrlcr volante
Seppe condurvi il paladin britanno,
Passar per grazia , or' anco a me concedi
Dei tuo gran tempio alle sccrcte sedi.
Gii per gli ampj del ciel spazj sereni
Dinanzi al Sol Lucifero fuggiva,
E quei scolendo i suoi gemmati freni
L’ uscio purpureo al novo giorno apriva.
Fendean le nebbie a guisa di baleni
Anelando 1 destrier di fiamma viva,
E vedeansi pian pian nel venir loro
Ceder l’ ombre notturne ai fiati d’oro.
Dalle stalle di Cipro, ove si pasce
Gran famiglia d'augei semplici , e molli.
Sei nescelse in tre coppie, c in auree fasce
Al timon del bel carro Amor iegolli.
Torcer lorvedi incontr’al di, che nasce.
Le vezzose cervici, e i vaghi colli,
E le smaltate, e colorite gole
Tutte abbellirsi , e variarsi ai Sole.
Vengon gemendo, e con giocondi passi
Movon citati al bel viaggio il piede,
Al bel viaggio , ove apprestando vassi
Venere con colui , che il cor le diede.
Al governo del fren Mercurio stassi ,
E del corso sublime arbitro siede ,
Sovra la principal poppa lunata
Posa la bella coppia innamorata.
Sciolser d’ un lancio le colombe a volo
Legate al giogo d’or, l' ali d’ argento.
Si aprirò 1 cieli , e serenossi II polo,
Sparver le nubi , ed acquetossi il vento.
Di canori augellctti un lungo stuolo
Le secondò con musico concento,
E sparser mille passere lascive
DI garriti d’amor voci festive.
Quelle innocenti , e candide augelettc,
Da' cui rostri si apprende amore , e pace,
Non temon già, d'amor ministre elette,
Lo5mcrlo ingordo , o il peregrin rapace.
Con lor l'aquila scherza: altre saette
Nel cor, che nell'artiglio aver le piace.
1 più fieri dintorno augei grifagni
Son di nemici lor fatti compagni.
Precorre, c segueilcarroampia falange
(Parte il circonda) dì valletti arcieri,
Ed altri a consolar l’ Alba che piange ,
Col venir della Dea volan leggieri.
Altri al Sol, che rotando esce di Gange,
Perchè sgombri la via, van messaggieri.
Ciascuno il primo alle fugaci stelle
Procura dì annunziar l’ alte novelle.
0 tu , che in novo , e disusato modo
Saggia scorta mi guidi a quel gran regno
( Disse a Mercurio Adone), ove non odo.
Che altri di pervenir fusse mai degno.
Pria eh' in giunga lassù , solv imi un nodo.
Che forte implica il mio dubbioso ingegno.
E fors’ egli corporeo ancora il cielo ,
Poiché può ricettar corporeo velo ? [ tiene.
Se corpo ha il ciel, dunque materia
Se egli è material , dunque è composto ;
Se composto mel dai , ne segue bene
Che è dei contrari alle discordie esposto ;
Se soggiace ai contrari , ancor conviene.
Che alla corruzton sia sottoposto.
Eppur del ciel parlando, udito ho sempre,
Ch' egli abbia incorrodibili le tempre.
Tace , e in tal suono ai detti apre la via
Il dotto timonier del carro aurato :
Negar non vo’, che corpo il ciel non sia
Dì palpabll materia edificato,
Chè far col moto suo quell'armonia
Non potrebbe , eh’ ei fa , mentre è girato.
È tutto corporal ciò che si move ,
Eciòcheha, Il qual, e il quanto , il donde,
e il dove.
Ma sappi , che non sempre è da Natura
La materia a tal fin temprata e mista.
Perchè abbia a generar colai mistura ,
Quel che perde mutando in quel che ac-
quista ;
Ma perchè quantità prenda, e figura,
E del corpo alla forma ella sussista;
Nè di material quanto è prodotto
Dee necessariamente esser corrotto.
Materia dar questa materia suole
Al discorso mortai, che sovente erra.
Chi fabbricata la celeste mole
Di foco e fumo ticn , chi d' acqua e terra.
Se arrivassero al ver sì fatte fole,
Sarebbe quivi una perpetua guerra.
Cosi di quel che l’uom non sa vedere.
Favoleggiando va mille chimere.
La materia del ciel , sebben sublima
Sovra r altre il suo grado in eminenza,
Non però dalla vostra altra si stima ,
Nulla tra gl’individui ha differenza.
Ogni materia parte è della prima,
Sol la forma si varia, e non l’essenza.
Varietà tra le sue parti appare ,
Secondo che elle son più dense , o rare.
Bastili di saper, che peregrina
Impressione in sè mal non riceve
La perfetta natura adamantina
Di quel corpo lassù lubrico e lieve.
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POEMI EROICI.
Paragonarsi (ancorché pura e lina)
Qualità d'elemento a lei non deve.
Un fiore scelto, una sostanza quinta.
Da cui di pregio ogni materia è vinta.
La sua figura è circolare c tonda ,
Periferia continua , c senza punto.
Tcraiin non ha, ma spazio egual circonda ;
Il principio col fin sempre ha congiunto.
Linea, che appien d' ogni eccellenza ab-
Alla divinili simile appunto, [fionda,
E la divina Eternitadc imita,
Perpetua, indissolubile, infinita.
Or a questa del del materia eterna
L’anima, che l’ informa, è sempre unita.
Questa è quella virtù santa e superna,
Spirto, che le di molo , c le di vita.
Senza lei , che la volge, c la governa ,
Fora sua nobilti troppo av vilita.
Miglior foran del elei le pietre istessc.
Se la fonila motrice ei non avesse.
Qursta con lena ognor possente e franca
Della macchina sua reggendo il pondo,
Le rote mai di moderar non manca
Di quel grand' oriuol , che gira a tondo.
Per questa in guisa tal , che non si stanca,
L' organo immenso , onde ha misura il
Con sonora vertigine si volvc [mondo,
Ni si discorda mai , nè si dissolve.
Cosi dicea di Giove il mcssaggicro ,
Nè lasciava d’ andar , pereti' ci parlasse.
De' campi intanto, ov' ha Giunone impero,
Lasciate area le reglon più basse ,
E giù verso il più attivo, e più leggiero
Elemento drizzava il lucid' asse.
La cui sfera immortai mai sempre accesa
Passò senza periglio , e senza offesa.
Varcalo II puro, ed innocente foco,
Che alla gelida Dea la faccia asciuga.
L'etra sormonta, ed a più nobil loco
Giù presso al primo del prende la fuga,
E il suo corpo incontrando a poco a poco,
Clic par specchio ben terso, e senza ruga.
In queste note il favellar distingue
Il maestro dell' arti , e delle lingue :
Adon , so che saper di questo giro
Brami I secreti , ove siam quasi ascesi ,
Con tanta attenzlon mirar ti miro
Nel volto della Dea, madre dei mesi;
Chè sebben tu mi taci il tuo destro ,
E la dimanda tua non mi palesi ,
Ti veggio In fronte ogni pcnsicr dipinto,
Più che se per parlar fusse distinto.
Questo , a cui siam vicini , è della Luua
L’ orlve, che imbianca il ciel con suoi splen-
Candlda guida della Notte bruna , [dori ,
Occhio de' ciechi , e tenebrosi orrori.
Genera le rugiade , i nembi aduna ,
Ed è ministra de' fecondi umori.
Dagli altrui raggi illuminata splende.
Dal Sol toglie la luce , al Sol la rende.
Di questo corpo la grandezza vera
Minor sempre è del Sol, nè mai l' adombra,
Chè della terra a misurarla Intera
La trentesima parte appena ingombra.
Ma se s'accosta alla terrena sfera,
Egual gli sembra, egli può farqualch’om-
Sol per un sol momento allor si vede [bra.
Vincer li Sol, d'ogni altro tempo cede.
Ila varie forme , e molti aspetti c molli ;
Or è tonda, or bicorne, or piena, or scema.
E sempre tien nel Sol gli occhi rivolti ,
Clic la percolo dalla parte estrema
Onde sempre almen può l’ un de' due volli
Partecipar di sua beltà suprema.
Fa ciascun mese il suo periodo intero,
E circondando il ciel , cangia emispero.
Perchè s'appressa a voiplùche gli altri
orbi,
Suol sopra i vostri corpi aver gran forza.
Donna è de’ sensi , e Dea di mali c morbi ;
Ella sol gli produce , ella gli ammorza.
Quanto, o padre Ocean nel grembo as-
sorbì ,
Quanto In te vive sotto dura scorza,
E il moto istesso tuo cangiando usanza
Altera al moto tuo stato, c sembianza.
Il frutto, e II fior, la pianta, e la radice ,
Il mare, il fonte, il fiume, e l'onda, eilpe-
Prendon daquestaogni virtù motrice, [sce,
E il moto ancor, quanti’ ella manca o cre-
Del ccrebro ella è sol govcrnalrice ; [sce.
Di quanto II ventre chiude, c quanto
E tutto ciò, che In sè parte ritiene [n’esce.
D'umida qualità, con lei conviene.
Cosa , non dico sol Saturno, o Giove
Nel mondo infcrlor propizia, o fella.
Ma qual altra o che posa , o clic si move,
Stabil non versa, o vagabonda stella ,
Clic non passi perle! ; quante il ciel piove
Influenze laggiù, sccndon per quella.
Per quella chiara lampada d’ argento, [to.
Cheèdcir ombre notturne alto ornamen-
Ondese avvien, che giri il bel sembiante
Collocato c disposto in buon aspetto.
Ancorché variabile e vagante,
Partorisce talor felice effetto.
ADONE. SS
Ma Fortuna non mai, fuor clic incostante,
Speri chiunque a lei nasce soggetto,
Qie con perpetuo error fia clic lo spinga
Fuor di patria a menar vita raminga.
• Con più diffuso ancor lungo sermone
11 fisico divin volea seguire ,
Quando a mezzo il discorso il bel garzone
La favella gli tronca , e prende a dire :
D ima cosa a spiar l’alta cagione
Caldo mi move c fervido desire,
Cosa , che da che pria l' occhio la scorse ,
Sempre Ita la niente mia tenuta in forse.
D’alcune ombrose macchie impressa lo
veggio
Della triforme Dea la guancia pura.
Dimmi il pcrclu'; tra millcdublijondegglo,
Nè so trovarne opinion secura.
Qual Immondo contagio (ioti ricliieggio)
Di brulle stampe il vago volto oscura?
Cosi ragiona, d’altro un’altra volta
La parola ripiglia , c dice : Ascolta.
Poiché cotanto addentro intender vuoi,
Al bel quesito soddisfar prometto.
Ma di ciò la ragion ti dirà poi
L’ occhio vie meglio assai , clic l’ intelletto.
Non mancali già filosofi tra voi.
Che notato hanno in lei questo difetto.
Studia ciascun d’ investigarlo a prova,
Ma chi si apponga ai ver raro si trov a.
Afferma alcun, clic d’altra cosa densa
Sia tra Febo, c Felica corpo framesso,
La qual dello splendor, di’ ci le dispensa.
In parte ad occupar venga il refiesso.
Il che se fosse pur, come altri pensa,
Non sempre il volto suo fora l’ìstcsso.
Nè sempre la vedria chi in lei si affisa
In un loco macchiata, e d una guisa.
llavvl chi crede, die per esser tanto
Cintia vicina agli elementi vostri.
Della natura elementare alquanto
Cornici! purché paricela si mostri.
Cosi la gloria immacolata , c il vanto,
Cerca contaminar de’ regni nostri ,
Come cosa del del sincera c schietta
Possa di vii mistura essere infetta.
Altri vi fu , che esser quel globo disse
Quasi opaco cristal , che il piombo ha dic-
E clic col suo reverbero venisse [tro,
L’ombra delle montagne a farlo tetro.
Ma qual si terso mai fu, che ferisse
Per cotanta distanza, acciaio, o vetro?
E qual vasta cerviera in specchio giunge
L’imagine a mirar cosi da lunge?
Egli è dunque da dir, che piò secreta
Colà s'asconda, ed esplorata Invano
Altra ragion , che penetrar si vieta
All’ ardimento dell' ingegno umano.
Or io li fo saper, che quel pianeta
Non è (coni' altri vuol] polito c piano.
Ma ne’ recessi suol profondi e cupi
Ha non men che la terra, e valli, c rupi.
I.a superficie sua mal conosciuta
Dico, clic è pur come la terra istcssa.
Aspra, ineguale, c tumida, c scrlgnuta,
Concava in parte, in parte ancor convessa.
Quivi veder potrai (ma la veduta
Noi pud raffigurar, se non s'appressa)
Altri mari, altri fiumi, ed altri fonti,
Città, regni , provincie, c piani , c monti.
E questo è quel , che fa laggiù parere
Nel bel viso di Trivia i segni foschi.
Benché altre macchie, clic ornon puoi ve-
dere [noschl,
Vo’clic entro ancor vi scorga, e vi co-
Clic son più spesse , e più minute, c nere,
E son pur scogli, ccolii, crampi, e boschi.
Son nel più puro delle bianche gole.
Ma da terra affissarle occhio non potè.
Tempo verrà, che senza impedimento
Queste sue note ancor fico note e ciliare.
Mercè di un ammirabile slroincnto.
Per cui ciò che è lonlan , vicino appare ;
Kcon un occhio chiuso , c l’altro intento
Speculando ciascun l’orbe lunare,
Scorciar potrà lunghissimi intervalli
Per un picciol cannone, c due cristalli.
Del telescopio a questa date ignoto
Perle fia, Galileo, l’ opra composta, (lo.
L’opra, clic al scuso altrui, benché remo-
Fatto molto maggior l' oggetto accosta.
Tu sol osservator il' ogni suo moto,
E di qualunque ha in lei parte nascosta ,
Potrai , senza che ve! nulla le chiuda.
Novello Endimion , mirarla ignuda.
E col medesmo occhiai non solo In ld
Vedrai dappresso ogni atomo distinto,
Ma Giove ancor sotto gli auspicj mici
Scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
Onde lassù dell' Arno i semidei
Il nome lasccrà sculto, e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allor fia giusto,
E dal Medici tuo sia vinto Augusto.
Aprendo il sor dcll'Occan profondo.
Ma non senza periglio, e senza guerra,
Il ligure Argonauta ai basso mondo
Scoprirà novo cielo , e nova terra.
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54 POEMI EROICI.
Tu del ciel, non del mar Tifi secondo, Lucida ampolla, onde traspar di fora
Quanto gira spiando, e quanto serra Sempre agitata, e prigioniera arena ,
Senza alcun rìschio, ad ogni genteascose Nunzia verace delle rapid'ore.
Scoprirai nove luci, c nove cose. A filo a filo per angusta vena
Ben dei tu molto al ciel, clic ti discopra Trapassa, e riedc al suo coniinuo errore,
L’ imenzlon dell’ organo celeste , E mentre ognor si volge, e sorge, e cade ,
Ma vieppiù il ciclo alla tua inibii opra. Segna gli spazi dell’umana etade.
Che le bellezze sue fa manifeste. Di servi, eserve, ad ubbidirgli avvezza
Degna è l'imagin tua, che sia là sopra Moltitudine intorno ha reverente,
Tra i lumi accolta, ondosi fregia c veste, Di quella maestà, die il tutto sprezza ,
E delle tue lunette 11 vetro frale Prov ida esecutrice e diligente.
Tra gli eterni zaflìr resti immortale. Mostrava Adon desio d'aver contezza
Non prima no , che delle stelle istesse Qual si fusse quel loco , c quella gente ;
Estingua II ciclo 1 luminosi rai , Onde cosi di quel secreti immensi
Esser dee lo splendor, che al crin ti tesse 11 suo conducitor gli aperse i sensi:
Onorata corona, estinto mai. Sacra a colei, che gli ordini fatali
Chiara la gloria tua vivrà con esse. Ministra al mondo, è questa grotta annosa.
E tu per fama in lor chiaro vivrai, Non solo impenetrabile al mortali,
E con lingue di luce ardenti e bello Agli occhi umani, ed alle menti ascosa,
Favelleran di te sempre le stelle. Sicché alzarvi giammai la vista, o l’ali
Non avea ben quel ragionar fornito Intelletto non può, sguardo non osa.
Il secretarlo de’ celesti Numi, Ma gl’interni recessi anco di lei
Quando il carro immortai vide salito Quasi appena spiar sanno gli Dei.
Sovra il lume minor de’ due gran lumi , Natura universal madre feconda
Trovossi Adone , in altro mondo uscito , È la donna , che assisa ivi si mostra.
In altri prati , in altri boschi , e fiumi. In quella cava ha sua maglon profonda,
Quindi arrivò per non segnato calle Occulto albergo, c solitaria chiostra.
Presso un speco riposto in chiusa valle. Giusto è, che ognun di voi le corrisponda.
Circonda la spelonca erma e remota Vuoisi onorar qual genitrice vostra;
Verdeggiante le squame, angue custode, E ben le devi tu, come creato [lo.
Angue , che attorce in flessuosa rota Più bel d’ ogni altro, Adone, esser più gra-
Sue parti estreme , e sé modesmo rode. Quell’ uomo antico che alle spalle ha 1
Donna canuta 11 crin, crespa la gota, vanni
Del cui sembiante il ciel s' allegra e gode , É quei, clic ogni mortai cosa consuma ,
Dell'antro venerabile e divino Domator di monarchi, e di tiranni,
Siede sul limitare adamantino, [quelle Con cui non è chi contrastar presuma.
Pendonle ognor da queste membra e Parlo del Tempo dispensier degli anni.
Mille pargoleggiando alme volanti, Che scorre 11 del con si spedita piuma,
E tutta piena intorno è di mammelle, E si presto sen fugge, e si leggiero,
Onde allattando va turba d' infanti. Che é tardo a seguitarlo anco il pensiero.
Misurator de' cieli , e delle stelle , Con l'ali , che si grandi ha sulle terga,
E caneellier de’ suol decreti santi. Vola tanto clic il Sol l’adegua appena.
Le leggi , al cui sol cenno II lutto vive. Sola però l'Eternità, che alberga
Ne’ gran fasti del fato un veglio scrive. Sovra le stelle, Il giunge, e l'incatena.
Calvo è il veglio , e rugoso, e spande al La penna ancor, che dotte carte verga ,
Delia barila prolissa il biancopelo. [petto Passa 11 suo volo , e il suo furore afirena.
Severo in vista , e di robusto aspetto , Così (chi il crederebbe ?) un fragil foglio „
E grande si , che quasi adombra II cielo. Può di chi tutto può vincer l’orgoglio. I
£ tutto ignudo, e senza vesta, eccetto DI duro acciaio ha temperati i denti,
Quanto II ricopre un variabll velo. Infrangibili , eterni , adamantini.
Agii sembra nel corso, ha i piò calzati, Delle torri superbe, ed eminenti
Ed a guisa di augel , gli omeri alati. Rode e rompe con questi 1 sassi alpini ;
Ticndivisainduc vetri in sulla schiena Dei gran teatri i porfidi lucenti.
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ADONE. 55
Degli eccelsi colossi i marini lini.
Divorator del tulio , al fin risolve
Le più salde materie in trita polve.
Di sua forma non so se t’ accorgesti ,
Che non è mai ristessa alla veduta.
Faccia , ed età di tre maniere ha questi ,
L'acerba, la virile, e la canuta.
Tu vedi ben, come sembiante, e gesti
Varia sovente, c d'or’ in or si muta.
L'effigie, che pur or n* offerse innanzi.
Altra ne sembra , e non è più qual dianzi.
Vedigli assiso ai piedi un potentato ,
Da cui tutte le cose han vita c morte,
Con un gran libro, le cui carte è dato
Volger (com'ella vuol) solo alla Sorte.
A questo Nume, che si appella Fato,
Detta quant* ci determina in sua corte.
Quegli lo scrive, ed ordina al governo.
Primavera, ed Autunno, Estate, e Inver-
no.
Comandati questi al secolo , c palese
Gli fan ciò che far dee di punto in punto.
Il secol poi che ha le sue voglie intese ,
Al lustro impon che l'eseguisca appunto.
Il lustro all* anno, e l'anno al mese, il mese
AI giorno, il giorno all’ ora, el’oraalpun-
Cosl dispon gli affari, c con tal legge [to.
Signoreggia i mortali , c il mondo regge.
Vedi que’ duo, 1* un giovinetto adorno ,
Candido, e biondo , e con serene ciglia ;
L'altra femmina, e bruna, c vanno intor-
E si tengono in mezzo una lor figlia, [no,
Son color (se noi sai) la Notte, e il Giorno,
E l’Aurora è tra lor bianca c vermiglia.
Or mira quelle tre, che tutto han pieno
Di gomitoli d’ accia il lembo , e il seno.
Quelle le Parche son , per cui laggiuso
É filata la vita a tutti voi.
Nel suo volto guardar sempre han per uso ,
Tutte dipendon sol dai cenni suoi.
Quella tienla conocchia, e questa il fuso,
L'altra torce lo stame , e il tronca poi.
Veti! la Verità figlia del vecchio , [chio.
Che innanzi agli occhi gli soslien lospcc-
Quanto in terra si fa, là dentro ei mira,
E dell* altrui follie nota gli esempi.
Vede l’ umana anibizlon che aspira
In mille modi a fargli oltraggi c scempi.
Crede fiaccargli alcun la forza , c 1* ira
Ergendo statue , e fabbricando tempj.
Altri contro gli drizza archi , e trofei ,
Piramidi, obelischi, e mausolei.
Ride egli allora, e sì sci prende a gioco ,
Scorgendo quanto 1' uom s’inganna, cd
erra;
E poiché in piedi ha pur tenute un poco
Quelle macchine altere, alfiu le atterra.
Dalle in preda dell'acqua, ov ver del foco.
Or le dona alla peste , ora alla guerra.
Le sparge in fumo in quella guisa o in
questa
Sicché vestigio alcun non ve nc resta.
E di ciò la ministra é sol quell’ una ,
Che è cieca, c d' un dclfin sul dorso siede,
Calva da tergo, e il crine in fronte aduna,
Alata, c tlen sovra una palla 11 piede.
Guarda se la conosci , è la Fortuna ,
Che al paterno terrei! passar li diede.
Mira quanti lesor dissipa al vento,
Mitre , scettri, corone, oro, ed argento.
Quattro donne reali a piè le miri,
E son le monarchie dell’ universo.
D’ or coronata è quella degli Assiri ,
D’ argento 1* altra , che ha 1* impero perso,
La Grecia appresso con mcn ricchi giri
Porta cerchialo il crin di rame terso.
L’ ultima , che di ferro orna la chioma
E la guerriera e bellicosa Roma.
Ma ciò die vai , se il tutto è un sogno
Stolto colui , che in vanità si fida, [breve ?
Dritto è ben, che d’ un ben che perir deve,
L’ un filosofo pianga , e 1* altro rida.
Sola Virtù del Tempo avaro, c lieve
Può l'ingorda sprezzar rabbia omicida.
Tutto il resto il crudel , mentre che fugge,
E rapace, c vorace, Invola, e strugge.
Guarda sull’ uscio pur della caverna ,
E vedrai due gran donne assise quivi ,
E quinci c quindi dalla foce interna
Di qualità contraria uscir duo rivi.
Siede 1’ una da destra , e luce eterna
Le fregia 11 volto di bei raggi vivi.
Ridente in vista , e di un aspetto santo,
I n man lo scettro, ed ha stellato il manto.
È la Felicità, de’ cui vestigi
Cerca ciascun, nè sa trovar la traccia.
Ma da larve deluso, e da prestigi
Di quella in vece, la Miseria abbraccia.
Stanno molte donzelle a’ suoi servigi
D' occhio giocondo , e di piacevo! faccia ,
Vita , abbondanza , e ben contente c liete
Festa , gioia , allegria , pace e quiete.
Lungo il suo piè con limpld’ onda e viva
Mormorando sen va soavemente
II destro fiumlccl, da cui deriva ,
Di letizia immortai vena corrente.
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56 POEMI
Ella un lambicco in man sovra la riva
Colmo dell’ acqua licn di quel torrente,
E (come vedi ben) fuor della boccia
In terra le distilla a goccia a goccia.
A poco a poco ingiù versa il diletto,
Perchè altri non può farne intero acquisto.
Scarso è 1* uman conforto , ed imperfetto,
E qualche parte in sè sempre ha di tristo.
Quel ben, che qui nel ciclo è puro e sellici-
Piove laggiù contaminato e misto, [lo ,
Perocché pria clic raggia , ci si confonde
Con quell’ altro rusccl, che amare ha
P onde.
L’altro rusccl , clic mcn purgato e chia-
Passa da manca , è tutto di veleno , [ro
Vieppiù clic fiel, vieppiù che assenzio
amaro ,
E sol pianti , e sciagure accoglie in seno.
Vedi colei , che il vaso, onde volaro
Le compagne d’Aslrea, tutto n’ha pieno,
E con prodiga man sovra i mortali
Sparge quanti mai fur malori e mali.
Pandora è quella ; il bossolo di Giove
Folle audacia ad aprir le persuase.
Fuggì lo sluol delle Virtudi altrove ,
Le Disgrazie restaro in fondo al vase.
Sol la Speranza in cima all' orlo , dove
Sempre accompagna i miseri , rimase;
Ed è quella colà vestita a verde, [de.
Che in ciel non entra , e nell’ entrarsi per-
Or vedi come fuor dell’ ampia bocca
Dell* urna rea, che ogni difetto asconde,
In larga vena scaturisce e fiocca
Il sozzo umor di quelle pcrfld' onde.
Dell’ altro fiume , onde piacer trabocca ,
Questo in copia maggior Tacque diffonde.
Perchè in quel nido di tormenti e guai
Sempre V amaro è più che il dolce assai.
Vedi Morie, Penuria, e Guerra, e Peste,
Vecchiezza, e Povertà con bassa fronte,
Pena, Angoscia, Fatica adii Ite e meste
Figlie appo lei d’ A verno , e d’ Acheronte.
Ve’ T empia Ingratitudine tra queste ,
Prima d’ ogni altro mal radice e fonte.
E tutte uscite son del vaso immondo
Per infestar, per infettare il mondo.
Non ti maravigliar , che affanni e doglie
In questo primo elei faccian dimora,
Perchè la Diva , onde il suo moto ei toglie ,
E di ogni morbo, e di ogni mal signora.
In lei dominio, e potestà s’accoglie
E sovra 1 corpi , e sovra T alme ancora.
Ma se di ogni bruttura iniqua e fella
EROICI.
Vuoi la schiuma veder, volgiti a quella.
Sì disse, e gli mostrò mostro difforme
Con orecchie di Mida , e inan di Cacco.
Ai duol volti parca Giano biforme.
Alla cresta Priapo , al ventre Bacco.
La gola al lupo avea forma conforme ,
Artigli avea d’arpia, zanne di ciacco,
Era iena alla voce , e volpe ai tratti ,
Scorpione alla coda , e simia agli atti.
Chiese alla guida Adon , di che natura
Fusse bestia sì strana , e di che sorte;
Ed inle.se da lui , che era figura
Vera , ed Idea della moderna Corte.
Portento orrendo dell’ età futura,
Flagri del mondo, assai peggior che morte,
Dell’ Erinni infernali aborto espresso ,
Vomito dell’ inferno , inferno islesso.
Ma di questa (dicea) meglio è tacerne,
Poiché ogni pronto sili vi fora zoppo.
Ben mille lingue, e mille penne eterne
In mia vece di lei parlerai! troppo.
Mira in quel tribunal , dove si sceme
Di gente intorno adulatrice un groppo ,
Donna con torve luci , e lunghe orecchie,
Che da’ fianchi si tien due brutte vecchie.
L’Autorità tirannica dipigne
Quella superba e barbara sembianza ,
E Tassistenti sue sciocche, e maligne
Son la Sospizìonc, e l’Ignoranza, [gne.
Labbra ha verdi e spumanti, e man sangui*
Mostra rigor, furor, fasto, arroganza ;
Porge la destra ad una donna ignuda.
Di cui non è la più perversa e cruda.
Questa tutta di sdegno accesa e tinta ,
E di dispetto , e di fastidio è piena ;
E da turba crudel tirata, e spinta
Giovinetta gentil dietro si mena,
f.hcT una cT altra mano al tergo avvinta
Porta di dura e rigida catena t
Smarrita il viso, c pallidetta alquanto.
Ed ha bianca la gonna , e bianco il manto.
La ('.alnnnìa è colei, che al trono angusto
Per mania traggo, c par d’astio si roda.
Bella la faccia ha sì , ma dietro al busto
Le si attorce di serpe orrida coda.
L’ altra condotta nel giudizio ingiusto,
A cui le braccia indegno ferro annoda,
E T incorrotta c candida Innocenza,
Sovraffatta talor dall’ Insolenza.
Il Livor T è dincontra , il quale approva
La falsa accusa , e la risguarda in torlo.
Aconito infornai nel petto cova,
E di squallido bosso ha il liso smorto,
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ADONE.
Slmile ad imm, che afflitto ancor si trova
Da lungo morbo, onde guarì di corto.
Coppia d'ancelle alla Calunnia applaude,
(Testimoni malvagi) Insidia, e Fraudo.
Segue costoro addolorata , e piange
Di tal perfidia il torto , e la menzogna
l.a Penitenza , che si affligge ed auge
Presso ia Verità , che la rampogna ,
E si squarcia la vesta, c il crìn si frange ,
E di duol si dispera , o di vergogna ,
E col fiagcl di una spinosa verga
Si batte il corpo, e macera le terga.
Oirnè, non sliam più qui, iasciam per
Di questi mostri abominandi il nido. [Dio
Tacqucsi , c lungo un tortuoso rio
Quindi svioilo il saggio duce fido.
D' un' oscura isolctta Adon scoprio
Non molto lungo , ancor’ incerto , il lido.
Caria avea d' ogn’ Intorno opaca e bruna
Qual fosca notte in nubilosa luna.
Giace in mezzo d' un fiume, il qual si
Dilaga 1' acque sue placide c chete , [roco
E va sì lento, c mormora sì poco,
Che provoca in altrui sonno, e quiete.
Ecco (Mercurio allor soggiunse) il loco,
Dove discorre il sonnacchioso Lete,
Da cui la verga mia forte , c possente
Prende virtù d’ addormentar la gente.
C isola d' ogni parte abbraccia e chiude
( Come scorger ben puoi ) l’ onda letale ;
Sembra oziosa c livida palude ,
Onde caligin densa in alto sale.
Vedi quante in quell' acque anime ignude
Vanno a lavarsi , ed a tufian i l' ale
Pria che le copra il corrotlibil velo,
Per obliar ciò che han veduto in ciclo.
Vedine molte, che a bagnar le piume
Vengon pur nelle pigre onde infelici,
E perdon pur dentro il medesmo fiume
I.a conoscenza de’ cortesi amici.
Soli gl' ingrati color che han per costume
Dimenticar favori , c beneficj ,
E scriver nelle foglie , e dare ai venti
Gli obblighi , le promesse , c i giuramenti.
Altre ne vedi ancor quassù dal mondo
Salire ad or ad or macchiate e brutte,
I.e quai non pur di quel licore immondo
Corrono a ber, ma vi s’ immergon tutte.
Genti son quelle, che da basso fondo
.So n per fortuna ad alto grado addutte.
Dove ciascun divicn si smemorato.
Che più non gli sovvien del primo stato.
0 dei terreni onor perfida usanza ,
S7
Con cui l’ oblio di subito si beve ,
Onde con repentina empia mutanza
Vlcnsi l’ uomo a scordar di quanto deve ;
E non solo d' altrui la rimembranza ’
In lui s' offusca , e si smarrisce in breve ,
Ma sì del tutto ogni memoria ha spenta,
Che di sé stesso pur non si rammenta.
Il paese dei Sogni è questo , a cui
Pervenuti noi siamo a mano a mano.
Vedi che appunto nei sembianti sul
Simile al sogno , ha non so che del vano ,
Che apparisce, e sparisce agli occhi alu ui,
E visibile appena è di lontano.
Qui da Giove scacciato II Sonno nero
Contumace del elei, fondò l’impero.
Ma per poter varcar l'onda soave
Sarò buon, clic alcun legno orsi prepari.
Ed ecco allora in pargoletta nave
Strania ciurma apparir di marinari ,
Datone, e Tarassio il remo grave,
E Plutocle, c Morfeo movean del pari.
Era 11 vecchio Fantasio il galeotto ,
Al niestler del limone esperto c dotto.
Presero un porto , ove d' elettro puro ,
All' angel vigilante un tempio e sacro.
Quindi scolpito sta l’ Èrebo oscuro ,
Quinci d' Ecatc beila il simulacro.
In sull’ entrar, pria che si passi al muro
V ha di duo fonti un gemino lavacro ;
Che fan cadendo un mormorio secret •> ,
Pannicelli.! è detto l’ un, l'altro Negrcto.
Fa cerchio alia città selva frondosa ,
Che dà grato ristoro al corpo lasso
La mandragora stupida, c gravosa ,
E il papavero v ' ha col capo basso.
L’orso tra questi languido riposa,
E riposanvi all’ ombra il ghiro , e il lasso.
Nò d’abitar quei rami osano augelli,
Fuor clic nottole , c gufi , e pipistrelli ,
D’un lri a più color case, c contrade
Statisi tra lumi tenebrosi occulte.
Quattro porte maestre ha la cittade.
Due di terra, e di ferro incise e sculte.
Le quai rispondon per diritte strade
Della Pigrizia alle campagne inculle ;
E per queste sovente o falsi , o veri
Escono i Sogni spaventosi c fieri.
Dell’ altre due ciascuna il fiume guarda ;
L’ una ò d' avorio , e si disserra allora ,
Che è nel suo centro la slagion più tarda ,
L'altra di corno, e s’apre in sull aurora
Perquellaaschernirl’uom turba bugiarda
D’ Ingannatrici ìuiaglni vien fora.
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M POEMI
Da questa soglion trar Tallirne vaghe
Visioni dei ver spesso presaghe.
La bella coppia entrò per l'uscio ebumo,
E fur quell’ ombre da’ auoì raggi rotte.
Il suo palagio ombroso , e taciturno
Nella piazza maggior lenea la Notte.
Dall'altra parte di vapor notturno
Velato , e chiuso tra profonde grotte
L’ albergo ancor del Sonno si vedea ,
Che sovra un letto d’ ebano giacca.
O di quante fantastiche bugie
Mostruose apparenze intorno vanno !
Sogni schivi del Sol , nemici al die ,
Fabri d’iliuslon, padri d'inganno.
Minolauri , centauri, idre, ed arpie,
E gerirmi , c briarei vi stanno.
Chi sirena, chi sfinge al corpo sembra.
Chi di ciclopo , e chi di fauno ha membra.
Chi par bertucci, ed è qual bue cornuto,
Chi tutto è capo, e il capo poi seni' occhi.
Altri han com’ hanno i mergl 11 becco acu-
Altri la barba a guisa degli alocclii. [to,
Altri con faccia umana è si orecchiuto ,
Che convlen , che ogni orecchia il tcrrcn
tocchi.
Altri ha piè d’oca, e di falcone artiglio.
L’occhio nel ventre, e nel bellico il ciglio.
Vedresti effigie angelica , e sembiante ,
Poi si termina il piede in piedistallo.
Visi di can con trombe d’ elefante ,
Colli di gru con teste di cavallo.
Busti di nano, e braccia di gigante.
Ali di parpaglion , creste di gallo ,
Con code di pavon grifi , e pegasi ,
Fusi per gambe , e pifferi per nasi.
Alcun di lor, quasi spalmalo legno,
Vola a vela per l' aure , e scorre a nuoto ,
Ma di due rote ha sotto un altro ingegno ,
Onde corre qual carro , c varia moto.
Con un mantice alcun di vento pregno
Gonfia , e sgonfia soffiando il corpo voto ,
E tanti fiali accumula nell'epa,
Che come rospo alibi ne scoppia e crepa.
E questi, ed altri ancor più contraffatti
Ve n' ha, piccioli e grandi , interi e mozzi ,
Quasi vive grottesche , o spirti astratti ,
Scherzi del caso , e del pensiero abbozzi.
Parte alle spoglie , alle fattezze , agli atti
Son lieti e vaghi, e parte immondi e sozzi.
Molli al gesto, al vestir vili e plebei ,
Molli di regi in abito, c di Dei.
Tra gii altri Adon vi riconobbe quello ,
Che in Cipro gii, quand’ei tra' fior dormiva
EROICI.
Rappresentagli il simulacro bello
Della sua bella , ed amorosa Diva.
E gii quel pigro e lusingliier drappello
Dietro alla Notte, che volando usciva,
Gli s'accostava in mille forme intorno
Per gravargli le ciglia, o torgli il giorno.
Ma il suo dottor si se n'accorse, e presto
Gli fc’ le luci alzar stupide , e basse.
Vener sorrise, ed ci poscia che desto
L’ebbe non volse più che ivi indugiasse.
Ma mostrandogli a ditoor quello, or que-
AIT altra riva un'altra volta il trasse, [sto.
Dimandava!» Adon di molte cose.
Ed a molte dimande egli rispose.
E giunta a mezzo di suo corso ornai
L'umida Notte ali’Ocean scendea,
E con tremanti , e pallidetti rai
Più d' un lume dal ciel seco cadea.
Cinto di folte stelle , c più che mai
Chiaro il pianeta inargentato ardea ,
Vagheggiando con occhio intento e vago
In fresca valle addormentato il Vago.
Deb perdonimi il ver, se altrui par forse.
Ch'io qui del ciel la dignltate offenda,
Poiché laddove Tempo unqua non corse ,
L' Ore non splegan mal notturna benda.
Facciol, perchè cosi quel che non scorse
Il senso mai, l'intendimento intenda.
Non sapendo trovar fuor di Natura
Agli spazi celesti altra misura.
In questo mezzo il condottier superno
Le sei vaghe corsiere al carro aggiunse.
Fece entrarvi gli amanti , ed al governo
Assiso poi, ver l'altro elei le punse.
Ed ai bei tetto del suo albergo eterno
In poche ore rotando, appresso giunse.
Intanto il parlator facondo e saggio
La noia alleggeria del gran viaggio.
Eccoci (gli diceva), eccoci a vista
Della mia stella , che più su si gira ,
Candida no , ma variata e mista [ tira ,
Di un tal livor, che al piombo alquanto
Picciola si , che quasi appena è vista ,
E talor sembra estinta a chi la mira,
E nelle notti più serene e chiare
Dell’ anno sol per pochi mesi appare.
Questo gli awicn non sol perchè minore
Dell' altre erranti, e delie fisse è molto,
Ma però clic da luce assai maggiore
Gli è spesso il lume inecclissato e tolto.
Sotto i raggi del Sole il suo splendore
Nasconde sì , che vi riman sepolto ,
E tra que’ lampi , onde si copre e vela ,
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ADONE. 59
Quasi iu lucida nebbia , altrui si cela.
Ha dall' essere al Sol tanto vicina
Maggior fora e vigor prende sovente,
Come ancor questa del tuo cor retna
Per l' istessa cagione è più possente.
Seco, e col Sole in compagnia cammina,
Seco la rota sua compie egualmente.
Benché tra noi sia gran disuguaglianza,
Chè assai di lume , e ili beltà mi avanza.
La qualità di sua natura è bene
Mutabile, volubile, inquieta.
Si varia ognor, nè mai fermezza tiene.
Or infausta, or seconda, or trista, or lieta ,
Ma questa tanta instabiltà le viene
Dalla congiunzion d' altro pianeta ,
Perch’io son tal, che negli effetti miei
Buon co’ buoni mi mostro , e reo co’ rei.
Nascon per la virtù di questa luce
Luminosi Intelletti, ingegni acuti.
Senno altrui dona , ed uomini produce
Cauti agli affari , e nell’ industrie astuti.
Vago desio dì nuove cose Induce,
E d'incognite al mondo arti, e virtutì.
Per lei sol chiaro e celebre divenne
Delle lingue lo studio, e delle penne.
E quando questa tua dolce lumiera
Vi applica il raggio suo lieto benigno ,
Quei fortunato, al cui natale impera.
Riesce in terra il più famoso cigno.
Così lo Dio della seconda sfera
Parla al vago figliuol dei re Ciprigno,
E tuttavia, mentre cosi gli conta
Le proprie doti , il patrio del sormonta.
Avean l’aureo timon per la via torta ,
Drizzato già le mattutine ancelle.
Già su 1 confìn della dorata porta
Giunto era il Sole , e fca sparir le stelle ;
La cui leggiadra messaggera , e scorta
Sgombrando intanto queste nubi, e quelle,
Per le piagge spargea chiare, ed ombrose
Della terra, e del del rugiade, c rose.
Quando vi giunse, e con la coppia scese
Sovra le soglie del lucente chiostro ,
Come fu dentro Adon, vide un paese [slro;
Con più bel giorno, epiùbeldel,eheilno-
Poi dietro alle sue scorte il cammin prese
Per un ampio senticr, che gli fu mostro ;
E in un gran pian si ritrovalo adagio ,
Nel cui mezzo sorgea nobil palagio.
Palagio , che al modello .alla figura
Quasi d’anfiteatro avea sembianza.
Ogni edificio , ogni artifizio oscura ,
Ogni lavoro , ogni ricchezza avanza.
Vista nel primo giro hai di Natura
(Disse ClUenioJ la secreta stanza.
Or ecco, o bell' Adon , sei giunto in parte
Dove l’ albergo ancor vedrai dell’ Arte.
Dell' Arte emula sua la casa £ questa ,
Eccola là , se di vederla brami.
Di gemme in fil tirate è la sua vesta.
Trapunta di ricchissimi ricami.
Mira di che bei fregj orna la testa.
Come l’ intreccia de' più verdi rami.
Di strumenti , c di macchine ancor vedi
Qual c quanto si tien cumulo a’ piedi.
Mira penne , e pennelli , e mira quanti
Vi Ita scarpelli, e martelli, asce, ed incudl,
Bulini , e lime , circini , e quadranti ,
Subbj, e spole, aghi, e fusi, e spade, e scudi
Cosi diceagll , e procedendo avanti ,
La gran maestra tralasciò suoi studj ,
E riverente , e con cortese inchino,
Umitfossi al messaggier divino.
Dal divin messaggiero Adon condutto
La porta entrò della celeste mole.
DI diamante ogni muro avea costrutto ,
Che lampeggiando abbarbagliava il Sole ;
E P Immenso cortile era per tutto
Intorniato di diverse scolo,
E molte donne in cattedra sedenti
Vedeansi quivi ammaestrar le genti.
Queste d'etate, o di bellezza eguali
(Mercurio ripigliò) vergini elette
Sono ancelle dell’ arte, c liberali,
Perocché l' uom fan Ubero, son dette.
Fonti inesausti , oracoli immortali
Del saper vero , e non son più che sette
Fidate guide, illuslralrìci sante
Del senso cieco , e dell’ ingegno errante.
Colei, che è prima, e tiene in man le
Della sublime, c spaziosa porta, [chiavi
Di (ulte le altre facoltà più gravi
Agli anni rozzi è fondamento , e scorta.
Quella , che con ragion belle c soavi
Loda, biasma, difende, accusa, esorta,
È la diletta mia , che dalla bocca
Mentre che versa il mel , l’ aculeo scocca.
Ve’ l'altra poi con la faretra a lato,
Sottile arciera a saettare intenta,
Che bene acuti ognor dall* arco aurato
Di strali in vece i sillogismi avventa.
Passa ogni petto d’aspri dubbj armato.
Nega , prova , conferma , ccl argomenta ,
Scioglie, dichiara, e dalle cose vere
Distingue il falso, alBn conchiude c fere.
Vedi quell’ altre ancor quattro donzelle
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CO POEMI
Dì sembiante , e dì volto alquanto oscure.
Tutte (l’un parto sol naequer gemelle,
E traltan pesi, c numeri, c misure.
L'una contemplatrice è delle stelle ,
E suol vaticinar cose future.
Vedi clic ha In man la sfera, c dei pianeti
Si diletta di espor gli alti secreti.
L’ altra , che con la pertica disegna
E triangoli , c tondi , c cubi , e quadri ,
Con linee, e punti il ver mostrando, insegna
Righe, c piombi adoprar, compassi, c squa-
li terza di sua man figura e segna [dri.
Tariffe egregie, e calcoli leggiadri.
Sottrae la somma, la radice trova,
Moltiplica il partito, e fa la prova.
Instruiscc a compor l’ ultima suora
E fughe, e pause, e sincope, c battute,
E temprar note all* armonia sonora
Or lente c gravi , or rapide ed acute.
Altre vederne non mcn sagge ancora
Oltre queste potrai fin qui vedute ,
Benché le sette, ch’io l’ hoconteemoslre,
Sien le prime a purgar le menti vostre.
Ecco altre due sorelle, c del Disegno,
E della Simmetrìa pregiate figlie.
L’ una con bel colori in tela , o in legno
Sa di nulla formar gran meraviglie.
L’ altra, che nell’ industria, e nell’ ingegno
Non ha (trattane lei) chi la somiglie.
Sa dar col ferro al sasso anima vera.
Al metallo, allo stucco, ed alla cera.
Eccoti ancor col mappamondo avaute,
E con la carta un’ altra giovinetta.
Che scoprendo I paesi , c quali c quante
Regioni ha la terra , altrui diletta.
Sentenze poi religiose c sante
Damigella celeste altrove detta.
Di Dio discorre , c dell’ eterna vita
Al discepoli suoi la strada addita.
Mira colà quella matrona augusta.
Che per toga c per laurea è veneranda.
£ la Legge cìvil, che santa, e giusta
Sol cose oneste c lecite comanda.
Quella , che porge d’ altrui febbre adusta
Amara, c salutifera bevanda,
£ di ogni morbo uman medicatrice.
Che sua virtù non chiude erba , o radice.
Guarda or colei , che spirili divini
Spira, sebben fattezze alquanto ha brutte,
E par, che ognun l’ onori, ognun l’ inchini,
Qual madre univcrsal dell’ altre tutte.
Quella è Sofia, clic rabbuffata i crini,
Magra , e con guance pallide c distrutte,
EROICI.
Con scalzi piedi , c con squarciati panni
Pur di dotti scolari empie gli scanni.
Azione , passione , atto , c potenza ,
Qualità, quantità mostra in ogni ente.
Genere , c specie , proprio , c differenza ,
Relazione , sostanza , ed accidente ,
Con qual legge natura, c previdenza
Crea le cose , c corrompe alternamente ,
La materia , la forma , il tempo , il moto
Dichiara, c il sito,c l’infinito, e il voto.
Tion due donne da’ fianchi. Una che sic-
Sovra quel sasso ben quadrato c sodo , [de
£ la Dottrina , che a chiunque il chiede
Di ogni difficoltà discioglie il nodo.
L’ altra clic con la libra in man si vede
Pesar le cose, ed ha II martello, c il chiodo,
£ la Ragion , clic con accorto ingegno
A nessun crede, c vuol da tutti il pegno.
Ma quell’ altra colà, che ha si leggiere
Le penne, è Dea del mondo, anzi tiranna.
Di fallace cristallo ha due visiere ,
Che l’ occhio illude , e 11 buon giudicio ap-
E le fa guatar torto, c travedere , [ panna
Sicch’altrui spesso, e sè medesma inganna.
Di un tal cangiacolor la spoglia ha mista ,
Che l’ apparenze ognor mula alla vista.
Nè di tanti color gemmanti c belle
Suol l’augcl di Glunon rotar le piume,
Nè di tanti arricchir l’ ali novelle
Quel del Sole in Arabia ha per costume.
Nè di tanti fiorir veggionsì quelle
Dell’alato figliuol del tuo bel Nume,
Di quante eli’ ha le sue varie e diverse
Verdi, bianche, vermiglie, c rance, c perse.
Opinion s’appella, e molte ha seco
Ministre infami, c meretrici infide.
Larve , che uscite del tartareo speco
Ycngon dell’ alme incaute a farsi guide.
Ed è lor capo un giovinetto cieco,
Ch’Errore ha nome, c lusingando ride,
D’un licore incantato inebbria i sensi,
E lui seguendo a precipizio viensi.
Mira intorno astrolabi , ed almanacchi ,
Trappole, lime sorde, e grimaldelli.
Gabbie, bolge, giornee, bossoli, e sacelli ,
Labirinti , archipendoli , c livelli ,
Dadi, carte, pallon, tavole, e scacchi,
E sonagli, c carrucole, c succhielli,
Naspi, arcolai, vctticchi, c oriuoli,
Lambicchi, bocce, mjntlci, e crociuoli.
Mira pieni di vento otri , e vessiche,
E di gonfio sapon turgide palle.
Torri di fumo, pampini d’ ortiche,
ADONE. CI
Fiori di zucche, e piume Tordi , e gialle,
Aragni, scarabei, grilli, formiche.
Vespe, zanzare, lucciole, e farfalle,
Topi, galli, bigatti, e cento tali
Stravaganze d’ordigni, c d’animali.
Tutte queste , che vedi , c d’ altri estrani
Fantasmi ancor prodigiose schiere ,
Sono i capricci degl’ ingegni umani ,
Fantasie, frenesie pazze , e chimere.
V ha molini , e palei mobili c vani
Girelle , argani , e rote in più maniere.
Altri forma han di pesci , altri d’ uccelli ,
Vari , siccome son vari i cervelli.
Or mira all’ombra della sacra pianta
Fregiala il crin dell’ onorate foglie
La Poesia, che mentre scrive, e canta,
Il fiore di ogni scienza insieme accoglie.
La Favola è con lei , clic orna, ed ammanta
Le vaghe membra di pompose spoglie.
L’accompagna l’Istoria ignuda donna.
Senza vel, senza fregio, e senza gonna.
Vedi la Gloria , che qual Sol risplcnde,
Vedi l'Applauso poi, vedi la Lode,
Vedi 1’ Gnor, che a coronaria intende
Di luce eterna , onde trionfa e gode.
Ma vedi ancor coppia di furie orrende,
Clic di rabbia per lei tutta si rode.
La persegue rinvidia empia , e crudele,
Che ha le vipere in mano, in bocca il fiele.
La maligna Censura ognor l’ è dietro,
E quant’ella compone emenda, e tassa.
(k>l vaglio ogni suo accento , ogni sitome-
Crivella , e poi perla trafila il passa, [tro
Posticci bagli occhi in fronte, c son di
Orse gli affigge, or gli ripone e lassa [vetro,
Nota con questi gli altrui lievi errori ,
Nò scorge intanto i suoi molto maggiori.
Ciò detto , dì diaspri , c di alabastri
Gli mostra un arsemi capace e grande,
Che sovr’ alte colonne , e gran pilastri
Le sue volte lucenti appoggia c spande,
Turba v’ ha dentro di diversi mastri ,
Ingegner d’opre illustri e memorande.
Qui di lavori ancor non mal più visti
Soggiornan (dice) i più famosi artisti.
Di quanto mai fu ritrovato in terra ,
0 si ritroverà degno di stima ,
0 sia cosa da pace , o sia da guerra ,
Qui ne fu l’esemplar gran tempo prima.
Qui pria per lunghi secoli si serra
Ignoto ad ogni gente, ad ogni clima,
Poi si pubblica al mondo c si produce
All’ umana notizia , ed alla luce.
Vedi Prometeo figlio di Iapeto,
Che di spirto celeste il fango informa.
E vedi Cadmo autor dell’ alfabeto.
Da cui prendon le lingue ordine c norma.
Vedi il Siracusan , che il gran secreto
Trova, ond’un picciol cielo ha moto, c
E ilTarentin, che la colomba imÌta;[forma.
E il grand’ Alberto , che al metal dà vita.
Ecco Tubai primo Inventor de’ suoni ,
11 Tebano Anfione , e il Trace Orfeo.
F.cco con altre corde , ed altri tuoni
Lino, lopa, Tamira , c Timoteo.
Ecco con nove armoniche ragioni
Il mirahil Terpandro , c il buon Tirtco ,
Fabri di nove lire, c nove cetre,
Animatori d’arbori, c di pietre.
Mira Tcsiblo, e mira Anassimcne
Su la mostra segnar 1* ore correnti.
Mira IMrode poi, che dalle vene
Trae della selce le scintille ardenti.
Anacarsi ò colui, mira che tiene
In mano il folle , e dà misura ai venti.
Mira alquanto più in là metter in uso
Esculapio lo specchio, c Giostro il fuso.
K Gige v’ ha , ciie la pittura inventa ,
Ed havvl col pennello Apollodoro,
E Corcbo ò con lor , che rappresenta
Della plastica industre il bel lavoro,
E Dedal , che agguagliar non si contenta
Con sue penne nel volo e Borea , e Coro ,
Ma macchinando va d’asse, c di legni
Ingegnoso architetto alti disegni.
Epiinenide , Furialo , Iperbio , e Dosso
Templi , e palagi ancor fondano a prova ,
E Trasonc erge il muro , c cava il fosso
Danao , che il primo pozzo in terra trova.
Navi superbe edifica Minosso,
Tifi il timon , con cui 1* alTreni , c mova.
Bellorofonte ò tra costor , eh’ io narro ,
Ed Eriionio co’ cavalli , c il carro.
Guarda Aristeo con quanto util fatica
Del mel, del latte alla cultura intende.
Tritolemo a’ mortai mostra la spica,
Bige l’ aratro , che la terra fende.
Prcto allo scudo , Midia alla lorica
Travagliamolo il dardo a lanciar prende.
Scile pon 1* arco in opra, e la saetta,
L’ asta Tirren , Pantasilca l’ accetta.
Havvl poi mille fabricali e fatti
Da Cretensi , da Siri , c da Fenici,
Mossi da rote impetuose , c tratti
Altri arnesi guerrieri , altri artificj.
Vedi arpagoni , c scorpioni , e gatti ,
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C5 POEMI
Macchine di citladl espugnatele! ,
E da cozzar con torri , e con pareti
Catapulte , baliste , ed arieti.
Bertoldo vedi 11, nato in sul Reno,
Che per strage del mondo , e per rulna
D' irreparabil fulmine terreno
Fonde, temprato airinfernal fucina.
Quegli e Giovanni ;o fortunato appieno !
Che le stampe introduce in Argentina ;
E ben gli dee Magonza eterna gloria,
Come eterna egli fa I* alimi memoria.
Cosi parlando per eccelse scale
Sovt' aureo palco si trovar saliti,
E quindi cntraro in galleria reale ,
Che volumi accoglica quasi infiniti.
Eran con bella serie in cento sale
Riposti in ricchi armari c compartiti ,
l egali in gemme, ed ogni classe loro
Distinguea la cornice in linee d' oro.
Ceda Atene famosa , a cui già Serse
Rapi gli archivj d’ogni antico scritto,
Che poi dal buon Seleuco all’ armi perse :
Ritolti , in Grecia fer nuovo tragitto.
Nò da’ suoi Tolomci d' opre diverse
Cumulato Museo celebri Egitto.
Nò di lai libri in quest’ etatc , e tanti,
l'rbin si pregi , o il Yatican si vanti.
Molti n’ eran vergati in molle cera ,
Molti in sottili, e candide membrane.
Parte in fronde di palma , e parte n' era
Di piombo in lame ben polite c piane.
In caldeo ve n’ avea scritta una schiera ,
Altri in lettre fenicie , c soriane.
Altri in egizj simboli, e figure.
Altri In note furtive, e cifre oscure.
Questo ò l’ erario , in cui si fa conserva
Segui Mercurio) de’ più scelti inchiostri
Di quanti mai scrittor Febo, e Minerva
Sapran meglio imitar tra’ saggi vostri.
I nomi , a cui non noce età proterva ,
Vedi a caratter d’ or scritti ne' rostri.
Qui stan le lor fatiche , c qui son state
Pria che composte sieno, e che sien nate.
Quanti d’ Illustri e celebrati autori
SI smarriscon per caso empio c sinistro
Degni di vita, e nobili sudori,
Ed or Nettuno , or n’ ò Yulcan ministro 1
Or qui di tutti quel ricchi tesori )
Che si perdon laggiù , si ticn registro.
Sacre memorie, ed Involate agii anni.
Che traman morte agli onorati affanni.
La libreria del dotto Stagirita ,
Che il liorconlicn d’ ogni scrittura eletta ,
EROICI.
Di cui Teofrasto in sull’ uscir di vita
Lascerà successore , è qui perfetta.
D’ Empedocle , Pittagora , ed Archita
Vi ha le dottrine , e qualunque altra setta.
Di Talete , Democrito , e Solone ,
Parmenide , Anassagora , e Zenone.
Petronio vi ha , di cui gran parte ascose
Torbido Lete in nebbie oscure e cieche.
Di Tacito vi son l' ultime prose,
Tutte di Livio le bramate deche.
La Medea di Nasone , ed altre cose
De' Latini miglior, non men che greche.
Cornelio Gallo con Lucrezio Caro, [ro.
Ennio , ed Accio , e Pacuvio, e Tucca, e Va-
D’ Andronico, e di Nevio I drammi lieti.
Di Cccilio , e Licinio anco vi stanno ,
E di Publio Terenzio I più faceti
Sali , clic alle salse acque In preda andran-
E non pur d'altri istorici, e poeti [no;
Le disperse reliquie albergo v' hanno.
Ma gli oracoli ancor delle Sibille,
Scampati dal furor delle faville.
Tacque , c volgendo Adon l' occhio in di-
vide gran quantità di libri sciolti, [sparte
Clic avean malconce e lacere le carte ,
Tutti sossopra In un gran mucchio accolti.
Glaccan negletti al suol , la maggior parte
Rosi dal tarlo , e nella polve Involti.
Or perchè (disse) esposti a tanto danno
Dal bell’ ordine questi esclusi stanno ì
E perchè senza onor, senza ornamento
Di coverta , o di nastro io qui gli trovo?
Un fra gli altri gittato al pavimento
Ne veggo là fra Drusiano, e Rovo,
Che (se creder si deve all'argomento)
Porta un titolo illustre : Il Mondo novo.
Ma si logoro par, s’io ben discerno.
Clic quasi II mondo vecchio è più moderno.
Di scusa certo, c di pietà son degni
(Sorridendo l' Interprete rispose)
Quei , elle d’ ogni valor poveri ingegni
Si sforzan d' emular l’ opre famose;
Chò Ingordigia d'onor non ha ritegni
Nelle cupide menti ambiziose ,
E quando alto volar ne voggion' uno,
A quel seguo arrivar vorria ciascuno.
Non mica a tutti è di toccar concesso
Della gloria immortai la cima alpina.
Chi volar vuol senz’ all , accoppia spesso
All’ audace salita alta rulna.
Ma quantunque avveuir soglia l'islesso
Quasi in ogni bell'arte, e disciplina.
Non si vede perù maggior tracollo ,
ADONE. 61
Che di chi segue indegnamente Apollo.
Dietro ai chiari scriltor dì Smirna , e
Manto,
Per cui sempre vivranno i duci , e l'armi ,
Tentando invan di pareggiarli al canto ,
Più d' uno arroterà io stile , e i canni.
0 quanti poi , con quanto studio c quanto
Dell' italico stuol di veder panni
Tracciar con poca lode i due migliori ,
Che in sul PA canteran guerre ed amori.
Che di poemi in quella lingua cresca
Numerosa farragine , e di rime ,
La facil troppo invenzton tedesca
N’ è cagion , che per prezzo il tutto impri-
Ma se alcuna sarà , che mal riesca , [me.
L’opra, che tu dicesti, A tra le prime.
Cosi figliano i monti, e il topo nasce.
Ma poi nato eh' egli è , si more in fasce.
Polche si fatti parti un breve lume
Visto appena han laggiù nei vostro mondo,
Il vecchlarci dalle veloci piume ,
Quel che vedesti già nell' altro tondo ,
Qui ridurle in un monte ha per costume
Per seppellirle in tenebroso fondo.
Alfin te porta ad attuffar nel rio.
Che copre il tutto di perpetuo oblio.
Ma più non dimoriam , che polche a que-
Tihoscortoetcrnlelumlnosimondi, [sti
Converrà , che altro ancor ti manifesti
Dei secreti del Fato alti e profondi,
E vie molto maggior, che non vedesti ,
Maraviglie vedrai , se mi secondi.
Qui tacque , e in ricca loggia e spaziosa
Il coudusse a mirar mirabii cosa.
Vasto edificio d’ ingegnosa sfera
Reggea , quasi gran mappa, un piedistallo,
Che si appoggiava ad una base intera
Tutta intagliata del miglior metallo.
Era d’ ampiezza assai ben grande , ed era
Fabrìcala d’ acciaio , e di cristallo.
La cerchiavan per tutto In molti giri
Fasce di lucidissimi zaffiri. [dea
Forma avea d’ un gran pomo, e risplcn-
Più che lucente, e ben polito specchio,
E d ' aurei seggi intorno intorno avea
Per rlsguardaria un comodo apparecchio.
Quivi , mentre che intento Adon tenca
L' occhio alla palla , al suo parlar I’ orec-
Mercurio seco, e con la Dea s' assise, [chio,
Indi da capo a ragionar si mise.
Questa ( dicra J sovramortal fattura ,
La qual confonde ogni creato ingegno ,
Opra mirabii e , ma di Natura ,
E di dlvln Maestro alto disegno.
L* artefice di tanta architettura,
Che d' ogni Miro artificio eccede il segno ,
Fu questa mia del gran Fattor sovrano
( Benché imperfetta] imitatrice mano.
Sudò molto la man, nè l' intelletto
Poco in si nobil macchina sofferse ,
E lungo tempo inabile architetto
Sue fatiche , e suol studj Invan disperse ;
Ma quei , eh’ e sol tra noi fabro perfetto ,
Dei bei lavor l’ invenzton m’ aperse ,
E il secreto mi fc’ facile e lieve
Di raccorre il gran mondo in spazio breve.
E die sia ver, rivolgi a questa mia
Adamantina fabrica le ciglia.
Di’ se vedesti , o se esser può , che sia
Istromento maggior di meraviglia.
Composta è con tant’arte e maestria,
Che al globo universa! si rassomiglia.
Mirar nel cerchio puoi limpido e terso
Quanto 1’ orbe contien dell' universo.
Formar di cavo rame un cielo angusto
Fia forse in alcun tempo altrui concesso,
Dove or sereno , or di vapori onusto
L’ aere vedrassi , e il tuono , e il lampo
E tener moto regolato e giusto [espresso,
La bianca Dea con l’ altre stelle appresso,
E con perpetuo error per l’ alta mole
Di fera in fera ir tra le sfere il Soie.
Ma dove un tal miracolo si lesse ,
0 chi senno ebbe mai tanto profondo,
Cile compilar, compendiar sapesse
La gran rota del tutto in picciol tondo?
Al magistero mio sol si concesse
Fare un vero model dei maggior mondo ,
Lo qual dei mondo insieme elementare
(Non che sol del celeste ), è l’ esemplare.
Onde di quante cose o buone , o ree
Passate ha il mondo in qualsivoglia etade,
E di quante passar poscia ne dee
Per quante ha colaggiù terre , e contrade ,
Qui son le prime originarle idee,
Dove scorger si può ciò che vi accade.
Riluce tutto in questo vetro puro
Col passato , c il presente , anco il futuro.
Vedi le zone fervide , e l’ algenti ,
E dove bolle, e dove agghiaccia l'anno.
Vedi con qual misura agli elementi
Tutti I corpi celesti in giro vanno.
Vedi il scntier, laddove i duo lucenti
Passeggieri del cicl difetto fanuo.
Vedi come veloce il moto gira
Del del , che ogni altro cicl dietro si lira.
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C4 POEMI
Ecco 1 tropici poi , quindi discenti
Volgersi il cancro, e quinci il Capricorno,
Dove agguagliati dei pari i corsi alterni
La notte al sonno , alia vigilia il giorno.
Ecco i colliri, uniti ai poli eterni.
Clic sempre il ciel vati discorrendo intor-
Ecco con cinque linee i parale!!! , [ no.
E nel bel mezzo il principal tra quelli.
Eccoti là sotto il piti basso cielo
Il foco , che sempr* arde , e mal non erra.
Mira dell’ acque il trasparente gelo.
Olle II gran vaso del mar nel ventre serra.
Mira dell’ aria molle il soltil velo.
Mira scabrosa e ruvida la terra.
Tutta librata nel suo proprio pondo,
Quasi centro dei del, base del mondo.
Himira, c vi vedrai distinti, c chiari
(loschi, colli, pianure, e valli, e monti.
Vedrai scogli, ed arene, isole, e mari,
E laghi, c fiumi, c ruscelletti, c fonti,
Provincie, c regni, e di costumi vari
Centi diverse, c d’abiti, c di fronti.
Vedrai cou peli , e squamine , e penne, e ro-
E fere, e pesci, ed augclletli , e mostri, ^stri,
Vedi la parte, ove 1’ aurora al tauro
li rapo indora, e l' oriente alluma.
Vedi P altra , ove lava al vecchio inauro
Il piè di sasso I’ africana spuma.
Vedi là dove spula il fioro cauro
Sulle balze rifee gelida bruma.
Vedi ove il negro con la negra gente
Suda sotto 1’ arder dell* asse ardente.
Ecco le rupi, ondo trabocca il Nilo,
Clic la patria, e il natalsi ben nasconde.
Ecco I’ Eufrate clic per dritto filo
Le due gran reglon parte con Tonde.
L’ Indo è colà, cito per antico stilo
Fa di tempeste d* or ricche le sponde.
Quell’ è il terrai , là dove sferza c scopa
Le sue fertili piagge il mar d’Europa.
Vuoi I* Arabie veder per le famose,
La Petrea, la Deserta, c la Felice?
Eccoli il loco appunto ove l’ espose
La trasformata già tua genitrice.
Ve’ le rive di Cipro, ambiziose
Di una tanta bellezza abitatrice.
Conosci il prato , ove perdesti il core ?
È quello il tetto, ove t’ accolse Amore?
Grande è il teatro, c nei suoi spazi im-
mensi
Chi langue in pena , e chi gioisce in gioco.
Ma per non ti stancar la mente , e i sensi
In cose ornai , clic ti rilevati poco ,
EROICI.
Tanto sol mostrerò, quanto appari icnsi
Alla Iteli' esca del tuo dolce foco.
Sai pur , cl»e protettrice è questa Dea
Della stirpe di Dardano, e d’ Elica.
Le diede soi ra Pallade , c Giunone
Paride già delle bellezze il vanto.
Benché tragico n’ebbe il guiderdone,
E corscr sangue il Simoenta , c il Santo*
Questa ( ma non già sola J é la cagione ,
Ch’ella il scine troiano ami cotanto.
Mirolla in questo dir Mercurio, c rise.
L’ altra arrossi col rimembrar d’ Anelli se.
Or mentre [ seguì poi } del cavo fianco
Uscito del destrier , clic insidie chiude,
Sluol di greci guerrieri il Frigio stanco
Assai con armi impetuose c crude,
Sotto la scorta del buon duce franco
Ricorra alla mcotica palude
Una gran parte di reliquie vive,
Esuli, peregrine, e fuggitive.
Taccio il corso fatai di queste genti ,
E de’ suoi >ari casi il lungo giro;
Per quanti forluncvoli accidenti
In Germania passar con Marcomiro;
Come di Marcomiro I discendenti
Nel gallico terrai si stabilirò,
Dappoiché Ferraniondo al mondo venne ,
Clic dello scettro il primo onor vi tenne.
Né fin d’ uopo additarti ad uno ad uno
Di quest' ampia miniera i gran monarchi.
E le palme , c le spoglie , c di ciascuno
L’ eccelse imprese, e gli onorati incarchi.
La folta selva degli eroi , elio aduno
Consenti pur die brevemente io i archi,
E scelga sol del numero eli’ io dico.
Col degno figlio il valoroso Enrico.
Volgi la vista ove il mio dito accenna ,
E la lega vedrai T insegne sciorre,
E quasi armata, ed animata Ardcnna,
Tre foreste di lance in un raccorre.
Ma d’ altra parte il paladin di Senna
Vedile pochi c scelti a fronte opporre.
Vedi con quanto ardire oltre Garona
Fa le truppe marciar contro Peroni.
Montagna, die del del tocchi i con-
fini ,
Selva d'antiche, e condensate piante.
Fiume die d’ alta rupe in giù mini,
Tempesta in nembo rapido c sonante.
Neve indurata in freddi gioghi alpini ,
Fiamma eh’ Euro alle stelle erga fumante.
Mar, cielo , inferno all* animosa spada
Forano agcvol guado, c piana strada.
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ADONE. 65
Guerrlcr , destrieri atterra , armi , sten-
dardi
Spezza , e sprezzando gli urti , apre le stra-
Nembi di sassi , grandini di dardi , [de.
Turbini d’ aste, fulmini di spade
Piovongli sopra, ed ri dei più gagliardi
Soslien gl’ incontri , agl' impeti non cade ,
Nè stanco posa , nè ferito langue ,
Fatto scoglio di ferro in mar di sangue.
T ulto del sangue ostil molle , e vermiglio
Abbatte, impiaga , uccide , ovunque toc-
chi.
Vcdil v ibrando a prova il ferro , c li ciglio,
Ferir col brando, c spaventar con gli oc-
Sc altri talor nell’ orrido scompiglio [chi.
SI rivolge a mirar quai colpi ei scocchi ,
Dal gnardoè pria , clic dalla spada ucciso ,
E citi fogge la man non campa il > iso.
Olii gli contenderà l’ alto diadema.
Se un oste tal d’ ogni poter disarma?
Nè sol dappresso il liodano ne trema.
Ma fa da iungc impallidir la Parma.
Ecco del Tago la speranza estrema,
li signor degli Allohrogi clic s' arma.
Ecco clic in prova al paragon concorre
Con l’ italico Achille il gallo Ettorrc.
Odi Parigi i fieri tuoni , e vedi
Quanti Pirata man fulmini avventa?
Deli clic pensi ? o clic fai ? perchè non cedi ?
Già co’ giganti suol Flcgra paventa.
Stendi stendi le paline, c pietà chiedi,
E P auree chiavi al regio piè presenta.
Stolta sei ben se altro pcnsicr li move,
Cosi si vince sol l’ ira di Giove.
Vedilo entrar nelle famose mura ,
Ed occupar le mai difese porte.
Van con la fuga cieca , c mal scruta
Declinando il furor del braccio forte,
L’ Ignohil pianto, c la pietica paura;
Chi non fugge da lui segue la morte.
Battuto dal timor cade il consiglio,
E I’ ordine confuso è dal periglio.
Eccolo aitili, eli' è con applauso eletto
De' Galli alteri a governare il freno.
Nè studia quivi con tiranno a (Tetto
Beni usurpati accumularsi in seno.
Con larga man , con gioviale aspetto [no.
Versa d’ oro , ov’ è d’ uopo , il grembo pie-
fi d' or in or regnando altrui più scopre
Generosi pcnsicr , magnanim' opre.
Non vi ha più loco ambizione ingorda ,
Non più stolto furor, discordia fiera.
Non vi ha prudenza cieca , o pietà sorda ,
Pace , e giustizia in quell’ impero impera.
Sa far ( si ben le repugnanze accorda )
Autunno germogliar di Primavera,
Mentre fra gli aurei gigli a Senna in riva
Pianta dopo la palma anco I' oliva.
Virtù quanto è maggior, tanto è più spcs-
Dell' invidia maligna esposta ai danni , [so
La qual suol quasi a lei far quell’ (stesso.
Che il tarlo ai legni, e la tignuola ai panni.
Qual ombra, che va sempre al corpo ap-
presso ,
La perseguita ognor con vari affanni.
Mason gli oltraggi suoi, che olTendon poco,
Lime del ferro, e mantici dei foco.
Mira il (lorde’ migliori, al cui graniume
L’ altrui sciocco livor divicn farfalla ,
Mercè di quel valor , clic per costume
Quanto si attornia più, più sorge a galla ,
Malgrado di chi nocergli presume.
Ai pesi è palma , alle percosse è palla ;
Onde dì novo onor doppiando luce
È fatto inclito re d' inclito duce.
Del guerrier forte, 1 cui gran pregj esal-
Fia tale c tanta la sublime altezza , [lo
Glie come Olimpo olirà le nubi in alto
Non tenie i venti , e I fulmini disprezza ,
Così d’ Invidia , oppur d’ insidia assalto
Danneggiar non potrà tanta grandezza ,
Anzi ogni offesa, ed ogni ingiuria loro
Sarà soffio alla fiamma, e fiamma all' oro.
Se non eli' lo veggio di furord' Inferno
Di una furia terrena il petto acceso,
E punto dalle vipere d’ Averno
L'n cor malvagio a perfid’ opra inteso.
Non vedi là , conte colui , clic a scherno
Prese eserciti armali , a terra ha steso
Mosso da folle , c temeraria mano
Con un colpo crudel ferro villano?
Quando all' alte sperameli) sen conrei te
Tenendo il mondo già tutto converso.
Cinto d’armi forbite, c genti elette
Spaventa il Moro , ed atterrisce il Perso,
E gli appresta fortuna, c gli promette
Lo scettro universal dell’ universo,
Pria che egli vada a trionfar d' altrui ,
Viro Morte iniqua a trionfar di lui.
Vansi le Virtù tutte a seppellire
Nel sepolcro, chechiudeil sol de’ Franchi,
Salvo la Fama, che non vuol morire.
Perchè alle glorie sue vita non manchi ;
E come al caso orribile a ridire
1 suoi lant’ occhi lagrimando ita slancili ,
Cosi per farlo ancor sempre immortale
66 PORMI
Si apparecchia a stancar le lingue , c 1* ale.
Ma che ? Se da colei, clic vince il tutto ,
È vinto alfine il sempre invitto Enrico ,
L'alto onor dc’Borbon quasi distrutto
In parte a ristorar vien Lodovico,
Che da si degno stipite produtto.
Aggiunge gloria al gran lignaggio amico,
E sotto l’ombra del materno stelo
Alza felice i verdi rami al cielo.
Or mi volgo colà , dove Baiona
Smalta di gigli i fortunali lidi.
Veggio superbo il mar che s’ incorona
Di gemme , e d* or , qual mai più ricco il
Già già l’arena sua tutta risona [vidi.
Di lieti bombi , c di festivi gridi.
Veggio per Tonde placide e tranquille
Sfavillar lampi , c lampeggiar faville.
Nè T indico oceano orientale
Tante aduna nel seti barbare spoglie :
Nè lo stellato elei cumulo tale
Di bellezze , e di lumi in fronte accoglie.
0 spettacol gentil, pompa reale,
0 ben nato consorte , o degna moglie '
Qual concorso di regi , c di rei ne
Scende a felicitar Tacque marine ! [mostro,
Risguarda in mezzo al fiume, ov* io li
Vedrai colonne eburnee , aurei sostegni
Con un gran sovraciel di lucid* ostro
Far ricca tenda a un’ isola di legni , [stro
Che fianco a fianco aggiunti, c rostro a ro-
Porgono il nobil cambio ai duo gran re-
gni.
Mentre prendono , c dan Spagna a Parigi
Lisabelta a Filippo, Anna a Luigi.
Ma vedi opporsi agl’ imenei felici
Suddite al Callo, e ribellanti schiere,
E coprir di Guascogna i campi aprici
Quasi dense boscaglie, armi guerriere.
Quinci, e quindi avversarie, e protettrici
Spiegan Guisa, c Comi è bande, e bandiere.
Ma del figlio d’Enrico il novo Enrico
Si mostra sì , non è però nemico.
L’uno è colui, che sotto ha quel destrie-
Baio di pelo , itallan di razza. [ro
Di tre vaghi aironi orna il cimiero,
E di croci vermiglie elmo , e corazza.
Benché misto di bigio abbia il crin nero ,
Gli agi abbandona, ed esce armato in piaz-
E carco in un d’ esperienza, e d’ anni, [za,
Torna di Marte ai già dismessi affanni.
L’altro è quei piùlontan,che lacampa-
Scorre di ferro, e d’or grave lucente, [gna
1 sul verde degli anni , e l’ accompagna l
EROICI.
| Fiera , e di novità cupida gente.
! Ila nello scudo ì gigli , c di Brettagna
(Cavalca ubero un corridor possente,
E tien dal fianco attraversata al tergo
Una banda d’ azzurro in sull’ usbergo.
Già già numero immenso ingombra U
Di tende annate, e di trabacche tese, [piano
Piagne disfalle il misero Aquilano
K le messi , c le moli al bel paese.
Già tinto il giglio d’or di sangue umano,
(ìlio è pure ( ahi ferità ! ) sangue francese ,
Sembra quel fior, che del suo re trafitto
Nelle foglie purpuree il nome ha scritto.
Gallia infelice , ahi qual s'appiglia, ahi
Nelle viscere tue morbo intestino ! [quale
Rode il tuo se n profondo interno male
Di domestico losco c cittadino.
Pugnai) discordi umori in corpo L'ale
Sì eh’ io preveggio il tuo morir vicino ;
Ed al tuo scampo ogni opra , ogni arte è
Se Medica pietà non li risana. [vana,
Pon colà mente alla gran donna d’Arno
Con qual valor la sua ragion difende.
Nò con petto tremante , o viso scarno
Fra tante cure sue posa mai prende.
Vorrebbe (e il tenta ben, ma il tenta indar-
Senza ferro estirpar le teste orrende, [no)
Le teste di quell’ idra empia ed immonda.
Di veleno infemal sempre feconda.
Che non fa per troncarle ? ecco pospone
Alle pubbliche cose il ben privato ,
Ed all'impeto oslil la vita espone
Per salvar del gran pegno il dubbio stato.
Ad accordo venir pur si dispone ,
E sospende tra T ire il braccio armato ,
Purché il furor s’ acqueti , e cessi quella
D' orgoglio insano aquilonar procella.
Ma quando alfin la gran tempesta scorge.
Che T aria offusca , e il mar conturba e
E che Tonda terribile più sorge, [mesce,
E che il vento implacabile più cresce,
Al l>cn saldo timon la destra porge.
Drizzasi al polo , e di cammin non esce.
Or con forza reggendo, or con Ingegno
Tra tanti flutti il travagliato legno.
Fissa dritto colà meco lo sguardo ,
Dove T ampia riviera il passo serra.
Quivi campeggia il gran campion Guisar-
Contro cui non si tien torre, nè terra, [do,
E par che dica intrepido e gagliardo ,
Chi la pace ricusa , abbia la guerra ;
E con prodezza alla baldanza eguale
Dell’ avversario i miglior forti assale.
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ADONE.
L* esercito reai cauto provvede [stanca
Di genti, c d’armi, e non s’ allenta , o
Per eseguir quanto giovevol crede,
0 necessario alla Corona franca.
0 senza esempio incomparabil fede, [ca,
Quando ai casi opportuni ogni altro man-
Sol questi al par delle più forti mura
Mostra petto costante , alma serura.
Fa gran levate di cavalli e fanti.
Che può contro costor V oste nemica ;
Gente miglior non vide il Sol tra quanti
Qnser spada giammai , vestir lorica.
Non sanno in guerra indomiti e costanti
0 temer rìschio , o ricusar lalica.
Usi in ogni stagion con l’armi grevi
Bere i sudori , e calpestar le nevi.
0 qual fervor di Marte, o qual già tocca
Al re crescente il cor foco d’ardire!
Brama di gir tra’ folgori , che scocca
Piu d’ un cavo metallo , a sfogar l’ ire.
Ma dappoiché non può là dove fiocca
La tempesta del sangue , in pugna uscire,
Vassenc o caccia esercitando, o giostra,
Che una effigie di guerra almen gli mostra.
Cosi leon dalla mammella irsuta
Uso ancora a poppar cibi novelli ,
Tosto che l’ unghia al piò sente cresciuta ,
Alla bocca le zanne, al collo i velli ,
Già la rupe natia sdegna e rifiuta ,
La lana angusta , e le vivande imbelli ;
Già segue là tra le cornute squadre
Per le gelide selve il biondo padre.
Ma quella Dea (ch’altro che Dea non deve
Dirsi colei, che a dii in’ opre aspira)
Smorza intanto quel foco , e non 1* è greve
Per la comun salute il placar l’ ira.
1 congiurati principi riceve,
E l'accampato esercito ritira.
Ed al popol fellone c contumace
Perdonando il fallir , dona la pace.
Ecco d’ astio privato ancor bollire
De’ duci islessi gli animi inquieti ,
E in stretta lega ammutinati ordire
Di novelle congiure occulte reti.
Ecco l’accorto re viene a scoprire
Di quel trattato i taciti secreti,
E da' sospetti d’ogni oltraggio indegno
Con la prigione altrui libera il regno.
Poiché 11 pensier del macchinalo danno
Vano riesce, e d'ognl effetto voto,
Del capo afflitto le reliquie vanno
Qual polve sparsa allo spirar di Nolo.
Ma per nove cagion pur anco fanno
Novo tra lor sedizioso moto ;
Eppur con nove forze, e genti nove
La regia armata a' danni lor si rnove.
Fuor de’ materni imporj intanto uscito
Passa il re novo a possedere il trono.
Da cui pria calcitrante, c poi pentito
Chi pur dianzi l’ offese, otticn perdono.
Richiamata è Virtù , Marte sbandito
Per quell’ allo donzel , di cui ragiono,
L’alto donzel, che sostener non pavé
Con si tenera man scettro si grave.
Il Tamigi , il Danubio , il Iteti , il Reno
L’ama, il teme, l’ammira anco da lunge,
Anzi fin nell’ italico terreno
A dar le leggi col gran nome giunge.
E se pur di vederne espresso appieno
Un degno esempio alcun desio li punge ,
Risguarda in riva al Pò, come si face
Arbitro della guerra, c della pace.
Io dico , ove tra il Pò , che non lontano
Nasce, e la Dora, c il Tanaro risiede
Il bel paese, al cui fecondo piano
La montagna del ferro il nome diede.
Vedrai Savoia con armala mano.
Che due cose in un punto a Mau toa chiede,
Il pegno della picciola nipote,
E de’ ronfio la patteggiata dote.
Vedi di Cadmo il successor, che viene
In campo a por le sue ragioni auliche,
E perchè l’una nega, e l’altra tiene,
Case unite in amor toman nemiche.
Forse nutrisci , o Mincio , entre le vene
Il seme ancor delle guerriere spiche ,
Poiché veggio dal sen della tua terra
Pullular tuttavia germi dì guerra?
Veder puoi di Torin 1* invitto duce.
Cui non ha Roma , o Macedonia eguale ,
Che carriaggi , c salmerie conduce
Con varie sovra lor macchine , e scale.
Su lo spuntar della diurna luce
A Trino arriva, c la gran porta assale.
Vedi stuol piemontese, e savoiardo
Quivi attaccar l’espugnator pettardo.
Ecco rollo 11 rastei , passato il ponte.
Non però senza sangue , e senza morti,
Le genti alloggia all’ alta rocca a fronte ,
Prende i quarller più vantaggiosi e forti ,
Manda la valle ad appianar col monte,
I picconieri , c l manovali accorti ,
Mette i passi a spedir scoscesi e scabri
Con vanghe, e zappe, e guastadori, e fabrl.
Fa con gabbie , e trincee steccar dintor-
De’ miglior posti 1 più securi sili ; [ no
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68 POEMI
Col sembiante rcal vergogna c scorno
Accresce ai vili, ed animo agli ardili.
Par fiamma, o lampo, or parte, or fa ritor-
Cercando ove conforti, cd ove aiti , [no
Mentre il camion, che fulminando scoppia,
Nel rivcllin la batteria raddoppia.
Ed egli in un co' generosi figli
Studia, come talor meglio si balla,
Sempre occupando infra i maggior perigli
La prima entrala, c V ultima ritratta.
Convicn, che pur di ceder si consigli
La terra alfin per non restar disfatta,
Ed apre al \incitor, clic l’ assecura
Dalla preda, dal ferro, c dall' arsura.
Moncaho a un tempo espugna anco c
conquista;
Ma chi può qui vietar che non si rubo?
Va il tutto a sacco. 0 qual confusa e mista
Scorgo di fumo , c polve oscura nube!
E se pari l’udir fusse alla vista,
Risonar v'udirei timpani, c tube.
Rendersi i difensor già veder panni,
Salve le vite con gli arnesi, e l'armi.
Pur nell'Alba inedesma Alba è sorpresa,
Eppur dalle rapine oppressa laugue.
Il miser ciltadin non ha difesa
Per doglia afilitto, c per paura esangue.
Va il soldato, ove il trae fra l' Ire accesa
Fame d’ or, sete d* or più clic di sangue.
Suscita l’oro, eli’ è sotterra accolto,
E seppellisce poi chi l’ ha sepolto, [nisce
Di buon presidio il gran guerrier for-
Le prese piazze, ed ecco il campo ha mos-
Nova milizia assolda, e ingagliardisce [so.
DI gente elvezia, e valesana il grosso.
Ecco della città, che Impallidisce
Là tra il Delfio, c la Nizza , il muro ha
Ecco a difesa del signor di Manto [scosso.
11 vicino Spagnol moversi intanto.
Per reverenza dell’ insegne iberc
Toglie a Nizza l’assedio, c si ritragga.
Quindi van di cavalli armate schiere
D’Incisa, e d* Acqui a disertar le piagge.
Tragedia miserabile a vedere
Le culle vigne divenir selvagge,
E dal furor del foco, e delle spade
Abbattuti I villaggi, arse le biade.
Trema Casale; a temprar armi intesi
Sudano I fabri alle fucine ardenti.
L’acciar manca a tant* uopo , onde son
Mille dagli ozi lor ferri innocenti, [presi
Rozzi non solo , c villarecci arnesi ,
Ma cittadini artefici slromcnti
£IlOKCI.
Forma cangiano, cd uso , e far nc vedi
Elmi , c scudi , aste , cd azze , c spade , e
spiedi.
Il vomere già curvo, or fatto acuto,
A bellona donato, a Ceree tolto,
Su la sonante incudine battuto,
D'aratore in guerrier vedi rivolto.
L’antico agricoltor rastro forcuto,
Nel fango, e nella ruggine sepolto,
Vestendo di splendor la viltà prima,
Ringiovcnisce al foco, ed alla lima.
Intanto e quinci e quindi ecco spediti
Vanno, c vengono ognor corrieri, e messi.
Clic il buon re , eh’ io dicca , vuol che so*
pili
Sieuo 1 contrasti , c la gran pugna cessi ;
Ed acciocché gli afTar di tante liti
In non sospetta man restin rimessi ,
Ai deputali imperlali, e regj
Fa consegnar della vittoria I pregj.
S'induce alfin, capitolati I patti.
L’eroe dell’ Alpi a disarmar la destra,
E dei defilnitor de* gran contratti
Tra le mani il deposito sequestra.
Ma (piai rio sacrilegio è che non tratti
L* empia discordia d’ogni mal maestra?
Ecco da capo al rinnovar dell’ anno
Novi interessi a nove risse il iranno.
Tornano a scorrer 1’ armi, ove ancor
La prateria sì desolata c rasa , [ stassi
Che nc stillano pianto, c sangue i sassi.
Poiché fabbrica in pié non v’é cimasa.
Né resta agli abitanti afflitti c lassi
Villa, borgo, poder, castello, o casa.
Già s' appresta la guerra , c già la tromba
Altri chiama alla gloria, altri alla tomba.
Colui, clt’é primo , e la divisa ha nera,
E sull' usbergo bruii bianca la croce
(Dcn il conosco alla sembianza altera),
È Carlo, il cor magnanimo e feroce.
Di corno in corno, c d’ una in altra schiera
Il volo impenna al corridor veloce.
Per tutto a tutti assiste, c il suo valore
Intelletto è del campo, anima, c core.
Spoglia di grosso, c mal curato panno,
Lacerala da lance, c da quadretta,
L' armi gli copre, e fregio altro non hanno.
Nè vuol tanto valor vesta più bella.
Spada , splendido don del re britanno ,
Cinge, nè v’ha ricchezza eguale a quella.
Ricca , ma più talor suo pregio accresce,
Chè i rubiti tra i diamanti il sangue mesce.
Mira colà , dove distende e sporge
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ADONE. C9
Asti Terso Aquilon l’ antiche mura.
Poco lungo di fuor vedrai clic sorge
lTn picclol colle in mezzo alla pianura.
Quindi (fuor clic la testa) armato ci scorge
Le classi tutte, c li suo poter misura.
Quindi del campo ili generai rassegna
Rivede ogni guerricr , nota ogn' insegna.
Quasi pastor, che le lanose gregge
Con la proiida verga a pasco adduca.
Con leggiadre ordinanze altrui dà legge
Il coraggioso, il bellicoso duca.
Per mostrar quivi a chi I’ .infrena c regge
Come di ferro, e di valor riluca ,
Spiega ogni stuol vessilli , e gonfaloni ,
Gonfia stendardi, e sventola pennoni.
Quanto d'Insubria il bel confin Circoli-
Fin sotto le ligustiche pendici , [da
Quanto di Sesia, e lìormia irriga l’onda
Voto riman di turbe abitatrici.
Quei , che nella vallea cupa e profonda
Soggioman del Monviso alle radici
Vengonvl , e di Provenza , e di Narbona
Quei , che bevon Durenza , isara, c Sona.
Ni pur d'Augusla solo , c di Lucerna
Le valli incultc, e le montagne algenti.
E dagli aspri cantoni Agauno , e Rema
Mandami copia di robuste genti;
Ma giù dall' Alpi , ove mai sempre venia ,
V inondan quasi rapidi torrenti
Per le vie di Bernardo , e di Gebenna
Quei, che lasciano ancor Ligerl, e Senna.
Un che con armi d' or va seco al paro ,
È l'Aldighirra, il marescial temuto,
Che sotto giogo di pesante acciaro
Doma il corpo mgoso, e li crin canuto.
Ecco di Damian l’eccidio amaro.
Da' due franchi guerricr preso e battuto,
Ed ecco d' Alba la seconda scossa.
Citi fia, die impeto tanto afircnar possa?
Pon mente a quel cimirr,chccon tre ci-
Di bianca piuma si rincrespa al vento, [me
E di Vittorio, il principe sublime.
Del Piemonte alta speme, allo ornamento.
Ben l’ interno valor negli atti esprime ,
Ha di latte il destrier, l’armi d'argento,
E d’un aureo monll, che al petto scende,
Groppo misterioso al collo appende.
Vedi con quanto ardire, c in che fier
Inaspettato a Messeran s' accampa, [atto
E giunto a Cravacor quasi in un tratto
Di mina mortai segni vi stampa.
Gii questo, e quel, poiché del giusto patto
Non fur contenti, in vive fiamme avvampa.
Gii d' ambedue con estcrminio duro
Spianato è il forte, c smantellato il muro.
Vuoi veder un, che nato a grandi impre-
D' emular il gran padre s'afTaliea ? [se ,
Mira Tommaso, il giovane cortese.
Che tinta di sanguigno ha la lorica,
E il cuoio del leon sovra l'arnese
Porta , dell' avo Alcide insegna antica.
Di seta Ila i velli, c con sottil lavoro
Mostra il ceffo d'argento, el' unghie d’oro.
Vedilo in dubbia c perigliosa mischia
Passar tra mille picche, e mille spade.
Già dal volante fulmine, che fischia.
Trafitto 11 corridor sotto gli cade.
Ma ne’ casi maggior vieppiù s’arrischia
Quel cor, clic col valor vince l’clade,
E picn d'ardir più generoso cd alto
Preso novo destrier, torna all’ assalto.
Miralo poi, mentre il maggior fratello
Con gran guasto di morti , e di prigioni
Itompe il soccorso, e il capitan di quello
Uccide, che confuso è tra' pedoni ,
Della cavalleria giunto al drappello
Torre i regj stendardi a due campioni ,
Indi mandarli per eterno esempio
D’alta prodezza ad appiccar nel tempio.
Solo il gran Filiberto altrove intanto
Dubbioso speltator, stassi in disparte.
Ma il buon Maurizio con purpureo manto
Regge il paterno scettro in altra parte ,
E l' alte leggi del governo santo
Con giusta lance ai popoli comparte.
Talor pio cacciatore al fidi cani
Del devoto Amedeo dispensa i pani.
0 se mai prenderà, Tifi celeste.
Il gran timon della beata nave.
Da quai scogli sccura , a quai tempeste
Sottratta , correrà calma soave !
Già la vcgg'lo per quelle rive e queste
Portar, nov’Argo, di gran merci grave,
Scorta da dlvln Zollìro secondo,
li vello d'oro a vestir d’oro il mondo.
Ma vedi or come freme , e come ferve
Contro costoro il fior d'Italia tutta.
Genti all' Ibero o tributarie, o serve,
Gioventù ben armata, c meglio instrutta.
Ben a tante, e si fiere armi , e caterve.
Si oppon l’inclito Estense, c le ributta.
Aitili pur all’ esercito , che passa,
Libero il cammin cede, e il varco lassa.
Passali l'ardito schiere, e di Milano
Il prefetto maggior tra’ suoi 1’ accoglie.
Eccolo là sovra un corrente ispano,
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70 POEMI
Che l’ insegne reali all'aura scioglie.
Il baston generai di capitano
Tlen nella destra , c veste oscure spoglie.
Mira poi come in un feroci c vaghi
S'arman dall* altro lato i gran Gonzaghi.
Quei, eh’ ha d* un verde scuro a flocco a
fiocco
La sopravesla, è di Niverse il pregio.
Vedi un che ha d’ or lo scudo , c d’ or lo
stocco ,
Quegli è Vincenzo U giovinetto egregio.
L* altro , che splende di lucente cocco,
E in sembiante ne viene augusto e regio,
Ili posai onci gesto, c venerando,
Quegli (s’io ben comprendo) è Ferdi-
nando.
Lascia l bei studj , c prende a guerra ac-
Dai tranquilli pensier cura diversa, [cinto
Manto che il fior dei lucid* ostri ha tinto,
Fa ricca pompa all’ armatura tersa.
Groppo di gemme in cimali tiene avvinto
Sicché l’omero, e il petto gli attraversa.
Ma pur Tacciar con argentata luce
Sotto la lina porpora traluce.
Vedi il Toledo, che Vercelli affronta,
Già T ha di stretto assedio incoronata.
La città tutta alle difese pronta
Sta sulle mura, e sulle torri armata,
Vedi lo scalator, che su vi monta,
K il cittadino a custodir T entrata;
Ma poiché assai resiste, c si difende.
Per difetto di polve alfin si rende.
In questo mezzo il capitano alpino
I)i far gualdane , e correrie non resta.
1-ilizzano, cd Annone, e il Monferrino
Gon mille piaghe in mille guise infesta.
Oltre il fruito perduto, il contadino
Forza é che paghi or quella taglia, or que-
Corre T altrui licenza, ove T alletta [sta
Desire o di guadagno, o di vendetta.
Così divisa, e dell’ istorie ignote
Svela il fosco tenor lo Dio d’Egitto,
Quando nel terso acciar, tra le cui rote
Quanto creò Natura è circoscritto,
Adone in parti alquanto indi remote
VolgesI e vede un non minor conflitto,
Dove la gente in gran diluvio inonda ,
E diffuso in torrenti il sangue abbonda.
Onde rivolto al messagger volante,
Della bella facondia arguto padre,
Disse, o nunzio divin, tu che sai tante
Meraviglie formar nove e leggiadre,
L’ altra guerra , che fan quindi distante
EROICI.
L’ altre, che altrove io veggio armate
squadre, [cor quivi
Fammi conto, onde avvien , poiché an-
Par si combatta, c corra il sangue in rivi.
Io ti dirò (risponde); altra cagione
Austria in un tempo a guerreggiar sospin-
Con la donna reai del gran leone, [ge
Che per Adria guardar la spada stringe.
Nè pur del sangue di più d’ un squadrone
La terra sola si colora e tinge.
Ma il mare istesso in tionmen fiero assalto
Rosseggia ancor di sanguinoso smalto.
Se gola hai di vederlo , or meco affisa
Dritto le luci, ov’io T affiso e giro.
Egli girolle, c in disusata guisa
Vide ondeggiar lo sferico zaffiro.
Già di Anfitrite a mano a man ravvisa
I v asti alberghi entro l’angusto giro,
E di gran selve di spalmati legni
Popolali rimira 1 salsi regni.
Dalle rive adriatichc, c dal porto
Di Partenope bella alate travi
Già del ferro mordace il dente torto
Spiccano onuste di metalli cavi.
Già quinci e quindi a par a par s’ è scorto
Un naviglio compor di molte navi ,
I.c cui veloci , e vclalrici antenne
Per non segnate vie batton le penne.
Volan per l’alto, e de’ cerulei chiostri
Arano i molli Solchi i curvi abeD.
Rompon co’ remi , e co’ taglienti rostri
Di lle prore ferrate il sen di Teti.
1 fieri armenti dei marini mostri
Fnggono spaventali ai lor secreti.
Sotto l’ombra degli arbori che aduna
Quest* annata, e quell* altra, li mar s’ im-
bruna.
Appena omeri quasi ha il mar bastanti
li peso a sostener di tanti pini.
Appena il vento istesso a gonfiar tanti
Può co’ fiali supplir, candidi lini.
Fugaci olimpi, e vagabondi atlanti.
Alpi correnti, e mobili appennini
Paion, sveltì da terra, e sparsi a nuoto,
I gran vascelli alla grossezza , ai moto.
Veder fra lami affanni in tanta guerra
La vergili bella a Citcrea dispiacque ,
La vergili bella, che s’annida e serra
Tra i lucenti cristalli, ov’ ella nacque;
Ond’ hanno insieme il mar lite, c la terra,
L’una gli offre le rive, e l’altro T acque.
Pugnan con belle ed ambiziose gare
Per averla tra lor Ja terra , e il mare.
ADONE.
Ecco clic gorghi gii di foco, e polve
Vomita il bronzo concavo, e forato.
Scoccando sì , che 1 legni apre e dissolve,
Con fiero bombo il fulmine piombato.
Nebbia d’orror caliginoso involse
E mare, e ciel da questo , e da quel lato.
Sembra ogni canna (tante fiamme spira;
La gola di Tifco, quando si adira.
Già vicnsi ad afferrar poppa con poppa,
Già spron con sprone impetuoso cozza,
Già vola il fuso, c il fil, che Cloto aggroppa
1)1 mille vite a un punto Atropo mozza.
Spada in spada , asta in asta urtando in-
toppa.
L'acqua già ne divien squallida e sozza,
E del sangue comun tinta , somiglia
Del gran golfo Eritreo Tonda vermiglia.
L’ima classe nell’ altra avventa e scaglia
Pregni d'occulto ardor globi, e volumi,
Onde , mentre più stretta è la battaglia ,
Incendio repcntin vien che s’allumi.
Scoppiai! le cave palle , c fan che saglia
Turbo alle stelle di faville , e fumi.
Tra il bitume, e la pece, e il nitro, e il zolfo
Chi sbalza al cicl,chi sdrucciola nel golfo.
Scorre Vulcano, e mormorando rugge,
E tra i ruggiti suoi vibra la lingua.
Gabbie intorno, e castella arde c distrugge,
Nè sa Nettuno ornai , come l'estingua.
L'esca del sangue, che divora e sugge ,
Alimento gli porge , onde s’ impingua.
Vince, trionfa, e con la man rapace
Depreda il tutto imperioso, e sface.
In ben mille piramidi vedresti
Sorger la fiamma dagli ondosi campi ,
Alzar le punte , ed a quel venti, e questi
Crollar le corna, e scaturirne i lampi.
Tra sì fieri spettacoli, e funesti [pi.
Par che la fiamma ondeggi, e l'onda avvam-
par che torni alla lite, onde pria nacque ,
Fatto abisso di foco , il del dell' acque.
L' eccelse poppe , c le merlate rocche
Son cangiate in feretri , c fatte tombe.
Con rauche voci , e con tremende boccile
Romoreggian tamburi , e stridon trombe.
Lanciansi i dardi , e votansi le cocche ,
Yibransi Paste, e rotansi le frombe,
Chi muor trafitto, e chi mal vivo langue,
Solcan laceri busti il proprio sangue.
Tremendi casi , la spietata zuffa
Mesce di ferro In un , d’acqua , e di foco.
Chi nel fondo del pelago s'attuffa,
Chi del sale spumante è fatto gioco ,
Chi galleggia risorto, e il flutto sbuffa,
Chi tenta risalir, ma gli vai poco.
Che ricade ferito, ed a versare
Vien di tepido sangue un mar nel mare.
Strepito di minacce , e di querele ,
Di percosse, e di scoppi i lidi assorda.
Altri con man delle squarciate vele
S’altien sospeso in aria a qualche corda,
Ma giunto dall'arsura empia e crudele
Vassi a precipitar nell’onda ingorda,
Onde con strana e miserabil sorte
Prova quattro clementi in una morte.
Or quando più crudel bolle la guerra ,
E va baccando la discordia stolta,
Quando di qua di là l’onda, e la terra
Tutta è nel sangue , e nell’ orrore involta ;
Ecco del fior Bifronte il tempio serra
Colui clic anco il serrò la prima volta.
Placa gli animi alteri , c fa che cada
L’ ira dai cori , e dalla man la spada.
E per fermar con sempre stabil chiodo
La pace che è gran tempo ita in esigilo,
Cristina bella in sacrosanto nodo
Stringe del re dei monti a) maggior figlio.
Vcdrassl il groppo , onde si gloria Rodo ,
Insieme incatenar la palma, e il giglio.
E tu di gigli allor, non più di rose
Tesserai , Dea d' amor , trecce amorose.
Già d’ età. già di senno , e già cresciuto
Tanto è di forze il giovinetto Augusto,
Clie otlicn dei pari amabile , c temuto
Vanto di buono, c titolo di giusto.
Ma T orgoglio dei principi abbattuto
Sorge ancor più superbo , c più robusto ,
E il bel regno da lor stracciato a brani
Rassomiglia Atteon tra i propri cani.
Movesi all’ armi , c ne va seco armato
Enrico, Il primo fior del regio seme,
Quei , che pur dianzi andò, quasi sdegnato,
Co’ mcn fedeli a collegarsi insieme.
Sdegno fu, ma fu lieve ; or che allo stato
Del gran cugino alto periglio ei teme,
Gli sovvien quando è d’ uopo in tanta im-
Di consiglio, d’ aiuto , c di difesa, [presa
Va con poche armi ad assalir la fronte
Dei nemici dispersi , e li sorprende.
Non vedi Can , che volontarie , e pronte
Gli disserra le porte, e gli si rende?
Vedi di Sei nel sanguinoso ponte
Quante squadre imbelle a terra stende.
Poi per domar la scellerata setta
Ver r estrema Biarne il campo affretta.
Cede lo sfono, e l' impeto nemico,
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POEMI EROICI.
Ingombra Navarrln terrore e gelo.
Gii %’entra, e nell' entrarli il re ch'io
>on meli elle ili lalors' arnia di zelo, [dico,
Rende ai distrutti altari il cullo antico,
A si stesso l'onor, ia gloria al cielo.
Ogni passo è vittoria, ovunque ei vada ,
E vince senza sangue, e senza spada.
Qual uom, che pigro e sonnacchioso
dorme ,
Giace col corpo in sulle piume molli ,
Con l'alma del pensier seguendo Torme,
Varca fiumi , e foreste , e piani , e colli ;
Tal rivolgendo Adon gli occhi alle forme,
Della cui vista ancor non son satolli ,
Non sa se vede, o pargli dì vedere
Tra lumi , ed ombre immagini e chimere.
Mentre eli’ ci pur dei simulacri accolti
Nel mondo crislallin l' opre rimira ,
Del silenzio in tal guisa : nodi hasciolli
I.' alto inventor della celeste lira.
Sappi , che dietro a molti corsi e molti
Del gran pianeta che il quar -l'orbe gira,
Priachcabbia effetto il ver staranno asco-
I.e qui tante da te vedute cose. [se
Ma quei successi, elle ancor chiude il
L’ Ilo voluto mostrar, come presenti, [fato,
Acciocché miri alcun fatto onorato
Delle più degne e gloriose genti.
Fin qui Giove permette, e non m' è dato
Più in Ih scoprirti dei futuri eventi.
Or tempo è da fornir T opra che resta ,
Vedi il Sol , che nel mar china la testa.
Vedi che armata di argentati lampi
Per le campagne del suo elei serene
La stella inferior, che ornai degli ampi
Spazi dell' orizzonte il mezzo tiene.
Mentre dell' aria negli aperti campi
A combatter coi di la notte viene,
Prende aschlerar delle guerriere ardenti
I numerosi eserciti lucenti.
Lungo troppo il cammino, e breve 6 Torà,
Onde convicn sollecitare il passo ,
Per poter, raccorciata ogni dimora,
Tornar per T orme nostre al mondo basso.
Perocché il suo bel lume ha gii l’ Aurora
Due volte acceso, ed altrettante casso
Da che partimmo, e qui (fuorché a felice
Gente immortale) il troppo star non lice.
Cosi Mercurio ; e l'altro allor dintorno
Dovei’ occhio il traea .volgendo il piede.
Le ricche logge dell’ albergo adorno
Di parte in parte a contemplar si diede.
E da clic prese a tramontare il giorno.
Clic Ivi all’ ombra però giammai non cede
Non seppe mai da tal vista levarse
Finché l’altr’Uba in oriente apparse.
la prigione.
CANTO XIII.
ARGOMENTO.
Tenta la maga inran Tarli profane.
Chi fu , che alla tua lingua, o Zoroast ro ,
Concesse in prima autoritl cotanta?
Donde apprese il tuo ingegno ad esser ma—
Dell' arte detestabile, che incanta ? [stro
L’ arte , clic contro ogni possanza d’ astro
Vincer Natura, c dominar si vanta?
E come nonno iniqui carmi c rei
Dell' inferno , cdel ciel sforzar gli Dei ?
Da qual forza fatai, che gli corregge,
0 da qual patto son legali c stretti ?
E necessaria, o volontaria legge,
Che si gli rendo altrui servi e soggetti?
Quasi chi tutto può, chi tutto regge
Tema d’un uom disubbidire ai delti?
E talento, o timor quel che gii move
Tant' opre a far prodigiose c nove?
Deli quante volte delle lievi rote.
Che si volgou si ratto intorno ai poli.
Veduto iia con slupor restarsi immote
Giove T immense c smisurate moli?
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—
ADONE.
Quante viti* egli alle malvage note
Le Lune in cicl moltiplicarsi , c ì Soli ?
Scorrere i tuoni a suo dispetto, e i lampi,
Scotersi il mondo, c titubarne i campi?
Turbasi al suon de' mormorati accenti
L* ordine delle cose , e si confonde.
Nettun senza procelle, c senza venti
Gonfio, 1 lidi del eie] batte con Tonde.
Poi quando più del mar fremon gli armenti
Ritira il piè delle vicine sponde;
E ricurvando in su I' umide fronti
Tornan per T erta i fiumi ai patrù fonti.
Ogni fera più fera, e piu rabbiosa
La sua rabbia addolcisce e disacerba.
Non è icone allier, tigre orgogliosa,
Che non deponga allor T ira superba.
Vomita il ficl la serpe velenosa ,
E 1 livid’orbi suoi stende per P erba;
E smembrata la vipera e divisa
Vive , e rintegra ogni sua parte incisa.
Ma com’ è poi, che i versi abbian potere
Di separare l più congiunti cori?
E il commercio reciproco , e il piacere
Santo impedir de’ maritali amori?
Come dell* alme il libero volere
Anco scaldar d’involontari ardori?
Ed agitar con empie fiamme insane
Di maligno furor le menti umane?
Falsirena aspettò , che piene avesse
Cintia dell’ orbe suo le parti sceme ,
Ed opportuno alfin quel tempo elesse,
Che congiunte avea già le corna estreme.
E veggendo anco in ciel le stelle istesse
Seconde all’arte sua volgersi insieme,
Nel loco usato a celebrar sen venne
De’ sacrilegi suoi P opra solenne.
Sorge nel sen più folto , e più confuso
D’ un bosco antico un solitario altare,
D’ alti cipressi incoronato , e chiuso
Là donde il Sole orientale appare.
Aperto a quella parte, ove ha per uso
Depor la luce , ed attutarsi in mare.
Opaco orror T ingombra , e lo nasconde
Sotto perpetue tenebre di fronde.
Quivi idoletti vari , e simulacri
L’innamorata incantatrice accolse,
E quivi a più color tre veli sacri
Con caratteri e segni Intorno avvolse ;
E poiché a’ membri suoi nove lavacri
D’ un’ acqua fe* , che da tre fonti tolse,
Discinta , e scalza del sinistro piede
Il foco , e P ostia ad apprestar si diede.
Con la casta verbena, il maschio incenso
Le fiamme pria dell’olocausto alluma ,
E di vapor caliginoso e denso
E l’ara, e P aria orribilmente afTuma.
Poi di virlute occulta al nostro senso
Dentro il magico incendio arde e consuma
Mille con falce tronche erbe maligne.
Erbe appena ancor note alle madrigne.
Dello stridulo alloro asperse in esso
Le nere bacche innanzi di recise ,
Della fico selvaggia il latte espresso,
E della felce il seme ella vi mise.
E la radice , eh’ ha comune il sesso
Dell’ cringe spinosa anco v’ intrise,
E fra gli altri velcn , che dentro v’ arse ,
La violenta ippomenc vi sparse.
Arse P erbe , c le piante ad una ad una ,
Sette volte T aliar circonda intorno.
Tre s’inginocchia ad adorar la Luna,
Tre la contrada, ove tramonta il giorno.
D’ una pecora poi lanosa e bruna
Con la manca tenendo il manco corno
Con la destra il coltel , tra i fochi , e i fumi
Trecooto invoca sconosciuti Numi.
E mentrechè di Stigc c Flegctontc
L' occulte Deità per nome appella ,
Versa di nero vino un largo fonte
Infra le corna alla dannata agnella.
Non pria però, che dalla fosca fronte
Di lana un fiocco di sua man non svella,
E che noi gitti entro le bragc ardenti
Quasi primi tributi , e libamenti.
Poscia con ferro acuto apre c ferisce
La gola all' agna , e la trafigge e svena,
E del sangue , che fuor ne scaturisce[na.
Caldo e fumante , un’ampia tazza ha pic-
Con l’estremo del labbro indi il lambisce
Lievemente cosi, che il gusta appena.
Poi con olio , e con mele in copia grande
Alla madre comune in sen lo spande.
Una colomba ancor vaga e lasciva
Uccise di candor simile al latte ,
E poiché quante piume ella vestiva
Tarpate T ebbe a penna a penna e tratte ,
Donolle in cibo a quella fiamma viva
Finché fur tutte in cenere disfatte;
Ma prima le legò nell’ ala manca.
Con rosso fil la calamita bianca.
Ciò fatto, strinse in tre tenaci nodi
Una ciocca di crin , eh* io non so come
Dormendo Adon, con sue sagaci frodi
Gli tolse Idonia dalle bionde chiome.
Sputò tre volle, e in tre diversi modi
Disse l’amante suo chiamando a nome :
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74 POEMI
Resti legato, nò mai più si scioglia
il crudo sprezzator d’ ogni mia doglia.
A sembianza di lui di vergincera
Imrnagin poi misteriosa ammassa,
E con un stecco di mortella nera
Ben aguzzo e pungente il cor le passa.
E mentre appo 1' arsura atroce c lìera
A poco a poco distillar la lassa.
Dice volgendo ilramosccl del mirto:
Cosi foco d’amor strugga il suo spirto.
D’ ippopotamo un core allineila preso,
Nella riva del Mi nato, e nutrito ,
Che della nova Luna ai raggi appeso,
Era alla sua fredd’ ombra inaridito;
E di faville oltracoccnti acceso,
E di spilli acutissimi ferito,
L’ agi La, il move, il trae come piùvolr.
Mormorando tra sè queste parole:
Ecco il cordi colui, eh’ io cotant'amo.
Ecco eh* io gli ho seti’ aghi in mezzo adissi.
Ecco che il tiro a me poi con quest' amo
Già fabbricalo sotto sette eclissi.
Ecco sette carlini) fatti del ramo.
Che già colse mia madre cnlro gli abissi ,
Desti dal sacro mantice ti aggiungo,
E sette volte intorno intorno il pungo.
Da' sacrifici abominandi ed empj
Cessò la fata, e si parti ciò detto.
Perche contro colui, che duri aoempj
Ognor facea del suo piagato petto.
Sperava pur dopo mill’ altri esempi
Di veder nova prova, e novo effetto.
Ma di tante fatiche al vciito spese
Alcun frutto amoroso indarno attese.
E come per magic mai , nè per pianti
Sperar polca rimedio a si gran male ,
Se la Dea degli amori , c degli amanti ,
Che invocava propizia avea rivale ?
Se colei , che ha negli amorosi incanti
Sovrano impero, c potestà fatale,
Avea malconcia delie piaghe istesse ,
In quel eh’ ella chiede», tanto interesse?
Poiché con lungo studio invan compose
Suggelli , e rombi , e turbini , e figure.
Nè seppe mai con queste , ed altre cose
Quelle voglie espugnar rigide e dure.
Tornossi in voci amare, e dolorose
Con Idouia a lagnar di sue sventure.
Lassa dice a le) in che mal puuto il guardo
Volsi da prima a que' bei raggi , ond’ ardo.
Per mia fatai (cred’ lo) morte e ruina
Vidi tanta beltà non più veduta.
Inim di quanto il del quaggiù destina
EROICI.
Difficilmente il gran tenor si muta.
Chi può per molte scosse in balza alpina
Ben robusta piegar quercia barbuta?
Quercia Ch'Austro prendendo e Borea a
scherno ,
Tocca col capo il del ,col piè l’inferno?
Amo statua di neve, anzi di pietra.
Pertinace rigor, fermo desio.
Egli gela alle fiamme , ai pianti impetra.
Nè di teglia cangiar mi loglio aneli’ io.
Io non mi pento , ei non però si spetra ,
Guerreggia 1’ odio suo con 1* amor mio.
L’ uno in esser nemico , c 1’ altra amante
Non so chi di noi duo sia più costante.
Veggio moversi i monti anco a’ miei ver-
Non ammollirsi un' animato sasso. [si,
Talor dei fiumi indietro il piè conversi ,
Fermar non so d' un fuggitivo il passo.
1 mostri umiliai fieri e perversi ,
Nè di un altier garzon l’ animo abbasso.
Da me l' inferno i stesso è tinto e domo ,
Nè son possente a soggiogare un uomo.
Semino in onda, e fabbrico in arena.
Persuado lo scoglio , e prego il vento.
All’aspe egizio, cd alla tigre armena
Scopro la piaga mia , narro il tormento,
idol crude!, di cui mi lice appena
Sol la vista goder, di placar lento.
Se far potesse a questa alcun riparo ,
Forse di questa ancor mi fora avaro.
Pregando, amando, lagrimando (ahi
Ottener I* impossibile credei. [ folk ! )
Fare una selce impenelrabil molle
Piuttosto che quel core, io spererei.
Quanto più foco in me vede che bolle.
Tanto schernisce più gli affanni miei.
Eppur volta ad amar bellezze ingrate.
Di chi mi fa doler prendo pietatc.
Nè per tante repulse io lascio ancora
Di correr dietro all’ ostinate voglie.
Ogni altra donna alita , che s' innamora ,
Sebbene il morso all’onestà discioglie.
Pur sfogando il marlir, che l’addolora.
Premio della vergogna, il piacer coglie.
Io senza alcun diletto averne tolto
Sol della propria infamia il frutto ho coito.
Vendo la libertà, compro il dolore.
Serva son di colui , che in career chiudo,
E pago a prezzo d’ anima , e di core
Pianti, c sospir, che il fanno oguor più cru-
Da così caldo , e così saldo amore [ do.
Qual mai potrebbe adamantino scudo.
So non solo quel petto andar securo ,
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ADONE. 75
Altrui tenero forse, a me sì duro?
0 beata colei, che il cor gl’impiaga.
Felici quei begli occhi , onde arde tanto.
Quanto o quanto sarei d’intender vaga
Chi sia costei, che ha di tal grazia il vanto !
Ma di pietra per certo , o d’erba maga
Egli in sè cela alcun possente incanto ,
Poiché giovan sì poco a far che mi ami
Maiìe tenaci , o magici legami.
Lungamente sospeso ( Idonia dice )
Tenuto ha questo dubbio il mìo pensiero.
Ma tu che badi ? ed a cui meglio lìce
Spiar di un tal secreto il fatto intero?
Potrai ben tu de’ fati esploratrice
Sforzar gli abissi a confessarti il vero.
Tu, che sì dotta sei nell’ arti ascose,
E sai cotanto dell’ oscure cose.
Qui tace, ed ella allor, che ben possiede
Quante ha Tessaglia incognite dottrine,
Non già di Dolo i tripodi richiede,
Non di Delfo ricorre alle cortine ,
Non dì Dodona ai sacri boschi il piede
Volge per supplicar querce indovine ,
Non a qualunque oracolo facondo
Abbia più chiaro, e più famoso il mondo.
Non il moto, e il color cura degli csti
Nell’ ostie investigar dei sacrifici.
Nè degli augei le cal giocondi , o mesti
Secondo il volo, interpretar gii auspirj,
Nè destri , o manchi 1 fulmini celesti
Osserva , o sieno Infausti , o sien felici ,
Nè specolando va le stelle , e i cieli ,
Ma più tacite cose, e più crudeli.
Notte era, allor che dal diurno moto
Ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo,
L'onde giacean, tacean Zefliro, e Noto,
E cedeva il quadrante all’oriuclo,
Sopìa l'uom la fatica. il pesce il nuoto.
La fera il corso, e l’ augelletto il volo,
Aspettando il tornar del novo lume
0 tra V alghe, o tra i rami, o sulle piume.
Quand* ella prese a proferir possenti
Con lungo mormorio carmi, c parole;
E bisbigliando i suoi profani accenti ,
Atti a fermar nel maggior corso il Sole,
Il corpo 5* impinguò di quegli unguenti ,
Onde volar, qual pipistrello suole,
E per la cui virtù spesso si è fatta
Cagna, lupa, leonza, istrice, c gatta, [ro,
Sovra un monton vieppiù che corvo nc-
Che la lana , eia barba ha folti e lunga.
Monta , ed acconcio ad uso di destriero ,
Vuol che in brev' ora a Babilonia giunga.
Quel piu che alato folgore leggiero
Per 1* aria va , senza che sprone 11 punga.
Ella alle corna attiensl, e non le lassa,
Cavalca 1 nembi , e i turbini trapassa.
Nata tra quel soldano era pur dianzi ,
E il re d’ Assiria aspra discordia e dura ,
E venuti a giornata il giorno innanzi ,
Colma di morti avean la gran pianura.
Giacean de’ busti i non curati avanzi
Sparsi sossopra in orrida mistura,
E gonfio con le corna insanguinate
A lavarsi nel mar correa l’ Eufrate.
Le campagne dintorno, e le foreste
Son di tronchi insepolti ingombre e piene»
Veggionsi tutte in quelle parti e in queste
Porporeggiar le spaziose arene ,
Fatte d’esca crudel mense funeste
A lupi ingordi , ed altre fere oscene ,
Che a monte a monte accumulate in terra
Le reliquie a rapir van della guerra.
Ma dalla maga, che dal del discende,
Son le delìzie lor turbate e rotte.
Onde lasdate le vivande orrende ,
Fuggon digiune, c timide alle grotte.
Ella di fosche nubi, e fosche bende.
Che raddoppiano tenebre alla notte,
Avvolta il capo, inviluppata i crini.
Di quel tragico pian scorre i confini.
Per que' campi di sangue umidi e tinti
Vassene col favor dell' ombra cheta,
E la confuslon di tanti estinti
Volge e rivolge tacita e secreta ;
E mentre de’ cadaveri indistinti,
A cui l’onor del tumulo si vieta,
Calcando va le sanguinose membra)
Oscura cosa , c formidabil sembra.
Non so se in vista si tremenda e rea
Là nella notte più profonda e muta
Per la spiaggia di Coleo uscir Medea
1/ erbe sacre a raccor fu mai veduta ,
Quand’ ella già rinnovellar volea
Del padre di Giason l’ età canuta.
Atropo forse sola a lei s’ agguaglia
Qualor d’ alcun mortai lo stame taglia.
Scelse un meschin di quella mischia sol-
Che passato di fresco era di vita. [za ,
Intero il volto, intera avea la strozza.
Ma d’ un troncon nel petto ampia ferita.
Se sia guasto il polmon , se rotta o mozza
Sia l’ aspra arteria , ond’ ha la voce uscita.
Prendendo a perscrutar, trova la maga.
Che ha le viscere intatte , e senza piaga.
Pende il fato da lei di moia uccisi ,
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76 POEMI
Che dell’ alta sentenza in dubbio stanno ,
E qual di tanti dai mortai divisi
Voglia alla luce rivocar, non sanno.
Se vuol tutti annodar gii stami incisi,
Convien che ceda rinfeinal tiranno.
E le leggi dell' Èrebo distrutte.
Benda alle spoglie lor l' anime tutte.
Or del misero corpo , a cui prescritta
L’ ultima linea ancor non era in sorte.
Lubrico Intorno al collo un laccio gitta,
E con groppi tenaci il lega forte.
Indi acciocché più lacera c trafitta
Resti la carne ancor dopo la morte ,
Fin dov’entra nel monte un cupo speco
Su per sassi, e per spine il tira seco.
Fendesi il monte in precipizio , e sotto
Apre la cava rupe antro profondo,
Che arriva a Dite, e discosceso e rotto
Vede I confin dell’ un e l’altro mondo.
Quivi il mesto cadavere è condotto.
Loco sacro per uso al culto immondo ,
Nel cui grembo giammai non s’ introduce
Se non fatta per arte , ombra di luce.
Nel sen , che quasi ancor tepido langue,
Fa nove piaghe allor la man perversa.
Per cui levando il già corrotto sangue ,
Il vivo , e il caldo In vece sua vi versa.
Gli sparge ancora in ogni vena esangue
Di varie cose poi tempra diversa.
Gò che di mostnioso iniqua, o di tristo
Partorisce Natura, entro v’ha misto.
Della Luna la spuma ella vi mesce ,
La bava, quando in rabbia entra il inastino
E il ilei vi mette del minuto pesce.
Che il volo arresta del fugace pino.
Ponvi l'onda del mar quando più cresce,
E di Cariddi il vomito canino,
E dell* unico augello orientale
Il redivivo cenere immortale.
L'incorruttibil cedro, e l’amaranto,
L’ immortai mirra, e il balsamo v* interna ,
La feconda virtù del grano Infranto,
E della fera fertile di Lerna.
Del fegato di Tizio ancor alquanto.
Che sè medesmo rinascendo eterna ,
E del seme del bombice v’ ha messo ,
Verme possente a suscitar sé s esso.
Il ccrebro dell’ aspido vi stilla ,
E la midolla del non nato infante,
E del nido aquilino, onde rapida,
VI pon la pietra gravida e sonante.
Hawl P occhio del lince, e le pupilla
Del basilisco, e del dragon volante,
EROICI.
Dell’ lena la spina, e la membrana
Della cerasta orribile africana.
Le polpe del biscion , clic nel mar Rosso
Guarda la preziosa margherita
Infra I’ altre sostanze , c insieme P osso
Del Ubico chelidra anco vi trita.
La pelle v’ è , eli* ha la cornice addosso
Dopo ben nove secoli di vita;
Nè vi mancan le viscere col sangue
Del cervo alpin, che divorato ha P angue.
Ferri di ceppi , e pezzi di capestri.
Fili arrotati di rasoi taglienti,
Punte d'aguzzi chiodi , c sangui , e mostri
Di donne uccise, e di svenate genti.
De’ fulmini la polve, e degli alpestri
Ghiacci il rigore, c gli aliti de' venti,
E i sudori del Sol, quand’arde luglio
Vi distempra confusi in un mescuglio.
V* aggiunse d'Etna P orride faville.
Di Fiegra I zolfi , e di Cerauno I fumi.
Del gran Cocito le cocenti stille.
Del pigra Asfalto 1 fervidi bitumi ,
K di mill' altri ingredienti c mille
Abominande fece, empj sozzumi.
Infamie, e pesti , onde la maga abbonda.
Incorporò nella mistura immonda.
Poiché tai cose tutte insieme accolte
Nelle fibre, e nel core infuse gli ebbe ,
E dal suo sputo infette altr'crbe molte
Virtuose c mirabili v* accrebbe,
Sovra il corpo incurvossi , e sette volte
Inspirò il fiato a chi risorger debbo.
Al miraeolo estremo alfin s’ accinse,
E il proprio spirto ad animarlo astrinse.
Vestesi pria di tenebrose spoglie.
Poi prende nella man verga nefanda.
Ed alle chiome , clic in sui tergo accoglie ,
Fa d' intrecciate vipere ghirlanda.
Vieppiù clic altra efficace indi discioglie
La fiera voce, che a Pluton comanda,
E move ai detti suoi sommessa e piana
Lingua , che assai discorde é dall' umana.
De' cani imita i queruli latrati.
Ed esprime de’ lupi i rauchi suoni.
Formai gemili orrendi, e gli ululali
Delle strigi notturne, e de’ buboni,
1 fischi de* serpenti infuriali,
Gli spaventosi strepiti de’ tuoni ,
Dell’aeque il pianto, il fremer delle fronde.
Tante voci una voce in sè confonde.
L’ aer puro e scren s’ ingombra c tigne
A quel parlar di repentina eclisse.
Veggionsi lagrirnar stille sanguigne
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ADONE. 77
L’ alte luci del del mobili e fisse ,
Bendò fascia di nubi atre e maligne
Come la terra pur la ricoprisse,
E le vietasse la fraterna vista ,
Della candida Dea la faccia trista.
Dopo i preludi di un susurro interno
Seco pian pian soniiuortuorato alquanto ,
Cominciando a picchiar I* uscio d’Avemo,
In più chiaro tenor distinse il canto.
Tartareo Giove , che del foco eterno
Beggi l’ impero, c dell’ eterno pianto.
Al cui scettro soggiace , al cui diadema
Tutto il volgo dell’ ombre e serve , e trema.
Perscfone triforme, Ecale ombrosa ,
Donna dell’ Orco pallido , e profondo ,
Al più crudo fralel congiunta in sposa
De’ tre monarchi , ond’ è diviso il mondo.
Notte gelida , pigra , c tenebrosa ,
Figlia del Cao confuso ed infecondo,
timida madre del tranquillo Dio,
Dell’orror, del silenzio, e dell'oblio.
Dive fatali , c rigorosi Numi ,
Che sedete a filar i’ umane vite,
E novo stame a chi già chiusi ha i lumi
Per di novo spezzarlo, ancora ordite.
Oocito, e tutti voi perduti fiumi,
Voi clic irrigate la città di Dite.
Dolenti case, antri nemici al Sole,
Aprite il passo all’ alte mie parole :
0 regi , e voi delle malnate genti
Conoscitori , ed arbitri severi ,
Che a giusti , e del fallir degni tormenti
Condannate gli spirti iniqui e neri.
E voi ministre ai miseri noceti ti
Di supplici , di strazj acerbi e fieri ,
Vergini orrende, che gli sligj lidi
Fate sonar di disperati stridi ;
E tu vecchio nocchicr , che altrui fai
A quelle region malvage c crude , [scorta
Solcando l' onda ognor livida e smorta
Della bollente e fetida palude.
E tu vorace can , che in sulla porta
Delia gran reggia , ove ogni mal si chiude ,
Perchè chi v’ entra più non n’ esca mai ,
Contro bocche , e sei luci in guardia stai.
Se voi sovente ne* miei sacri versi
Con labbra pur contaminate invoco ,
Se mai di sangue uman grate v* offersi,
Vittime impure in esecrabil foco.
Se la minugia dei bambin dispersi ,
E dal materno sen tratti di poco,
Posi gli aborti in sulla mensa ria ,
Assistete propizi all'opra mia.
Già rltor non pretendo al regni vostri
Le possedute, c ben dovute prede.
Nè spirto avvezzo a conversar tra mostri
Per lungo tempo , oggi per me si chiede.
Quel che dimando, de’ temuti chiosili
Pose pur dianzi in sulle soglie il piede ,
E di questa vi tal luce serena
Ha quasi i raggi abbandonati appena.
Non nego a Morte sua ragion , nè deggio
Del giusto dritto defraudar Natura.
Sol delle stelle , e non del Sol vi chcggìo
Si conceda a costui piccola usura.
Godan quegli occhi , che velati or veggio
Di caligine cieca , e d’ ombra oscura ,
Poiché per sempre pur chiuder gli deve ,
Di poca luce un’ intervallo breve.
Odi spirito ignudo, anima errante.
Odi , e ritorna al tuo compagno antico.
Solo qual sia l' amor, qual sia 1' amante
Kivela a me del mio crudcl nemico.
Diedi subito al loco, ove eri innante,
Dato che avrai risposta a quant' io dico.
Hi torna alma raminga, e fuggitiva.
Hi vesti il manto , e il tuo consorte avviva.
Ciò detto , non lontan mira , ed ascolta
Del trafitto guerrler l’ombra che geme.
Perchè del carccr primo , onde fu tolta ,
Tra' nodi rientrar paventa e teme.
Enei petto squarciato un’altra volta
Hiabilar dopo 1* cssequie estreme.
Chi fin laggiù ( prorompe) in riva a Lete
Mi turba ancor la misera quiete?
Lasso , echi della spoglia, ond’ io son
carco ,
L’odiato peso a sostener m’ affretta?
Dunque contro il dcstln severo e parco
11 fil tronco a saldar Cloto è costretta?
Deh eh’ io ritorni per l’ombroso varco
Alla requie interrotta or si permetta.
Miser, qual fato sì mi sforza e lega ,
Che di poter morire anco mi nega?
Ch* e! sia sì poco ad ubbidir veloce
La donna spiritai disdegno prende ,
Onde con sferza rigida e feroce
Di viva serpe il morto corpo offende.
Poi con più alla, e più terrlbll voce
Solleva il grido, che sotterra scende,
E penetrando 1 più profondi orrori
Minaeria all* alma rea pene maggiori.
Su su chè tardi ad Informar quest’ ossa?
Qual più forte scongiuro ancora attendi ?
Credi, che nell’abisso, e nella fossa
Non ti sappia arrivar , se mel contendi?
78 POEMI
0 che esprimer que’ nomi or or non possa
laudili, ineffabili, tremendi.
Che venir ti faranno a me davante
Ciò eh’ io t’ Impongo , ad eseguir treman-
Megera, e voi della spietata suora [te?
Suore ben degne, e degne Dee del male.
M’udite? a cui pari* lo? (anta dimora
Dunque vi lìce? e si di me vi cale?
E non venite ? e non traete ancora
Fuor dei penoso baratro infernale
Da serpenti agitata, e da facelle,
L’ alma infelice a riveder le stelle?
Io vi farò delle magion notturne
A forza uscir di scosse, e di flagelli.
VI seguirò per ceneri, e per urne.
Vi scarcerò da’ roghi , e dagli avelli.
Sarete voi si sorde e taciturne ,
Quand* io co’ propri titoli v’appelli?
0 con note più fiere ed esecrande
In vocar deggio pur quel nome grande?
A tai detti ( o prodigio ! ) ecco repente
Il sangue intepidir gelido e duro,
E le vene irrigar d’umor corrente.
Che già pur dianzi irrigidite furo,
Ripidi di spirto, c d'alito vivente
Movesi già l’immobil corpo oscuro.
Già già palpila il petto, ed ogni fibra
Ne* freddi polsi si dibatto e vibra.
I nervi stende a poco a poco , e sorge ,
E comincia ad aprir V egre palpebre.
Torna il calor, ma somministra c porge
Alle guance un color, eh’ è pur funebre.
Pallidezza si fatta in lui si scorge ,
Che somiglia squaEIor si lunga febre;
E con la morte ancor confusa e mista
Giostra la vita , clic pian pian racquìsta.
Di' di' (die* olla allor i per cui si strugge
Colui , per cui mi struggo? alzati , e dillo.
Qual il cor fiamma gli consuma e sugge?
Qual laccio il prese ?e quale strai ferillo?
Dimmi , ond’ avvien , che più m’ aborre c
fogge, [lo?
Quanl’io più il seguo, c più per lui sfavil-
Se fia mai che si muti , e quando , e come
Narra, e dimmi del tutto il loco, e il nome.
Se avverrà , clic tu chiaro il ver mi sco-
Non come fan gli oracoli dubbiosi, [pra,
Degna mercè riceverai dell’opra
In virtù de’ mìei versi imperiosi.
Farò, che più non tornerai di sopra.
Nè più verrà chi rompa i tuoi riposi.
Da chiunque incantar ti vorrà mai
Franco per tutti i secoli sarai.
EROICI.
Cosigli dice , c carme aggiunge a que-
sto,
Pcrcui quant’ ella vuol , saver gli ha dato.
Quei sparge alfine un flebll suono e mesto ,
Articolando in tal favella il fiato: [nesto.
Non io, non già nel mondo empio e fu-
Donde, giunto pur or, son richiamato ,
Delle Parche mirai gli atri secreti.
Nè vi lessi del Fato i gran decreti.
Pur quanto sostener potè il brev’ uso
D’ una fugace e momentanea vita,
Dirò ciò che d’ udirne oggi I aggi uso
Mi fu permesso innanzi alla partita.
Oggi ho di quel, eh’ a tua notizia è chiuso.
Dall’ empia Gelosia l’istoria udita;
Dall’empia Gelosia, furia perversa,
Che con l’ altre talor furie conversa.
Disse, che il bel garzon , eli’ a te si piac-
Echedeli’amor tuo cura non piglia, [que.
Dal re di Cipro è generalo , e nacque
Per fraudo già dell’ impudica figlia.
Ama la bella Dea nata dell’ acque,
Ella solo il protegge , ella il consiglia ;
E sebben or se n' allontana e parte ,
Ama pur tanto lui, che n’odia Marte.
Marte di sdegno acceso , e di furore
Morte già gli minaccia acerba e rea;
Onde se è l’anior tuo sterile amore ,
Infausto anco è 1’ amor di Citerea.
Volger ricusa alle tue fiamme il core.
Perchè fissa vi tieu l’amata Dea.
Poi coiai gemma lo difende c guarda ,
Cb’ esser non può, che d’altro foco egli
arda.
E poiché tu con fiero abuso c rio
Dell’ arti tue mi togli ai regni bassi,
E per un curioso, e van desio
Fai che Stigc di novo a forza io passi ,
Nè men crudel, clic all’ alma, al corpo mio.
Ucciso ancor, d’ uccidermi non lassi ,
Ascolta pur , eh’ lo voglio ora scoprirti
Quei che non intendea prima di dirti.
Permette il giusto ciel per questo scem-
E per r audacia sol del tuo peccato , [pio.
Che osò con strano e non udito esempio
Sforzar Natura, e violare il Fato,
Che non s* adempia inai del tuo cor empio
Il malvagio appetito e scellerato.
Nè te l’amato bene amerà mai ,
Nè tu del bene amato unqua godrai.
Più non diss’ egli , e ciò la maga udito *
Di geloso dispetto ebbra s’accese,
E il busto in negra pira incenerito.
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ADONE. 79
Alfin più di morir non gli contese.
Ritornò pur quel misero ferito
Poiché i terra ricadde , e si distese ,
Mandando l' ombra alle tartaree porte ,
Dopo due site alla seconda morte.
Ma giù si apre il glardin dell' Orizzonte,
Già Glori il elei di fresche rose Infiora ,
Già l’ Oriente il piano intorno, e il monte
D’ ostro, c di luce imporpora ed indora;
E già con 1' Alba a piè , col Giorno in fronte
Sovra un nembo di folgori l' Aurora
Per l’ aperte del del fiorite vie
Ea le stelle fuggir dinanzi al die.
CIIIABRERA.
DELLE GUERRE DE’ GOTI.
CANTO V».
ARGOMENTO.
Steso è Ridolfo al piano , a Flavia ardila
L' alma da] brando di Yitellio è sciolta :
Getuiio cerca Idalia, a cui la vita
Vitellio diè , ma liberiate ha tolta :
Poi da un latin guerrìcr, che sua ferita
Terge nel fiume, ov’ è sua donna ascolta.
L'uno all’altro in amor suoi casi espone,
Notte a Vitellio vincitor s'oppone.
Qual il mostro, eh’ aver mirò Tessaglia
L’ umane membra alle ferine inneste.
Pria che dappresso l’ inimico assaglia ,
Fa col corso tremar monti, c foreste;
Colai a rinfrescar l’aspra battaglia
Venia correndo il cavalicr celeste,
E volgendo la vista ai fier sembianti ,
Slavan da lungo i barbari tremanti.
Ed ci dovunque i torbid’ occhi gira,
Vede il campo d’Italia in fuga, e vinto,
E pur dappresso, e sotto i piè si mira ,
Del sangue amico ogni sentier dipinto.
Allor s’ affretta dal dolor, dall’ ira ,
Alla vendetta, alla vittoria spinto,
Nè prima ’1 corso agl'inimici appressa.
Che la primiera gente in fuga è messa.
Nè spinto in mezzo poi forze nimiche
Men caduche ritrova a suoi furori ,
Che qual fendendo le campagne apriche,
Parte l' aratro languidcttl i fiori ;
0 qual troncar le biancheggianti spiche
Suol mlctitor sotto gli estivi ardori ,
Egli in vendetta degli amici offesi.
Parila l' umane membra , e i duri arnesi.
11 duce allor, che l’infinita gente.
Imperioso alla battaglia guida.
Tutto di sdegno, e di vergogna ardente.
Crolla le tempie , alza le mani , e grida :
0 pur or vincitor, come repente
E eh’ un sol vi disperda 7 un sol v' .-incida?
Deli qual altra vittoria unqua sperate ,
S’ ai colpi d’ una destra in fuga andate ?
Ciò detto il tergo segna al cavaliero.
Per averlo al ferir fuor di sospetto ;
Ma fatto accorto del vilian pensiero.
Volge Vitellio, e gli appresenta il petto;
E ’l ferro alzando ai sommo del cimiero.
Fende li capo, c la gola entro l’elmetto;
Che con l’ intiere tempie. , c con le gote
Su ciascun fianco gelido percote.
Or come al gran guerrier l’alma disciolta
Vede fredda lasciar l’ arme , c la vita ,
Stia salute la gente In fuga volta
Commette al corso pallida , c smarrita ;
Nè più la voce delle trombe ascolta ,
Ch' alto sonando alla battaglia invita ;
Nè v' Ita chi prenda scorno, o sì disdegne.
Senza difese rimirar l’ Insegne.
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so PORMI
Gli elmi indorati , c gl' indorati scudi
Temprati già con sommo studio, c cura,
Gettansi a piedi , e se ne vanno ignudi
Da viltade sospinti , e da paura.
Sol tu ritolta a feminlli studj,
Kd usa all’arte di milizia dura,
Provasti, Flavia, in guerreggiar diletto,
Vergine orrenda, c rivolgesti il petto.
Costei là fra Sanniti aspro paese
Nacque del Tronto alla gelata riva,
E gli anni molli in rigide opre spese,
D'agi soavi , c di delizie schiva ;
Spiegò le reti , e i lacci , e l’ arco tese ,
Nè senza gloria cacciatricc ardiva,
Ch* entro le selve spaventosa all* orso
Lieve corvetta faticava il corso.
Quivi assetata , ed arsa al fiume hebbe ,
E posò stanca in su la dura terra ,
E I’ alterezza delle spoglie eli’ ebbe
Sol dalle fere, che tra monti atterra; [be
Ma poi, che *1 mondo odiò la pace, e creb-
L* ira, ed Italia surse armata in guerra,
Volta a più chiare imprese il suo pensiero,
L’arme vestì contra *1 romano impero.
Nè fra i gucrrier, che ’l barbaro racco-
Destra più certa, e più crudel feria, [glie,
Nè fra cotante sanguinose voglie
Ardeva voglia più superba, e ria ; [glie,
Ed or che’n fuga il piede ogni uom discio-
Ella non già l’alta virlude obblia,
Ma disdegnosa il cavalier disfida ,
E con orribil suon contra gli grida :
A che vii turba alla vii fuga avvezza
Cacci , che vita , e non la gloria brama ?
Dunque nel sangue di chi l’odia, e sprezza,
Speri ii merto trovar d’ inunortal fama ?
Se cerchi vero onor di tua fierezza,-
Rivolgi l’armi a chi t’attende, e chiama.
Cosi dicendo al fiero assalto mosse,
E con alto furor l’elmo percosse. [te.
Quel come ferro entro la fiamma arden-
Miile chiare faville al cielo ha sparle.
Ella i colpi raddoppia, c fieramente
Ratte l' aurato scudo, c gliel diparte ,
Ei , che dianzi le voci , c pur or sente
L* opere altiere nel mestier di Marte,
Sdegnoso che sul fine altri contende
La sua vittoria , di furor s’ accende.
E là ’ve cerchio di metallo cigne
La gola, e preme l’amorosa neve,
La vincitrice spada immerge , c spigne ,
Ch’ entro ’l bel latte il puro sangue beve ;
V alma cui dura angoscia assale, e striglie,
EROICI.
Vassene al quinto ciel rapida , e lieve ;
E morte rea la bella guancia oscura ,
Che con tanl’ arte già formò natura.
Presso ’l cader della guerriera forte
Una v’ avea delle donzelle armate ,
Clic seguita d’ Arpalice la sorte
Spendeano in arme la fiorita etale.
Costei scorgendo da vlcin la morte.
Ebbe degli anni suoi giusta pietate ,
E ratta discendendo dal destriero,
Umilmente inchinossi al cavaliero.
Vincca la neve il leggiadretto volto,
Vincea la rosa di gentil colore ,
E l’oro della chioma iva disciolto,
E gli ocelli fiammeggiavano d’ amore :
Mira il campo, die* ella, in fuga volto,
0 nobil cavalier, dal tuo valore;
Ornai poco di gloria aggiugner puoi
Col sangue d' una donna agli onor tuoi.
Per la tua destra gloriosa ardita,
Pel tuo valor, per la tua nobil fede,
Per la vittoria, eh’ a pugnar t’invita.
Comparti ad una vergine mercede;
Sospendi ’l braccio, e mia giovenil vita
Riponi , o cavalier, fra le lue prede,
E per umil tua sena mi destina,
0 chiedi gran tcsor da mia regina.
Così pregava , e i begli occhi tremanti
Volgea pieni d' affanno, e di tormento.
Si ch’ai delti soavi , ed ai sembianti,
Ch’a lei dettava 1' ultimo spavento.
L’ira del cavalier non corse avanti,
benché alle piaghe, ed alle morti intanto ;
Ma sotto nobil guardia ei la commise ,
Indi spronò sopra le schiere ancise.
Benché di tanti popoli confuso
Fumasse il campo d’ ogni orror funesto,
11 caso di costei non però chiuso
Fu colà, dove esser dovea molesto;
Gilè pronto Amor, siccome ei tien per uso.
Il fece ad un suo servo manifesto.
Gctulio, che da lei gli occhi non torse.
Tutto rimira di sua \ ita in forse.
Ei ben lieto riman di sua salute ,
Ma pur si duol , die le bellezze amale
A suoi martiri , a suoi disir dovute ,
Cieca Fortuna in strana forza ha date.
Nè potendo sperar tanta virtute,
E nell' uccislon tanta pietate ;
Sopra l’ altera cortesia pensoso,
A passo a passo ei ne divicn geloso.
E così quel mortifero veleno
Amaramente gli circonda il core,
l
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DELLE GUERRE DE’ GOTI.
Che in profondo pensiero ei venia meno,
Vinto d' insopportabile dolore.
Por alfin sprona, ed abbandona il freno,
E volge in quella parte il corridore ,
Per onde ci rimirò, che menata era
La bella, e disiata prigioniera.
Ma il moto di quei popoli infinito.
Che discordano in cosi spessi giri ,
Ed or un feritore, ora un ferito.
Diede tanto d’indugio a’ suoi disiri,
Qi’ei nulla scorge dalla pugna uscito,
Come clic si rivolga , e che si miri ,
Sebben loco non v’ha, dov’ci non spii.
Ove no *1 guardo, ove non l’occhio Invii.
Adunque ove destili non gli consente.
La donna ritrovar del suo dolore.
Più non gli cal, più non gli torna a mente
L’arme, la guerra, o’I barbaro signore.
Solo si vuol , solo disia dolente
Loco segreto a disfogar il core.
Cosi sen va poco da lungo , dove
Trai* ombre il fiume a lento corso move.
Quivi discende, e mentre gira il piede
A cercar solitario ermo ricetto.
Tutto pensoso, e disarmato vede
Giovine d’anni un cavalier soletto.
Egli sull'erba in riva al fiume siede
Grave d’ una percossa a mezzo *1 petto,
E con la man va procurando aita ,
E con l’ onda corrente alla ferita.
0 cavalier, che sia vaghezza , o sia
Destin qui, dice, a guerreggiar sci giunto,
K eli* or s’ io guardo, empia Fortuna, e ria
T ave pur meco nel dolor congiunto ;
Io , se l'opera mia grave non fia ,
La ti prometto infili da questo punto;
Ma tu, se ’l favellar non t’è tormento,
Di tua condizlon fammi contento.
E quei le luci al cavalier converse
Tinto di pa^slon ne’ suoi sembianti :
Tenne le labbia, e fin che non l'aperse,
Sparse fuorc sospiri , e sparse pianti,
indi rispose : Uom di fortune avverse
Fortuna avversa t'ha condotto avanti,
E mal richiedi , se piacer non hai ,
D’udir, guerrier, aspre miserie, e guai.
Ma se costume naturai ti sprona ,
Per diletto a spiar dell’altrui pene;
Io pur dirò, che quanto ne ragiona,
Tanto ne gode il cor, che le sostiene.
Cosi l’alta beltà, che le cagiona ,
Volgesse qui le luci alme serene ,
E mirasse la pena, che m’avanza,
Dall’empia, e sempre dura lontananza.
Là dove il mar, clic da’ Tirreni prende
Il nome, Italia in sull’estremo inonda;
Sotto l’altiero monte, che difende
Il freddo Borea all’arenosa sponda :
Savona all’ acque angusta falda stende,
Savona sempre di beltà feconda;
In quelle piaggic, hi que’ bei liti adorni,
Ebb’io, signor, nascendo 1 primi giorni.
Appena nato, a' duri mici tormenti
Sorte volle adoprar di sua fierezza;
Mi negò le lusinghe dei parenti ,
Mi pose in risse, m’involò ricchezza.
Amore alfin con le sue fiamme ardenti
Servo mi fc’ d’ una crude! bellezza.
Per modo che nè forza , nè desio
Ebbi poscia giammai d’ esser più mio.
Cosi dolente mi distrussi , ed arsi
Tutto Io spazio della verde ctate :
Gridi , sospiri dal profondo sparsi ,
Ebbi le guancic pallide , e bagnale ;
E pur quegli occhi avaramente scarsi
Mi negarono un guardo di pictate.
Nè sulla bella fronte altro mai lessi ,
Clic duri slrazj, e che tormenti espressi.
Tanto peso di affanno, e di martire.
Tante si lunghe feritadi estreme,
Non ben poteansi con ragion soffrire ,
Senza alcun refrigerio, e senza speme.
Però la mia miseria , c ’l mio disire
Venne palese, e la cagion insieme,
E tutto ’l mondo a riguardar si diede
La sua dura alterezza , c la mia fede.
Ed ella vergognando al suo bel volto
Farsi palese un amator si vile ,
Nel domestico albergo ebbe sepolto
L'almo splendor della beltà gentile.
Nè pel tempo avvenir poco, nè molto
Si fu pentita dell’ appreso stile ,
Nè giammai poscia io rimirar potei
Pur disdegnoso il sol degli occhi miei.
Allor feci pensier, benché dolente.
D'abbandonar quelle dilette arene ,
Pensando sol , ch’ai ritornar, la gente
Gli occhi non avria volti alle mie pene.
Cosi mi mossi entro la fiamma ardente,
Traendo dietro pur ceppi, e catene ;
K con angoscia , c con pensier di morte ,
In Tracia venni alla romana corte.
Quivi è soverchio 11 dir del mio dolore,
Se per prova l’amor conosciuto hai.
Ma se delle sue piaghe bai sano ’l core,
Che giova il dir ? noi crederai giammai.
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82 POEMI
L* estrema passlon d’ un che si more ,
Que* rei sospir, que’ rei martlr, que’ guai,
E quella pena tormentosa , c ria ,
M’ erano al cor, che Tolenticr sofTria.
Marte feroce Indi discordia accese
Vago dell’ opre sanguinose , c crude.
Gascun destossi a perigliose imprese,
Per trarne gloria, e per mostrar virtude :
10 lieto me ne corsi al bel paese ,
Ov'è la patria, che il mio ben rinchiudo,
Sperandomi da lungo al suo bel ciglio
Passar men grave il doloroso esigilo.
Ma dura sorte , clic di trarre è vaga
A fin acerbo la mia vita rea.
Vuol , che di Marte ancor senta la piaga
11 cor, che pur quella d’amor piangea;
Ma se ben di suo cibo or non l’appaga
La speme , che dappresso mi pascca :
Non però nel pensiero altro mai viene,
Fuor che Liguria , e le paterne arene.
Tal mi son peregrin , ed al ritorno
Veggio, che morte ornai la via mi serra.
Ma tu chi se’, che pur con Panni intorno
Spendi in riposo l’ore della guerra?
Gelulio il guardo di pietatc adorno
Sospirando piegò verso la terra ,
E poi di nuovo nel guerriero il fisse.
Ed a lui rispondendo così disse :
Perchè tu sappia , che con cor pietoso
Sono stati raccolti i dolor tuoi ,
Saprai , ch’io son nel carcere amoroso,
E provo duri i reggimenti suoi.
Ma perchè nel mio stato aspro, c noioso
Alquanto di quiete arrecar puoi ,
Prego, eh’ a consolar l’empia mia doglia
Pietosamente adoperarti voglia.
Dianzi pugnando ambe le genti armate
Prigioniera n’andò la donna mia;
Ned ebbi di disciorla polestate ,
Si trovai nel venir chiusa la via.
Or s'io posso riporla in libcrtale.
Chi più felice , e fortunato fia ?
Ma porla In liberiate indarno io spero.
Se contezza non ho del cavaliero.
Ei con moro destriero in guerra venne.
Che sol la fronte ha colorita in bianco;
Sopra *1 cimiero ha tre purpuree penne ;
E d’ostro fascia l’uno, e l’altro fianco.
Di cotanto valor, che sol sostenne
Le schiere avverse coraggioso, c franco ;
Nè d’ alcun’ altra destra anco vedute
Sono opre In arme di si gran virtute.
Tu , che nel campo dei Latin fai nido,
EROICI.
E con lor passi coll’esilio gli anni,
E saper devi i cavalier di grido,
E ’l nome loro rinvenir ai panni ;
Deh mi noma costui, che s’io ’i disfido
Troverò ’l fin degli amorosi afTanni ,
Chè vincitor, la donna mia disciolta ,
Vinto, mia pena col morir fia tolta.
E quel Latin , clic ’l cavalier sovrano
Avca raccolto a manifesto segno,
Grida : Oh che forte, oh clic feroce mano,
T invola, amico, il caro tuo sostegno : [no
Non ha '1 campo stranicr, non lia’l Roma-
Di lui pugnando cavalier più degno,
Ed esser può, che l’armi, c la battaglia
Seco vie men , che ’l ripregar ti vaglia.
Pur oggi al mondo il terzo di risplende,
Gi’ei n'apparse soiingo in sui mattino;
Gii ’l mandasse fra noi nulla s’ intende ,
Ma daU’Etruria ei mosse peregrino.
Solo Narscte del suo dir contende.
Gl* a noi discenda messaggier divino,
E quinci a lui commesso ha finalmente
Il governo dell’ anni e della gente.
Egli a fermar nostra fortuna avversa
Promette alto destin di sua persona ,
E clic vostra possanza andrà dispersa ,
Come di cosa certa altrui ragiona.
E certo se destin non s’attraversa ,
Il bel regno d’Italia or v'abbandona ,
E Roma nostra , in che fermaste albergo.
Vinti vedravvi, e con le braccia al tergo.
E se ’l mio detto, c la credenza è vera,
Sian testimonio 1 tuoi medesmi lumi.
Veduto hai folgorar la destra altiera ,
N’ hai rimirali i sanguinosi fiumi.
Questi si ticn l’ amata tua guerriera ,
Amico, per cui piagni , e ti consumi ,
E porti di martir sì gravi some :
Se ’l nome chiedi, ei di Vitcllio ha ’i nome.
Ei cosi gli rispose, e tenne alquanto
Gctulio a terra nubiloso il ciglio.
Indi soggiunse : E verità sia quanto
Del mio ragioni , e del comun periglio ;
Pensi ’1 re nostro a sue fortune, intanto
D’Amore io solo prenderò consiglio;
Ma la preghiera mia non ti sia greve
Per la pietà, che agli amator si deve.
Si tosto, come se’ tornato In campo,
Se pace , se conforto Amor ti dia ;
Trova la donna, del cui viso avvampo,
Sebben in sorte dispictala, e ria;
E dille tu per ine , come al suo scampo
La fcdcl opra di Gctulio fia,
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DELLE GUERRE BE’ GOTI. 8S
E che la servitù non le rincresca ,
Finché col novo di l’alba se n’esca.
Cosi detto riprende il suo destriero
Rivolgendo la mente alla partita ,
E ne porge la brìglia al cavalicro ,
Cui grato esser dovca per la ferita :
E dice : Ornai vicn notte all’cmispero,
E ’l sol partito a dipartir n’ Unita;
Monta in arcion , chi si piagato, e lasso,
Diffìcilmente moveresti ’l passo.
Ed egli alfln dopo, ch’lnvan contese
Con bel parlar di gentilezza adorno.
Pigliò ’l destrier del cavalier cortese
Ed al campo d'Italia fé’ ritorno.
Getulio poi , che dalle stelle accese
Mirò dal mondo ornai bandirsi ’l giorno,
Nulla col ferro ei più curò provarsi
A prò dei Goti fuggitivi, e sparsi.
Ma non Vitellio il gran furore alTrena,
Sebbcn lo stuol avverso in fuga è volto ;
E sebbcn cicca notte in giro mena
Ornai suo carro, c ’l più vedere 6 tolto.
Giù di gran tronchi la foresta i piena ,
E d’ atro sangue è tutto ’l campo involto.
Ed ci pur su gli estinti , c su i mal vivi ,
Batte con l' arme il tergo ai fuggitivi.
Qual il gran fiume, dove ancor sospira
Febo sul caso di Fetonte indegno,
Se per nevi dìscioltc unqua s’adira,
E ’l freno usato ha delle rive a sdegno;
Ondeggia altiero in gran diluvio, e tira
Seco a basso ogni sponda, ogni ritegno,
E selve, e paschi, e ciò, clic trova intorno
Ne porta a) mar sopra l’orribil corno;
Tal su lo stuol, che gli fuggiva binanti.
Alto fremendo il gran guerrier correa ,
E calpestando or cavalieri , or fanti
Spegnca la gente scellerata , e rea.
Sotto il fier ciglio, c sotto i fier sembianti
Il fiero sguardo minaccioso ardea,
E dal gran scudo, e dal grand' elmo e fuore
Dai grandi usberghi sfavillava orrore.
Per entro ’l sangue, che ne giva crran-
Eransuoi fregj d’atre macchie offesi; [do,
Sangue gli spron, sangue vedcasl il bran-
E sangue tutti distillar gli arnesi, [do,
Se cicca notte dall’Ibcro alzando
Non ingombrava allor tutti 1 paesi.
Franca era Italia : ma pei ciechi orrori
Interruppe Vitellio i suoi furori.
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84
POEMI EROICI.
BRACCIOLINI.
LA CROCE CONQUISTATA
LIBRO TERZO.
ARGOMENTO.
Segue Teodor a far palesi , e chiari
Ile gl* eroi pili famosi i nomi , e l’opre,
E il* Elisa , c d’ Alcesie i casi amari
Condolei note al saggio Arlemio acopre;
E cosi ne* diletti altrui si cari
Mostra, quanti travagli il mondo copre.
E che in metto del riso aspro dolore
Sempre si mesce a tormentare il core.
Signor, que’ due della seconda coppia
( Ricominciò Teodor) son capitani
Dì gente greca , c ben I un l’ altro accop-
D’ animoinvlttl, c di valorsovrani , [pia
Virtù, che fuor naturalmente scoppia,
Nè lascia 1 cor gentil parer villani ,
Ben mostra in lor con manifesta luce
La nobiltà dell" uno, e l’altro duce.
Quel da man destra , a cui si lunga , t
bionda
La chioma è sparsa i n sul lucente usbergo,
E quasi un fiume d’ or, che si dilTonda ,
Riga armato d’ accìar l' omero, e ’l tergo ,
Cleanto è detto, e’ n su la verde sponda
Del lucid'Ebro ha'l suo nativo albergo.
Nacque de I re di Tracia , ed egli i segni
Muove di tre provinole, anzi tre regni.
Sono i primi, eben forti I propriTraci,
Per sua ferocità squadra temuta.
I Macedoni poi , di pari audaci ,
Ma vie più lor la disciplina aiuta.
Terzi i Dardanl sono, e i feri Daci.
Chè nessun per onor marte rifiuta,
E quei di Ponto , c di Dalmazia mesce
Conquesti Insieme ,c la falange accresce.
Sono a pie diecimila , e novecento
Ne conduce a cavallo, e di lor porta
Famosa insegna un' aquila d' argento ,
Ch’ un altr' aquila ticnneli’ unghia torta ,
Che 'I sangue ha sparso , e le sue piume al
vento
Dall' artiglio maggior ferita, c morta,
Per dinotar, che rimarrà disperso
Dall' imperio romano il regno perso.
Vedi l' altro a man manca , c più raccolto
Su '1 tergo ha ’l collo , e più le spalle apcr-
Ed ha brune le chiome, efosco il volto, [te.
Quegli onor della guerra è Poliperte ;
Trae d’ Atene il natal , paese incolto ,
Fatti sono i giardin piagge diserte,
E di tanti edifici in fra l'arena
Riman dal tempo alcun vestìgio a pena.
Ma se cagglon le mura, estrazio indegno
Fa d’ ogn’ opra di man la lunga etade ,
A mal grado suo pur prova d’ ingegno
Fabbrica di scrittor giammai non cade.
Nelle carte fondata ha vita, e regno,
Se rovina nel suol l'alta ciltade,.
E mancar si vedranno al sole i rai
Pria, che manchi d’ Atene il grido mai.
E non sol Poliperte Atene aduna ,
Ma l' Epiro, c l’Acaia. All'Oriente
Dell' incolte provinole esposta è l’ una.
Guarda l'altra a Corfù verso Occidente.
Non può nulla temer l’ irsuta , c bruna
Per li monti Cerauni avvezza gente;
Che le fere solca di balza in balza
Saettando seguir leggiera, e scalza.
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I.A CROCE CONQUISTATA. 85
Tratti poi fuor del cui o.-o, c’nsicmeac-
Dalla tromba medesima conduce [colti
Quei del Peloponncsso , e seguon molti
1/ ardi to suoi! del fortunato duce,
K più altri di lor sparsi , c disciolti
Li per l’ isole Egee chiama, e riduce
Lesbo, e Creta concorre, e Negroponte
K le minute Cicladi : ma pronte.
Quasi a piè tuttaè la sua gente greca ,
Ma grave d’armi, e d'animo costante.
Sì eli' a danno minor morte s'arreca.
Che torcer mai dal suo dover le piante.
Porta ei per segno una dentala seca ,
Clic roder tenta un lucido diamante,
Nè pur vi lascia alcuna nota impressa,
E non potendo a lui , noce a sè stessa.
Dodicimila il capitan condutti
Tra pedoni e cavalli avea da prima,
Ma son gii quasi alia meli riduttl
Tanto il ferro, e l’eli distrugge, e lima.
Son più d'ogn’aitro a franger mura In-
Ne' duri assalti, csalir loro in clma,[strultl
Nè torre è mai , che resistenza faccia
Lungamente al crollar delle lor braccia.
Pon mente ai terzi .eciaschedun lorfre-
Vcdi Italico ornar dell’ armi il pondo; [gio
Triface è l’un per chiare prove egregio
fìentii di spirto, e di parlar facondo.
Sull’ Arno è nato , ov’ ci più raro ha 'I pre-
llcllc note d' Etruria, e puro,e mondo[gio,
Corre con lento piè, chè lo rattienc
l)e' cigni il canto alle famose arene.
Di membra è snello, e sovra i piè veloce
Nel corso a pena imprime d'orme il Ilio;
Fervido di voler, di cor feroce.
Ardito si, ma cautamente ardilo.
Nè del nettare d' I bla ha la sua voce
Men soave concento, c men gradito.
Se va, se sta, s’egli ragiona, o tace
ila sempre un non so che, clic s'ama, e pia-
Di concorde voler da lui condutti [ce.
'an gl’italici seco, i qua’ partirò
Con varie insegne, e non volcan riduttl
Andar soli’ una , e ’n ritrosir s’ udirò ,
Ma proposto Triface ei solo a tutti
Per duce piacque, ei sotto a lui s' unirò,
Ed ei si dolce or gli governa , e regge ,
Ch’ amore è ’l freno, e volontà la legge.
Novemilanc regge, e ne raccoglie
Di quelli ancodi là dal varco angusto,
< IT è fra Scilla , e Cariddi , onde si scioglie
Da Leucotc Peloro, c 'I monte adusto,
E con quei ch’abitar le bianche spoglie
Dell' Apennin di lunga neve onusto.
Tragge insieme Triface, e seco mena
Quei dell’onda adriallca , e tirrena.
l'n Icone è l’ insegna , c mentre dorme
Chetamente, un fanciullo il fren li mette ;
Mille premono il suol di ferrai' orme
Sparse le lancie lor d' archi , e saette.
Partenopee son le guerriere torme,
E fan chiaro veder le squadre elette,
Chè l’antica virtù che già fioriva
Negl' italici petti ancora è viva.
Vedi l'altro a man manca; a sue gran
Non è già punto inferlor la forza, [membra
D'csser nato mortai non si rimembra.
Il cuor feroce niun periglio ammorza :
1 ra gli armenti minor tauro rassembra ,
Rompe!' armi, e le schiere, e Paste sforza,
E qual leone orribil velli, e folti
Spargon la fronte sua capelli incolli.
Adamasto ècostui , sol ci non puotc
Emulo di Batran soffrirne il grido.
Per sangue è chiaro, c d'Alboin nepote
Nato di Lombardia nel ferlil nido,
Dove l’ Adda, c ’l Tesin con larghe rote
Traggon l'umido piè spargendo II lido,
E più volte fecondi i campi fanno
Pria che di neve incanutisca l' anno.
ISequani, e gli Elveti egli conduce,
E del ferro, c del vino amica gente.
Che simil di costume al fero duce
Non alberga timor, piaga non sente,
l'n Orlon, che le tempeste induce
Morte, c strage crude! delle semente,
Eia sua insegna , c la falange piena [pena.
Da prima ci mosse, or n'ha due quinti a
Vedi ilquarto amali manca; èquello il
figlio
Del canuto Silvan eh’ ha per cimiero
Grave d’alta pruina un bianco giglio.
Hello è d'aspetto, e d'animo guerriero.
Sventola il peunonceld' oro, e vermiglio.
E ’l generoso, e nobile destriero,
A cui l' omero preme , e stringe il morso ,
Sembra neve ai color, seffiro al corso.
Tra T fin del quarto, e'I cominciar del
quinto
Lustro degli anni suoi lieta stagione
Corre età favorita a gloria spinto
Da generoso, e volontario sprone,
E ben figliuolo al naturale istinto.
Ed al nobile fin, di' ci si propone.
Si dimostra a Silvan per via d’onore.
Emulando a gran passi il genitore.
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80 POEMI
Venturiero ò’I garzon leggiadro, e fran-
Seco è ’l duce Ardimeli , caricod’ oro , [co,
A cui pende ricurvo al lato manco
Gemmato il ferro in barbaro lavoro.
Sopra II nero ha ’l deslrier sottile il bianco
Pur coni’ un v elo , e i piedi e ’l capo è moro.
Non preme ei no , ma perchè rada il suolo ,
L’ali al corso non vedi , e vedi’! volo.
Condutti a noi del caspio monte ha fuorc
Gente , che ’n sè non Ita legge , nè freno,
Oh , se pari in costor fossi ’l valore
Al numero, all’ardlr ch’egli hanno in seno !
Ma fidar non ne può l’imperadore,
E nuoce, ovunque sia, l'empio veleno.
Son trenta mila, e più tulli gazzarri
Ingiuriosi, indomiti, c bizzarri.
Dall’ Ircania costui con le sue genti,
A cui serra le vie P orribll tosco
Nemiche a Cosdra , e di disdegno ardenti
A congiunger si venne in guerra nosco.
Quando ai giorni maggior gli atri serpenti
Fan viva siepe al duro varco, e fosco
E pur or, quando il velenoso calle
Chiuggnn le serpi alla profonda valle;
Tacile al penetrar del cieco sasso
Movean le schiere, e sospettose , e preste ,
Perchè dal suon del periglioso passo
Il diluvio degli angui non si deste.
Ma indarno pur, eh’ ad assalirle al basso
Sibilando strisciò l'orrenda peste ,
E la piaggia , e la valle , e ’l piano , e 1* erta
Di serpi è tutta a danno lor coperta.
Aran con larghe, e velenose rote
Gli adirati colubri il gran deserto.
Rigati lubrici il suolo, e ’l elei percotc
Di lor sibili ardenti un suono incerto.
Spaventosi sembianti , c forme ignote
Precipitose in giù scendon dall’erto.
Rassembraaiciel s’oscuro nembo il serra,
Seminata di fulmini la terra.
Suona r orrida valle , ogn’ antro geme.
Spargo» le biscic avvelenala spuma.
Con le spade i guerrier l’ orrendo seme
Troncatisi intorno, e’I varco ondeggia, e
Seguita il popol fiero, e nulla teme. [fuma.
E col ferro , e col piè la via consuma ,
ramo eh’ esco» d’ impaccio , e ne conduce
Liberi i suoi guerrier l’ardito duce.
La loro insegna è con argenteo corno
Quel pianeta, che in ciel giù mai non suole
Tal far altrui, qual si partì ritorno.
Compartendo alla notte i rai del sole;[no
Con quel da poi che non l' estingue il gior-
EROICI.
Il barbarico stuol mostrar ci vuole.
Che vai per buona, e piu per rea fortuna,
Qual notturna assai più luce la luna.
Vedi gli ultimi due, che d’ un colore.
Che nel bianco in vermiglia lian la divisa ,
Rara coppia gentil eh’ ha giunto Amore
Di legittimo nodo, Alceste, e Elisa.
Vive indistinto infra due petti un core,
E in due corpi è tra lor l’alma indivisa ,
Ella per lui, mercè d’ Amore, audace
(^imbatte in guerra, egli amoreggia in
pace.
Di dolore, e d'amor trafitta e punta
La giovanotta assai fu presso a morte,
E soffrendo, ed amando a tale è giunta.
Ch’eli’ è ben tra i più rari esempio forte.
Chè disperata , e dai suo amor disgiunta
Ben la tenne qualtr’anni acerba sorte
Sotto ruvide spoglie infra le piante
D’antica selva sconosciuta amante.
Sola è donna nel campo, e la permette
L’ imperador, quantunque pur sia tale ,
Però die doli in sè raccoglie elette.
Ch’ai virile valor la fanno eguale.
Sicuramente in cerio segno mette
Dall’ aurata faretra ogni suo strale.
Rompe ’l corso alle fere in mezzo al suolo,
E per l’aria agli augei la vita, e ’l volo.
E dall’arco promette, e se nc spera
Della man feiuinil prove maggiori ,
E l’istoria direi pietosa, c vera
Delle lagrime sue, de’ suoi dolori,
Pernii divenne in mezzo i boschi arciera,
S'io non temessi i suoi dolenti amori
Portarvi noia, e qui sì ferma, c tace,
Sovrastando a mirar, quel eh’ a lui piace.
Ma scorta allor nel principe Teodoro
Dai sacro ambasciatine l'aperta voglia,
Di contar di que' due, eh’ un tempo foro
Piangendo amando in disperata doglia,
Volgesi ad ascoltar gli affanni loro,
Benché i casi d'amor gradir non soglia.
Ma in lievi cose affabilmente in lui
Vinto 11 proprio voler, cede all’ altrui.
E rispondendo: a me l’udir Ha caro,
Purch’avoi forse II raccontar non grave.
De’ legittimi amanti il caso amaro
Dopo lunga stagion patto soave, [chiaro
Ciò detto ei tacque, e ’n suoli distinto, c
Ripigliando Teodor quei eh’ a dir ave.
Con lieta fronte al sacro messo, e pio
Più volgendosi ancor, cosi seguio:
Nel laconico mar Citerà siede,
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LA CROCE CONQUISTATA. 87
Isola, che più bella, e più feconda
Sopra ’l nostro orizzonte il sol non vede ,
Nè più bella a veder l’acqua circonda.
Qui>i nacquer gli amanti, c ’n quella sede
Pargoletti godean vita gioconda ,
Della tenera età nel dolce loco,
Partendo il riso, e I* allegrezza, c ’l gioco.
Quivi un amor, che non sapoa d’ amare,
D’un incognito affetto i cori univa,
Sospirava» talor Tallirne care
Nè sapean quel sospir d’onde ci veniva;
Chè temer non avean nè che sperare ,
E speranza, e timor l’anior nutriva.
E così semplicetti un tempo avanti
Che ’n tendessero amor, vissero amanti.
L’età crebbe, c le voglie, c furon poi
Dai letto maritai spente, e raccese.
Fin che Fortuna con gli assenzi suoi
A conturbar tanta dolcezza intese.
Cosdra affronta Cartagine, ed a noi
Convien repente apparecchiar difese
E già già parte, e se ne va per Tonde
La nostra annata e’I mar tra Degni ascon-
Cosi a partir dalia diletta moglie [de.
Dura necessità lo sposo astringe.
Da lei congedo lagrlmando toglie
E di mesto palior tutto si tinge.
Alfin si parte, e la sua rela scioglie
L' afflitto amante, e 1* Aquilini la spinge;
Vaisene senza cor, chè lo ritiene
La bella sposa alle paterne arene.
Pien di lagrime il volto, c 'I seti di duolo
Con l’ altre vele II doloroso amante
Sospirando, varcò l' umido suolo,
Ma fermò tardi in sul terren le piante.
Chè l’amica citta r avverso stuolo
Area disfatta alcuni giorni arante.
Più di fermossi a racconciar l’ antenne,
Per tornar quell’ armata, orni' ella venne.
Or tra queste dimore un cavaliero
Novellamente in Affrica venuto,
Per portar a Cartago , ove niesticro
Ne fusse a lei , con la sua destra aiuto ;
Quando alfin della cena ogni pensiero
Con poca guardia fi più dai cor tenuto,
Veggendo ei pur con basse ciglia, e meste
Dolente star l’ Innamorato Alcestc :
Deh, signor, li diss'ci, sbandisci orna)
Cosi tristo pensier, che t' ange il core ,
Cbfi nuli' altro può far, come ben sai ,
Nostro pensar, che raddoppiar dolore.
E se forse fi cagion di darti guai ,
Come fa spesso in età fresca amore ,
Sterpalo, chfi non fi maggior follia
I)’ noni , rifa femina vii soggetto stia.
Nfi feinina esser può, che non sia vile.
Nuli’ amor, nulla fedeltà 'I sesso avaro.
Non beltà , senno , non v irtù gemile ,
Ma l’oro fi sol ch'allc lor voglie è caro.
Provato ho mille , e mai diverso stile
Non vidi in una, ond’a fuggirle imparo;
E di molte il gucrrier narrando disse
Godute a prezzo, e l’ultima descrisse.
Sulla sponda a Citerà, ond’ ella vede
I) Asopo il dorso , fi gran magione eretta.
Che sporge fuorsopr’ uno scoglio, c siede
Quasi a specchio del mar, che l’ha ristretta.
Qui una donna gentil, ma per mercede.
Pur elib’io, come l’ altre. Elisa detta.
E se mai dal sembiante alcuna onesta
Comprender puossi , a me parca ben
questa.
Chè ’n sfi raccolta, e nel suo bruno man-
Del crine avara, e del pudico sguardo, [ lo
Nell’ andar schiva, e vergognosa alquanto
Movea guardingo ogni suo gesto, e tardo.
E chinando 11 bel viso a terra intento
Scoccava apifi de’ suoi begli occhi il dardo
Quasi a dir, non guard’ io, nessun mi miri.
Ch’io non porto pietà d'altrui martiri.
Ma '1 tesoro d' amor chi più raccoglie
Fa più caro parerlo, ond'ei più s'ama,
E cosi avvien, che dell' ardenti voglie
Mantice, fi ’l dinegar quel che si brama.
Tal io d' filisa in quelle honesle spoglie
Vie più m'accesi, e ne sfogai la brama.
Glifi per far me dell’ amor mio felice ,
Chiuse il patto tra noi la sua nutrice.
Costei dagli anni attenuala, r trista
Mostra ipocritamente atto devoto.
Formar preghiere ad or, ad or fa vista
Confondendo i bisbigli in suono ignoto.
Baciar sovente il terreo sacro fi vista.
Battersi, e risonarne il petto volo,
D' ogni inganno è maestra , e con suavi
Detti d'ogn' altrui cor volge le chiavi.
Costei di notte tacito, e soletto
Mi condusse a goder l' idolo mio.
Passai per varco inusitato, e stretto,
Cli’ad aprirmi sul mar la balla uscio.
La sua camera a lui descrisse, e T letto.
Tutte sue frodi il cavalier gli aprio ,
Loquacissimo fatto a mensa lieta.
Dove scioglie la lingua II vin di Creta.
Quindi accorto il marito, e certo ornai
Dello scorno da lui conira sfi fatto :
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K8 POEMI
Ahi, malvagio, gridò, tu dunque andrai
Superbo ancor di cosi reo misfatto ?
Tu di mia moglie, e l'onor mio tolt' hai?
Per pagarne le pene il cicl t' ha trailo
Nelle mie mani ; e ’l ferro trae dal fianco ,
Sospingendosi a lui feroce , c franco.
Or confuso l'adultero, e sorpreso.
Tratta con l’cbra man la spada a pena;
Mal accorto egualmente, e mal difeso
Trafitto cade a insanguinar l’arena.
Dalla mensa alia tomba inulil peso.
Passar gii ò forza alla dolente cena,
E tra i vasi ravvolto, e le vivande,
E col sangue , e col vin l' anima spande.
Non bada Alcesle ; un plcciol legno sale,
lasciando gli altri , c la sua vela scioglie.
Cui l'Austro gonfia, e per l’ondoso sale
Portatrice ne va d’amare doglie.
Tinto è nel volto di pallor mortale.
Dolor peggio, che morte in seno accoglie.
Tacilo è sempre, c ne’ sosplr di foco
Talor prorompe, e non ha posa, o loco.
E ’l quarto di, clic ’l disperato amante
Dal confine afTrican partito s’ era,
I)i lunghissimo spazio ancor distante
l’or lo piano del mar vide Citerà.
Sia ’l senlier torse c poi fermò le piante
Sul Icrrcn di Malica giunto la sera,
K quindi un messo alla consorte manda
Nel proprio legno, c a lui così comanda :
Vanne , e imbarca mia moglie, c come
Tu dall'isola sei tanto lontano, [poi
Che più visto, o sentito esser non puoi,
Dalle morte crudcl di propria mano.
0 se ’l sangue di lei sparger non vuoi ,
Cettala immantinente al flutto insano;
Fa ch’ella muoia, e non udir da lei
Scusa , o pregar, se tu fedel mi sci.
Pronto all’opra crudel vanne colui;
Giunge a Citerà, c l'innocente Elisa
Chiama per parte del marito, a cui
Menarla intende , e ’l suo ritorno avvisa.
Ch'eL giunto è là con altri amici suoi
Sulla riva del mar, quinci divisa.
Dove C stretto a badar per alcun giorno ,
Pria che far possa all'isola ritorno.
L’ amorosa consorte al noto messo
Volenterosa immantinente crede,
E tutta lieta allor, allor con esso
Mette nel legno suo l’incauto piede.
Lascia l'empio la riva, ed all' eccesso
Come il luogo opportuno, e ’l tempo vede,
Più feroce del mar, che lo sostiene
EROICI.
Contraila donna impetuoso viene.
E nel viso gentil , clic forza avrebbe
Tor lo sdegno alle fere, agii angui ’l losco.
E di pleiade intenerir potrebbe
Le dure querce al più deserto bosco;
Poiché fissato orribilmente egli ebbe
Spietatissimo in atto il guardo fosco,
Le man distende, e'i biondocrine avvolto
S’ ha già nell' una, c l' altra II ferro ha tolto.
E con aspra favella , ed interrotta
Dall’orror del misfatto : Elisa, dice.
Su disponti a morir, chè giunta è l’otta
Della tua fine , e viver più non lice.
0 vuoi ferro , o vuoi mar : cosi ridotta
Al partito crudel quell’ infelice, [smorte.
Tremante , e fredda , e con le labbra
Chiede almen la cagion della sua morte.
La cagione è ’l voler, le rispond' egli ,
Del tuo marito, ed ci cosi comanda;
E traendo a quel dir gl' aurei capegli.
Muove il ferro ad empir l'opra nefanda.
Rasserena allor queta i dolci spegli
lai giovanotta, e fuor le voci manda;
Eccoti il petto, il tuo signor, e mio.
Se cosi vuole, e cosi voglio anch'io.
Per lui sol non per me piacque la vita.
Per lui mi spiaccia or eh' ci l'abborre, e
schiva ,
Nodo eterno d’amor l’ha seco unita
Da lui dipenda, e per lui mora, e viva.
E se forse parer morte gradita
Non mi potrà, poi che di lui mi priva.
Di contentarlo il mio contento fia.
Tal ch’addolcisca ogn' amarezza mia.
Hcn mi resta un sol dubbio, e t’addi-
Pcr l’estrema mercò, che tu ridica, [mando
Queste parole al mio signor tornando,
Ch' ella del petto fuor trasse a fatica :
Elisa tua, che fedelmente amando
Non l'ofTese già mai , morì pudica.
E qui la mente a Dio converte , e nudo
Porge altera 11 bel fianco al ferro crudo.
Ma quel servocrudel, che s' era armato,
Contro i preghi d’ asprezza, e contra i pian-
Rendon (eh’ il crederla?) preso, e legato [ti.
Del magnanimo cor gli atti costanti.
E due , c tre volle il fiero braccio alzato ,
Quasi maga pietà l'arresti, e ’ncantl, [sa.
Non può muovere II colpo, e non l’abbas-
Anzi ’l ferro di man cader si lassa.
Si eh' ci l'opra abbandona, e volto a lei
Cosi spiegò più raddolcito il suono.
Deli , che morte mai dar non li potrei.
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LA CROCE CONQUISTATA.
Ma non è in poter mio darli perdono.
Che qual tu moglie al signor nostro sei,
Del crudel che mi manda, io servo sono;
Ma della morte eterno esilio in vece
Aver da me, se pur vorrai , ti lece.
Se la fede per pegno a me tu presti
Di partir quinci, e non mai più tornare,
TI lascerò su quelle spiagge agresti ,
E dirò poi che l'ho sommersa in mare.
E tu di là te ne potrai da questi
Nostri confin peregrinando andare.
Ma giura a me di ricovrarti dove
Qui non s' odali mai più d’Elisa nuove.
Risponde : amico , uccidi pur, trapassa
Purquesto petto, e che vuoi tu, ch’io viva.
Da quel crudel, clic, benché tale, ahi lassa,
È pur la vita mia, lontana, e priva?
Abbassa , oìmè , la mortai mano abbassa,
Non mi lasciar conir' a sua voglia viva,
Chè sarìa troppo a me tal vita amara,
E morte a piacer suo m’ è dolce , c cara.
Cosi pur ella il mortai colpo chiede ,
Perch’ adempiasi in lei l’ empio mandato.
Ma pietoso il morir non le concede
Olii la vita negar dovca spietato.
Or che lite ammirabile si vede
Nascer tra lor, che generoso piato !
Giovane donna, ed innocente prega
Pur la sua morte, e i’uccisor la nega.
Ma poi eh’ un tempo Inutilmente Elisa
All'omicida suo chiese la morte,
E dimostrò con disusata guisa
Ne' magnanimi preghi animo forte;
La speme alftn , se non rimane uccisa ,
Di scoprirsi innocente a miglior sorte ,
Fa che cede la misera , e dolente
All’ odioso suo viver consente.
E di lagrime sparse ambe le gote,
Qual rose intatte al mattutino giclo,
Dì trar l'esule plé tra genti ignote
Promette a lui sotto diverso cielo.
Indi , per variar più ch’ella puote
Suo sembiante gentil, depone il velo.
Tronca il bel crino, e la purpurea vesta
Piangendo spoglia, e’n servii manto resta.
Colui giicl presta, e sopr' un'erma
spiaggia
La depon lagrimosa, e se n' invola, [saggia
Pass’ ella i monti , c fuor chc’l pianto, as-
Poe’ altro cibo, e va dolente, e sola.
Parer si storia, e ruvida, e selvaggia
Nutrit' aneli’ essa in boscareccia scola
Tra dura gente ov'ella arriva, o parte.
Ma non giunge al desio lo studio, e l’arte.
Del bel viso gentil fa prova in vano
Nasconder l’aria, ei portamento, c’1 moto.
Non può l'atto civil farsi villano.
Nè restar di sue grazie il ciglio voto.
Troppo candida appar la (iella mano,
Troppo ad ogn’opra il nobil gesto è noto.
Cosi nuvola 11 sol con atri veli
Non può tanto celar che i giorno celi.
Ma poi ch’eli' ebbe e quattro lune, e sci,
Misera, e sconosciuta peregrina.
Trascorso errando, e con gli accesi omcl
Fall' ogni selva risonar vicina;
Tra la sua famigliuola a raccor lei
Un pietoso pastor pronto s’inchina,
E da quei panni un garzoncel creduta,
Pasce or greggia lanosa, ed or cornuta.
E con ruvida verga, e con accenti
Soavi troppo a cosi duri uffici ,
Correggendo conduce i bianchi armenti
A pascer l' odorifere pendici.
E spesso ai suoi dolcissimi lamenti
Fa pietose le selve ascoltatrici ,
E compiangon sovente al suo dolore.
Alternando i susurri, or l' acque, or l’ ore.
Ed ella un giorno insidiando , aggiunto
D'un selvatico capro il correr lieve,
Lui feri dall'agguato, e '1 fianco punto
Pasce ’l ferro la vita , e ’l sangue beve.
E l’un poi delle corna all'altro aggiunto
Ne compose ’l grand'arco, ond'eiia In
Divenne arciera, e sagittaria tale, [breve
Clic nè '! Parto, nè ’l Perso ha forse eguale.
Quindi corre la selva, e poi la sera
Ricca di preda il chiuso albergo riede,
E ’l di soletta, ov'è più folta, e nera
L* ombra d' antiche piante alfrena il piede,
Sfogando allor l' acerba doglia , c fera.
Che l’usato tributo agli occhi chiede,
E rimari poi della sua pena acerba
Tiepida ai sospir l'aura, ai piangerl'crba.
Durò lunga stagion l' amaro stile
Che ’l suo fior di bellezza In uggia tenne,
E ’l suo più vago addolorato aprile.
Per lei pur sempre oscurità mantenne.
Ferito intanto un cavalier gentile
Nel medesimo albergo a morir venne ,
Di cui la donna il luminoso arnese
Da lui lascialo , e ’l corridor si prese.
E con quell' armi ella pensò da poi
Fingersi un cavalier cangiando sorte ,
E passar con più laude i giorni suol ,
0 i suol lunghi dolor finir con morte.
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90 POEMI
E ben che grave al molle pelto annoi
Tropp’ aspro peso il duro arnese, e forte.
Vi s* avveri’ ella, e non so dir, se pure.
S’intenerisca ’l ferro, o ’I scn s’ induro.
Ma tornato il famiglio, a cui commise
La sua morte il marito , c inteso come
Egli in maria sommerse, c pria l’uccisc
Presala di sua man nell' auree chiome;
Data a lui ia mercè , qual ei promise.
Quindi il fa dipartir, però che ’l nome
Teme dell’omicidio, c ’l fatto ah borre
E *1 ministro si vuol dagli occhi torre.
Colui si parte, c poi nel cor martella
Più d’ un sospetto al credulo marito.
Dubbio della ragion d'opra sì fella
L’immaturo consiglio il fa pentito.
Torna a Citerà , e la nutrice appella
Ei con volto feroce, ella smarrito,
E le dimanda, ravveduto tardi, [di :
Col ferro insieme, e con gli ardenti sguar-
Di’ su, malvagia, io vo’ saperne il vero.
Chi fu colui eh’ a violar menasti
L* impudica mia moglie all’ aer nero,
Tu ’l sai, tu sei che l’onor mio macchiasti.
La mala vecchia a minacciar si fero
Tremante cade, e non ha cuor che basti ,
Ma gridando mercè , mostra in che guisa
Sol ella ha colpa ; ed è innocente Elisa.
Signor, vinta dall’oro, orecchia porsi
Ad un vano amntor, che qui venuto
Con desir mollo e poco senno io scorsi
A dimandarmi alle sue fiamme aiuto.
Ed io che bene ogni tentar m’accorsi
La casta Elisa tua, tempo perduto,
Mi rivolsi all* astuzie, e lui contento .
Fei d’amor con inganno, e me d’argento.
Persuasi a Terea d’ accoglier essa
D’Elisa in vece il folle amante in seno,
Chè d’ un’etade, e d* una forma impressa
Terea somiglia alla tua sposa a pieno.
E nella maritai camera stessa
Trassi il vano amator di gaudio pieno,
Chè l’ incauta tua moglie indussi ad arte
A trar la notte in più lontana parte.
Lascio in cantera il vago, c poi eli’ al-
quanto
Sovrastette in desio del mio ritorno.
Con l’ancella si ntil chiusa nel manto
Della mia donna, a dii m’aspetta io tonto,
E spento a un tratto un piccìol lume tanto.
Che mai vincer polca 1* ombra d’ intorno,
Avidamente nel tuo proprio letto
L’un dell’altro di lor prcser diletto.
EROICI.
Ed io prima che l’alba In Oriente
Rianclicggiar faccia alcuna parte ancora.
Affretto lui, che tacito, e repente
Partir sen voglia, e prevenir l’aurora,
Ed egli a pieno al creder suo contente
L’accese brame, uscì dell’uscio fuora;
E qui tace la vecchia, imntobil cole
Rintanai Alcesle, e poi s’ infiamma, e scote.
Ed ahi , grida, malvagia, io dunque a
Per te la donna , anzi la vita mia, [torto
Fedele, e casta , ed innocente ho morta?
Tanto error senza pena unqua non Ila.
Vuol trarre il colpo, e rlman poi, che
Ha ’l vile oggetto, in cui ferir desia, [scorto
La lascia, e corre a minacciar Terea,
Se narratole il ver la balia avea.
E cosi ’l trova, ond’ei non pur ferito,
Ma trapassato il cor d’aspra saetta,
Per soverchio dolor di senno uscito
Di sè far pensa Incontr’a sè vendetta.
E ’l suo spirito sciolto avrla seguito
Lei, che nuda si crede alma diletta.
Ma v’accorser gli amici, e gliel vietaro
E del morir la miglior via mostraro.
Persuaso da lor, clic *n lui non deggia
Morte d’eterno danno esser cagione ,
Passa il misero in Asia, e qui guerreggia;
Disperato ai perigli il petto espone, [già.
Ma quantunque il morir pur sempre cltieg-
Con mlll* opere ardite, ov’ci si pone.
Riserbandolo a meglio antica sorte
Gl’ incontra gloria , ov’el ricerca morte.
E già quattr’anni il lagriinoso amante
Avea miseramente ad ora ad ora
Le colpe sue rammemorate, e piante.
Nè sentito il dolor temprarsi ancora :
Quando un guerriero alle trincee d’avantc
Venne a chiamarlo a guerreggiar di fuora.
Tace il suo nome il cavaliero, e ’l volto
Tien dentr’ all* elmo ascosamente accolto.
Del guerrler peregrin più d’nn a voce
La disfida ad Alceste in fretta porta.
Subito ei s’arma, e sul destrier veloce
! Viensene al vallo, e s’apre a lui la porta.
! E ben del petto intrepido, e feroce
L’alta virtù nel fier sembiante è scorta.
La lancia stringe, e si rassetta in sella.
Ma pria, clic muova, al cavallcr favella:
Quell’ Alceste son io, che tu richiedi
Teco a pugnar, nè la ragion dir vuoi ,
Ma se neghi a me questo, almcn concedi
Prima dirmi il tuo nome , e giostrar poi.
E ’l peregrino : Un cavalicr tu Tedi,
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91
LA CROCE CONQUISTATA.
Da cui questo» e non altro intender puoi ;
Ch’odio non ti pori’ io, ma tu nemico
Non bai maggiore , c nulla più ti dico.
Equi punti i dcstrier corronsi incontra ;
Cader la lancia , il peregrin si lassa ,
E ben vedesi a studio, Alceste incontra
A lui lo scudo , e lo divide , e passa.
Ma meglio assai clic non vorrìa gl’ incontra
Perchè spezzasi l’asta, e si fracassa
Di lui più molle, e più pietosa, c solo
Lo scontrato guerrier batte nel suolo.
Dismonta Alceste , e corre al vinto a
piede.
Per torgli Tarmi, e tratto a lui T elmetto ,
Stupido, ed adombrato Elisa vede,
Riconosce ben ei l'amato aspetto.
La sua donna gentil, che morta crede,
E pur viva mantiensi in mezzo al petto.
Fermo attonito ei resta, e in tutto immoto
Non ha voce , nè suon , senso , nè moto.
E ben morto saria, eh’ erranti, e sparte
Sue virtù dal piacer fuggian dal core ,
Se non eh' in dentro alla più nobil parte
Premcalc il duol del suo commesso errore :
Quindi errando la vita, or toma, or parte
Nel reflusso di morte, e pur non muore;
Potea solo il dolor, sola la gioia,
Nè pon fare amendue , eh’ Alceste muoia.
L'amorosa consorte in fronte il mira
E veggendo, ch’ei resta , c non l’offende ,
Tacito un favellar dagli occhi spira
Che solo chiama , c nessun’ altro intende.
Crudel , poi dice , or chè non empi l’ira,
Chi mi salva da te , chi mi difende ?
Nelle tue mani è pervenuta Elisa,
Sol per restar dalle tue mani uccisa.
Già so ben io eh' è tuo piacere, Alceste,
Non ti turbar, non ti dirò consorte ,
Chè nè moglie nè viva Elisa reste.
Nè vo’che ’I viver mio noia t’ apporle.
Morir vogl’io, ma spargi tu di queste
Mie vene il sangue, c dammi tu la morte.
Fallo; chè più tardar? saziati ornai,
E sappi sol eh’ io non t* offesi mai.
E se già per pietade or è ’l quart’ anno
Ch’ebbe il servo di me, morta non fui,
Non ti doler, chè, benché viva , ni’ hanno
Poi tenuta sepolta i boschi bui.
E vengo a te per rimorire : avranno
Questo nuovo contento i desir tui,
Chè in quanto a te morrò due volte, e fla
Con tuo doppio piacer la morte mia.
Pentito Alceste a quel parlar tremendo,
Qual filo d'alga in sulla riva al mare.
La rea cagion dell' error suo contando ,
Versa per gli occhi fuor lagrime amare ;
E d'amor vinto, e di dolor parlando
Spesso ammutisce, e nel silenzio appare
Quel che serra la lingua , c più rivela
La v ista in lui , che ’l suo tacer non cela.
Ma poi eh’ a pieno il fallir proprio aper-
Le preghiere condì col pianto amaro, [lo,
Amaro a lui, ma ’l prntir suo scoperto
D’ ogni nettare d’ Ibla a lei più caro.
L’amorosa obliando ogni demerto [ro,
Con un guardo il mirò tranquillo, e chia-
Chc dell’ intimo cor nunzio verace
Perdon li porge , e li promette pace.
GRAZIANE
IL CONQUISTO DI GRANATA.
Colombo racconta la sua prima navigazione.
I ndi sorge il Colombo , e altrui palesa
II suo lungo viaggio , c T alta Impresa :
Poiché gii ordini appresi, e poiché tolto
Dai cattolici regi ebbi commiato ,
In Palo io mi trattenni . ove raccolto
De le mie navi era lo stuolo armato.
Qui pria che il sole il luminoso vottp
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92 POEMI
Da le rive del Gange avesse alzato ,
Del inio partir nel destinato giorno
Mi apparve in sogno un gioianetto adorno.
Di raggi adorno c di purpurea leste
Scote dorate piume , e in lieto aspetto
Cosi parlando il giovane celeste
M’ empie d’ alta speranza il dubbio petto:
Scaccia , amico , i timori e le tempeste
Che sinor ti agitar coti vario affetto;
Non errò tuo pensler quando ha creduto
Di trovar nuovo mondo, e sconosciuto.
Quel corpo clic universo il i ulgo chiama,
E che P acqua c la terra in sè comprende,
Forma una sfera, a cui l'antica fama
Duo poli consegnò con cinque bende.
Finse alcun per frenar l'umana brama
Che il mondo quindi agghiaccia, e quinci
incende;
Onde sotto i duo poli , e 1’ Equatore ,
0 non vada, o non viva abitatore.
Ma falsa è tal sentenza, c falso è il grido
De la gelida zona e «le l'ardente:
Vuol La somma Bontà che in ogni lido
Sia fecondo il terreo , viva la «;onle.
Circonda da l'aurora II mare infido
11 globo universale a I* Occidente;
E nel mondo non è strana contrada.
Ove l' noni non alberghi , ove non vada.
Con vario corso il Lusitano ardilo
Già scoprì l’Oriente, e resta solo
Che verso l’Occidente a l'altro lito
Tu spieghi adesso il fortunato volo.
Così il globo terrcn sarà compito.
Cosi fìa palesato il nuovo polo :
Misura i gradi , c le distanze osserva ,
Vedrai, che terre immense il mar riserva.
De P atlantica terra ancor si ascolta
Un debil suono a la presente etadc ,
E che un tremoto avendo 1* acqua sciolta,
Fece mar divenir quelle contrade.
Dal cupo oblio fu la memoria tolta
Di quell’ estreme c procellose strade,
Che possono guidare ad altri regni
Sottoposti a l'Occaso i vostri legni.
Nel trigono de l'acqua è già congiunto
Con massima unlon Saturno c Giove ,
Ed in sito partii mostrano il punto.
Che mostra usanze ignote, e terre nove.
Forse al mondo lunar tanto disgiunto
Fiachc l’uomo il commercio un di ritrove:
Vuol Dio eh* ogni secreto, ogni arte, ogni
lu secoli diversi a P uoni si scopra, [opra
Lo spazio che finora è sconosciuto.
EROICI.
Fia pari di grandezza al vostro mondo :
Quivi di gemme e d’or largo tributo
Porge d’ampi tesori il suol fecoiido.
Vanne, lo son P angel tuo, che reco aiuto ;
Ncn temer l'empia Dite, c ’l mar profondo ;
Vanne , soffri , confida ; a la tua gloria
Nuovo mondo rimbombai nuova istoria.
Qui tacque, c sparve, e me lasciò ripieno
Di piacer, di speranza e di stupore :
Sorgo , c parlo ai compagni , e sprono d
Con stimoli di gloria a nuovo onore, ^scno
Spirano aure tranquille in cicl sereno.
Solcano il cupo mar P ardite prore :
Fuggc il lito di Spagna , e solo appare
li mar del ciclo, e '1 ciel confiti del mare.
Per l' immenso Ocean drizzano il corso
Le navi a la sinistra, e si penieue
A P isole Canarie, ove soccorso [vene.
Di fresche acque prcndiam da fresche
Quinci veggiam d’ uu allo scoglio il dorso.
Clic versa fiamme in su le trite arene
De l’arsa Tenarife, onde altri crede
CIP indi si cali a la tartarea sede.
De la vergine Astrea varcava il sole
Con Palata quadriga i primi segni,
Quand'io, lasciale le Canarie sole.
Presi il viaggio ai desiati regni.
Di quel vasto Ocean per l’ampia molo
‘ A l’acquisto fatai volano i legni;
E s'internano ognor le vele ardile
Fra Pignole voragini infinite.
Nullo aspetto di terra a noi rimane,
Occupa l’orizzonte o il cielo , o il mare;
D’orrida morte infra quell’ onde insane
Fiero teatro ai naviganti appare.
Mirano ad or ad or le plaghe ispane
Quanto remote più, tanto più care.
Gli smarriti compagni , e loro avanza
Di salute e d’onor poca speranza.
Dei gradi de la Vergine celeste
Entrò ne la Bilancia il sol cadente ,
Nè terra apparve, onde vie più moleste
Cure agitar la sbigottita gente.
Freme, c par che a fatica ella si arresta
Di sfogar coulra me P impeto ardente;
E già mi accusa il pubblico timore
De la morte comun perfido autore.
Io tento di frenar l'impeto insano
Con sensi vari, e con ragion diverse
E di ricco tesor con larga mano
Prometto i premj a tante prove avverse.
Mentre ognun sospirava, ecco lontano
Verde prato nel mare a noi si offerse :
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IL CONQUISTO
Gode ognuno a tal vista, e spera ognuno
Di fecondo terren lito opportuno.
Ma fatti più vicini appar che l’ erba
Svelta dal lito era dal niar portata ;
Onde Tassi maggior la pena acerba
Ne la timida gente addolorata.
Quindi freme , minaccia , e disacerba
Con mordace parlar la mente irata ;
E de le sue querele e del suo sdegno
Divenuto son io ludibrio e segno.
Ma già P inferno a danno mio prepara
Novelle insidie , c congiurati l venti
Da le tetre caverne escono a gara ,
E gonfiano del mar Tonde crescenti.
Già si offusca nel cicl l'aria più chiara.
Se non quanto risplende ai lampi ardenti ;
Fulmina e piove e già confonde il loco
L'orribile procella a l’acqua e al foco.
Guerreggiando col mar l'aria imper-
versa ,
Questa con un diluvio, e quei con I* onde ;
Turba l vari pensier cura diversa,
E T periglio commi tutti confonde.
Stillato in pioggie il cicl in mar si versa ,
Il mar coi flutti urta dei del le sponde;
Pane allor, che dai venti in aria alzate
Navigassero in del le navi alate.
Fra sì vari perigli, e in mezzo a quella
Fiera tempesta alzo la mente a Dio ,
E V imploro a frenar l’alta procella
Con umil voce , e cor devoto e pio.
Vidi allor fiammeggiar lucida stella,
Che Tonde abbonacciò, Paure addolcio;
E quasi in pegno di futura pace
Dal ciel cadde nel mare un’aurea face.
Credono i flutti a lo splendor celeste
Che ai venti procellosi impone il freno ,
E i turbini fuggendo, e le tempeste,
Lasciano il mar tranquillo, e ’l ciel sereno.
Ma clic? se foche immense, orche funeste
Sorgono contra noi dal cupo seno?
Balene e tiburoni , c ciò che serra
Proteo di mostruoso, a noi fa guerra.
Spezzano i remi, assalgono i nocchieri
Gli orridi mostri, e rodono le navi.
Ed urtano d'intorno ingordi c fieri
Il nodoso timon, P ancore gravi.
Panni ancor di veder Lurgo , c (linieri,
Che i legni risarcian dai colpi gravi ;
ÀI primo un tiburon tronca una mano ,
L'altro un’orca inghiottì ne P Oceano.
A sì rigidi assalti , a si diversa
Forma di guerra oguun paventa e geme ;
DI GRANATA. 03
Ma sol io con la mente a Dio conversa
Ne Pimaginc sua fondo mia speme.
Questa di sangue in dura croce aspersa.
Questa, che adora il del, l’inferno teme,
Questa alzata da me sovra quei mostri
Gli rispinge del inar nei bassi chiostri.
Fuggon le belve, e prende alcun ristoro
La gente afflitta , affaticata e stanca ;
Ma breve è tal conforto appo costoro ;
Tosto scema P ardir che gli rinfranca.
Manca il vigor, mancano i cibi a loro ,
Varia la calamita, e se non manca
Il noto polo, almeno pigra e tarda
Con dubbiose vicende incerta il guarda.
Allor fu che occupò P animo afflitto
Del popolo confuso alta paura :
Già siam noi senza forze e senza vitto,
Già ne sembra fuggir la Clnosura.
Dispera ognun ; sol io mi serbo invitto ,
Poiché Pangel di Dio mi rassicura;
Spero, vinti i disagj e le procelle.
Vincere i mari , c dominar le stelle.
Ma non sperano gli altri ; anzi ciascuno
Contra me volge P ire , c i detti arrota ;
Contra me fremon tutti , e vuole ognuno
Che lo sdegno di tutti in me percola.
Il timor di naufragio e di digiuno.
Di mar sì vasto in regione ignota.
Fa che a mìo scherno in minacciosi detti
Sfoghi il vulgo adirato i chiusi affetti.
Dunque, dicean, per saziar d’uom vano
Il mal fondato ambizioso instinto
Fra gli abissi del torbid’ Oceano
Ha da restare il popol nostro estinto?
Sotto incognito clima, in mar lontano
Il nocchier temerario ecco si è spìnto :
Or che farà famelico e confuso ,
Se del polo c del mar perduto ha l’uso?
Questi sono gli acquisti c le venture
Che al re promise ? E noi seguirlo ancora ?
E noi lasciam che nel suo imperio ei dure ?
Chi si perde per lui dunque l’onora?
Deb perisca P autor di lai sciagure;
Del suo popolo invece egli sol mora ;
Si sommerga nel mar, sé stesso incolpe ;
Nacque r dal mar, castighi il mar sue colpe.
Direm che nel mirar le stelle e i sego) ,
In cui si aggira il portator del giorno.
Incauto sdrucciolò nei salsi regni
Pria eh’ aita recasse alcun d’ intorno.
Quinci, salvi noi stessi, c salvi i legni,
A le rive natie farem ritorno :
Altro non resta in così estrema sorte ,
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94 POEMI
Clic comprar mille vite in una morte.
Con lai detti accendean fili animi audaci
A muover contra me l’armi rubelle :
10 pien d’alte speranze, e di vivaci
Grazie espongo me stesso a tai procelle.
Deh, gridai, qual furore , o miei seguaci ,
La prudenza e la fè dal cor vi svelle?
Qual nube di follia la meute oscura ?
Chi vi spinge, infelici, a tal congiura?
Quella fè, che a gli Ebrei da rozza cole
Acque vitali a gli arsi labbri aperse.
Quella fè, che del Sol fermò le rote,
E la vittoria a Giosuè scoperse;
Quella può voi condurre a terre ignote
Fra Tonde procellose e Paure avverse :
L’ancora de la fede immobil reste.
Nè si temano i mostri c le tempeste.
Se fussc la mia vita oggi bastante
A comprar tante vite, io da me stesso
Vorrei precipitarmi al mar sonante,
E farmi autor di prospero successo;
Ma chi sarà che regga voi fra tante
Varie procelle, ov’io rimanga oppresso?
Chi dei venti , del mar, del del ignoto
Conosce T influenze, i siti e ’1 moto?
Ma concedo che siano amici i venti ,
Tranquillo il mare, e che torniate in corte.
11 re non crederà gli strani eventi
Che fingeste fra voi de la mia morte.
Vorrà con le promesse , o coi tormenti
li vero penetrar de ia mia sorte ;
E punirà quel barbaro pensiero
Clie a me la vita , a lui scemò l’ impero.
Meglio fia dunque avventu rarsi a l’ onde,
Che provar del re nostro il certo sdegno;
Del paese fatai le care sponde
10 già scorgo vicine a più d'un segno.
Mirate quegli augelli , e quelle fronde
Colà vaganti entro l’ondoso regno :
Questo è certo argomento, c mai non erra,
Clic non lungi di qua sorge la terra.
E che terra? Ivi l’ostro. Ivi gl’incensi,
Ivi nascon gli amomi, ivi gli odori,
E difendono sol quei regni immensi
Pochi, timidi e inermi abitatori.
Vedrete come largo il cicl dispensi
Al felice paese ampi tesori :
11 mar di perle, I rivi e le maremme
llisplendono colà d’oro e di gemme.
A che dunque temer? Duriamo, amia ;
Me stesso a tanti rischj anch’io confido;
Ecco tranquillo il mar, i’aure felici;
Ecco vidn T avventuroso lido.
EROICI.
Venti contrari , e turbini nemici
Non ci ponno vietare il fatai nido.
Duriam ; non ha l’inferno, o la fortuna
Su la nostra virtù possanza alcuna»
Così tentai con provvidi consigli
Del lor cieco timor fermare il corso;
Ma la ragion confondono i perigli ,
E ricusa la fame ogni discorso.
Non appare argomento onde si pigli
Speranza di salute c di soccorso;
E ci stimola ognor senso importuno
Di vigilia, di sete e di digiuno.
Quando tale io mi vidi, a Dio mi volsi,
E in brevi detti i miei desiri esposi :
Signor, questi a la patria io primo tolsi ,
Ed immense ricchezze a lor proposi.
Io spirato da tc primo rivolsi
Queste lacere vele ai regni ascosi :
0 tu, signor, mi scopri il nuovo polo,
0 salva gli altri , e fa che mora io solo.
Dissi ; e quasi che siano i nostri affetti
Favoriti nel del dai re sovrano.
Tosto volar duo candidi augelietli
Su la mobile antenna a destra mano.
Questi sgorgando armoniosi detti [no;
Temprar con lieto augurio il duolo insa-
E predissero altrui, ch’indi non lunge
La terra, onde volaro, il mar disgiunge.
Preso da tale augurio alcun ristoro,
Vediam che rosseggiava il di cadente,
E che d’altri augcilelti allegro coro
Cantando raddolcia T afflitta mente.
Fermiamo il corso infìn clic i raggi d’oro
Spieghi per l’orizzonte il sol nascente;
E con animo vario attende ognuno
Che succeda la luce a l’aer bruno.
De la somma Bilancia il Sol correa
Del temperato segno inverso il fine,
E dopo otto carriere entrar dovea
Del lucido Scorpione entro il confine,
Allor che di Tilon la bella Dea
Le bramale scoprì terre vicine :
Vaga è la spiaggia, e i riguardanti invita
D’odoriferi fior l’erba vestita.
Di tenerezza e di piacer discese
A ciascun per le guancie un lieto pianto,
E ciascun con le palme al cicl distese
Di Galizia adorò l’ apostol santo.
Quinci rendono a me de l’ alte imprese
Con vario applauso il fortunato vanto :
Tutti accordano i delti a mio favore ,
Tutti accusano umili il lor timore.
Da varie parti in su T amena riva
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IL CONQUISTO
Concorse intanto il popolo straniero
Per osservar chi sia coliti che arriva ,
E qual sia la sua patria e ’l suo pensiero.
Pende al color de la matura oliva
De gl* inculti abitanti il volto nero :
Sono essi ignudi , ed agili e robusti
Hanno dai caldi raggi i corpi adusti.
Sovra lievi battelli andiamo al Ilio,
E su il caro terren giunti in breve ora,
Lagriinando di gioia intenerito
Ognun bacia la riva, e ’l cielo adora.
Con lieta pompa e con solenne rito
11 possesso reai prendesi allora ;
E ’l governo de l’ Indie a la mia cura
Conferma il vulgo, e fedeltà mi giura.
Seguendo gli abitanti il chiaro esempio,
A l’ispanico re giurano omaggio :
10 dopo alzo una croce, e fondo un tempio
A memoria immortal del gran passaggio.
Quivi rendo le grazie, e i voti adempio
Del nuovo mondo, e del fatai viaggio :
Concorrou gl' Indiani , e mansueti
Osservano di Dio gii alti secreti.
Lungo sana, s’io raccontar volessi
Di quei regni idolatri ogni costume :
Basta saper, che in breve a lor porgessi
De la fede cristiana ii vero lume.
E sol breve dirò, drivi scorgessi
D'oro folgoreggiar gonfìo ogni fiume;
E clic nei monti , preziosi c fini
1 diamanti lampeggino e i rubini.
L’aria è salubre, e temperato il sole.
Misto al florido aprii ride il settembre.
Onde i pomi congiunti a le viole
Primavera d'autunno altrui rasserabre.
Donne sincere in semplici carole
Mostrano senza colpa igmide nieinbre ;
11 vizio non alberga in mente pura,
A cui norma di legge è la natura.
Producono le piante amomi c incensi ,
DI GRANATA. OS
Nutre porpore e perle il ricco mare,
Con fortunata messe i campi immensi
Danno miniere preziose c rare.
Par che prodigo quivi il ciel dispensi
Ciò che scarso e diviso altrove appare;
Con felice stagion la terra serba
Vaghi i fior, dolci i frutti , e verde l' erba.
Mentre io godea di quel paese ameno
Le delizie e i tesori, arriva al lilo
Gente armata di frrccie e di vencno.
Che move in guerra esercito influito.
Senza fò , senza legge e senza freno
Corre a libere prede il vulgo ardilo;
Sono delti Caribi , e ai loro insulLi
Lasciano gl’ìndi imbelli i campi Inolili.
Contra costoro a sollevar gli oppressi
Impugnai l’armi in generai conflitto;
Ruppi l’orgoglio, e l’ impeto repressi,
K tolsi al giogo indegno il vulgo afflitto.
10 primo dei Caribi il duce oppressi
Con duo ferite in mezzo al sen trafitto;
Mossa la gente mia da tale esempio
Fe’ del barbaro stuolo orrido scempio.
Vinti appena i Caribi , accese i cori
De gl’indiani ai nostri danni AlcttO;
Onde per rintuzzare i lor furori
Fui di pugnar, d’ incrudelir costretto.
S’inchinarono umili i perditori ,
E per legge accettaro ogni mio detto;
E fu mio vanto in sì remota sede
Stabilire il battesmo , alzar la fede.
A la riva del inar poco lontana
D’alta rocca fondai poscia le mura,
E con altri lasciai Diego d’ Arana ,
Che del loco difeso abbia la cura.
Quinci scorsa la terra, a cui d’ Ispana
11 titolo preposi c la ventura.
Io risolvo portar del memorando
Successo i primi avvisi al gran Ferrando.
CANTO VIGESIMOQUINTO.
Parlata di Fernando agii Spagnuoli e di Alimoro ai Mori
Già di belliche trombe il suono altiero
Chiama dal mar la sonnacchiosa Aurora,
Che presaga del di sanguigno e fiero,
D’un torbido vermiglio 11 ciel colora.
Sorge nel fcdel campo il re primiero,
E lieto in volto 1 popoli rincora ;
Indi gli schiera, e con mirabile arte
Divide 1 siti , c gii ordini comparte.
Con sembianza di luna In doppio corno
Il saggio re l’esercito dispose :
Egli il mezzo ritenne, c parte intorno
Col duca di Sidonia a destra pose.
Stese parte a sinistra «al mezzogiorno,
E ’l duca d’ Alva a cura lor prepose :
Stettcr distinti In debiti intervalli
A difesa comun fanti e cavalli.
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96 POEMI
Fremeano i (Catalani, c quei che manda
La fertile Sicilia al destro lato ,
Quei che Maiorca e Andaluzia comanda.
Quei che il freddo A ragone avean lasciato ;
Ma si vedea ne la sinistra banda
Di Cordova c Valenza il vulgo armato :
Quei di Leon, d’Àsturia, eque! che a prova
Con Murcia alpestre invia (bastiglia Nova.
Nel mezzo intorno al re viene il restante
Del campo invitto, ed ei medesmo è duce,
E con augusto intrepido sembiante
Sovra un baio corsier d’ostro riluce.
Fra i piti grandi lo siegucErnando avante,
Seco al pari Darassa il re conduce ;
Poi dice ad Allabruno : ove la selva
Copre il fianco nemico, i tuoi rinselva.
Quando Ha poscia il gran conflitto acce-
Tu del campo africano urta le spalle, [so,
Ond'egli ria con maggior danno offeso,
E di sangue nemico empi la valle.
Te di tale opra esecutore ho preso.
Che puoi della vittoria aprire il calle :
Cosa nuova da te non si richiede.
Ma l’usato valor, l’usata fede.
Andrò nel bosco, il ravalicr rispose,
Per insolite vie come ti aggrada ,
E dove più saran Tarmi dannose,
A la vittoria io li aprirò la strada.
Ben è ragion che tu T usate cose
Ti prometta, o signor, da la mia spada :
Mi fla legge fatale il tuo comando :
Vivrò vincendo, o morirò pugnando.
Tacque, c di sua fortuna i duri eventi
Troppo veri augurò con questi detti :
Indi i suoi di rapine e d’ ira ardenti
Entro al bosco vicln guida ristretti.
Trascorre il re veloce, c a Taltre genti
Propon di nuove glorie usali effetti ;
E magnanimo parla in tal maniera
A l’esercito suo di schiera in schiera :
Se non fossero a rne per tante prove
Note T opere vostre, o miei soldati.
Forse in voi tenterei con arti nove
Seminar di virtù sensi onorati.
Direi che le vittorie e i premj altrove
Sospirati da voi sono adunali
In questo giorno appunto, c in questo loco,
Dove immenso 11 guadagno, e ’1 rischio è
poco.
Direi che in quelle schiere ed In quel
È riposta dei Mori ogni speranza ; [duce
Onde , se il valor prisco in voi riluce.
Vinti costor, non altro intoppo avanza.
EROICI.
Direi che quella turba in guerra adduce
Priva d’armi, d’ardire e d’ordinanza.
Non rispetto d’onor, legge di fede.
Ma con tema servii brama di prede.
Direi eh* audace si, ma non esperto
D’arti guerriere il capitan garzone
Forse nei boschi d’orrido deserto
Con le belve africane ebbe tenzone.
Ma Tonor di tal opra e di tal merto
Diasi a privato awcnturier campione;
D’altra lode si vanta, e d’altra legge
Chi gli eserciti aduna, e chi gii regge.
Dirci più chiaro, e vi porrei davante
De la perdita il danno, e più lo scorno.
La patria lagrhnosa e supplicante,
I.’ afflitte mogli, e i mesti figli intorno,
lo vi direi che tante ingiurie e tante
O vendicar dovete in questo giorno,
O che avete a patir miseri servi
Del Moro vincitor gli odj protervi, [glio
Ma ciò tralascio, e rammentar non vo-
Quanto acerbo saria mirar da gli empj
Con grave sì , ma inutile cordoglio
Violati i sepolcri , ed arsi i tempj.
Pensate di veder barbaro orgoglio
Far de 1 teneri figli orridi scempj ;
Pensate di veder, che prigioniere
Servono a sozzo amor le donne ibcre.
Tutto lascio da parte, c non ritardo
Con le parole mie le vostre prove ,
Nò propongo, o miei fidi, altro riguardo
A la virtù già conosciuta altrove.
50 che voi non temete il suon bugiardo
Di linguaggio slranier, di genti nove;
Tirchi, Egizi, Etiopi ed Indiani
Sono vani romori , e nomi vani.
Quante volte da noi vinti restaro
In varie guerre i Saracini c i Mori,
Da cui per vanto, c per trofeo più chiaro
Questa gente deriva i suoi maggiori?
Con tra il ferro cristian dehil riparo
Son di cuoio e di lin rozzi lavori :
Durate voi , che in una breve pugna
51 vince il campo, e la città si espugna.
Così poi goderà dopo mille anni
Intiera libertà T afflitto regno,
E del vostro valor, dei vostri affanni
Nobil frutto sarà fatto sì degno. [ni
Mache più? Tonor vostro, e gli altrui dan-
lo preveggo distinti a più d’un segno :
Son vosco, ma per me nulla desio;
Le prede a voi , serbo le glorie a Dio.
Disse , e tonò da la sinistra il cielo ,
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IL CONQUISTO
Un baleno indorò con l'aria il campo ,
E dei suoi detti accompagnando il zelo
A ia nuora battaglia accese il campo.
Cinto Michel di luminoso volo
Fu l' autor di quel tuono, e di quel lampo :
Dei Cristiani a favor schierò quel segno
(Cosi crede pietà) l’empireo regno.
Da l’altra parte il giovine Alimoro
Con forma cgual l’esercito dispose :
Per sè tenne nel mezzo il popol moro ,
Gli Egizi , e quel di Barca a destra pose.
Collocò da sinistra incontro a loro
I Neri , e gii Etiopi , indi prepose
II circasso Orcomanne al destro lato ;
Da Termute il sinistro era guidato.
Chiama poscia i Numidi e i Trogloditi,
Esperti sagittari, e loro impone
Che precorrano ognun lievi e spediti ,
E dian principio a la crudel tenzone.
Con presidio opportun lascia muniti
Gli steccati , e gl'infermi ivi ripone,
E gl’ inutili a l’armi : in colai guisa
La gente saracina era divisa.
Schierato il campo, il giovine africano
Scorrendo va sopra un destrier feroce
Di pel morello , e di tre piè balzano ,
E col guardo favella , c con la voce :
Non varcaste l’Atlante, e l’Oceano,
E de l’erculeo mar l’orrida foce,
Guerrieri miei, perchè arrivali in Spagna
Voi perdeste , e fuggiste a la campagna.
So che dal patrio lido aura d’ onore
VI spinse a liberar gli oppressi amici j
E so che voi col solito valore
N’anUrete a soggiogar gli empj nemici.
Dunque inutil sarà che al vostro core
DI GRANATA. 9T
Io procuri accostar caldi artifici
Per infiammarvi a quella pugna istcssa
Chevoi tanto bramaste, e che si appressa.
Sol dirò che in breve ora èqui ristretta
Libertà, servitù, vergogna, e gloria,
E che quinci da voi PAfric’ aspetta
0 di biasmo, o di lode alta memoria.
Se vincete, lo vedrò tosto soggetta
I.a Spagna riverir la mia vittoria ;
Granata goderà gli antichi onori ,
E saran vostre prede ampi tesori.
Nè vi rechi, o soldati , alcun spavento
0 Ferrando,* l’esercito cristiano; fto.
Poiché alfine il lor grido è un fumo, un ven-
Che sparisce vicino , c appar lontano.
Quel titolo di Grande è un ornamento,
Che dona un re sagace a un popol van«,
Che non sa de la guerra i duri modi ,
Ma fra i lussi di corte usa le frodi.
Vinse talor, noi niego, e di ciò fanno
Questi campi distrutti aperta fede ;
Ma fu de l’ onor suo , del nostro danno
La discordia dei Mori unica sede.
Or non vagliono più l’arte c l’ inganno;
Sofferenza c valor l’ opra richiede :
A noi dunque farà breve contrasto
Di gente ambiziosa inutil fasto.
Su, a l’armi su, voi non sperate aitron-
Chè vincere, o morire oggi conviene ; [de ;
Del procelloso mar le torbide onde
Tolgono di fuggir l’ ultima spene.
0 drizzate i trofei su queste sponde ,
0 morite , o vivete a le catene.
Ma del vostro valor perchè diffido 1
Noi vinccrem, voi seguitate, io guido.
&
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POEMI SACRI
TORQUATO TASSO.
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
GIORNATA PRIMA.
Nell» quale Dio creò il Croio , U Terre, e la Luce, e la distinse dalle tenebre.
Padre del cielo , e tu del Padre eterno
Eterno Figlio , c non creata prole .
Dell’ lmmulabil mente unico parto;
Divina iminago, al tuo divino esempio
Egual ; e lume pur di lume ardente :
E tu, che d’aml>o spiri, e d'ambo splendi,
O di gemina luce acceso Spirto ,
Che se’ pur sacro lume , e sacra fiamma ,
Quasi lucido rivo in chiaro fonte ,
E vera immago ancor di vera iminago ,
In cui sè stesso ’1 primo rscmpioaggu iglia
(Sedircontiensi).c triplicato Sole, [stri;
Clic Palme accendi, c i puri ingegni i 1 In-
sani o don, santo messo, c santo nodo,
Che tre sante persone in un congiungi ;
Dio non solingo, in cui s'aduna ’l tutto,
Che ’n varie parti poi si scema e sparge :
Termine d’infinito, alto consiglio,
E dell'ordine suo; divino Amore,
Tu dal Padre, c dal Figlio in me discendi,
E nel mio core alberga ; e quinci c quindi
Porta le grazie, e ’nspira i sensi c i carmi,
Perch'io canti quel primo alto lavoro,
Ch’fc da voi fatto, c fuor di voi risplcndc
Maraviglioso, c '1 magistero adorno
Di questo allor da voi creato mondo ,
Jn sci giorni distinto. 0 tu l’ insegni, [so,
Cbc’n un sol punto chiudi 1 spazj.c’lcor-
Che per oblique vie sempre rotando
Con mille girl fa veloce il tempo.
Piacciati ancor clic del tuo foco all' aura
Canti ’l settimo di, soave e dolce
Riposo eterno, in cui prometti, e rendi
Non pur sedi lucenti, e gioia e festa.
Ma di breve, terrena, incerta guerra
Alfin certe lassù corone e palme,
E trionfo celeste. 0 pure intanto
Questa quiete, in cui m'attempo, e piango
(Se quiete è quaggiù fra '1 pianto c l’ira)
Somigli quella, a cui n’invita e chiama
D'iiifallibil promessa alta speranza.
Ch’ai suon d'eterna gloria ’l cor lusinga.
Tu le cagioni a me del nuovo mondo
Rammenta ornai , prima cagione eterna
Delle cose create innanzi al giro
De’ secoli volubili e correnti.
E qual pria mosse Te, cui nulla move,
Motor superno, alla mirabil opra.
Già novissima esterna, ornai vetusta, [bo ;
Che lutto aduna e tutto accoglie ’n grem-
E serba ancor le prime antiche leggi ,
Mentre risplcnde pur di luce c d’oro
E di vari colori e varie forme
Mirabilmente figurata a’ sensi.
Dimmi, qual opra allora, oqual riposo
Fosse nella divina e sacra mente
In quel d'eternità felice stato.
E ’n qual ignota parte, e ’n quale idea
Era l'esempio tuo, celeste Fabbro,
Quando facesti a te la reggia e ’l tempio.
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LE SETTE GIORNATE
Tu, che ’l sai, tu ’l rivela: e chiare e conte,
Signor, per me fa’ l’opre, I modi e Parti.
Signor, tu se’ la mano. Io son la cetra ,
La qual mossa da te , con dolci tempre
Di soave armonia risuona , e molce
D'adamantino smalto 1 duri affetti.
Signor, tu se’ lo spirto , lo roca tromba
Son per me stesso alla tua gloria ; e langue.
Se non m’ Inspiri tu , la voce e ’l suono
Tu le tue maraviglie In me rimbomba.
Signore : e Ila tua grazia ’l nuovo canto :
Perchè non pur s’ ascolti In riva al Tebro,
Al bel Sebeto, all* Arno, al re de* fiumi ,
Al Mincio, al Brembo, al Rcn gelato, all’ I-
Ma dove ’l Nilo i suo’ vicini assorda, [stro,
E quei che fa più sordi errore e colpa ,
Desta per tempo , o tardi a’ sacri accenti.
Pria che facesse Dio la terra e ’l cielo,
Non eran molti Del , nè molti regi
Discordi al fabbricar del nuovo mondo.
Nè solitario in un silenzio eterno
In tenebre viveasi ’l sommo Padre-
Ma col suo Figlio e col divino Spirto
In sè medesmo avea la sede e ’l regno;
De’ suo’ pensati mondi alto Monarca.
Perch’opra fu ’I pcnsicr divina, interna,
Nè d'uopo a lui facean le schiere e l’armi,
Nè teatro alla gloria, in cui rlsplende
Solo a sè stesso , e parte altrui s' Involve.
Ma narrarnon si può, nè ’n spazio angusto
Cape dell' Intelletto umano c tardo,
Come ’n sè stesso, e di sè stesso ’l Verbo
Generasse ab eterno ; c ’l sacro modo
Di sua progenie; e l’ineffabll parto
Del suo Figliuol , clic ’n maestà sublime
A sè medesmo adegua assiso a destra.
Taccia l’amica ornai Grecia bugiarda
La progenie di Celo e di Saturno,
E de’ cacciati Del le tronche parti ;
E i Giganti c 1 Titani al fondo avvinti
Della tartarea, tenebrosa notte;
E gli usurpati seggi , c ’l figlio ingiusto
Contaminato dal paterno oltraggio;
E quella , che dal capo el fuor produsse ,
Dea favolosa, e collo scudo e l’asta;
E con Osirl c col latrante Anubl
Taccia i suo' mostri 11 tenebroso Egitto,
Che d'antiche menzogne ’l vero adombra.
0 (se n’è degno) il chiaro suono ascolti
Di lei, ch'uscio dalla divina bocca
Dell'altissimo Padre innanzi ai tempo
Delle cose creale , e seco alberga
D’ antica eternità gli eccelsi monti ,
DEL MONDO CREATO. 99
Primogenita sua nell'alta luce,
A cui la mente umana aspira indarno.
Onesta nata di lui figliuola eterna
Sempre fu seco, e ’l raggirar de' lustri
Non l'è vicino, o ’l variar degli anni.
E non erano ancor gli oscuri abissi ,
Nè rotto avean la terra i primi fonti ,
Quando fu conccputa; e l'erto giogo
Non alzavano ancor Pirene ed Alpe,
Ossa, Pello ed Olimpo e ’l duro Atlante
0 gli altri monti ; e dall' aperto fianco
Non correan ondeggiando al mar i fiumi
Dalle quattro del mondo avverse parti ,
Quando lei partoriva ’l sommo Padre.
Seco era allor eh’ a’ ciechi abissi intorno
Egli facea l’oscuro cerchio e T vallo;
Seco era allor che ’n elei le stelle affisse,
K ('acque sue librando appese in alto;
Seco era allor ch’ali’ Ocean profondo
Termine pose , e diè sue leggi all’ onde.
E quand’ei collocò dell’ampia terra
1 fondamenti , era pur seco all' opre.
Seco ’l tutto fornio di giorno in giorno.
Quasi scherzando ; e fu l’oprar diletto.
Ma questa fatt'avea l’aurato albergo
Di chiare stelle e d’ oro adorno e sparso,
Alla creata Sapienza , e ’n parte
Lei dell'eternità felice e lieta.
Ma quell'albergo in disusate tempre
Per sua natura si trasmuta e cangia ;
h nel suo variar già quasi algente
Pur diverrebbe ottenebrato in parte;
E qtial caduca e ruinosa mole
' aclllar già potria; però s’appressa,
E giunge a lui che gli è sostegno, e ’l folce,
E tutto del su’amor l’illustra e ’nfiamma,
Talché non si dissolve e non paventa
Morte , o mina mai , nè caso , o crollo
Per vicenda di tempo, o per rivolta :
Benché pur d’IssTon la ruota , e il pondo
Del Mauri tano stanco altri racconti, (na
Ma ’n lui s’acqueta , e ’n contemplar s’eter*
La celeste magion, che ’n sè n'accoglie.
E quella da principio , a Dio presente ,
Pria ch’el facesse ’l suo lavoro adorno,
Seco era nel principio aliorch’ci volle
formar co' detti le mirabil opre.
É buono Dio , tranquillo e chiaro fonte.
Anzi mar di bontà profondo e largo,
Che per invidia non si scema , o turba :
Ma quel eh' è buono c ’n sè perfetto ap-
pieno,
La sua bonlate altrui comparlc , e versa.
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100 POEMI
Dunque ei di sua bontà fecondo e colmo,
La sparge, quasi un mar che ronde spar-
ga ;
La spiegò come un Sol che spiega 1 raggi :
E volere e natura In un congiunse.
E quinci fur quasi germogli o parti ,
Le cose poi creale, in cui si scorge
Più c men chiaramente; e dall’ eccelse
Insin all’ ime ancor riluce e splende.
E ’n tutte ’l Creatore alto vestigio
Dì lei c’impresse, c lìgurolle a dentro.
Ma della sua bontà la vera immago
In altre appare , c con sembianza illustre
Son degne d’innalzare al ciel la fronte.
Di sua divinità parte mostrando.
Anzi non è si vii di pregio, o ’n vista
Cosa fra le create , o si lontana
Dalle pure del ciel lucenti forme
Per faticosa via non move , o serpe ;
0 non s’ appiglia ’n terra, o ’n dura pietra,
Che bagni ’l mar, non si ritrova affissa ;
0 non giace in palude, o ’n ima valle,
In cui non si ritrovi , e non si mostri
Mirabil arte del suo Mastro eterno ,
Che fc’ di nulla ’l magistero c l’opre.
Questa fu l’ una del creato mondo
Alta cagion, ch'l vari effetti adempie
Di sè medesma, ed infinita avanza.
E non mai de’ suo* doni avara c parca ,
Sua largità comparto. A questa arroge
La gloria sua, che star non deve occulta.
Ma come in ciel fra gli stellanti chiostri ,
In quel sacro al suo nome, eterno tempio,
È chi l’ adori , e con perpetuo suono
D’alta voce immortale il lodi, e canti :
Sicché degli onor suoi lieto rimbomba
L’Orto c l’Occaso, l’Aquilone c l’Austro;
E dell’ eternità gli anticld monti
Risuonan tutti all'armonia superna;
Cosi deve quaggiuso aver la terra
Adoratori , c chi ’n sonoro carme
Sacrificio di laude a Dio consacri :
Perchè quanto adempiè superna ed alta
Bontà divina, ancor sua gloria adempia,
E colmi il tutto, c co’ suo' raggi illustri
Per le parti di mezzo c per l’ estreme.
Già di quel eh’ ab eterno in sè prescrisse
Dio, di’ è senza principio e senza fine,
Era giunto ’l principio c giunto ’l tempo
Col principio del tempo. E qual di gorgo,
0 di pelago pur tranquillo ed alto,
Chcsenza'lmotoel’ onde, e posi e stagni,
Esce talvolta ’l rapido torrente :
SACRI.
Tal dall’ eternità , che ’n sè raccolta
Si gira, e di sè stessa è sfera e centro.
Ornai prendeva ’l tempo ’l molo, c’i corso,
Quando ’l suo Creator lo spazio al passo,
E la misura diè , lo stato eterno.
Gl’ invisibili oggetti appena intesi,
(Se lece dir a> ariti) erano acanti.
E l’origin degli altri esposti a’ sensi,
Già cominciava alior, che ’l sommo Padre,
Che ’l suo Figlio c ’l suo Spirto all’ opre
esterne
E comuni fra Ior, non lascia addietro.
Diè ’l pensato principio al nuovo mondo,
Più d’ogni creatura antico e prisco.
Il sommo crei creando, e l’ima terra.
Ma come di sublime c chiaro albergo,
Glie pareggi le cime agli erti colli ;
E gli aurei tetti infra le nubi asconda;
li principio, che ’n lui si loca e fonda.
Non è l’ albergo ancora : c ’n calle obliquo
Non è ’l principio suo l’istesso calle :
Così lo stabil punto , onde si volge [po,
li tempo in sè non è ’l suo spazio o T torn-
eile parte dal principio, e ’n lui ritorna.
Dio fece nel principio ’l cerchio estremo,
E quella, eh’ a noi par costante e salda
Sede , pur fece in mezzo all'ampio giro;
Nè fu del suo poter, che sia disgiunto
Dell’eterno volere , ombrato effetto ,
Come lalor del corpo opaco, e denso [gio;
È l’ombra, e del lucente ’l lume e ’l rag-
E ’l voler fu potere ed opra eletta.
Ma siccome di creta in Lesbo, o ’n Samo
Mille vasi compone, e ’n mille guise
Il suo buon mastro li colora e pinge ;
Nè consuma ’l poter coll’arte insieme.
L’arte infinita, onde pon fine all’ opre :
Cosi del mondo il Fabbro eguale a un
mondo
Non ha la possa, che soverchia ’l tutto,
E mille mondi e l’infinito eccede.
Quel che ne’ vari e smisurati campi.
In cui trovar non lece il sommo, o l’imo,
Nè ’l manco ivi segnar, nè ’l lato destro;
Dal vago incontro di minuti corpi
Commossi a caso, e ’n lungo error volanti,
Simili a quei eh’ ove risplcnde ’l Sole,
Talor veggiamo in varia turba c mista,
Fa vari mondi , e li riforma c guasta,
E di sito diversi e di figura :
Meutr’ egli insieme gii congiunge, o parte,
Tela forma d’Aracnc, e fral contesto.
Che leggermente poi disperde, o solve
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tot
LE SETTE GIORNATE
Della fortuna errante ’l solilo c l'aura,
0 'I dubbio respirar del corso Incerto.
Ma queste (se dir lece) alte colonne [già,
Forma in ben salda base, c ’n lor s’ appog-
Come a lui piace , la profonda terra ;
E crollar non la può tempesta, o turilo,
Ma solo II suo voler la move e scuote.
Il suo voler, che d'infiniti abissi
Ha tenebrose, oscure, alle latebre,
In cui s’ aperti avesse i ciechi lumi
Quel , eh’ 1 termini tolse al vasto mondo ,
Le fiammeggianti mura a terra sparse,
E ’l vano immenso col pensier trascorse,
Non avria dato a Dea fallace ed orba
Della terra c del del lo scettro e '1 regno.
Folle! clic non conobbe ’l modo e l’arte,
Per cui creato è ’l mondo, al primo esem-
Chc '] divin Architetto in sè dipinse [pio,
Maggior dell' opraassai, che poscia offerse
Quasi da contemplare oggetto al sensi.
Ma qual mastro terren scolpisce c forma
Di preziosa gemma In giro angusto
Il ciclo e I suo’ lucenti e vaghi segni ;
Tal 11 Fabbro immortale In queste im-
Sparse di varie luci erranti sfere [presse
L’ interna idea , cui non è pari il mondo :
E da lei stanca è la materia , e perde ,
La qual creata fu dal primo Mastro ,
Che fece l'opra, e non eletta altronde,
Ch’ altra origine a lei si cerca indarno.
Ella al suo Creator si volge , c veste
Vaga di sua beliate : e ’n rozzo grembo
Mille forme colora ; e in mille lumi
Della sua luce in varie guise accende.
Chi pone 1 due principj , c ’l doppio fonte ;
E quinci 1 beni sol deriva, quindi
Origina di mali ampi torrenti ;
0 divide l'imperio, o ’n due l’adegua
E di tenebre un Dio si finge , ed orna ,
E fa di sua malizia a lui corona.
E se ciò fosse, in contrastar rubella
I.a materia sarebbe, o schiva, o tarda
Si mostreria sotto ’1 contrario manto
A quel che la’nvaghì pur dianzi e piacque.
Ma noi veggiam eh’ ella bramosa e pronta
Le forme accoglie, e le trasmuta e varia ,
Come piace a colui che si l’ adorna.
Forse nelle più belle è più costante ;
Ed in guisa di lor sue brame adempie,
Che spogliar sen ricusa, anzi che ’l mondo
Ruinoso vacilli ; e ’l corso obliquo
Cessi del Sole e dell’ erranti stelle.
Ma sia pur questa in elei materia, od altra
DEL MONDO CREATO.
D'altra ragion : d’eternità superba
La materia non vada , e non s’agguagli
Per antica vecchiezza e veneranda
A quel degli altri, e suo vetusto Padre,
E vetusto Signore e Dio vetusto.
Dunque lo Spirto suo non poscia, od ante,
Ma colle forme la creò spirando,
E di bellezza e di bontà divina
Spirollc al seno un desiderio interno.
Un vago istinto, anzi un leggiadro amore,
Ch’alia natia diti fine orrida guerra,
Per cui ritrosa, fella c ribellante
Era a sè stessa , in suo furor discorde ;
Se dir si può che mai la terra al foco
Fosse confusa In quella orribil mischia.
Nè foco era, nè terra, e l’aria e Fonde
SI distruggean nelle contrarie tempre.
E ciascuna di lor nel dubbio acquisto
Se medesma perdeva , e fiera morte
Era la sua vittoria, e l’imo al sommo
Male adegualo, e mal confuso appresso.
Onde quella incomposta e rozza mole
Nè tutto era, nè nulla, c nulla parve
Fu questa forse immaginata guerra ,
E d' altra guerra pur immago ed ombra ,
E simulacro di tenzon maligna ,
Che fe’ natura al suo Fattore avversa.
Ma l' alto Dio creò quasi repente
La materia c le forme. E qual sia prima
Oquesta,o quelle, io non mi glorio e vanto
Già di provare in periglioso arringo ,
Dall'accademia uscito c dal liceo.
Sla pur l’arte divina è prima , c vince
L' altre per dignitalc, c vince ’l tempo.
Ma l'arte umana pargoleggia, c sembra
Negli scherzi fanciulla all’ opre intorno.
Prima vestia le mansuete agnelle
La bianca lana; c poi la tesse, c Unge
11 buon testorc, e ’n rugiadosa conca
Porpora coglie pur Sidone e Tiro,
Quasi marini fiori. E l'alto pino
Pria con acute foglie in verdi monti
Frondeggia, o pur l'abete, o l’orno, o ’l
Poscia F arte ne fa le navi e l’ aste, [cerro ;
Prima nell’ampio sen la terra avara [ma
Nasconde ’l ferro, e quinci ’l tragge, e for-
L' industria umana o spada, o lucid' elmo,
Od innocente a’ duri campi aratro.
Ma quella innanzi al tempo, e innanzi al
Arte divina fe’ la terra e ’l cielo, [mondo
Ed intiero ciascun , nè parte addietro
Lasciò ; ma riempi gli estremi e ’l mezzo.
E ’n lor dispose ’l foco e l’ aria e l’ onda ,
102 POEMI
Ch'alia terra, gravosa c ferma sede.
Stese le braccia mormorando intorno,
Vaga , lnstabil , ma grave ; e ’n giro cinta
Fu dall' aria più vaga c più leggiera.
E levissimo '1 foco a lei corona
Fece , e vicino al del suo loco scelse.
Cosi l’ arte divina insieme avvinse,
Quasi catena inanellata c salda.
Gli elementi fra lor vari c discordi,
E fra gli estremi per natura avversi
Pose in parte contrari , in parte amici ,
In due di mezzo : e fe' costante c fermo
In qnesta guisa , e ’ndissoltibil nodo.
Invisibile ancor la nuda terra
Era dianzi creata , e non adorna ,
Quasi nuovo teatro , e voto I seggi ,
In cui non sla chi miri , o pur contenda :
Chi nati ancora 1 miseri mortali
Non erano a vederla , c vasta ed erma
Solitudine incuba i campi, e 1 monti
Empica d’ orrore , e le deserte arene ,
Non spiegavano ancor l' ombrose chiome
Gli alltcri eccelsi ; e di lor fronde ed ombra
Non facean vaga scena a' verdi colli.
Non fiorivano ancor rose e ligustri ;
E 1 giacinti e i narcisi c gli altri fiorì
Non diplngeano 'I seno a prati erbosi ,
Ni fean lieta ghirlanda a’ chiari fonti.
Era quasi coperta ancor dall’ acque ;
Chi parca tenebroso c fosco 'I velo ,
Ond' ascosa tcnea l’ orrida faccia
E le squallide membra e '1 rozzo grembo,
Quasi attonita ancor l’ antica madre.
ET del sublime ancor non era adorno;
Ni ’l miratili lavoro in lui distinto
Splcndea d’ un bel sereno e d’aurei fregj,
E di segni lucenti. E 'I Sol rotando
Non scuotca l’immortale ardente lampa.
Nè la candida Luna in colmo giro
Gli si opponeva , o con argentee corna
Per distorto cammin volgeva ’l corso.
Mancavan le carole e ’l suono c 1 cori ,
E delle stelle fisse c dell' erranti;
Lui non clngeano ancor l’altc corone;
Ni creata era ancor la vaga luce.
Ma sulla faccia degli oscuri abissi
Eran tenebre oscure. In tale aspetto
Nascendo ancor non si vedeva ’l mondo.
Ma qual fur (se spiarlo a noi conviene)
Quelle tenebre antiche e quegli abissi ?
Quando non anco il Sole ad altre genti
Portando T giorno : a noi la notte e l'ombra
Algente , usda dal grembo opaco e denso
SACRI.
Della terra , e giungeva insln al delo ?
Ni gli molte potenze incontra opposte
Gli abissi fur, com' altri estima a torto :
Ni le tenebre furo al bene avverse ,
E di gran forza potesti maligna.
Perchè se fosse pari al bene il male
Di possa c dì valor, perpetua guerra
Saria fra loro, anzi perpetua morte.
Morendo ’nsieme i vincitori e i vinti.
Ma se T ben di potere avanza e vìnce ,
Perchè non si distrugge ’i male, e sterpa?
Deh ! sari mai che senza mali il mondo
Solo di beni abbondi? e parte, o loco
Più non sì lasci all'Importuna Morte?
Ma trionfi la Vita , c Morte ancida
Nella vittoria? e dell'antica fraude
Nou rimanga fra noi vestigio , od orma ?
Or non ardisca ingiuriosa lingua ,
Che si rivolge in Dio, profana e lorda,
E le bestemmie in lui saetta c vibra ,
Non ardisca affermar che T mal derivi
Generalo da lui, eh' i largo fonte
Ond' ogni bene a noi si sparge e spande.
Perché niuu contrario (ornai distingui
Si genera dall' altro , o si produce.
Benché se cade l’ mio iu terra estinto,
Pur l'altro dopo lui risorge c vive,
E dai simile anzi i prodotto , e nasco
11 suo simil , come dal foco il foco.
Ma dalla chiara luce indarno uom tenta
Dar principio alle tenebre maligne ;
E dalla morte originar la vita ,
0 pur da' morbi la salute agli egri
E miseri mortali. Or non c'inganni
Falsa di verità sembianza e larva.
Non i natura T mal , non vera essenza :
Ni di lui ricercar lontane parti ;
Ni pur d'intorno a te riguarda, o fuori,
Come sia cosa in si fondata , c salda ;
Ma ’n tc stesso 'I ritrova, e’n mezzo all’alma
Rimira lui , pur quasi macchia , od ombra
Di volontaria colpa , c di gradita.
A tc medesmo sai perpetuo fabbro
De' propri mali , e li colori ed orni ;
E 'maghilo di lor, con vano affetto,
Pur com’ idoli amali , in te gli adori ;
Ma la vergogna e l’ infelice esilio,
E l' odiosa povertate , e quella ,
Che tanto ne spaventa, orrida morte,
Veri mali non sono. Or cessi , o lunge
Vada ’l timor. Ma i veri beni indarno
Ne’ contrari quaggiù ricerchi, o speri :
Benché sia mal, quando più i beni agogni.
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103
LE SETTE GIORNATE
L* esser privo di loro. Il loco adunque ,
Che privato è dei bene, il male adombra.
E le tenebre furo (o ch’io vaneggio)
Nell’aria, che di luce è priva, e cicca
Quaiitate , od affetto antico , o nuovo.
Ma se più antiche fur del nuovo parto
Dell' universo , il male è prisco e veglio :
Ma non convien che sia più vecchio 1 peg-
gio.
Dunque era luce eterna innanzi al mondo,
E le tenebre esterne ond’egli è cinto :
Luce, che luce alle beate menti,
A’ sensi no, ma quel ch'i sensi illustra.
E questa a’ sensi esposta adorna mole ,
Visibil lume, e sol di luce immago :
Immago che s’ adorna al primo esempio;
Esempio da cui lunge 11 Sole è raggio
Che si perturba spesso in nube, e ’n ombra;
Era luce increata innanii al mondo,
Forse e creata luce , e mille e mille
Lustri non solo e secoli volanti
Erano innanzi a lui rivolti In giro.
Ma quasi eternili (se dir convìensi),
Precedevano ancora ’l mondo, e ’l tempo
Da che furo creati ai primo lume
I secondi splendori , Angeli santi.
Nè già doveano 1 Principi celesti ,
Le Dignitari , e le Virtù sublimi ,
Tante armate lassù d' oro e d' elettro
Gloriose , immortali , elette schiere ,
Tanti eserciti suoi sita si lunga
In tenebre menare oscura e fosca.
S’eran dunque primier create menti,
Era creata luce ; e ’n festa e ’n canto
Elle gii si virean lucida vita,
A sembianza di lui eh' è vita e luce ,
Facendo I sacri balli e lieti cori,
E i sacrifici di sovrana laude ,
Allo splendor della sua gloria eterna ,
In quel sereno e luminoso impero.
E questa luce dagli antichi Padri
Fu gii promessa a' giusti, e 1 giusti avranno
Sempre luce immortai , sortiti a parte
Della luce de' Santi. Avranno incontra
Pene in tenebre eterne iniqui spirti.
Nelle tenebre allor de’ ciechi abissi
Lo Spirito disino, c sovra Tacque
Era portato , e 1* umida natura
Gii preparava. Anch'el presente all'opra
Spirando già forza e virtude all' onda ,
D' uccello in guisa , che da frale scorza
Col suo caldo vital covata, e piena
T rae non pennato ’1 figlio, e quii informe.
DEL MONDO CREATO.
E disse ; Fatta sia la luce; ed opra
Fu'l detto, al comandar del Padre eterno.
Ma ’l suo parlar suon di snodata lingua.
Nè percossa fu già, che l'aria imprima
Di sè medesma , e di sua voce informe ;
Ma del santo voler, eh* all’ opre inchina,
Quell' inchinarsi è la parola Interna.
Cosi la prima voce e *1 primo impero
Del gran Padre del elei creò repente
La chiarissima , pura c bella luce ,
Che fu prima raccolta , c poi divisa ,
E ’n più lumi distinta ’l quarto giorno.
Sgombrò l’orror, le tenebre disperse,
Illustrò da più lati il cicco mondo ;
Manifestò del ciclo il dolce aspetto ;
Rivelò con serena , alma sembianza
L’ altre forme leggiadre ; e d* ogni parte
Egli indusse la cara c lieta vista ,
Cioia della natura , almo diletto
Delia terra e del elei , piacere c gloria
Della mente e del senso, equasi a prova
Delle cose mortali e delT eterne.
Ed in un punto l'Aquilone e T Austro,
E parimente ancor P Occaso e P Orto ,
Tutto irrigato fu dall'aurea luce.
E rapido sembrò mirabil carro ,
Vieppiù del tempo e del pensier veloce,
Che disina virtù cosparga c porte.
E qual carro più bello , o più veloce ,
O bellissima luce , o luce amica
Della natura e della mente umana ,
Della divinità serena ìmmago,
Che ne consoli , e ne richiami al cielo,
Potea ’ntorno portar virtutl e doni
Celesti in terra a’ miseri mortali
Da quei tesori , e da quei regni eterni ,
Ch’a noi dispensa con si larga mano
De' lumi il Padre, e ’l Donator fecondo?
Come possente re di Persi , o d'indi.
Del grembo oscuro dell’ avara terra
Preziosi metalli insieme accoglie,
E dall' arene pur d’oro cospartc
E dal profondo mar le perle e gli ostri
Aduna ; e I bei rubini a questi aggiunge,
E ì bel smeraldi e 1 lucidi giacinti ,
E qual pregiata più s'indura e ’mpelra
Nell'Oriente luminosa gemma ;
Cosi dell'universo 11 Re superno
Nel elelo empireo ascoso a' vaghi sensi ,
E ignoto al contemplar degli alti ingegni.
Che misurar degli altri I giri e 1 corso ,
Ha di luce divina eterni ed ampi
Tesori , e quinci poi gli parte , o serba.
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104 POEMI SACRI.
Anzi Tlstesso ciclo è pura luce. La scompagnò dall’ altre, e quasi impresse
In cui nulla giammai si turba , o mesce. Della sua nota , onde sen va solinga.
Luce *1 suo tempio adorno, e l'alta reggia Questa è di del Signor, da lui s' appella,
E son di luce le corone e Tarmi, Chè nomarsi dal Sole a sdegno prende;
Onde gli eletti suoi circonda e veste. E da sè caccia 1 miseri mortali
Ma vedendo quaggiù creata luce. Intenti all' opro faticose e ’ndegno.
Disse, eli' è buona; e '1 testimonio aggiunse Questa è di del Signor grande ed illustre;
Della sua voce , anzi ’l giudizio espresso. Alfin , quando clic sia , sarà disgiunta
E perdi’ ò buona c bella, e non si vanti Dal numero de’ giorni, anzi degli anni,
Per bellezza di parti aggiunte insieme, E de’ lustri c de’ secoli correnti ;
E con giusta misura in un composte. Ned altra a lui sarà seconda, o terza.
La natura terrena , o la sublime ; Ma voi, che del Signor cercale ’l giorno.
Ni ricerchi in frondosa ed ima valle Deh non seguite i sogni antichi c l' ombre
Di mal cauto pastor gludicio errante, Di questo di nell’orrida tenèbra :
E fallace sentenza : Espcro in ciclo, Seguite ornai, eh’ a voi riluce c splende
Espero miri in cicl lascivo sguardo, La chiara dell’ottava e nuova luce.
Che Lucifero £ poi recando ’l giorno, I-a qual non corre faticosa al vespro :
E la sua desiata e chiara luce : Non ha sera, oconfìn di fosco, od' ombra;
E di sua puritatc I sensi appaghi, Ned altro in lei surcede in giro alterno,
Perch’ascenda la mente a’ primi oggetti. Giorno Unito da nemica notte;
Però Dio separò la chiara luce' : E costante sarà felice stato
Dalle tenebre oscure; c 1 nomi impose. Alfine, e resterà solinga ed una,
Queste notte chiamando, e giorno quella. Giorno , o secolo sia , che pur s’ eterni ,
E fece solo un di da mane a sera , Questa a voi dimostrò nc' primi tempi
Fra' tenebrosi c lucidi confini Del profetico spirto il chiaro suono.
Quinci e quindi ristretto, a cui rotando Questa poi dimostrò quando risorse.
Il Sol non stabili l'eccelsa meta, in guisa di Icone, il Re celeste.
Mentre in sè stesso pur ritorna e gira i E trionfò del tenebroso Inferno.
Ch’ el non aveva ancorla forma, o ’l corso, E quella clic per lui guerreggia e vince ,
Ma quel che fu del tempo eterno Fabbro, Santa Ghicsa di Roma , a voi T insegna ,
Gli dii lo spazio , la misura e I segni : E la celebra in sacri accenti , ed orna
E col quattro e cor tre rivolse in giro Di ben mille sacrate ed auree spoglie.
Le sue misure, e riempii d’un giorno, E d’altissimo seggio, in cui s'adora.
Che sette volte in sè si volge, c rlede Pur anco a voi la benedice, e segna
Con tal numero pur, lo spazio Intero. Quegli al cui sacro regno in cielo e ’n terra
Questa figura ha in sè principio c fine : Non è confine, o meta. E ben convlensl
Ed all’ eternità , non solo al tempo , Che l’Ottavo Clemente ’l giorno ottavo
Convlensl ; anzi del tempo èquasi uncapo; Della divina luce I cori illustre,
Però di esser primiera ancor si sdegna , E I rozzi , tenebrosi e tardi ingegni.
Perchè 11 suo Creator scacciala , e scevra
GIORNATA SECONDA.
Nella quale Dio creò il Firmamento, con le Stelle, e divise lo Acque superiori
dalle inferiori.
Anzi le porte del mirabll tempio, E del fervido Cane a’ raggi estivi.
Che ri portava d' una ad altra parte, E ’n lor già s'accogliea profana turba,
In lochi aperti c nell' aperto ciclo, Edes(inatialferroarmenti,ogregge, [do
Cui tetto non ricopre , o velo adombra , Tal son pur quelli, in cui n'alberga ’l mon-
Erano esposti alle pruine, al ghiaccio, Nella profonda sua parte più fosca.
Al torbido spirar d’orridi venti , Di lui parlando, c di terreni obietti.
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LE SETTE GIORNATE
Or da caliginose alte tenèbre
Già trapassali alla serena luce
Siam, dove in sette lumi appar distinto
Il candelabro, c ’neslinguibil lampa,
Lieta e sicura dal soffiar dell' Austro,
A Dio s' accende : c qui d' immondo alTelto,
O di brutto desio le parti sacre
Non ha contaminate T puro albergo.
Lunge , lunge , o profani , ite in disparte.
Or chi rimove a gran misteri il velo ,
Sicché n' appaia fiammeggiando in ala
L’alato Chcrubin, qual prima apparse?
Già nel suo Figlio avea creato il Padre,
Nel Figlio, eli’ è principio, il primo cielo,
Ch’è fuor degli stellanti e vaghi giri.
Già si godca tranquilla e stabil pace ,
Cui non perturba, o Tarla T corso, a destra,
Od a sinistra pur volgendo intorno.
Già coll' empireo del, di pure menti
Gli angelici splendori insieme acccnsi ,
Eran del sommo Sol diffusi i raggi :
E s' altri fur creati in altre parli,
Fur di grado mon alto, e meno eccelse
Ebber le sedi , c i loro officj e l’opre.
Già rivolgcasi da mattino a vespro
Lor conoscenza : e quasi iu lucid’alba
Ciascun in Dio mirando al ver s'illustra
Ma nelle cose quel saper s' adombra ,
E quasi assera : e già la grazia c '1 merlo
Gli fa beali, egli riempie, ed orna;
Quando continuò di giorno in giorno
Le sante maraviglie il Fabbro eterno.
Facciasi, disse, c sia costante c fermo
In mezzo all’ acque, il cielsparso di stelle,
Lo qual divide pur Tacque dall' acque.
E fece un chiaro ciel di stelle sparso,
Incontra 'I tempo di robusta forza ,
E saldo al raggirar d’ un lungo corso ;
Perch'egli al variar degli altri erranti
Sia quasi certa norma c certa legge.
E col denso di lui l' acque distinse
Vaghe, rare, sottili, preste c snelle,
O d'ondeggiante, o di gelata e salda
Natura in sè raccolta ; e dipartine ,
Altre sotto lasciando, altre di sopra.
Cosi Dio fece ; e '1 nome imposto al cielo
Da sua fermezza il firmamento appella.
Quel die l’uom chiamò poi stellante sfera,
0 pur girl stellanti : c fatto insieme
Fu da mattino a sera il dì secondo.
Come Dedalo o Scopa , od altro antico
D'artificio gentil famoso mastro
Prima raccoglie 1 peregrini marmi,
DEL MONDO CREATO. 105
E i lucidi metalli c i cedri eletti,
I quai del tempo c dell'età vetusta
L'iuvido dente non consumi, o roda:
Poi forma T tutto , e la superba mole [chi
Comparte e compie , eie sue volte egli ar-
Fonda sovra marmoree alte colonne ,
0 pur di Caria a’ simulacri appoggia,
E fa teatri c logge entro c d'intorno
Con lavori di Ionia e di Corinto :
Cosi di sua materia il Fabbro eterno
Pria l’universo informa e poi distingue
Le varie parti , e l’abbellisce ed orna.
Nè vero è quel che si descrive e mostra
Da' saggi , onde la Grecia ancor si vanta,
Che tutta la materia ai far d’ un mondo
Consumasse el nell' opra, e quinci awegna
Clic ne facesse un sol , che ’i tutto cinge,
E tutto accoglie ancor nel vasto grembo.
Ned infiniti sono i mondi e i cieli.
Coni' altri afferma, die d'opposta parte
II furor letterato adduce in guerra.
Ma Dio, clic generò la forma , e 'nsieme
La materia del mondo allor produsse.
Molli far ne polca , di bolle in guisa ,
Clic di spumoso umor riempie ’l vento.
Perché allato al poter che tutto avanza ,
Son quasi gonfie bolle i mondi c i deli.
Ma pur ne fece un solo il Fabbro eterno ;
Perch'uno era l’esempio, ed uno il ma-
E della sua virtù formollo impresso, [stro ;
L’no è l’ordine ancora, c ’n un si volge.
Ma ’n molte sfere si comparte , e gira
La somma delle sfere, o 'I sommo cielo,
Cile non ba moto , onde conosca 'I senso
limano e ’nfermo le sostanze eterne.
Corpo ancora non è, ma pura forma.
Clic di serena luce arde c fiammeggia;
E questo , empireo del fra noi s' appella.
L'altro, ch’è pur corporea c vaga mole,
E conosciuto ancor da’ sensi erranti,
In nove giri si divide e volve.
E della sua materia è lite c guerra,
Per cui la dialettica faretra
S'empie d’acuti sillogismi a prova
E n’armale nemiche avverse parti.
Altri pur di mistura informe c rozza,
Ond’ uscir gii elementi , il forma e finge
Ruinoso e caduco, esposto a morte.
Ma colla forma sua, clic tutto adempio.
Un suo desio leggiadro il tiene In vita
Eterna quasi ; ed alle cose eterne
Il fa sembiante in si mirabil vista.
Altri degli clementi il sommo e T puro,
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106 POEMI
Dall’ immondo e feccioso aduna e sceglie,
E ne figura gli stellanti chiostri ,
C‘ hanno dal foco la serena luce ,
E dalla terra ’l suo costante e saldo.
Questi libera ancor d’ orrida morte ,
Quasi giudice amico, il nato mondo :
Non per natura , che soggiace a fona
Di tenebrosa morte al duro fato;
Ma perchè ’l suoFattore'l regge, e’ifolce,
E sol per suo volere eterno il serba.
Altri vieppiù vicino a' primi tempi ,
De’ suoi quattro principi in sè diversi
Alternando le volte , il face c guasta ;
Ma come vuol Discordia» o vuole Amore.
E se Discordia è vincitrice in guerra.
Ma vinto Amor, nasce il sensibit mondo.
E s* all* incontro la Discordia è vinta ,
Amor vittorioso *1 suo riforma
Agl'intelletti , c ’n lui trionfa e regna.
Altri un vano intelletto affanna e stanca
Nella confuslon torbida c mischia
Dell* infinite parti : e quinci indarno
La mente folle s'argomenta, e ’ngegna
Di separarle. Altri corporea moie
Genera di figura In vari aspetti :
Di piramide acuta il sottil foco;
Di quadriforme poi lastabii terra;
DI venti quasi faccie il vago e leve
Spirante aer sublime egli compone,
E d’ otto r acqua : c vuol clic peso e corpo
Vane figure, e sema moto e pondo,
Dieno a* quattro elementi in varie guise.
Altri una quinta essenza al cielo assegna,
Sciolta da tutte qualitall umane;
E da morte ’l difende , c d’ogni oltraggio
Mortale ’l guarda, e nel suo corso eterna.
Ch’egli volge e rivolge In vari giri
Al suo Motor, come bramoso amante.
Ma che? nostra ragion ha corti i vanni
Dietro il senso fallace, e strada Incerta
Il vario moto ne dimostra e segna.
E perchè al mezzo pur s’inchini il grave,
Ed inverso l’estremo *1 leve ascenda,
E ’l corpo non leggiero e non gravoso ,
Dintorno al centro si raggiri c volga ,
E quinci e quindi a non veduti oggetti
Non trova ingegno umano aperto *1 varco :
E ne’ veduti ancor sovente adombra ;
Negli altri al troppo lume i lumi abbaglia.
Di qual materia sian le stelle e 'I ciclo ,
Dicalo quel che lui spiegò d’ intorno.
Qual picclol velo, o quasi leggier fumo
Formare ’l volle, c *1 fe' costante c fermo,
SACRI.
Più di cristallo assai ch'ai gel s' induri,
E lucido divenga in aspro monte ;
Più di metallo che s’impetri e stringa,
E renda, come specchio, altrui 1* immago.
Di seminante materia il Padre eterno
Fece ancor di cristallo un puro cielo
( Se le cose terrene alle celesti
Tanto pon simigliare), e questo ancora
Girò d’intorno alle stellanti sfere;
E sopra Tacque vi ripone e serba.
Quali acque, o Dio, sovra le stelle c ’l lume
Del Sol ponesti ? ed a qual uopo, o (piando,
Come a tc piace le riserbi e versi?
Son le sostanze spiritali e pronte.
Onde il tuo nome glorioso, eterno.
Di chiarissime laudi ivi risuona?
Ma che? ti loda la tempesta e ’l foco?
Son l’ acque forse la materia informe?
Ma da principio tu T imprimi c fingi.
Son Tacque gravi , ove non giunge il leve.
Che vola press’ al del, nè passa innanzi?
Dunque a natura in ciel minata è legge?
Ma del turbato ciel Torride porle
Tu apristi all’ acque, e le spargesti a terra,
Lei ricoprendo , c i più superbi monti ,
Quando, sommerso in grau diluvio’! moti-
Appena rlcovrossl a’ monti armeni [do.
Il seme de* mortali in fragil legno.
Sono adunque di pena c di spavento
L’ acque lassù nel ciel ministre eterne
A’ miseri mortali ? o pur son anco
Incontra ’l foco refrigerio e scampo,
Oud’hasuavita ’l mondo in varie tempre?
S’è necessario ’l foco all’uso, all’arte
Del viver nostro, e di natura amico;
Necessarie son Tacque, ’n varie sedi
L'uno dall’altro si difende e guarda.
E ’n paragon dell’ acque ha seggio angusto
La terra antica madre , e pieciol giro.
Però nel grembo degli oscuri abissi
Già nascosa si giacque; appena or mostra
Parte delle sue membra , appena innalza
Dalle spumose braccia al ciel la fronte.
Ma gran parte del inare anco è sommersa:
Nè sole accolte In un oscuro fondo
Son T acque ascose entr’ a perpetua notte,
0 fan sotterra un tenebroso corso :
Ma sovra 1 volto suo diffuse e sparte
Quinci vedi stagnar paludi c laghi ,
E sorger mormorando i chiari fonti ,
E Talte rive empir torrenti c fiumi.
Corron dall’ Oriente ldaspe ed Indo,
E degli altri maggior trascorre ’l Gange ,
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LE SETTE GIORNATE
Ed il Caspio e l‘ Arasse , e Cirro c Battro.
La Tana ancor, col l' onde 'I ghiaccio strin-
Nella salsa discende alla palude ; [ge ,
E dal Caucaso 'I Fasi al mare Eusino ,
Ball’ recidente ancor Tarteso ed lstro :
Quegli olirà le Colonne in mar si sparge,
Questi nel Ponto; e pria divide e parte
I popoli d’Europa, i campi e I regni.
Oh quanti ancor dagl’iperborei monti
Corron veloci , e da Pirenc e d’ Alpe ,
Distinguendo Germani , e Belgi e Celli !
Dal Mezzogiorno l' Etiopia inonda
II Nilo ; e i campi impingua al verde Egitto.
E ’l Cremete e l' Egon , e ’l Nlsio e ’1 Negro ;
Altri nd nostro mar si spande e mesce:
Altri si vota all' Oceano in grembo.
E l’ondoso Ocean superbo ’n vista
L'uuiil terra percuote, e lei circonda.
E fu secreta provvidenza ed alta.
Che di tattl'acque , e tanti untori occulti,
Tanti palesi , assecurò la terra
Dal foco violento, a lei nemico.
Perdi’ el, che signoreggia, e ’l tutto vince
D’ impeto e d’ ira , e di contraria possa ,
Non signoreggi ancor, quasi tiranno.
Usurpando degli altri i regni e i seggi ,
Sin a quel paventoso estremo giorno ,
Da giudido divino a lui prescritto.
Tempo certo verri , come rimbomba
Sacra fama in pii lingue , e gii vetusta ,
Che ’l foco infiammerà la terra e l'onde ,
E tutto in un incendio accolto ’1 mondo
Calieri sparso in cenere c ’n faville.
Allor tutti fien secchi i fiumi c i fonti;
Ni fien sicuri i tenebrosi abissi
Dal foco vindtor. N’affida intanto
Quel che dispose in pii soavi tempre
Le cose tutte insta dal sommo all' imo ,
E quell' acque da queste allor distinse.
Acque son dunque ; e la stellante sfera.
Che sette giri in sè contiene, e copre ,
Soggiace aU'acque. ET suo Maestro eterno,
Quando gli fece cosi adonti in vista.
Quadrata lor gli dii costante e salda
Figura, ovver simile a turbo acuto;
Ni piramide volle , o pur cilindro
Assomigliar nel magistero antico :
Ma l’un nell' altro giro intorno avvolse.
In guisa tal , che i più subitoli ed ampi
Cingon gli altri men ampi e men sublimi :
E come quel , die pria disegna e fonda ,
E nelle pani sue dispone ’1 tutto,
E poi l' adorna , e di colori e d’aure
DEL MONDO CREATO. 107
Fa vari fregj ai magistero Hlnstre;
Ed Immagini aggiunge , e simulacri :
Cosi tutte ci facea del mondo Intero
Le parti ornate ; e la sublime sfera
El figurava già di stelle ardenti
In vari modi ; e le sne note e I segni
Imprimea di sua mano il Mastro eterno.
Quei di eh’ ei fece i bei stellanti chiostri :
E non sol fece Arturo ed Orione;
Ma tutte l’ altre onde s’ adorna ’l deio ,
Immagini lucenti a' vaghi sensi,
A cui l’età futura i nomi impose.
E la rota al girar leggiera e pronta ,
Sovra due punti in sè contrari affisse ,
E 1 duo poli nel ciel costanti e fermi.
L’ un mai sempre si mostra ed erge in allo,
L'altro s’inchina «ila profonda Stige,
E si rimane ognor sotterra ascoso.
Questo Dio fece , e poi l’ umana gente ,
Nei ciclo immaginando I vari ccrdil,
Col pensiero M distinse , e ’n cinque zone
Parlino; e ’n altre e tante Impari fasce
Sotto '! del diparti l’opaca terra.
E’I maggior cerchio, ebe’n due partì eguali
Seca per mezzo ’l deio; e quinci e quindi
Lascia i due fissi poH incontra opposti ,
Fu nomato Equator, perch’egli adegua,
AUorehè’1 .Sol vi giunge, il giorno e l'ombra
L’altro di' obliquo si rivolge intorno
Sino ai due punti , onde ritorna ’I Sole
A rilesser di nuovo T giro istesso ,
Cerchio degli animali , o deila vita ,
E de' segni appellar future genti.
E I due minori intorno al punto affissi ,
Onde T torto viaggio T Sol converte ,
Tropici fur chiamati , e gli altri due
Fatti da poli ebber di Polì il nome.
E i duo’ cerchi imperfetti anco nomare
Dalle rivolte del pianeta illustre.
E quel che terminò l’ umana vista
Ne’ tenebrosi e lucidi confini ,
Orizzonte fu detto, e dal meriggio
Quello, acni giunge a mezzogiorno II Sole,
Cb'a vari abltator si cangia e varia.
Ma quell’ obliquo , in cui distinto cade
Fecer poscia girando erranti lumi ,
Seca in due parti eguali il largo cinto ,
Che parte ’l mondo ; e giorno a notte ag-
guaglia ,
Ed a' Tropici aggiunto e quinci e quindi;
Talch'egli solo è con tre cerchi affisso;
E la metà di sè dimostra ognora
Con sei di stelle adorni ardenti segni
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108 POEMI
Sopra la terra; e l’altra parte ascosa
Con altri c tanti pur sotto rimansi :
E ciascun spailo eguale in ciclo ingombra:
Ma con tempo ineguale or nasce, or cade,
Veloce , o tardo ; e sci la notte oscura
SI fuggon di lassù cadenti segni ,
E sei riveggon poi tornando ’l cielo
Immagini di stelle accese, c d'auro,
Come le lìgurar gl’ ingegni audaci,
Che gii produsse ’l tenebroso Egitto.
E la Grecia I suo’ mostri ancor ci linsc ;
E, di favole vane il ciel ripieno,
Più adorno ’l fece di menzogne illustri.
Primo (come si scrive c si figura)
Sovra l' aurate spoglie oscuro lume
Dimostra ’l portatordi Frisso e d’Elle,
Che dopo ’l verno primavera adduce.
Poi col ginocchio ripiegalo ’l Tauro
Distende ’l corpo; c dall' accese corna
Gravido fa di sua feconda luce
I.* umor terrestre; e i due Gemelli aggiunti
Spargon da chiare stelle ardente foco.
E rinfiammato Cancro al Sole indugio
Par che sia quasi , e gli ritardi ’l corso.
E ’l superilo Leon con torvo aspetto [eia.
Fiammeggia, e ’nsln dal ciel ancor minac-
La Vergine vicina a lui risplendc
Coll'aurea spiga, e poi la luce, e l’ombra
L’alta Libra celeste agguaglia in lance.
Indi lo Scorpton del ciclo usurpa
Più del suo giusto spazio ; c par eli’ ei faccia
Colle branche ad Astrca lucida libra.
Il Sagittario ha nell’orribil destra
L’arco piegato, e ’l Capricorno ’1 segue
Con Ber sembiante : c del gran Sole al corso
Par ch’egli sia lassù di nuovo intoppo,
E ritenga le notti algenti e pigre.
Risplcnde dopo lui con lucid’urna
Il Fanciullo troiano. E ’n una stella
Luminosa catena, ed aureo nodo
Fan di squamosa coda umidi Pesci.
Cosi nel cerchio obliquo i Segni ardenti
Poi figurò nel cielo li secol prisco.
Altre immagini a destra, altre a sinistra
Versoli fredd’ Aquilone, e ’l nubil Austro
Collocò poscia, e I chiari nomi impose.
Vicina al Polo, che s’innalza, e scopre ,
Con brevissimo giro intorno ruota
L’Orsa minor, che già fu scorta e segno
Della Fenicia a’ naviganti audaci.
Di sette stelle poscia adorno ’1 vello
L' Orsa maggior fa brevi giri e lenti ;
L’Orsa, eh' a’ Greci in tempestoso mare
SACRI.
Fu già fidata duce e segno amico.
Par ch'ci le gridi appresso ad alta voce
11 suo pigro Boote. E ’l fiero Drago
Fra l'Orsa fiammeggiando orrido serpe.
Ccfeo poser non lunge, c d'Arianna
La stellata corona ;c ’l grand’ Alcide,
E la Cetra col Cigno. E l’altro figlio
Del favoloso Giove In ciel sublime.
Cui d' Aquilone ’l fiato aspira, c d’alto
Il fiede : a Cassiopea la destra ei tende;
E i piedi alzati vincitore ai cielo
Porta , quasi di terra alzato a volo
Polveroso , c repente ; e ’ntorno al manco
Ginocchio con tremante e debil luce.
Le stelle picciolette anco locaro,
Che Vergilie chiamò l'età vetusta :
Segno del ciel d’oscuro e picciol lume.
Ma pur di nome ancora e chiaro c grande,
Perché i principj della State illustra,
E gl’ industri mortali all’ opre imita :
Perdi' ò già tempo eli' all' antica madre
Confidi T buon cultore il some sparso.
Qui insidile collocar sublime auriga ,
Che di serpente 1 piè nel carro ascose,
Kd'Ksculapio (ocosi parve) all’angue
Raffigurato. E la Saetta accesa
Di cinque stelle, e l'Aquila superba;
E ’l guizzante Delfino, e ’l gran Pegaso,
Clic già portò Bcllerofonte a volo.
E la figlia di Ccfeo, e ’l Delta appresso;
E quella immago clic figura c segna
L’Isola che tre monti innalza In mare;
E del nudo Muntoli l'oscura testa [parte
Del suo splendore ’nfiainina; c ’n quella
Alle vie degli erranti è più vicina.
Dall’ altre verso T Polo opposto all' Orse,
Press’ al torto viaggio ò il fiero mostro,
A cui fu ignuda esposta in riva all' acque
Andromeda legata al duro scoglio :
E par clic ’n cielo ancor di lei ricerchi
Già lontana, e sicura in parti eccelso,
Ricoverata d' Aquilone all’aura.
Ed Orlon di fiamme armato e d' auro
V’immaginar, che nella notte estrema,
Allorché nasce Scorplo egli s'asconde :
E l’inimagin del Fiume ivi risplende
D'eterno foco. E timidetta Lepre
Fuggir di Can veloci I fieri morsi
Vi figuraro, e ’l minor Cane ardente
Di rabbia ’l cielo ancor nascendo attrista
Coll'infelice lume, e i campi infiamma,
E dopo l’altro a noi sorgendo appare.
Ma prima a quei, di' olirà l’obliquo cinto
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LE SETTE GIORNATE
Abitatori son di terra adusta,
Argo conversa in del si volge addietro
Con proda oscura , e la ritroso corso :
Ma l’ altra parte ha luminosa e illustre.
Quii’ Idra e ’l Vaso e ’l Corvo e ’i gran Cen-
tauro ;
E qui risplende ’l Lupo , e qui l’ Altare.
Altra corona ancor di stelle adorna
Da questo lato ’i cielo, ed altro Pesce
In più lontana parte in lui risplcndc :
Il Pesce , eli’ adornò ne’ propri alberghi ,
Siccome proprio Dio, l’antica gente
Di Siria abitatrice; a cui non basta
Farlo in magion terrene e vivo e nume ,
Ma nel ciclo ’l figura c ’n ciel l'adora ,
Fatto , come stimò , nel cielo eterno.
0 delie pazze genti antico errore ,
E prisca fraude, e mal nodrito inganno.
Che torse ’l mondo al culto iniquo ed cm-
E di cerchi c di stelle in un congiunte (pio ;
\ane figure, immaginate indarno
Conira la Provvidenza, e con tra ’l vero!
0 vana sapienza , e vano ingegno
Della natura umana in Dio superba !
Van pensier, vano ardire e vano orgoglio,
Che ’n ciel presume annoverar le stelle ;
E quaggiù le minute inculte arene,
E misurar gli smisurati campi
Della terra , del mar, del ciel profondo ;
E terminar degl1 infiniti abissi
L* altezza e ’l fondo ; e por costante meta
A questo spazio della vita Incerto;
E prescriver de’ fati eterna legge ;
Serva facendo la natura a forza;
E ’l libero voler, libero dono.
Cui non vince, nè forza, stella, od astro.
Egli all'Incontro signoreggia e vince;
E può rapire ’l gran regno celeste
Con violenza , se d’ amor s’ infiamma ;
Ma d' altro amor più santo, o d’ altre fiam-
Di quelle, onde l'età vetusta e folle [me
Coll’ immagini sue mentite c false
Tentò di far quasi profano, immondo
Dei cielo ’l luminoso e puro tempio.
Poco era dunque dei lascivo Cigno
Furto amoroso, o d'Aquila ministra,
Non di folgori più , nè d' ire ardenti ,
Ma di pianeti, la rapina Ingiusta,
E la corona d’Arianna, e mille
Favole v agite , c favolosi amori , [che
Che Grecia aggiunse alle menzogne anti-
Di Babilonia c del superbo Egitto ;
Se d’Alessandro ’1 succcssor novello
DEL MONDO CREATO. 109
Non aggiungeva ancor la tronca chioma
Di Berenice all’ altre stelle ardenti?
Tanto lece a' mortali adunque ’n terra ,
Ch’ osan di far, non sol di rozza pietra ,
0 di ruvido pur selvaggio tronco
Dei ior terreni , ed idoli superbi :
Ma fanno oltraggio alle nature eterne.
Ed alla gloria de' celesti giri ?
Chè delle stelle è gloria ’l chiaro lume,
Ond'è stella da stella in ciel diversa.
Ma quei già non dovean si pure forme
Farsi cagion di si dannoso inganno;
E ’n tenebre cader da pura luce.
Precipitando negli oscuri abissi :
Anzi salire a Dio di lume in lume,
E riconoscer Lui nell’ opre eccelse ,
Cile son del suo splendor faville e raggi.
Dio solo è quei die numerare appieno
Nel mar puote le stille , e ’n ciel le stelle.
E Dio pose a ciascuna ’l proprio nome ,
Onde chiamata ai suo Signor risponde ,
Pronta al servizio del sublime impero.
E quai fidi guerricr locati in guardia,
Nella più tenebrosa oscura notte
Giran le mura vigilando attorno ;
Tal circondano ancor notturne c preste
L’alte parti del ciel le stelle ardenti
Come Ior pria dispose ’l Re superno,
Lo qual non Orso, non Leone, o Drago,
Non Aquila sublime in elei dipinse
D'eterni lumi, e di perpetue fiamme ;
Non altra forma, che nel ntar profondo ,
O'n fiume si rimiri, o'n monte, o'n bosco:
Ma quella croce, ove ’l suo Figlio estinto
Trionfar poi dovea de' regni sligi ,
In cielo impresse, e ne formò l' esempio
Con quattro luminose e chiare stelle;
Le quai non rimirò Pelate antica
In questo Polo , in cui Boote e ’l Carro
Immaginossi , e l’ altre forme illustri :
Ma la nuova le scorge in ciel sublime,
E P altro Polo a' nostri sensi ascoso
Ad altri abitatori in sè l'esalta;
E di certa vittoria è segno eterno
Al giusto Re nella pietosa guerra
Quella, che fiammeggiando in aria apparsa
D’EIena al figlio glorioso , invitto.
Che ’l nuovo Faraon sommerso In Tcbro
Fece cader dai ruinoso ponte ,
E Roma liberò dal giogo oppressa,
E gl’ idoli superbi a terra sparse ;
E quella poi che folgorando in alto
Pur dimostrassi al successore indegno
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no POEMI
Si dlssolvea , come vapori accesi ,
In ciuci dell’aria tempestosi campi.
Ma questo In ciel di lumi eterni e fissi
E trofeo non caduco , e scalili segno
(Se sperar lece) di costante Impero;
E quasi nota, onde sue leggi inscrisse
Il Re superno a' vincitori, a’ vinti ;
Chi gloria agli uni , e dì salute agli altri.
Ben se n’ avvide ancor l’antico Egitto
Nelle tenebre sue più fosche e dense ;
Onde tra l’ altre sue figure e note
De’ suol misteri , ancor la croce Impresse.
E figurò la croce il Fabbro eterno
Nelle quattro del mondo avverse parti ,
Talché la forma sua divide e segna
L’Orto, l’Occaso , l’ Aquilone e l’Austro.
Son dunque segni di salute i segni ,
Ch’ impresse Dio nel magistero eterno.
Nè cosa feo lassù malvagia, o fella,
0 di morte cagione , o d’ altro danno
A’ miseri mortali. Ahi ! cessi or l’ empio ,
Cessi il superbo, che saetta c vibra
Inconlr' al elei l’ ingiuriosa lingua.
Non son maligne le serene stelle ,
Nè pon nuocer altrui con fiero aspetto ,
Nè per eletlon , nè per natura.
Non per elealon , che senso ed alma
Avrlanle stelle; e d'animali in guisa,
Perturbati sarian da’ nostri alletti.
Non per natura ancor, se Dio creolle;
Chè non è creator di mali Iddio , [faro.
Nè mal d'opra non buona è mastro, o fab-
Nè mai , per variare ’l loco e ’l sito ,
Potrìan di buone divenir maligne ,
0 pur buone dì ree , chinando ’l guardo,
0 mutando figura , o pur sembiante ,
Come si dice che più lieta ’n vista
Alcuna si rallegra , allorché nasce ,
E Innanzi al suo cader si duole e turba.
Altra all’ incontro è lieta nell' Occaso ,
E dogliosa nell' Orto. Altra si sdegna ,
E poi si placa nel cangiare ’l grado.
Chè se ciò fosse , la natura umana
Saria men variabile e ’ncostante
Della celeste; e ’n quelle eterne leggi
Certezza non saria , ma vano errore.
Nè già convieu che ’l messaggier di Giove
(Come animai da’luoghl.a cui s’appressa,
In mille guise si colora e varia),
Cosi mille colori e mille forme
Prenda da’ suo’ vicini. Adunque in cielo
Non si perde bontì per grado, o scema ,
Chè ’1 cielo è tutto buono ; e ’u ogni grado
SACRI.
La div ina bontì diletta e giova.
Tacciansi ancor delle sublimi stelle
Gli odj celesti , c i lor celesti amori
(Ma non degni del ciclo), c i vari aspetti ,
Ch'altri si miri da contraria parte,
Altri congiunto, altri girando intorno
T re segni , o quattro, o sei, si trovi in mezzo
Mentre riguarda la su’ amica stella ,
0 la nemica ; chè discordia in cielo
Esser non può , nè ingiurioso sdegno ,
Ne’ cinque aspetti soli ; c ’n altre guise
L' una potria ver l’altra esser conversa
Benigna stella in placido sembiante.
E se dimostra pur dal ciclo, c segna
Quanto sthivar, quanto seguir comlrnsl
In questo spazio della vita incerto,
Non cl costringe a forza, c non ci offende ;
Ma giova sempre, o ’l bene, o ’1 mal predica.
Giova al nocchiero cntr’ al sicuro porlo
La nave ritener, se ’l vento, e l’ onda
Spaventosa tempesta a lui minaccia;
Ed armato Orlon guerra gl’ indice.
E giova al pcregrin volgendo ’l passo
Fuggir la noia d' importuna pioggia ,
E ricovrarsi in solitario albergo.
E giova agli egri l’osservar de’ giorni
Giudici della vita e della morte. [ga,
E'1 buou cullor de' campi , o’I seme spat-
0 pianti , osserva pur nell’ opre usate
Il nascer c ’l cader di stelle amiche ,
Ed opportuna la stagione c ’l tempo.
Ma che? l’alto Signor a noi predisse
Ch’appariran gli spaventosi segni
Del mondo , che ruina alfin minaccia ,
Nel Sole, nella Luna e nelle Stelle.
Cl negherà la Luna il lume e i raggi ,
E fia converso ’l Sol turbato in sangue.
E questi fian della mina estrema
Orridi segni. Or chi trapassa ’l guado,
Di nostra vita le regioni assegna :
E quasi avvinta con un saldo stame
Al fatai fuso di severa Parca ,
La fa soggetta ai variar de’ cieli,
E loda de' Caldei gl' ingegni c l'arte.
Ma concedasi pur che ’n elei descritti
1 segni sien , non di tempesta , o nembo,
0 dell'incerto variar de' tempi ,
Ma della vita , c di sue varie sorti ;
Che ne diran? che delle stelle erranti ,
E deir affisse nell'obliquo cinto
Congiunte insieme , gl' implicati nodi ,
E le varie figure e i vari incontri
Sien di felice avventurosa vita
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO. Ut
Alta cagione , a chi lo del sortilia ,
0 di contraria pur dogliosa sorte ?
Ma pur dirò per illustrare ’l dubbio
Quel che degli altri è detto, e’detti in prora
Pur addurrò contra gli stessi in lite.
Gl'inventori dell’arte In poco spazio
Vider molte figure, e ’n breve tempo,
Che disparian troppo veloci Innanzi
Agii occhi loro ; onde raccolte e chiuse
Fur dagl’ìstessi entr* a misure anguste.
Quasi in un solo indivisibi! punto, [parve,
Che ’nun sol batter d’occhio altrui dis-
Quind di quei che da’ materni chiostri
Nascer doveano alla serena luce , [presso.
Nel primo punto , o ’n quel che segue ap-
Molte varietà d’ingegno c d’arte
Notare , e dì possanza e di fortuna ;
Ch’altri ci nasce pur Cambise, o Ciro,
Od Alessandro , o fortunato Augusto ,
A se euro, a regno, a glorioso impero,
All’onor di trionfi e di vittorie ;
Altr* Ire a ricercar di porta in porta
Quel che sostegna la noiosa vita
in vergognosa povertate , e grave.
Però in dodid parti il cerchio obliquo
Wvlser prima, ed ogni parte in trenta :
Che 'n unti giorni un segnoil Sol trascorre
Di que’ dodici in lui segnati c ’mpresst.
E poi secar le trenta ; e risecaro
Le sessanta in sessanta ; e ’n si minute
Parti distinte fer gli aspetti e Tore,
Per trovar quella di chi nasce ai mondo.
E non fur certi dell' istabil punto ;
Perchè sparire, e dileguar repente
In cielo ’l vedi col volar del tempo.
É nato appena il fanciullclto ignudo,
Che si riguarda ’l sesso, e poi s’aspetta
Il pianto, segno dell'umana vita
Lagrimoso e dolente , a lei conforme :
Predice indi ’1 Caldeo le varie sorti.
Quanti punti trascorsi intanto a volo
Son nell’ indugio? e chi descrive appunto
La figura dei cielo ? e quale ascenda
Sublime stella , e signoreggi intanto,
E prescriva al fanciullo ’l proprio fato ?
Però nelle figure e varie e vaghe
t. certo inganno , e nel volar dell’ ore.
Nasce costui di grazioso aspetto ,
Pladdo e grave, c lento, e crespo ’l crine ;
E l’ora sua deli' animai di Frisso
Aver si crede ; e questi è d* alto core ,
E magnanimo ancor, chè tal si mostra
L'animai che degli altri è quasi duce.
Ardito al cozzo , ed al ferir di corno ,
E mansueto poi mentre si spoglia
Senza dolor la molle e bianca lana ,
Di cui natura poi l' orna e riveste
Agevolmente. E quel eh’ i lumi aperse
Mentr' ha nel Tauro ’i Sol lucido albergo,
É faticoso e tollerante all’ opre;
Ed in atto servii sè stesso ei doma,
Perocch’ avvezz’ è ’l tauro al grave giogo.
Quegli, a cui Scorpio in elei lucente a-
Altrui percuote disdegnoso e fere,[scende.
Come la fera che le piaghe attosca.
Ma Libra , che le cose agguaglia in lance,
Giusto fa l’ uomo e di giustizia amico.
Or tieni ’l riso? Il segno in via distorta.
Onde prendi alla vita alto principio,
0 sia ’l Monton, che già le notti adegua
Co* di sereni, o pur lucida Libra,
Poca è del cielo, e piò lontana parte.
E dalle fere e dalle greggi immonde
1 costumi dell'uom figuri, e formi ?
E ferina per te , non pure immonda ,
È la natura umana? Ai cielo ancora
La feritale assegni. Il del dipende
Dalie contaminate e lorde mandre ?
E fai soggette le celesti sfere
Alle terrene belve? Oh ! sciocca e stolta
Sapienza mondana , ond’ uom si gonfia
Di vano fasto e di superbo orgoglio,
Simile a tela d’ infelice aragna ,
Che nella sua testura appena ’nvolvc,
E ’ntrica l’ale all’importuna mosca;
Ma se peso più grave in lei s'incappa,
Non si ritlen , ma la dissolve e frange.
Oh ! piaccia alui che ne distringe c lega,
Coni' a lui piace, e lalor solve e snoda
I lacci del peccato , c I duri nodi
Onde ’l fato quaggiù tien Palme avvinte:
Oh ! piaccia (dico) a lui, cui tanto aggrada
II libero voler , celeste dono ,
Anzi divino, e non soggetto al deio,
Di squarciar de’ contesti antichi ingaunl
La fragil tela ; c peso aggiunga a detto
Liberator degl’ infelid ingegni.
Dunque dirò che nel continuo corso
De' sette erranti , altri a) suo centro intorno
Fan più veloce il giro, altri più tardo.
Ed In un* ora altri guardarsi insieme
Soglio» , altri celarsi , e mille e mille
Fanno di sè negli stellanti chiostri
Varie figure , e da minuto inganno
Nel suo principio , che s’ avanza e cresce,
Un infinito errore alfin deriva.
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112 POEMI
E s'in ogni momento 'I elei si cangia,
E muta in un sol di mille sembianze.
Porche non ogni giorno il re ci nasce ?
0 perch’al padre nel paterno regno
Succede '1 figlio nato in vario clima
Sott’a varia del cicl figura, od astro ?
Perchè non tutti i regi, e i grandi Augusti
Regia figura in elei, reale aspetto.
Attendono de’ figli al nuovo parto ?
E qual nel generarli almeno elegge
L’ora opportuna? e di bramata prole
Chiede consiglio alle fatali stelle?
Ebbe forse nel ciel reale iramago
Di fortunate luci , allorché nacque
Gigc, che re di servo alfin divenne?
0 Servio che di Roma al regno ascese 7
0 ’l Tartaro clic l’Asia vinse e corse ?
Creso all' incontra con servile aspetto
Nacque di fiera stella e di maligna ?
E Perseo e ’1 Ber Giugui ta c gli altri regi,
Qie ’l trionfo onorar di Roma invitta ?
E come gli altri l'infelice Augusto.
Preso dal re de’ Persi, e l'altro avvinto
Dal barbarico orgoglio ha pari scempio?
Ma nell'estremo, quel che tutto avanza,
Ponga ornai fine alle question profonde :
Perchè vane sariau le sacre leggi,
Vani i giudicj, onde virtù s'onora
SACRI.
Col guiderdone, e T vlziohapenae scorno,
Se i gran principj derivati altronde
Fosser dell' opre giustee dell' inique,
E non in noi medesmi : e ladro il ladro
Non fora , c non farla col furto oltraggio.
Nè percuotendo ’l micidiale ’ngiusto ;
Se non potesse la sua errante destra
Quel dall’oro aslcner, questi dal ferro ;
Sospinto a forza dal destino avverso.
Vani sarlano i magisteri e Parti,
E le fatiche ancora, e i campi Indarno
Segneria coll’ aratro ’l buon cultore,
O domeria col rastro e col bidente.
Aguzzando talor l'adunca falce ;
Se dall’ ira del Cicl matura messe
Fosse negala , o dal voler del Fato.
E ’nvaoo altri solcando T mare Eussino,
O’I Caspio, o l'Eritreo, travaglia e merca ;
Se ’l Fato le ricchezze accoglie e sparge.
E quella de' fedeli antica speme,
Ch’ai gran regno del ciclo invitta aspira ,
Perirpotrebbe, ove ’l suo premio al giusto
Non si conceda, e la sua pena all’ empio ;
Chè dove ’l Fato signoreggia e sforza.
La dignitate e la virtù sublime
Non ban loco fra noi conforme al merlo.
Ma temer non dobbiam che ’l Clel non serbi
Alle buon’ opre alfin corona e palma.
GIORNATA TERZA.
Nella quale per comandamento di Dio ai congregarono le acque in un luogo, e la terra
apparve, e produsse le erbe e le piante cu’ frutti.
Sono città del suo valor superbe,
E di bellezza e d’arti varie e d'opre
Meravigliose, e d'edifìci eccelsi,
Od onorate pur di gloria antica ;
Che dal nascer del giorno al Sol cadente ,
E talor anco insin che gira intorno
La fredda notte ’l suo stellalo carro,
Empion di turba lieta e di festante.
Piazze , campi , teatri adorni c logge ,
Ove a’ dialetti vari intende e passa
L'orc del di fugaci , c le notturne
Lunghe ed algenti, e nel volar del tempo
Pur sè medesma volontaria Inganna.
Altri dall'apparente c vana fraude
D’arte fallace, ond’è schernito ’l senso,
Deluso pende, e ne’ prestigi incerti
Meravigliando quasi T falso afferma.
Ed altri all'armonia di vari accenti,
0 pure al dolce suon di cetra, o d'arpa,
Die l’ alme acqueta, e i cor lusinga c molce,
E gli licn lieti , o mesti In varie tempre ,
Oblia le cure. Altri carole e balli
Lieto rimira; e d'impudica donna,
Che ’n varie guise , e quasi ’n varie forme
Le pieghevoli membra c muove c cangia,
Mira i lascivi salti e i modi c l’arte.
Lusinghieri c vezzosi : c parte agogna.
0 dove splende pur dipinta scena
Di colori e di lampe, c quinci innalza
Gli archi c le mete, c ’ntorno a’ sacri tempj
Con marmorei giganti alte colonne,
Piange I casi d’ Edipo , o di Ttestc ;
E ’n finto cielo il finto Sol gli appare
Tornar turbato addietro in mezz’ai corso:
0 con Davo , o con Siro allegro rido
Degli scherniti vecchi i falsi inganni.
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113
LE SETTE GIORNATE
Altri 1 destrier feroci e pronti a) corso,
A destra ed a sinistra in giro volli
Riguarda, o ’n chiuso arringo, o ’n largo
I simulacri pur d’orrida guerra, [campo
Al chiaro suon della canora tromba ,
Contempla, e de’ guerrier l’ insegne c
E lor virtù con lieti gridi esalta, [l’arme,
Ma noi, che ’l Re del ciel, Fattore c Ma-
D'opre meravigliose, invitae chiama [stro
A contemplare ’l magistero e 1’ arte
Divina , c questo sol lavoro adorno ,
Cli’ 0 di cose celesti e di terrene
Con sì diverse tempre in un conteste ;
Sarem pigri a mirarlo ? o pur languenti
Ascoiterem, come l’elenio Fabbro
Fe’ di sua man le meraviglie eccelse ?
E non più tosto, rimirando intorno
Questa si varia e si mirabil mole ,
Ciascun per sé colla sua mente indietro
Ritornerà, pensami’ al primo tempo,
Ch’ ebbe principio ’l tempo e T nuovo mon-
ln guisa di gran volta II elei ricopre [do?
Le somme parti , e gli stellanti chiostri ;
Onde con tante faci altrui risplendc
Questo sacrato a Dio terreno tempio.
E ’n sè medesina si riposa , e fonda
La gravissima, vasta c rozza terra :
E l’aer vago si diffonde intorno
Tenero e molle, In cui non trova Intoppo
Chi si muove per luì, si proni' el cede,
E ch’allr’il fenda di leggier consente.
Senza contesa egli si sparge a tergo,
Umido nodrimento a chi respira
Porgendo , o dolce refrigerio intorno :
Tant’è l’acre amico ai vago spirto, [usi
L’acqua ancor nutre ; cil opportuna agli
Della vita mortai del mondo immondo
Ordinata lor fu dal Padre eterno ;
Ma non contenta già d’incerta scile,
Ebbe tonnine proprio, e certo loco
Tra suo’ certi confini. In cui s'accolse
Ubbidiente, e ragunossi insieme
Al comandar delia divina voce.
Disse ’l gran Dio : L'acqua cli’è sotl’al
In una ragunanza ornai s' accoglie, [cielo
Perchè l’arida fuore indi si reggia :
E cosi fatto fu. L’acqua repente,
Ch’ è soli' I giri del sereno cielo ,
Nelle sue ragunanze allor s'accolse.
Onde veduta fu l’arida parte;
E l’eterno Fattor per proprio nome
L’arida chiamò Terra ; e l’acque ondose
Mare nomò negli ampj spazj accolto.
DEL MONDO CREATO.
E come suol lalor ceruleo velo ,
Che gran teatro ricoprendo adombri ,
Quinci e quindi ritratto in sè raccorsi,
E discoprir della dipinta mole
Archi, statue, colonne, altari c tempj :
Così al raccor dell' umida natura
Nell' arida apparirò il plano e i colli :
E gli altissimi monti alzar la fronte
(Dianzi coperti) imperiosi in vista.
E ’l mare ondoso mormorando appena
Lavava i piedi al mauritano Atlante ,
E del gran Tauro, e dì Parnaso e d’ Alo,
Ch'allungar può la breve c fragil vita
De’ mortali tigri ; e d' Apennln nevoso
L'ime parti bagnava, c quinci e quindi.
E correvano al cliin dal seno alpestre
Degli aspri monti i rapidi torrenti :
E con rimbombo impetuoso, al corso
Precipitando gian le torbide onde.
Corrcano a basso i quieti e lenti fiumi,
E ’n giù corrcano i lucidi ruscelli.
Perocché Dio colla parola eterna, [pose.
Clie scendessor correndo all’ acque Im-
E da principio l' affrettare ’l passo
Fu comandato all' umida natura
Dell’ acque vaghe, e lor negò quiete
Della divina voce II santo impero :
Perchè nell’ ozio l'acqua è pigra c torpe,
E là dov’ella s’ impaluda e stagna.
Da neghittoso grembo esala intorno
Vapor grave e nocente e feri spirti
D'aure maligne; onde perturba ’l cielo,
E quasi l’aria infetta : c parte in seno
Mal sano nutrimento accoglie c serba
Nel suo limo tenace , onde sovente
Lo sfortunato abitatore ammorba.
Ma l'acqua che veloce in giù discende,
Da qual parte ’l suo corso ella rivolga,
Salubre i sani in sull' erbose rive
Nutre ; e i tesori suoi lieta dispensa
Poscia con auree squame e molle argento,
0 liquidi cristalli; onde s'estingua
L’ardente sete a' miseri mortali.
Ma più salubre è, se tra vive pietre
Rompendo l'argentate e fredde corna,
Incontra ’l nuovo Sol, clic ’l puro argento
Co’ raggi indora, e i passi in breve avanza.
Quasi rimembri, ubbidiente ancella,
Dell'alta voce ancora ’lsuon celeste.
Che pria la mosse, e la fe’ pronta al corso.
Ma s’ è natura pur, eh' è propria all’ ac-
que,
L’ andare a basso, e’i non fermarsi Inalto,
POEMI SACRI.
114
Ricercando quiete in umìl parte ,
A die fu d'uopo la divini voce ?
Bastar polca la sua natura al corso ;
E fu soverchio ’l comandar severo ,
Che le tolse ’l riposo, e ’n moto eterno
La fe’ inquieta , istallile e vagante.
E pur fu necessario ’l santo impero:
Perocché ’l suoi) della parola eterna
Se creh l’ acque, creatore Insieme
Fu della tnobil lor natura errante,
Chela conserva; e nel suo moto eterna
Quasi la rende , e l'assomiglia al ciclo ;
Onde la sua natura è certa legge
Doli' inumi tallii verbo; c certa sede
Dopo ’l suo lungo corso a lei prescrive :
Ma quivi ancor dalle superne rote
Agitata si muove, e turni indietro.
Cedendo intanto all’arenosa terra
Gli usurpati confini. E ’n questa guisa
Segue del Sole e delle stelle erranti.
Ma più della vicina c bianca luce,
11 certissimo errore e ’l vago giro ;
E da sei ore in sei s' ai ama, o scema.
Perocché quando all' orizzonte ascende
La vaga Luna, In riva al mar sonante
Cresce ’1 canuto flutto, c i lidi inonda
Vittorioso , e parte , o copre , o sparge
D’arida terra, lusin ch’ai sommo cielo
Aggiunga della Luna il freddo carro.
Quinci, mcntr’ella all' orizzonte estremo
Declina in ver l’Occaso, il mar decresce,
E'n sé medesmo si raccoglie; c scopre
Di bianchissima spuma I lidi aspersi.
Ma ferve ’l mar di nuovo , c ‘n fera vista
Gonfia P onde spumanti , e spazio ingoni-
Ncll’ occupala terra, allorché torna [bra
Ella a quel punto dell'opposta parte;
E nell'altra emlspero ad altre genti
Altissima risplendc in mezz'ai cielo.
Di nuovo cala ’1 mare, e'n unii! faccia,
E par che fugga ed abbandoni ’l lito ;
L’onde, fervide dianzi, appiana e queta.
Quando la Luna fa ritorno in alto
Nel suo Oriente, ond' ella a noi si mostra.
Ma non serba ogni mar l' istcssa legge
Quand' egli cresce o scema : e varia ’n parte
L’ordine e'I moto, e ’n altri modi ondeggia.
Presso i Tauromilani assai più spesso,
E nell' Etilica (come si legge) il mare
Ben sette volte ’l di s’ avanza , c scema ;
Gran maraviglia ! onde sublime ingegno
Affaticato e vinto, a morte giunse,
Metilr'ci cercando la cagione occulta ,
Si dolse che natura a noi 1* asconda
Nel suo profondo e tenebroso grembo.
Ma tre fiale ’l giorno assorbe e mesce
L' onde la tempestosa empia Cariddl ,
Da cui latra non lunge orrida Scilla.
Altri mari vi son (come s’ afferma)
Che nello spazio pur d' un mese integro
Soglion due volte alzar Tonde spumose ,
E due volte chinarle in sé ripresse.
Anzi nel inar degli Etiopi adusti
Non v'ha flusso e riflusso. E più lontano
Soli’ un altro endspero, e un altro polo,
I n cui non splende ’l pigro Arturo c T Orsa ,
Solca un gran mar d’ una perpetua pace
L'ardito navigante. E quel ch'intorno
La terra mormorando ognor circonda ,
Indomito Ocean respinge , e caccia
Lunge nel crescer suo torrenti e fiumi ,
Talché paion fuggendo 1 porti e ’l lido
Lasciar per tema , e le deserte arene ,
E tornarseli' indietro a propri fonti :
Tanl’ é'1 poter, che gli reprime e sforza,
Dell’ Ocean che mugge alto e superbo !
Ma *1 ligustico seno , e quel de' Toschi ,
Ch’ondeggia presso alla novella Pisa,
Clt' a’ più onorati studj; I premj serba,
E le corone alle più dotte fronti.
Non ha quasi dell’ onde ’l moto alterno.
Ma se da prima T acque al chiaro suono
Fur mosse già della divina voce.
Perché cercare In terra, o’n mezzo all’on-
Altra ragion del lor perpetuo moto? [de
0 pur lassù tra gli stellanti chiostri ?
Come fer molti , Il cui pensiero ondeggia
Pur quasi d’ acqua il tremolante lume.
Altri al moto divino, onde si gira
I-a sfera più sublime, assegna c rende
L'alta cagione ; altri alle stelle erranti,
A quelle più della più bassa luce, [forza
Ch’é più vicina, c quinci ha maggior
Nelle cose mortali a lei soggette.
E di questi, altri vuol eh’ obliquo, o dritto
II bianco raggio innalzi Tonde, o spiani;
Altri, clic della Luna il pieno aspetto
Riempia ’1 mar di tempestoso flutto;
E scemando lo scemi ; ed altri afferma
Che per consentimento di natura
Tacito Imiti il mar del cielo II corso :
Ma sono questi In ciò quasi concordi.
Altri de'vcnti al respirare obliquo
E ’n sé stesso ritorto , il corso all’ onde
Ritorce, c le commove or quinci , or quindi.
Altri fu, che, seguendo antica fama,
Die
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LE SETTE GIORNATE
Disse che *1 mar , quasi spirante e Tiro
Grand'anlmal, che del gran mondo è parte,
Manda fuori, e raccoglie ’l corso, e l’ onde ,
Spirando, e respirando in vari modi.
Altri nell' inegual suo letto angusto
Non vuoi die trovi '1 mar riposo , o pace :
E quinci sempre egli si muova , e lagni
Con roco pianto, e l'inquieto regno
GU sia di guerra pur turbalo campo ;
Ma più si muova nelle parti eccelse ,
Che son quelle rivolte al freddo Carro,
Li dove sempre di gelato umore
Gravidi e pieni son gli orridi monti ,
Lo qual compresso in marsi stilla eversa.
E perche la gelata alta palude.
Che T Aquilon superbo astringe, c 'ndura,
È più sublime assai : però discende
NelTtnospile Bussino : e quel trascorre
Nel mare Egeo col suo veloce fluito :
Ma poi respinto d' arenosa piaggia
Fa l’Egeo ncH’Eussin ritorno, e riede
L' Eussin nella medica palude :
Quinci hanno 1 mari ognor flusso e reflusso.
Alcun vi fu di più sublime ingegno
Ch'a non giuste bilance '1 mar somiglia ;
Ed una parte sua solleva in alto ,
L’altra deprime ali’ arenoso fondo :
Ma da quel favoloso antico varco ,
Ove Alcide innalzò le mete e 1 segni
(Come si disse), e dall' ondose porte
(Se pur sue porte ha l'Ocean profondo)
In guisa di torrente '1 mar si sgombra
Di seno in seno, e con diversi aspetti
Egli sè stesso pur figura , e stringe
Trai curvi lidi e l’ arenose sponde.
Anzi fu l’ alta man dei Mastro eterno ,
Clic *n unte forme flgurollo , e finge ,
Or facendo '1 mar lungo, or tondo, orqua-
E'n guisa di piramide c di croce [dro ;
Anco formollo , e di mirabil vaso ;
Siccome la , dove '1 Tirreno inonda
Di Partenope bella i lidi e i colli ,
Gran tazza colma di spumoso umore.
Maquai si sia del mar la forma e 'I moto,
Posa diurna mai , posa notturna
Non trova, nè silenzio in chiaro tempo ,
Od in turbato , ed in orror profondo ,
Benché i silenzi nell’ amica notte
Abbia la Luna, lo la cagion primiera
Non reco al Sole , od alle strile erranti ,
Non a’ raggi di Luna obliqui , o dritti ,
Non al ritorto respirar la rendo
Degl’Inquieti venti, al vario fondo.
DEL MONDO CREATO. 115
In cui s'appende ’1 mar sospeso bilance :
Cliè la prima cagion fu l’alta voce,
Movendo ’l cielo in giro, e i mari insieme,
De' qual (com' altri disse) in giro parte
L’onda, ed al suo principio in giro toma.
Deh '. se giammai sovra una viva fonie ,
Che d’ acqua intorno larga copia spande,
Sedesti lasso ; e nel pensler l’ occorse ,
Chi è colui che fuor del seno algente
Della profonda e tenebrosa terra
Manda fuor l'acqua 7 e chi la spinge avanti,
Perch’ella mal non cessi e non s’arresti?
Qual sono 1 vasi eie spelonche interne,
Da cui deriva? ed a qual loco alTretta
Mai sempre ’1 corso ? cd onde av viene e
come , [s’empia ?
Che quesU mai non manchi c qnel non
Questi effetti si ascosi al nostro senso
Pendon da quella prima c chiara voce [so.
Ch'aH'acque indulse, e le fe’ pronte al cor-
Tu che volgesti pur le antiche carte ,
E spesso volgi le moderne Illustri ,
Ricorda pur fra te , come rimbombi
Di quella prima voce 11 chiaro suono :
• Si ragunlno Tacque; > e quinci innalza
il tuo pensiero alle cagioni eterne.
Il correr pria fu necessario all' acque
Per occupar la certa cd ampia sede.
Giunte nel proprio loco a lor convenne
In sè stesse fermarsi, cd oltra ’l corso
Non affrettar con un perpetuo errore.
E quinci certo avvien ch'alfin si scorga
Ogni torrente in m are,e’l mar non s’empie:
Perchè fu dato in sorte all’ acque il corso,
E circoscritto entri a’ confini il mare,
Com’ impose ’l buon Re che fece ’l mondo.
E quel suo comandar fu prima legge ,
Legge eterna e comune, a cui rubclla
Non è natura , e tra gli spaz] angusti
Qucta ’l mar violento il fero orgoglio.
Se dò non fosse, el già diffuso c sparso
Coperto avria con nn diluvio eterno
La bassa terra eh* ci circonda e parte.
Nè quel di lei, che fuor dell’ acque appare,
Picciolo spazio ci lascercbbe Intero
A’ faticosi e miseri mortali.
Quando agitato è più fra' tuoni e lampi
Dal gran furor de’ procellosi spirti ,
E volge al lido, e sino al cielo innalza
Gran monti d’onde rapidi e spumanti ;
Appena tocca T arenose rive ,
Che ’l suo furor si frange, e ’n lieve spuma
L’ impeto si dissolve , e rotti e sparsi
110 POEMI
Caggiono i monti, ond’ ci ritorna indietro.
Qual dell'arena più minuta e vile
E dcbil cosa più trovar potresti?
0 qual più violenta e più superba
Dell' orgoglioso mare ? e pure a freno
L’arena tien del mar l'orgoglio e l'ira.
E non temerem noi quel ite superno ,
Che pose al mar con si niirabil arte
Per termine l’arena? ò perdi’ uom pensi
Al magistero, eglimedesmoil dice. [vieto.
Qual potrebbe altro intoppo, e qual di-
Qual podestà terrena, o legge, o forza,
Tener il «osso mar sublime, o gonfio,
Cb' all' Egitto, di lui più cavo c basso,
F'atl'avria prima impetuoso assalto,
E lui sommerso entr'a' suo’ vasti abissi?
Gii coll'indico mar si fora aggiunto
Senza fatica, c senza ingegno, od opra
Degl' industri mortali , e senza 'I vanto
De’ superbi tiranni. Il gran Sesostre,
Ch'i regi calenati al duro giogo,
Quasi cavalli o buoi, soggetti a forza
Tenne, e tragger li fece il proprio carro
Per le già dome e soggiogate genti :
Quel Sesostre, dich'io, terrore c scempio
De’ regni d' Aquilone , ov'egli in alto
Pose la sede { c ben di dò si vanta
Con fama antica 'I favoloso Egitto),
Quell' istesso Sesostre ’l mar degl' Indi,
E l’Eritreo tentò d'unire insieme
Con quel d’ Egitto : e la mirabil opra
Il re possente abbandonò, temendo
Che sommersa dal mar la verde terra
Non rimanesse, e quell' istessa teina
Poscia ritenne ’l successor di Ciro.
Eran, quando fu dato ’l corso all’ acque,
Pieni di cavernosi c curvi monti
Gli antri, c le tenebrose atre spclunche,
E le valli palustri in varie forme
Pendenti, ed ime infra montagne e colli :
E quali eguali al mare i larghi campi
Eran già colmi d’argentato umore :
E tutti insieme si voltar repente
AI comandar della divina voce,
Dacui l' acque furmosse, c ’ngiù sospinte
Dalle quattro del mondo avverse parli,
E ’n una ragunanza insieme accolte.
Anzi nel tempo istesso allor costrutti
Per opra fur della divina destra
1 larghissimi vasi, i fonti e l'urnc.
Egli altri lochi, in cui s'accoglie, oversa.
Non era ancor di là dal varco angusto ,
Che divide coll’ onde Abita e talpe.
SACRI.
Anzi Libia ed Europa, il mar d’ Atlante,
Nò quel si paventoso a’ naviganti
Tempestoso Ocean , che ’ntorno inonda
Di Gerlonc i fortunati regni ,
E l' Inghilterra, e la vicina Irlanda :
Ma fur di quella voce al gran rimbombo
Fabbricate le rive , e ’l vasto letto ,
In cui si ragunar l' acque correnti.
Nò ’ncontra ’l vero insuperbire ardisca
L’esperienza de’ mortali erranti.
Fallace e vana , a cui di pochi lustri
Il brevissimo spazio orgoglio accresce.
Perchò, dich'io, se ben riguardi e pensi
Il numero de' secoli volanti,
A lui non giunge esperienza umana.
E non adduca incontra noi l'esperto,
Che del mondo cercò le parti estreme.
Fosse , stagni fangosi , imi e palustri
Laghi, in cui si raccoglie il pigro umore,
Cile Dio stimò di si gran nome indegni.
E mari egli chiamò sol l' ampie c grandi
Ragunanze dell'acqua, anzi quell’ una
Grandissima, e perfetta, in cui s’accoglie.
Come ’n suo loco , ’l liquido elemento.
E come ’l foco , che diviso e scevro
In parli minutissime, risplende
Qui per nostr’ uso in verde legno, o’n esca
Arida , in forma di carbone acceso,
0 di lucida damma, o di fumante.
Per cui si sparge ’n cenere e ’n faville:
Ma sotto ’l del , ch’ò men sublime ed ampio.
Nel cavo spazio si raccoglie insieme :
0 come l'aria che si spande, c spira
Per varie parti, e nell’occulto grembo
Passa dell' onda, onde germoglia e spuma ;
E fra spelonche e cavernosi monti
Penetra ancora, e nell’ interne vene
Della profonda c tenebrosa terra.
Ma pu re insieme ’l proprio loco ingombra :
Cosi l'acqua non men s’aduna, e sparge
In vario letto, c Ira conditi angusti;
Ma poi raccolto in voto spazio, e vasto,
Empie ’l salso elemento il proprio sito.
L' altr' acque in varie parti insieme accolte
A questa somiglianza anco sortirò
Di mari ’l nome si famoso e illustre :
Siccome là , dove Aquilone algente
Versa mai sempre le pruine c ’l gelo, [eia,
E i larghi campi e gli aspri monti agghiac-
Chc son canuti di perpetua neve.
Ivi [come la fama a noi divolga)
Sono ampissimi stagni , e nel profondo
Letto, e fra le superbe orride rive.
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quasi pinole del mare, alle paludi,
E in gel converse, anzi indurate e strette,
Quasi in lucente adamantino smalto.
Delle veloci rote II corso e '1 pondo
Sostengon del gravoso ed ampio carro,
Che gli animali ignoti a' nostri sensi
Soglion tirar, la fronte alta e superba,
Di più ramose armali e lunghe corna,
Facendo lunga strada al grave plaustro,
La 've dianzi correa spalmata nave.
Ma di lutti maggior candido lago
Là sotto a’ sette gelidi Trioni [no.
Biancheggia, e quasi eguale al mare Irca-
Mollc ha dintorno alle sue ignote sponde
Città, provinde, regni, Ignote genti,
Popoli barbareschi ; c quesli a caccia
Van per le rive degli augel volanti ;
Osu peri’ onde, e dentr’ all' onde (stesse
Cercali l’umida preda, c ’l cibo usato
Degli animai squaminosi , e degli alati.
Bolmia, Domila piscosa, assai vicina
Ai più lontani ed ultimi Biarmi ,
Intra que' suo’ gelati orridi monti
Ha molti quasi mari , c nutre e pasce
Pur di quell'esca le propinque genti,
E potria mezzo nutricarne ’l mondo.
Ha di Venere ’l lago in altra parte.
Che sotto all’ Orse sì dilata c spande ;
E nel suo spazioso e largo seno
Per ventiquattro porte i fiumi accoglie,
Ch’ entrano in lui : ma solo aperto un varco
Lascia al precipitoso uscir dell’ acque,
Che per sassoso calle al mar sonante
Corrono : e ’l suono I suo’ vicini assorda.
Ei molte accoglie nell'ondoso grembo
Isole e tempj sacri al Re celeste.
In cui s’adora con pietoso culto.
Quivi il lago di Melce anco ristagna
Fra il regno di Suezia c quel de' Goti.
Quel di Vetere appresso ivi mareggia;
E di fulmine ’l tuono, o di metallo
Imitator del fulmine rassembra , [corso
Con quel dell' acque, allorché d'alto il
Muove precipitando; onde sovente
Tuonar diresti, e fulminare il ferro,
Che Calte mura impetuoso atterra.
E l’uno e l'altro di metalli abbonda;
Si ricche son l’ avventurose rive
Di gran vene d’argento, e di ferrigne.
Ha ’1 regno di Norvegia T proprio lago ;
Cile ’n vece di prodigio In sen si nutre
Orrido spaventoso empio serpente, [egro
L’ ha quel d’ lbcrnia, ov’ uom languente ed
Non può stanco spirar lo spirto e l’alma,
Se quinci ei non è tratto. E fra' Britanni
SI vede un lago, che pur scema e cresce
Con ordine contrario al mar sonoro,
In cui, quand'egli cala, il lago inonda;
Ma Comica sè raccoglie, e torna ’ndlctro,
Quando più ferve l’Ocean superbo.
Ila Scozia ’1 Lazio di famoso grido,
E la meravigliosa alta palude.
Che quand’ è più sereno e puro T cielo.
Nè si niuovon per l’aria o venti od aure,
SI gonfia non so come c Fonde accresce.
•Molli Germania e Francia, e quel famoso,
Dacui ilRodan si partee 'limar trascorre.
Alla palude Lagia, onde si vanta
La nobil Gamia, lunga età vetusta
Non ila scemato ancor l’ onore e ’l grido ;
Quivi si pesca prima, e poich’è fatta
Secca ed asciutta, in lei si sparge'! sente,
E si raccoglie ; e tra le verdi piante
Prende l'abitator gl'incauti augelli.
E ’n tal guisa addivlen che ’n vari tempi
L'istessa sia palude, e campo c selva.
E di Tracia e d’ Arcadia ancor son conte
Le meraviglie. E nell’avversa parte
Del mondo, dove ’l Sole asciuga ed arde
La terra , sono ancor nel suolo adusto
Di mirabil virtù paludi e stagni,
A cui di mar non fu negato ’i nome.
In Giudea per miracolo s’ addita
Quello, cui piovve già dal cielo ardente
La giusta fiamma; c l’altro a lui vicino,
Onde prima ’l Giordan si muove e scende.
Fra Palestina giace, e ’l verde Egitto
Ne’ deserti d’Arabia un ampio lago
Detto di Simoite. Or perchè narro
0 d’ Arabi, odi Siri acque stagnanti?
S’ ancor la terra d’ Etiopi e d'indi.
Vieppiù soggetta a) Sol, s'irriga c bagna
De’ suo’ laghi famosi ; e si racconta
Che d’ alcuni bevendo uom, folle e stolto
Tosto diviene, o pur dal sonno oppresso
SI giare, c da mortifero letargo.
Olirà le Mete ancor d' Alcide, e I segni.
Fra ’l Tropico del Cancro e l'ampio cinto
Che la sfera maggior divide e fascia.
Ne’ regni dianzi ignoti un lago ondeggia,
Lo qual non d' ora in ora o scema o cresce,
Nè d’un in altro giorno, e non s’avanza
Di stagione in stagione, o d’anno in anno
Ma ’n guisa d* uom terreo, che tardi giunga
Al suo perfetto stato ; e tardi ancora
Declinando , di sè minor divenga ;
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118 POEMI SACRI.
Per cinquini’ anni egli s’ accresce e colma.
Ed altrettanti poi si scema e vota.
Ma dove, Italia bella, ornai tralascio
I laghi tuoi descritti in mille carte,
E chiarissimi ancor di fama e d’onde 7
Chi tace ’l Trasimeno? o quel eh’ accoglie
Nel dolce seno la cittì di Manto ,
0 ’l grandissimo Lario, o ’l gran Benaco,
Ch’ assomiglia del mar l' orgoglio e l'onde 7
0 tant' altri , onde lieta ancor ti nomi ?
Perchè tace’ io le maraviglie antiche
De' stagni di Rieti , in cui vedeansi
L’ (solette ondeggianti ir quasi a noto?
0 nel lago Tarquinio i boschi ombrosi
Ir su per l’onde, e variar sovente
Forma e sembianza , or con ritondo giro,
Or con tre lati, e fare T terzo acuto?
Ma dall' opre di Dio chi mi trasporta
A narrar di natura 1 vari effetti
Antichi, e nuovi? c riempir le carte.
Sacre alla maestà dei Re superno,
D’allr' onor, d’ altr’ istoria e d’ altro nome,
0 d’ altre rare meraviglie eccelse ,
Che delie sue medesme? o pur son anco
L’opere di natura opre divine?
E ’l magistero di natura è l'arte
Del Fattor primo, ond’è fattura c figlia
La gran madre Natura; e ’n lei s’onora,
E ’n lei si riconosce , e si contempla
II saper e ’l poter die tutto avanza.
Detrailo Re, ch’è suo fattore c padre?
Lo quai de' mari diè l’ immago e ’I nome,
E l'ondeggiar con tempestoso flutto
All' acque insieme accolte : e pur di tante
Fece un sol mar con magistero illustre ,
Ma pur in parte occulto a' sensi erranti ,
Ed uno sol dell’acqua ampio elemento;
A cui fra la gravosa e stabil terra,
E l’aer leve e vago, egli prescrisse
La sede c ’l proprio loco ; e quinci c quindi
Pose i fermi confini , o quasi eterni.
Un solo adunque è ’l mare insieme ag-
D’ acque infinite e d’ infiniti abissi, [giunto
Come affermar quei clic di Sole in guisa
Lustrar la terra e circondarla intorno,
Peregrinando dall’ Occaso all’ Orto ,
O da’ regni di Rotea a’ regni d’ Austro.
Bendi' alcun sia , che stimi il mare Ircano
Da ciascun altro mar scevro c disgiunto.
Perchè tutto è di rive intorno cinto :
Nè dimostra altramente ’l vago senso ,
Come ben dimostrò T antico errore
Di chi pensò , die nella stessa guisa
Separato ancor fosse ’l mar Vermiglio,
E quel degl'ìndi. Ma non senso, o certa
Esperienza di mortali industri
Può dimostrar eh’ agli altri mari unite
Sien l' onde caspie, che divise, e ’ntorno
Son circondate da si lunga terra :
Ma solo ’l pellegrino ed alto Ingegno,
Ch’ ascende al cielo, e gli stellanti chiostri
DI sfera In sfera alfln trapassa, e varca
I confini del mondo , e i spazj angusti
Esposti a' sensi , c con eterna pace
Si congiunge alle pure eterne menti.
II medesimo ingegno 1 letti e ’l fondo
Cerca de’ mari ondosi , e va sotterra
Spiando le più occulte Interne parti ,
Clie ne’ segreti suol Natura asconde.
Questo osò d'affermar del Caspio mare ,
Ch’ ei sotterra con gii altri ancor s’ aggitm-
Comedel greco Alfeo,comedelTigre, [ga;
Come degii altri fiumi ancor si legge.
Perocché Iddio , qual fondatore antico
D’alta citladc, od architetto illustre,
Che per uso di lei profonde e lunghe
Strade faccia sotterra al corso occulto
Dell’ acque vaghe , c le conduca altronde,
0 da fonte, o da fiume, o da palude :
Tal de’ mari forò le vie nascose
Dentro la tenebrosa e fredda terra}
E dal suo fonte le rivolse in giro
il Dedalo divin (se dir convlensi).
Sicché non sol congiunto al mar di Cade
K l’Affricano insieme, e quel de’ Sardi,
E ’l Ligustico appresso, e ’l mar Tirreno,
L’ Adriano , l' Ionio , o pur l’ Egeo
(ioti tant’ isole sue , con tanti porti ;
E ’l Mìrteo suo vicino, e seco ’l Ponto,
Coll' Ellesponto, e la palude amara:
Ma d’ Arabi e di Persi e d’ Indi adusti
1 larghi seni ail’Ocean profondo
Son pur congiunti , e ’n più mlrabil modo
Il Caspio mar, clic si rinchiude, o copre
Per tanto spazio, e poi dagli altri appare
Diviso; e quasi peregrin solingo,
L' alta unione e ’l gran principio asconde.
Non disse allora Iddio: La terra appaia:
Ma l’ arida si reggia. Arida volle
Chiamar la terra, e dimostrar co! nome
Ch’ arida fu la terra avanti ’l Sole.
Avanti che nascendo ’l Sole In cielo
Le seccasse co’ rai ie membra asciutte,
L’ antichissima madre arida apparve.
Perocch’al suon della divina voce
Corsero tutte Tacque in giù repente;
LE SETTE GIORNATE
Ond’ella ne restò fangosa, e mista
D’ acque stagnanti in male adorno aspetto.
Ma fu sua prima qualità vetusta
L' esser arida e secca, e nota antica.
Che la disegna , e sua sostanza adempie.
Com’ è proprio dell’acqua ’l freddo, e ’l
Dei foco, e l’aria è d' umida natura ; [caldo
Cosi alla terra l’arido conviensi.
E siccome al muggire è noto ’l tauro ,
E ’l Ber leone al suo ruggir superbo ,
E 1 cavallo al nitrir: cosi la terra
Per l’arido s'informa e si distingue.
Ma de’ primi elementi ancora immistl
Dio solo intender po6 l’accorta mente,
Contemplatrice degli oggetti eterni.
Ma perchè a’ nostri sensi ornai soggetti
Son delle cose instabili e caduche
I gran principi , onje perpetua guerra
È sott’ al giro dell’ algente Luna ;
In lor nulla di puro, o di sincero,
O di semplice vedi , o di solingo ; [pia
Ma son mischiati insieme, e ’n lor s' accop-
L’ una coll' altra qualità primiera.
Onde la terra insieme è secca e fredda :
Fredda ed umida l'acqua : umida e calda
L’aria : ma sovra lei vicino al delo
È caldo e secco per natura ’l foco.
Cosi le <| uni ì t a ti a coppia a coppia
Ne’ primi corpi son congiunte insieme ,
Per cui l’ uno coli’ altro in un si mesce
In breve pace. E come avviene in danza,
Ch' alcuno in mezzo è con due mani av-
vinto,
E con due mani avvince ; c quinci e quindi
L'intrecciala carola In lungo giro,
Menlr' ella si rivolge , in sè ritorna ,
Cosi degli elementi il coro e ’l ballo
Si gira ’n cerchio, ed in sè stesso ei riede.
Perocché l’acqua col suo freddo unita,
Quasi con una mano , al suolo algente
È della fredda terra : e d’altra parte
Con altra, quasi mano, umida tocca
L’ aria , che posta pur fra l’ acqua e ’l foco,
Sè per l'umido suo coti' acqua Implica,
E col suo caldo s'accompagna al foco;
E delle due nature in sè discordi
E guerreggiami , la contesa e l’ ira
Divide e parte, c lor cougiungc e lega.
Oh ! mirabil del mondo in un congiunta
Con Tarie tempre e con tenaci nodi ,
Catena indissolubile, c più salda
Che duro ferro, o lucido adamante.
Per magistero del superno Fabbro!
DEL MONDO CREATO. Il»
Oh ! delle cose instabili e caduche
Ordln fermo e costante e quasi eterno !
Che nei tuo variar perpetuo osservi
Leggi incorrotte, universali, antique,
Che note sono ali’ Etiope adusto ,’
Ed al gelido Scita; e parte assembri
Nelle vicende, e nel tuo moto incerto
Le certe leggi , c sovra ’l ciel divine.
Ma poiché far nei suo profondo sito
Dell' aeque scorse i gran dlluvj accolti ,
Vide Dio ch’era bello ’l novo Mare,
Con gli occhi no, ma colla mente eterna.
Onde ’1 fatto da Ini nobil lavoro ,
E l’ opre sue medesme egli contempla.
Lieta vista e gioconda e vago aspetto
Quello è del Mar quando tranquillo e piano
Rianeheggia mormorando appresso ’l libo.
È bella vista ancor, se ’l dorso inaspra
Lieta e piacevol aura, e l' onda increspa.
Qtiand’ el ceruleo, ovver purpureo appare
A’ riguardanti , e non percuote irato
Con violenza la vicina terra ;
Ma dolcemente le distende intorno
I.’ amiche braccia; e la si accoglie In seno.
Ma non in questa guisa o bello , o caro
Fu ’l sembiante dei mare al Re celeste :
Nè qui della beltà giudice è il senso ,
Ma la ragion della mirabil opra
Nel giudicio divino è bella , e piace.
In prima ’l Marc all' ampia terra intomo
È d’ognl umor di lei perpetuo fonte;
E per oscure e tenebrose strade
Sotto la cavernosa e rara terra
Se medesmo egli pur divide e parte ,
Quasi per mine occulte assai profonde.
E poiché da sé stesso in lor s* è chiuso ,
Con gli obliqui suo’ corsi ascende in aito.
Dallo spirto, che *1 move, alfin sospinto.
Rotto dell’ aspra terra ’1 duro grembo ,
Fuori se n’ esce : c de’ purgati umori
li terrestre amaror cangiai' ha ’n dolce.
E trapassando da’ metalli ei prende
Qualità vieppiù calda , onde sovente
Con fervid’ acque egli s’accende, e bolle
Nell' isole , che ’l mar circonda e bagna ,
E ne' lochi vicini al salso Udo ,
Talvolta in quel, che son fra terra, e lunge.
Bello il Mar dunque è nel giudizio eter-
no.
Perchè sotterra ha ’l suo profondo corso.
BeUo, perchè nel salso ed ampio grembo
Tutti raccogUe d’ognl parte I (lumi;
E ne’ termini suoi sè stesso affretta.
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ISO POEMI
Bello, perchè ’l principio e quasi il fonte
È delle pioggie e il’ ogni umor che tersi
L’ aria ristretta in brina, In neve o ’n gelo ;
F. riscaldato dagli ardenti raggi ,
Le sue partì più lieti esala in aito,
Le quali arriran poi nel loco algente,
Ore di raggi ripiegati e torti
Non giunge 'I caldo. Iti ristrette insieme
Sono dal freddo, che circonda intorno,
E caggionoin gravoso e denso untore,
Talché l’arido seno indi s'impingua
Della tetra, clic poi conccpe, e figlia
Tante, si varie c si leggiadre forme
Di piante, d' animai, di fiori e d’erbe.
E chi negar, può fede al ver ch'io parlo,
Veggendo come ferve al foco ardente
E fuma ’1 vaso , clic d’ umore è colmo ;
Sicché le parti sue sottili c levi
Spirando in aria, egli sì vota c scema ?
Ma dell'lstesso mar l'onda sovente
Nelle spugne raccolta, e cotta al foco,
Degli assetali naviganti e lassi
Ferve al bisogno, e gli consola in parte.
Ma bellissimo èil Mare innanzi agli occhi
Della divina ed immutabil mente ,
Perchè colle spumose e torte braccia
Tante Isole nel sen raccoglie c stringe :
E perchè le remote e varie parli
Della terra ei congiungo , c i lidi opposti
Dalla natura : c largo e piano ’l varco
Porge al nocchier che lui trapassa, e corre,
Care portando e preziose merci
Equinci equindi ; onde ’l difetto adempie
Dell' una gente e l'altra, c ’l peso alleggia,
Scemando quel che di soverchio abbonda,
E porta insieme ancor di cose occulte,
Anzi d'ignote meraviglie c strane.
Moderna istoria e peregrina fama, [gllo,
Ma da qual alto, c ’n Mar pendente sco-
E da qual più sublime eccelsa rupe ;
Da qual sommo di monti alpestre giogo,
Che signoreggi d'ambe parti il mare,
Vedrò la sua beltà si chiaro, c tanto,
Quant’ ella innanzi al suo Fattor s’ offerse ì
Ma se pure è si bello, c si lodato
Anzi ’l divin cospetto , il Mar ondoso ,
Più bella assai , festante e folta turba
È de’ fedeli suoi raccolta e mista, [già,
Ch’ anzi le porte, e dctitr’ al tempio ondeg-
Ed offre I voli ; e le preghiere al Cielo
Devota porge, onde s'ascolta un suono,
Pur come d’onda, clic si rompe al lito.
Cosi quel suo pietoso e lieto aspetto
SACRI.
Nelle marat igliose c sacre pompe,
E la serena sua tranquilla pace
Conserv i'I gran Clemente e’I culto accresca
Nelle quattro del mondo avverse parti,
Mentr’aprc ’l Ciclo, e i suo’ tesori eterni,
E le sue grazie altrui comparte e dona ;
Nè faccia me di rimirarlo Indegno.
Poi disse Dio : La Terra ancor germogli
L’ erba sua verde, c ’l suo fecondo legno.
Che produca i suo’ frutti ; e questo, e quella
Conforme al seme che nel seno asconde.
Cosi diss’ egli . E la gran Madre antica ,
Clic scosso avea dell' acque II grave peso,
Già respirava, ed alleggiata in parte
Parea , quando fuor diede i nuovi parti.
Perchè la voce del sovrano impero
Costante , certa ed Immutabil legge
Fu quasi di natura ; e ’n parte alcuna
Ella non varia al variar de’ lustri ,
Ma si conserva ancor di tempo in tempo.
Però della pregnante e grave Terra
Quasi la prima prole è il verde germe;
E poiché da) suo freddo umido seno
Egli s’innalza alquanto, erba diviene.
E vigore e fermezza alfine acquista,
Talché fleti si dimostra , o ’n altra forma
Perfetta appare, e ’n sua cresciuta etade
Ha ciascuna di lor l' erboso e ’l verde ,
Per cui quasi sorelle, e nate insieme,
Non ci paion ristesse, e non diverse
Molto, ma l' una assai simiglia l' altra :
E senz'aiuto altrui la vecchia Madre
Queste produsse, c non fu d’ uopo altronde
Strana virtute, oltra ’1 divino impero.
Fu chi pensò ch’aita cagione il Sole
Fosse di ciò che ’n lei s’appiglia, o nasce,
Lo qual la scalda con gli ardenti raggi ,
E ’l suo natio vigor dal suo profondo
Con quel vilal calor attragge In alto;
Ma dietro sua ragion s’inganna e falle,
Perchè la Madre Terra è più vetusta,
E nata pria che ’n del nascesse ’l Sole.
Non gli perturbi dunque un vano errore;
E lascin d’adorar del Sole il lume,
Come di vita sia cagione eterna.
Cessin le meraviglie antiche e nuove;
Cessino i preghi, I sacrificj e i voti;
Cessin non pur marmorei alti colossi ,
Ma con gli altari 1 sìmolacri e 1 tempj ;
E cessi ogni fallace ed empio culto,
Ond’ ancor quella sciocca e rozza gente ,
Ch' oltra le Mete, c le Colonne alberga
Sotto l’ignoto del la terra ignota,
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LE SETTE GIORNATE
Che l'Oeean da noi scompagna e parte ,
Adora ’l Soie; e, come a Dio supremo,
Gl’Idoli suoi bugiardi a lui consacra.
E sappia , scorta ornai da santa voce ,
Per cui del nato mondo in lei rimbombi
La maraviglia, e del celeste Fabbro
L’ opra e T lavoro e ’l magistero adorno ;
Sappia ella, dico, ornai (s' inganno, o dub-
In quc' semplici petti ancor rimane) [bio
Sappia che quel lucente ardente Sole,
Che lutto del suo lume ’l mondo illustra,
E tutto ’l corre e lui circonda intorno;
Quell’aureo fonte di serena luce, [dre
Quel grand' occhio del elei, quell' alto pa-
Dclla vita mortai, quel duce eccelso.
Lo qual co' raggi suoi ne guida e scorge.
Nuovo e giovane più di fieno e d'erba,
Lor cede di vecchiezza ’l primo onore :
Ma che fu prima alle lanute gregge ,
Ed a’ cornuti armenti il verde pasto
Preparato dell’ erbe; e ’l cibo untano
Fu d'ogni provvidenza allora indegno.
E quel Signor, eh’ a' tardi c pigri buoi
Ed a’ cavalli rapidi c correnti,
Il faci! nutrimento anco dispose;
Dolci apparecchia a te care vivande,
Onde tu goda, e ricca mensa ingombri.
Quel , che le mandre tue tl nutre e pasce,
0 pur le torme in prato erboso Impingua ;
In gran vasi d'argento, odi fin oro
Condisce il cibo, e ti nutrisce e giova,
E co’ sapori ti lusinga ’l gusto.
Ma ’I germogliare ancor di seme sparso
Altro non è eh’ un prepararti arante
Quel che la vita tl mantenga e servi
E l’ erbe ancor son nutrimenti umani ;
E P altre che produce ’I suol fecondo ,
Quasi fra l’ erbe e le frondose piante
In mezzo poste, e di natura incerta.
Benché non tutti dell’ erbosa terra
Nascanda semi sparsi i germi c i parti ;
Né la gramigna, onde corona illustre
Ebbe ne’ tempi antichi il buon Romano,
Nè la canna che tempra in dolce suono
Spesso al pigro pastore I rozzi amori ;
Nè la menta, nè ’l croco, e mille e mille
Senz’altro seme ancor produce e cria
La Terra, umida ’1 volto e pingue ’l seno.
Perchè nella radice , o pur nel fondo
Quasi è virtù di seme : e'n questa guisa
La vota canna, poich’ un anno intero
Cresce vestita di sue verdi spoglie,
Da sua radice manda , e sparge In fuori
DEL MONDO CREATO. 12 1
Un non soche, lo qual di seme ha forza
0 pur ragione, e l’è di seme in vece.
Nè della canna giù l’oliva è nata.
Ma dalla canna pur nasce la canna,
L' oliva dall' oliva ; onde s’ adempie
Quel che da prima Dio di lor dispose.
E quel che fu nel primo antico parto
Generato di terra , c fuor prodotto
Dalle tenebre oscure in chiara luce.
Di stagion in stagion, di tempo in tempo,
Nel similsuo rinasce e si rinnova,
E nella sua progenie è quasi eterno.
Deh ! pensa come al suon di pochidetti,
E di romandar breve, allor repente
La raffreddata e secca e sterll Terra
Senti del partorir la pena e T duolo.
Ei cari frutti a generar commossa.
Apri ilei chiuso ventre I verdi chiostri.
Come donna pur dianzi egra e dolente ,
Deposto ’l negro manto c ’l vcl lugubre,
Veste di ricche spoglie e d’aurei fregj.
Con arte vaga , olirà l’ usato adorna ;
Cosi la Terra, chc'n dogliosa vista
Mesta appariva e’n squallido sembiante,
D' erbe e di fiori e di frondose c liete
Piante novelle all' abbellite membra
Fece la verdeggiante e ricca veste ,
Tessendo al lungo crin varie ghirlande.
Deh ! pensa teco ancor di parte in parte
Quante fe’ meraviglie Iddio , creando ;
E perchè resti al cor profondo affisso
L’ allo miraeoi suo , dovunque girl
Gli occhi e ’l pensier nell’ opere create.
Ti sovvenga di lui che fece ’l tutto.
Perchè non è sì vile e rozza plaota ,
0 si minuta in terra erba negletta ,
Che rinnovar non possa al cor l' immago,
E la memoria del Fattore eterno ,
E richiamarne I miseri mortali.
Prima del flen l eggendo i fiori e l’ erba,
Pensa fra te che pur di fieno in guisa
L’ umana carne si disfiora , e perde
Il suo natio colore : arida in vista
È la gloria mortai ; troncata in erba ,
Cade repente. Oggi leggiadro amante,
É nel più verde e più sereno aprile
Della felice sua gioiosa vita ;
Nodrito di pensier dolci e soavi ,
E dì speranze giovanili altero ,
E di purpurei adorno e d’aurei fregj.
Sparso d’ arabo odor la chioma e ’l volto.
Robusto per l’eti, raggira Intorno
Un gran destriero e lo sospinge al corso t
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122 POEMI
0 con estranea pompa in finto aspetto
Appare altrui sott'a mentite larve.
Gravi lance rompendo in chiuso arringo;
Domani è tìnto di pallor dì morte ,
Con occhi nella fronte oscuri e cavi :
0 colle membra debili e tremanti
Preme odiose piume; c ferve c laugue
Con interrotte voci appena intese.
Qurgli di sue ricchezze antiche, o nove.
Da se raccolte, o pur dagli avi illustri.
Della sua fama, e del su’onor superbo ,
E da folta seguilo ed umil turba,
Anr.i da numerosa c lunga greggia
Di propri servi , e di ministri eletti ,
0 pur di lusinghieri e fiuti andei;
Esce dell' alto suo dorato albergo,
E torna poi con orgoglioso fasto.
Ed uscendo c tornando , Invidia e sdegno
Move nel primo e nell’estremo occorso.
E d’ogn’ intorno vede all' alle porle
Accorrer gente, di’ ivi adduce c tragge
Grazia, prezzo, favor, mercede e cibo.
Alle ricchezze alta possanza arrogo
Di libera città governo, impero
D’armate squadre, e dagl' invitti regi
Onor concesso e potestà sublime,
E peregrina guardia, in lucid'armc
Temuta c fiera, e’u disusata foggia :
Quinci ’l timore , o di gravoso esilio ;
0 della povertà spogliata c nuda ,
0 di tenebre oscure In correr tetro.
Di grav i ceppi , o pur d' orrida morte ,
l,a plebe e i cavalicr perturba ed auge.
Ma clic ? lo spazio di una breve notte ,
Fianchi , stomaco, febbre ardente e grave
L’ assale e doma , e da si lieto stato ,
Da si sublime altezza , anzi dal mondo
L’ infelice signor rapisce a forza ;
Dispogliando repente a lui dintorno
Di questa vita la dipinta scena :
E tanta maestà sparir confusa
Ratto si vede, e quasi in sogno, o'nombra.
Cosi rassembra un fior languente c vile
La gloria de' mortali , alta e superba [no
Pur dianzi : orili Fortuna è gioco e sclicr-
Ma colle cose, onde la vita e’i pasto.
Aver poscia dovean gli egri mortali ,
Prodotto fu micidiale il tosco.
Nacque coi grano la cicuta insieme ;
Con gli altri cibi immantinente apparve
L’elleboro, e'I color fu bianco c uegro.
Apparve nolo alla matrigna ingiusta
Poi l’ aconito : e non rimase occulta
SACRI.
La mandragora in lerra : e non s’ ascose
li papaver, clic sparge ’l grave succo.
Dobbiam dunque accusar la mano eterna.
Che fece ’l mondo , e vi produsse in lerra
Quel che la vita poi guasti e corrompa 7
Ma pensar non dobbiam ch'ai ventre in-
gordo
Tutto debba servire, empiendo ’l sacco,
0 lusingar con sua dolcezza il gusto.
Perdi’ ogni cibo preparalo, od esca
Nota s’olTcrse, ed opportuna e pronta :
Ed ha ciascuna e la ragione c ’l modo,
Ond’ella giovi. E se del lauro il sangue
Fu già veleno a le, famoso duce.
Che pria vinto fugasti ’l re def Persi,
Poi le Btcdcsmo al suo poter soggetto
Far non sdegnasti, c la tua patria antica;
Dolca però queir animai robusto ,
Cile si destina ai giogo ed all' aratro,
E'n molti usi ci giova e'n molti modi ,
Non esser nato? od esser nato esangue?
Non bai ragione , ondo tu selliv i , o fugga
Quel die ti nuoce, e'I tuo migliore elegga?
Le mansuete e semplicette agnclle ,
() pur le capre, abitatrici alpestri
Degli alti inoliti e deli' incolte rupi ,
Sanno schivar quel clic le affligge e nuoce
Disccrncndo col senso. A te s' aggiunge
Gol senso la ragion , celeste dono :
E lunga insieme esperienza ed arte.
Ma da quel elle ci nuoce, anco sovente
EHI si traggo ; c ’n prò si volge ’l danno :
K giovevole altrui sovente appare [guisa
Quei eli’ è dannoso agli altri. E’u questa
Il mal col bene si conlemprn c mesce;
Talché nulla è da Dio creato indarno.
La cicuta agli storni é caro cibo;
Né (benché freddo} noce al caldo corpo
Del picciolo animai. Ricerca ancora
La pernice ’i veratro , indi si |>ascc :
Taì soli le tempre, ondo si schiva T danno.
La mandragora e l’oppio il souno allicc.
Ma giova ancora alla virtù languente
Delle faiuusc donne e degli eroi
Vinti dal mal, benché dall'arme invitti.
Del buon veratro il buon rimedio antico
È nella filosofica famiglia
Inpregioancor;perch’egli punge e desta
L’ingegno usato alle quistìon profonde;
Come di Prcto già sepper le figlie ,
E T forsennato Alcide, c quel famoso,
di' al buon Pericle fu maestro c duce.
E la cicuta ancor rabbiosa fame
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LE SETTE GIORNATE
Rintuzzando reprime. Or volgi adunque
L’ accuse in grazie : e Dio ringrazia e loda,
Che deriva dal mal sì pronto ’l bene ,
E dalla morte ancor la vita ei trasse.
E non pensar ch’oltra all* impero e ’l suono
Della sua voce , generare ardisca
Disdegnosa la Terra audace parto ;
Benché la folle antichità la fìnga
Madre di fieri mostri e dì giganti.
Ma l’Infelice e sventurata felce.
Che non produce mai frutto , nè fiore ,
E l’infecondo loglio uscir prodotte
Dal suo proprio principio ; c non altronde
Corrotti , e trasmutati in altra forma :
E di coloro ebber sembiante immago,
Di cui dovean poi le parole e i sensi
Germogliar nelle sacre antiche Carte
Inutilmente, e mescolati al vero
Farlo men puro, e men sincero in parte :
Siccome avvicn, quando a progenie illu-
L’ illegittima prole insieme è mista, [stre
Anzi ’l Signore istesso i suoi perfetti ,
Ch’ebbero in luì costante e salda fede,
Poi rassomiglia a quel cresciuto seme,
Ch'abbia prodotto alfin maturo il frutto.
E già per adempir l’ eterna legge
Della sua voce , e ’l suo sovrano impero ,
In un momento avea la Madre antica
Maturati nel grembo i cari germi.
Eran fecondi già gli erbosi prati
E *n guisa ornai di tempestoso mare
Ondeggiavan di spiche 1 verdi campi.
Ogni erba, ogni virgulto, ogni arboscello,
Ogni umil pianta, c colle foglie eccelse
Ogni alber più frondoso c più sublime,
E ciò che per nodrirne , o per al ir’ uso
Della vita mortai germoglia e cresce ,
Era già sorto ; e verdeggiando In alto
Con larga copia empieva ’l fertil grembo
Dell’ ampia Terra ; e d* importuna pioggia
Non si temea, nè d’improvviso turbo,
0 di sonora c torbida tempesta :
Chè non polea dell’ inesperto c pigro
Neghittoso cultor 1* indugio e l’ ozio ,
0 la sua tracotanza, od aria Impura
E stemperata, o fulmine, o procella,
Od altro sdegno pur del ciclo irato,
Nuocer al già maturo e dolce frutto,
0 danno fare all’ ondeggianti spiche.
Nè dell’ aspra sentenza il gran divieto
Della terra impedia la copia ancora :
Ch’ erano allor più antichi i vari frutti
Del peccar nostro , e di vetusta colpa ,
DEL MONDO CREATO. 123
Ond’ a si duro e faticoso culto
Siam condennati , ed a ri trarne *1 cibo
Collo sparso sudor del proprio volto.
E tutti ancora al suon dell’ alta voce
I boschi verdeggiar con denso orrore
Di folte piante e d’intricati rami :
E quelli , che drizzar le verdi cime
Sogliono al ciel con più sublime altezza ,
Cedri odorati, abeti, pini e palme,
Premio de’ vincitori ; o pur cipressi
Imitatori dell* antiche mete.
Gli umili ancor, come i ginepri e i salci
Dispiegavano ornai la verde chioma.
E quelle piante ancor, di cui s’ordiva
NobiI corona all’ onorate fronti ,
Dico le rose e i sacri allori e 1 mirti ,
Sorgendo insieme frondeggiar repente,
(x>n sue proprie virtù distinte e scevre ,
Quasi di varie note in vari modi
Da mano eterna a lor notizia iscritte.
Ma solamente allor ne’ primi tempi
Senza que’ suo’ pungenti , ispidi dumi
Spiegò le foglie la purpurea rosa.
Alla bellezza poi del vago fiore
Aggiunta fu la dura acuta spina ;
Perdi* al nostro piacer sia presso ’l duolo,
E ci rammenti ’l peccar nostro antico.
Per cui fu condcnnata (c ben convenne)
A partorir la Terra ortiche e spine.
Ma come avvien eh’ a quel divino impero
Molte , quasi ritrose e ribellanti ,
Neghino ubbidienza In fare ’l frutto?
E non sien nate ancor del proprio seme?
L’arbore, onde già cinse ’l crine incolto
( Simun’ è vecchia fama) il forte Alcide ,
Or biancheggiarsi vede, or negra appare:
Ma pur frutti non fanno o queste, o quelle.
Sono infecondi ancora il salce e l’ olmo ;
Ma ciascuna ha di lor suo proprio seme.
Come vedrai , se ben riguardi e pensi ,
Glie soggetto alle foglie è un picelo! grano,
Misco nomato già dal Greco industre,
Clic pose molto studio e molta cura
In fare i nomi , e fabbriconi e finse.
E questa ha forza pur di seme occulto,
Come hanno l’ altre ancor, che da radice
Sogliono germogliar; ma legge impose
L’eterna voce alle più degne e conte.
Di cui far volle Iddio memoria illustre :
Come la vite e la tranquilla oliva,
DI cui l’ una produce ’l dolce vino ,
E l’ altra l’ olio : e ’l vln conforto e gioia
È de* più dolorosi afflitti cori :
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124 POEMI
L’olio ci fa lucente e lieto ’l volto.
Ma chi potrebbe annoverar, parlando, j
Tante e si varie di virtù segreta ,
E di sembianza , e da sì varie parti
Traslatc piante , c peregrine illustri ,
0 nostre pure , c soli’ al nostro ciclo
Cresciute, od in selvaggia orrida parte,
0 tra le mura pur del proprio albergo,
Che fanno istoria si famosa c lunga?
Basta la vite sol , che *n allo stende
Le torte braccia, e con frondosi girl
All’olmo amica si marita e lega ;
Basta la vite solo a farci accorti
Di nostra vita ; c di natura esempio
A noi si mostra, anzi è più degna immago
D’immagin naturale, o di celeste.
K rassomiglia umilemente altera
Della Madre Natura il Padre eterno.
Padre del cielo, o pur l’ eterno Figlio,
Ch’ a sè stesso di vile ’1 nome impose;
E coltor nominò, parlando, il Padre :
E noi , per fede nella Chiesa inserti ,
Dì chiamar si degnò sarmenti c tralci ;
Pcrocch’a noi, coni’ alla fertil vite,
Conviensi, o come alla feconda olita,
Producer largamente i dolci frutti ,
Senza spogliar giammai per tempo, o caso,
Della speranza non terrena ’l verde ;
Ma con sempre borito c lieto aspetto
Rassomigliarla, c verdeggiar nell’ opre ;
Ed offerirne a Dio la gloria c ’l inerto ,
Ch’ è divino cultor di pura mente.
Ma sono in dignità vicine a queste
Quelle felici piante avventurose.
Che della madre sua son quasi immago ;
La qual è nel cipresso c nella palma
Rassomigliata : e d’odorato cedro,
E di platano ancor non prende a sdegno,
0 pur di mirra la sembianza e ’l nome.
Ma pur queste medesme ed altre ancora
Utili sono a’ magisteri, all’arte
Di nostra vita e quasi a ciò prodotte
Dalla natura , anzi dal Fabbro eterno
Colla natura insieme allor create.
Altra par nata agli edifici eccelsi :
Altra a tesser di sè le navi e i carri :
Altra a far lance , o pur saette ed archi ,
Armi temute nell'orribil guerra :
Altra ci nacque destinata al foco :
Altra a far ombra a’ peregrini erranti
Nel mezzogiorno, od a coprir d’intorno
Colle ramose braccia i dolci fonti ,
0 pur le mense fortunale appieno :
SACRI.
Ma che sia proprio di ciascuna , o come
L’uua dall’altra si distingua e parta;
0 quai denti-’ alla rozza orrida scorza #
Sieno amori secreti ed odj occulti ;
È studio forse d'ozioso ingegno,
E ’l ricercar qual nel profondo grembo
Dell' ampia terra le radici estenda :
Qual nel sommo di lei s’ appigli appieno:
Qual dritta nasca e sovra un saldo tronco
Lieta s'avanzi, c s'avvicini al ciclo :
E qual cresca, le braccia e i piè distorta,
E ’n molti rami si divida c parta :
E «piai umil serpendo, a terra incitine
Le verdi fronde , o non ardisca alzarsi
Senza ’l fido sostegno, a cui s’apprenda.
Cura oziosa è pur di vana mente.
Ma quelle che diverse e quasi sparse
Per l’aria son con molti rami intorno.
Sogliono aver ancor profonde a dentro
Le sue radici assai distese in giro :
Perchè Natura stabilisce e fonda
Delle superne parti il grave peso
Incontra ’l mormorar di Borea c d’Austro.
Nella nativa ancora incolta scorza
È gran divario. Altra l’ ha rozza ed aspra :
Altra mcn dura : altra più molle e liscia;
Altra d’una corteccia appar contenta:
Altra di molte si ricopre c veste.
Ma quel che meraviglia in vero apporta ,
È che ritrovi in lor (se ben riguardi )
1 diversi accidenti c i vari esempi
Di gioventute c di vecchiezza umana.
Perchè le piante, ancor novelle c verdi,
Hat» polita la scorza e quasi estesa.
Ma s’ addì vien che per inoli* anni invecchi,
S’ empie di rughe, ed increspata inaspra.
Ed altre germogliar recise e tronche
Sogliono : cd altra , nel troncare , il ferro
Apporta quasi inevitabil morte.
Altra fu già, eh' impetuoso turbo
Dalle radici sue dlvelse, e poscia
Ella risorse, e s'appigliò di nuovo
Nel duro grembo dell’antica Madre;
Siccome ben due volte almeno avvenne
Ne’ campi dì Farsaglia, e ’n altra parte.
Altra non pur, come si scrive c conta.
Nella medesma terra anco s’apprese:
Ma fu talvolta clic reciso ed arso.
Il pino trapassò di selva in selva :
E verdeggiò tra le robuste querce :
Miracool raro di Natura e grande,
Se meraviglie fa 1’ alma Natura.
Ma chi riguarda, come ’l buon cultore
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LE SETTE GIORNATE
I vili curi dell' inferme piante,
E dell’egra Natura in lor corregga
Vari difetti, e gli trasmuti in meglio;
Di curar sè medesmo apprenda ’l modo.
II bei pomo affrìcan, clic ’n molle scoria
Mille quasi purpuree e bianche gemme
Asconde c copre, e poi le sparge aperte,
Onde l'arida sete estingua In parte;
L’ acido suo sapore in dolce succo
Cangia sovente. E 1 mandorlo d' amaro
Dolce diviene, e l’amaror maligno
Affatto lascia, se forato è il tronco
Alle radici, e dentro '! foro infitto
Di pece un cuneo ei ricevendo accoglie
Nella pingue midolla. E l’orzo ancora
È medicina alle frondose piante,
E le fa belle olirà misura, e liete :
Tanto può l’arte del cultore industre!
Ma s’egli è neghittoso e pigro all’ opre,
Per negligenza di coltura e d’ arte ,
Gli alberi vanno ognor dì male in peggio.
Altri mutano ancor colore c forma
Senza l’aiuto di cultore amico.
E la candida pioppa in negro tinge
Le bianche foglie ; e si trasmuta in loglio
Sovente 'I lino : ed il sisimbro in menta
Per soverchia coltura ancor si volge.
Cosi l’animo ancor, se studio, o cura
Delle sue macchie noi polisce c terge ,
Perde ’l natio candore , e tutto annera ,
Ovver di grande egli diviene angusto ,
E d'alto, basso, c sè medesmo Inchina :
Ma per culto s'innalza , e lieto aspira
Già quasi al ciclo, e sè medesmo avanza.
Dunque di coltivar l'umana mente
Apprendano 1 mortali , c 1 vari morbi
Sanar dell'alma in sè languente ed egra.
Or chi potrebbe annoverar parlando
1 vari frutti , o dimostrar distinti
1 color) , 1 sapori , I propri effetti ,
E la propria virtù mal nota ai gusto?
Non sol mille maniere e mille forme
D’arbori fanno i frutti in mille guise;
Ma in una sorte istessa , e ’n una parte
Molta varietà s'osserva e mira
Di color, di figura, o pur di sesso.
Siccome nella palma altri ritrova
Dalla femmina sua distinto ’l maschio;
Perchè com'clla sia commossa, c spinta
D' interno amor, quasi le braccia stende ,
E brama al suo marito esser congiunta.
Ed il medesmo awìen tra fico e fico : [nasce
Perché ’l selvaggio a quel eli' alberga c
DEL MONDO CREATO. 12S
Fra le rinchiuse c ben guardate mura,
Si pianta appresso ; o pur si lega e stringe
L’ uno coll’ altro frutto ; e ’n questa guisa
L’infermità si cura; e si ritiene
Ch’egli non cangia alfin disperso e guasto.
l)ual di Natura è questo oscuro enigma?
Forse ’n tal modo ella c' Insegna, e mostra
Che dagli strani, ancora a noi congiunti.
Virtù s’acquista alle buon’ opre, e ferma
Costanza. Adunque Italia ornai rimiri,
llalia ancor languente, ancora inferma.
Vieppiù che ’n guerra, in neghittosa pace,
Che l’ interno suo mal non vede , o sente ;
Miri gli orridi monti , e ’n loco alpestro
Cerchi la gente orribile c selvaggia :
Quinci ’l tenero suo , che languc e cade ,
Anzi ’l morbido suo confermi , e ’nduri
Per unione , o per esempio almeno.
Ma in nlun peggior modoe più spiacente
Traligna, e perde la robusta pianta
li suo vigore e la sua prima forza,
S'egli addivlen (come sovente incontra)
Che’n femmina di maschio egli si cangi.
E quinci l' uomo ancor si guardi e schivi
D’ammollir, quasi donna, il cor robusto,
Che Natura gli diè , tra I vezzi e gli agi,
Per ozio, per diletto, o per lusinga.
Ma fra le piante ancor distinte e scevro,
Natura amica amor vi pose, e pace :
Pose fra l'altro inimicizia ed ira.
Il bel pomo gemmato e ’l verde mirto,
0 pur il mirto c la feconda oliva,
Sun per natura amici , e ’n breve spazio
Piantali appresso senza oltraggioe danno:
Ma pur la dolce vite e ’1 dolce fico
Avversi sono olirà misura , c ’nfestJ.
Chi ’l crederebbe? c tu , Natura , insegni
Che tra’ buoni talvolta è sdegno e guerra.
Ma si marita ancor la vite e ’l fico ,
Come addivien, quando fra regno e regno
Quclan le nozze l’odiosa guerra.
E chi ’1 marito allor disturba e svelle,
Langue la sua consorte In breve, c muore.
Nobile esemplo dell’ amore umano ,
E di fè maritai costante e salda.
Ma ’l caolo s’alia vite s’avvicina,
Tempra quel generoso e grande spirto.
Onde poscia ’l suo vino avvampa e ferve,
E giova agli ebbri : in colai guisa ammorza
L’ interna fiamma fervida e fumante.
Ma d’ innocenza han sovra gli altri il vanto
Il bel pomo granato e ’l dolce melo ,
Nè fanno ad altra pianta oltraggio, od onte.
126 POEMI
Ed innoccn te '1 pino innalza c spande [ bra
La chioma al cielo, cd ampio spazio adom-
Con larghi crini e colle braccia estese :
Picciol loco sotterra ingombra e prende
Colle radici, e sott' all' ombra amica
Verdeggiano sicuri il mirto e ’l lauro.
Sott' all’ombra cosi di re possente.
Che di tesoro ingordo, o di terreno
Non si dimostra , e non s’ usurpa a forza
De’ suo' vicini l'occupata parte,
Crescon molti sovente in lieta pace:
E fiorisconvi ancor gli studj e Parti
Dell'eloquenza, e 1 meritati onori.
Vi sono piante di natura incerta,
E di gemina vita in acqua e ’n terra.
La mirica è fra queste , e spesso abbonda
Ne' solitari luoghi e ne’ deserti;
Ne’ laghi c negli stagni ancor ci nasce.
Sembiante a quei che variar sovente
Soglion le parti, ed’ un in altro campo
Seguir fortuna, c d’un signore all’altro
Per natura maligni, e per costume.
Ma delle piante ancor chi tace ’l pianto?
Chi può tacer le lagrime stillanti
Dalle ruvide scorze? e i viri umori
Lucidi, trasparenti, insieme accolti?
Sparge dal legno suo tenace e lento
Sue lagrime ’l lenlisco; e ’l dolce succo
Fuor versa ancor di lagrime odorate
li balsamo ; arboscel pregialo e caro
Nel regno degli Ebrei. Ma ’i verde Egitto,
E l’ Affrica arenosa ancora ’l pianto
Della ferula vide, li chiaro elettro
È lagrimoso umor, che sparso cade
D’arbor famoso, eh’ un bel pianto impetra.
Ma pur troppo ’l parlar s’avanza e.
E negli aperti e smisurati campi [cresce,
SAcni.
Della terra e del mar confine, o freno
Non trova al corso, ond' ci disperso errante
Per le cose minute andria vagando;
in cui sì grande appare , e si possente
Dio Creator, che fece ancor l’ eccelse.
Dunque Ha d’ uopo di fermarlo, avvinto
Dalla necessitò, eh’ è dura e salda.
Prima ch’alia fatica il breve giorno
Manchi di questa mia vita caduca.
Voi , che mirale le diverse piante
Negli orti e nelle selve, o pur ne' monti.
Nelle paludi ancora, e negli stagni,
0 pur dell’Eritreo nel rosso grembo;
E vagheggiate i verdi tronchi e i rami,
E le fiorite lor frondose chiome;
Nel poco ornai riconoscete ’l mollo :
E col pensiero a brevi c scarsi detti
Gran meraviglie ancor giunger potreste,
Pensando a quel Signor che fece ’l mondo
Meraviglioso di lavoro e d’arte.
Lo qual disse : Germogli ancor la terra
Il legno , clic produca ’l dolce frutto
Sovra la terra. Allor all'alta voce.
Come paleo, clic nel suo ferro affisso,
Alle prime percosse ei va rotando ,
E con molte sue rote in se ritorna;
Cosi la Terra va girando a cerchio
Le sue stagioni ; onde si spoglia e reste
E i cari frutti suol produce c serba.
Chò pur la sferza con divina voce
Quel che comanda alla Natura, al Cielo :
Perch’ ella d' anno In anno i certi giri [pia,
Volga sembianti al primo. Allin gli adem-
Quand’avrà finc’l tempo, c finc’l mondo.
Ned ella sola avrà qutete e pace :
Ma i Cieli avranno ancor riposo eterno.
GIORNATA QUARTA
In cui furon creati il Sole , la Luna e le Stelle.
Quel che rimira le contese e I pregj
Dei lottatori , o di chi leve al corso
Le membra ignude in di solenne affretti ;
Odiguerrierlpurrimpreseerarme, [go,
Diverse in largo campo, o ’n chiuso arrin-
E i duri i ncontri in tornearne rito, e ’n gio-
stra;
Sente in si stesso un movimento interno,
Ond* è commosso e concitato insieme
Con qncl che fan tra lor dubbio contrasto :
E col suo proprio affetto inchina c pende
Più sempre ad una parte ; e brama e spera
La vittoria da quella : e spesso innalza.
Per rincorar I suol , la voce e ’l grido.
Cosi chi di celesti obbietti eterni ,
E delle cose smisurate e grandi ,
Mira le meraviglie; o pure ascolta
Quel ch’ogni stima, ogni giudirio avanza
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LE SETTE GIORNATE
Deir inerrabii sapienza ed arte ;
Convlen che seco, anzi In sé stesso apporti
Gl' impeti interni e’1 rivo ardore c’I zelo
Fervido, a contemplar rivolto e Uso
Tai cose e tante, in pochi giorni ai suono
Fatte della divina eterna voce.
E dee con ogni forza insieme accolta,
Tome compagno c come fido amico,
Trovarsi nel contrasto, e dar aita.
Perchè non si nasconda c non s’adombri
La verità : ma senza Inganni , o falli
Risplenda, e di sua luce i cori Illustri.
Ma che dico! ed a chi ragiono e parlo?
Mentre In si faticosa e giusta impresa
Quasi ardisco di porre i cieli in lance,
E pesar l'universo appeso in libra.
Le primeoprc narrando, e i primi giorni,
K i natali del mondo : e i primi, c gli alti
Prtncipj suoi non ricercando a caso
Fra le menzogne della Grecia antica;
Dove per suo voler s’ arclcca , e perde
Altri, filosofando, it dritto lume :
0 pur nell’ Accademia, e nel Liceo :
0 nell’ error del tenebroso Egitto;
Ma da colui , che fuor ne trasse , e scorse
1 fidi suoi per mezzo ’l mar sonante ;
Egli mi tragga ancor sicuro a riva
Da questo si turbato e sì profondo
Mar d’ignoranza e di superbia umana.
Anzi pur tu, che lui (assembri , o Padre
Sommo, e rinnovi ’l primo e santo esem-
Tu, die somigli lui, somigli ancora [pio;
Il Re del cielo, ond'ei fu quasi inunago,
Ma pur nascosa fra gii orrori e l’ombra
Del sccol prisco ; e tu se’ I* altra or vera
Spirante inunago, e simolacro illustre
Dell'alta gloria sua che nulla adombra.
Onde co’ raggi suoi riluci e splendi.
Piacciati tanto al mio turbato ingegno
I Compartir di quel santo e puro lume.
Olle trasfuso da te, conduca e scorga
L’alme gentili , e i pellegrini spirti.
E se giammai gli occhi levare in alto
Ih bel sereno lucido, notturno
All' immortal beltà dell’ auree stelle.
Pensando all’ opre del Fattore eterno;
Chi è colui che fece ’l ciclo adorno ,
E tutto ’1 variò , quasi dipinto
Con sì diversi fior di luce e d’ auro :
E come nelle cose esposte a’ sensi
Necessità tanto ’l piacere eccede :
E se ’n tal guisa fur mirando appreso
Del sommo Dio le meraviglie eccelse :
DEL MONDO CREATO. 157
E da quel clic si vede, e scopre agli ocdil
Fur note poi Paltrc imbibii forme;
Posson beu questi empier le sedi intorno
DI questo sacro a Dio teatro, e i gradi ,
Ove la gloria sua si narra e canta.
Oli ! possa io pur, siccome guida c scorta,
Ch’ignoto peregrin conduce intorno,
E gli edifici , e le mirabili opre
Di famosa città gli addita e mostra.
Cosi condur le peregrine menti
De’ mortali quaggiù, mai sempre erranti,
Alle sublimi meraviglie occulte
Di quest’ ampia città : di questa, lo dico,
Città celeste, ov’è la patria antica
Di noi figli d’Adamo, c l’alta reggia,
In cui gli eterni premj 11 Re comparte.
Ma poi scacciati in doloroso esilio
Fummo dal micidial denion superbo.
Clic pria dolce n’ adesca, c poi n’andde
D’eterna morte, e’n servitù n’adduce
A’ duri lacci del peccato avvinti
Con nodi di fortissimo adamante.
E qui potran veder sicuri e certi ,
Della nostra immortale c nobil alma
L'alto principio e la celeste origo,
E quella, che repente indi n’assalse.
Orrida spaventosa c fera Morte,
Che del Peccato è dolorosa figlia :
Del Peccato, eli’ è prole e primo parto
Del superbo Demonio, a Dio ribello.
Principe di malizia , e quasi fonte ,
Ond’ogni mal fra noi si versa e spande.
Qui conoscer potran sè stessi ancora ,.
Che per natura son terreni e frali ;
Ma pur della divina e santa destra
DeU'eterno Signor fattura ed opra ;
E conoscendo le medesme , alzane
A conoscer Iddio , che fece 'I tutto.
Ed adorare ’l Creator del mondo ,
E servire ai Signor, dar gloria al Padre:
Amar quel che ci nutre c ci conserta,
I .odar quei ch’i suoi beni a noi comparte,
Principe a noi dell’ una e l’altra vita
Caduca, ed immortale in terra e’n cielo.
Apprender qui potranno. E sazj e stanchi
Non saran mai di celebrarioa prova ; [stra.
Perdi’ ei co' doni ; onde jrriechiseee Ulu-
li fa lieti quaggiù gli egri mortali ,
Conferma ancor le sue promesse antiche
De’ tesori celesti , e dell' eterno
Regno divino , ove ne chiama a parte;
E l’ umana speranza innalza e iblee »
Che sempre per sè stessa a terra serpe.
Dii
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128 POEMI
Ma se le cose , al variar de' tempi
Quaggiù soggette , son pur tali e tante ,
Quali e quante licn poi l' eterne in cielo?
E se quel che si vede, agli occhi nostri
Piace cotanto, or quai saranno alfine
Gl’invisibili oggetti all'alta mente?
Se del Ciel la grandezza in guisa avanza
Ogni misura dell' umano ingegno,
Chi la Natura senza (ine eterna
Fia che comprenda ? E s’egli e pur si bello,
0 pur si grande e si veloce ’l Sole,
E si ordinato ne' suo’ obliqui giri ,
Si moderato al mondo, e si lucente,
In guisa d'occhio, che l' adorni c illustri ;
Se mai della serena e chiara vista
Notici lascia, partendo, appien contenti;
Bench’egli pur soggiaccia a tarda morte,
Quando che sia : deli ! qual liellezzaeterna
Nel gran Sol di giustizia altri contempla ?
Se sol non veder questo al cieco è pena,
Qual sari pena al peccatore ingrato
L’ esser privo d'eterna e vera luce?
Era gii fatto innanzi '1 primo Cielo,
E la terra e la luce ancor creata;
E gii distinta era la notte e'1 giorno :
Ed era fatto ancor quel Ciclo appresso,
Che dalla sua fermezza ’l nome prende,
Confine estremo del sensibil mondo :
£ l’ arida pur dianzi occulta e immersa
Tutta nell’ acqua, era scoperta in parte
Dall’ondeggiante umore : e’nsieinc accolte
Eran gli l’ acque nel lor proprio loco.
Pieno la terra ornai de' propri parti
Aveva ’l grembo , e di fecondi germi ,
Tutto d' erbe e di fior dipinto e sparso :
E frondeggiava dell' ombrose piante
La verde chioma ; e pur ancor non era
Il Sole, over la Luna : e quel nomato
Non era della luce eterno padre ,
E padre delle cose , e quasi fabbro ;
Di quelle, dico , che produce e nutre
La madre terra ; e'I vano e falso errore
De' mortali, che'l senso inganna, c guida,
Quasi fallace e lusinghiera scorta.
Non l'avea fatto Dio. Ma l’oprc illustri
Arca fornito Dio del terzo giorno;
E dava ornai lieto principio ai quarto.
E, slen fatti (diss’egii) 1 duo gran lumi
Del fermo cielo : e questo e quel risplenda
Sopra la terra : e sia diviso e scevro
In disparte del giorno, ed In disparte
La meli della fredda oscura notte.
Cosi dlss'egli; e fece I duo gran lumi.
SACRI.
Ma chi disse? e chi fece? Or non Intendi
Della doppia persona il grande, occulto,
Incflabll mistero, e’nfusa e sparsa
La sacra istoria di saper profondo
Rivelato per grazia a’ vecchi Padri,
Che nell’ antiche carte ancor s'adombra,
Quasi per nube , e ne si vela in parte ?
E non conosci ancor dell'alta voce
Quanto giovi a' mortali 11 santo impero?
Risplendan , disse Iddio , sovra la terra ,
Per illustrarla , e l' agghiacciate membra
Riscaldar col sitai temprato foco.
Cosi diss' egli ; ed ab eterno impose
Che’l Sole 1 raggi suoi spargesse al giusto,
Ed all'ingiusto; eh’ all' ingiusto ancora
Volle giovar, chi di giovar c'insegna :
E negl'iniqui ancora ei sparge e versa
I suo' beni e le grazie in ciel cosparte,
E trasfuse dal Sole e dalle Stelle.
Nè fu nelle parole , o pur nell' opre
Discorde a sè medesimi ’l Padre eterno,
Pcrch’ ei primier creò la bella luce ,
E poscia 'I Sol. Fu senza 'I Sole adunque
La chiara luce? e senza Sole, o Stelle?
Fu certo prima. E come’l corpo all'alma
E come serve 'I carro al proprio auriga ;
Cosi alla prima luce I duo gran lumi
Fur dati, ond'clla risplendendo apparse,
Perdi' ella da sè stessa agli altri ingegni
Prima risplende, ed alle pure menti,
Inlelllgibil parto, e quasi eterno;
Poi sovra '1 doppio carro a' vaghi sensi
Nel di riluce c nell’ ombrosa notte.
Nè mai di carreggiare è stanca, o tarda
Per le strade lassuso oblique e torte.
Fu dunque pura luce innanzi al giorno.
Che poi di raggi adorno il Sol distinse ;
Anzi Dio stesso separar la luce
Dalle tenebre volle, c dipartila:
Ma comandò che separasse il Sole
II chiaro giorno dalla notte oscura;
Perch’alia nobil mente egli distingue
I puri oggetti , e poscia al Sol comanda
Che gli mostri divisi a’ sensi erranti ;
Ed alla bianca Luna ancor ministra [la
Del suo splendore, e vuol che questo c quel-
li tempo e l’ore in spazio egual comparta.
Osiamo adunque senza inganno c tema,
Almen coll'animoso alto pensiero
A separar dalla sua luce 11 Sole,
Come nel.foco si divide e parte [stra.
Quel di lui che n’infiamma, eque] eh'illu-
E già'l divise con mirabil vista
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m
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Iddio , quand' egli al rubo il foco impose ,
Lucido assai , dal suo splendor disgiunta
L'altra propria virtù, quella ch'incende.
Clic rimase oziosa , allora occulta :
Tanto è’I poter della divina voce
Che può del foco risecar la damma!
Anzi quando avverrà eli’ i prenij eterni ,
E le pene eomparta ; allor del foco
Eia la natura alibi divisa e scevra ,
E Ila la luce destinata al giusto.
Perdi’ ci ne goda ; e l' altra ardente forza
A punir l’ empio giù nei cieco inferno.
E’I variar dell’ incostante Luna
II medesimo ancora insegna e mostra
Colle cangiate sue diverse forme.
Perche mentr’ella scema, e’I lume perde,
Tutto già non consunta ’l bianco volto-.
Ma de' suo’ rai la candida corona
Con varia immago ora ripiglia, or lascia :
t Inde conoscer puoi eli’ assai diverso
li suo corpo èdaquello,ond’ei s’ illustra.
Il somigliante ancor nel Sole avviene;
Ma’l Sole il lume suo, ch'èprcso altronde,
Poich’una volta ei se n’ adorna e veste,
Mai non depone; ella del lume altrui
S'ammanta spesso, c spesso anco si spoglia
Con umil vista, c la sua vece alterna.
In questa guisa a duo’ gran lumi impose
Clic da lor fosse dipartito ’l mezzo
Del chiaro giorno , e della nottc’l mezzo
Perchè ’nsleme non sian confusi e misti,
Nè compagnia, ned amicizia al mondo
Era la luce e le tenebre rimanga.
Ma qual nel giorno luminoso è l'ombra,
Tal nello spazio dell’oscura notte
La tenebrosa ed orrida natura
L’ombra de’ corpi cede , opachi e densi ,
Allo splendor de’ più lucenti opposti.
E ’n sul mattino all’ Occidente è stesa,
E verso l’Oriente a sera inchina :
E ’1 Mezzogiorno si raccorcia e stringe ,
E contra l’Orse si dispiega appena.
La Notte, volta dal contrario lato,
Ode a’ lucidi raggi , e ’n sua natura
Altro non è che l’ ombra oscura , algente
Ch'esce dal grembo della terra opaca :
E sempre avanti allo splendor diurno
Fuggc alla parte opposta, e si dilegua.
In questa guisa impose ’l Padre eterno
Le misure del giorno al chiaro Sole :
E fe’ la bianca Luna , allorché tutto [pie,
D' argento ’l cerchio, e di splendor riem-
Prlnclpe della fredda oscura notte.
Eran quasi per dritto allor conversi
L’un con trai' altro! duo’ be’ lumi in cielo:
Perchè, nascendo'l Sole, imbruna e perde
Dell'alma Luna la rotonda immago.
E se precipitando 11 Sol tramonta ,
Elia all' incontra in Oriente appare
Sorgendo, e fuor dimostra ornalo ’l viso:
Ma in altre sue ligure , In altre forme.
Colta notte spirar non suole insieme;
Benché nel suo perfetto intero stato,
Quand'ha colmo di luce ’l vago giro,
Incoronata de’ suo' bianchi raggi ,
Regina è della notte, c tutte avanza
Di luce e di beltà l'aurate stelle.
Ed in vece del Sol la terra illustra.
Ma ’1 Sole è re del luminoso giorno,
E come sposo, dal celeste albergo
Esce lutto tli raggi e d'oro adorno,
Dì più lucente e di maggior corona
Circondata la chiara accesa fronte.
E ’n guisa di gigante allo c superbo
Trascorre'! ciclo, e'1 signoreggia intorno:
Tatti’ egli è grande , e di tal luce ardente '.
E grande ancor la vie men calda Luna :
Ma come è grande? oper rispetto altrui
(Se pur riguardi alle minori Stelle),
Od in sé stessa pur descritta e chiusa
Dalle sue linee entro T suo puro cerchio ?
Siccom’ è grande ’l Marc e grande '1 Cielo ;
O perchè basti ’l suo splendor sereno
Ad illustrar gli smisurati campi
Delia Terra, del Mar, del Clel profondo?
Però d' ogni sua parte cgual si mostra ,
Quand’è rilonda, agli Etiopi, agl’ Indi,
A’ freddi Sciti, agl’iperborei ignoti,
0 sia ’n oscuro Occaso , o ’n lucido Orto,
0 del elei tenga più sublime parte.
Nè giunge, o toglie alla grandezza alquanto
Dell’ ampia terra il largo seno , o ’l dorso ,
Onde minor per lontananza appaia.
Maggior perchè s’ apprcsse , o s’ avvicini ,
Come dell’ altre cose in terra Incontra.
Nè giammai dal gran Sole è più remoto,
Nè più vicino alcun ; ma In spazio eguale
Son gli abitanti In ogni clima estremo.
Pensa fra te se mai da eccelso giogo
D'orrido monte rimirando a basso,
l’mil campo vedesti , od ima valle ,
Quanto i gioghi de’ buoi sembrano In vista ,
0 quanto grandi gli aratori Istessi :
Di minute formiche ebber sembianza
Seni' alcun dubbio, entr* a misura angusta
Cosi accordarsi, c rannicchiar le membra:
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130 POEMI
Cotanto si consuma e si disperde
Della vista mortale il senso incerto
In mezzo a così grande e lungo spazio,
Ch’ appena giunge a’ que’ remoti oggetti ;
Ma se da vetta, o da sublime scoglio [tenti.
Volgesti *1 guardo al Mar con gli ocelli in*
Quanto risole in lui diffuse e sparse
Ti si mostrano in vista ; o negra nave
Di care merci e preziose onusta ,
Spiegando in alto le minute vele
In guisa d’ale, dalla salda antenna
Sovra ’l ceruleo suo spumante dorso;
Certo minor di candida colomba
S’ offerse agli occhi la minuta irnmago :
Tanto nel vano , e negli spazj immensi
L’ umana vista indebolisce , e perde !
Già gli alti monti alle profonde valli
Credesti eguali , c di rotonda forma , [ca,
Che non apparve ’n mezzo antro , ospelon-
Ncdaltra sua inegual scoscesa parte;
Ma tutto si nasconde ’l cavo e ’I voto
Per lontananza, c con aperto inganno
Ogni disuguaglianza in lei s’adegua.
E rotonde le torri ancor diresti ,
Bene li’ abbiau quattro lati c quattro facce ,
E sien rivolle all’ Aquilone e all’Austro,
Ed all’ altre del mondo avverse parti.
Però senz’ alcun dubbio esperto credi
Che’n lungo spazio ogni lontana immago
Si confonde: e s’inganna ’l senso errante
In molte guise. Adunque è grande il Sole,
Ma quel di sua grandezza è certo segno,
Clic perchè sicu Stelle infinite in cielo, ,
Da ciascuna di loro il lume sparso,
E n un raccolto, a discacciar non basta
La mestizia e l’ orror di oscura notte ;
Ma solo il Sol eh* all’orizzonte ascende.
Anzi mentr* eis’ aspetta, e pria eh’ ei sorga
Sopra la terra , e sparga i primi raggi ,
Le tenebre dissolve , c l’ auree Stelle
Supera di splendore : e l’aria densa ,
E dal freddo notturno in gel ristretta r
Diffonde e sparge, e ’l liquido sereno
Con vieppiù dolci tempre illustra e scalda;
Onde l’auro odorate innanzi al giorno
Spirano mormorando : e piove intanto
Il rugiadoso e cristallino umore.
E quinci apprendi del Maestro eterno
L’arte divina, che lontano ’l Sole
Dispose, c ’n guisa moderò l’ardore.
Clic per soverchio non infiamma ’1 suolo.
Nè per difetto ancor ragghiaccia, o lascia
Lauguido e mesto , ed infecondo al parto.
SACRI.
E della bianca Luna intendi , o pensa
Cose conformi , o somiglianti a queste.
Perchè (siccome dissi ) il corpo è grande ,
E ( se ne traggi U Sol ) lucente e bello ,
Vieppiù d’ ogn’ altro che nel ciel ri splenda:
Ma non sempre si vede , e non riluce
In ogni tempo con eguai sembianza ,
Ma riempie talora ’1 voto cerchio;
Talvolta scema si dimostra in parte.
Anzi mentr’ ella cresce, oscura e fosca
Divien da un lato : e nel calare imbruna
Dall'altro: e dell’ eterno e saggio Fabbro
Dir non possiamo ’l magistero e l’arte;
Perchè dar volle in cielo un chiaro esem-
Col variar dell’incostante Luna, [pio.
All' incostanza umana, al modo incerto
Di nostra vita instabile c vagante,
Ch’ un {stesso tenor giammai non serba ,
Nè ’n fermo stato si mantiene c dura.
Ma cresce prima, e sè medesma avanza ,
Sin che di sua grandezza aggiunga il som-
Dechina poscia, e si consuma e cade, [rao:
Sin eh’ alfin pur s’ estingue e torna in nulla.
Dunque nè di sua gloria in vista altero
Alcun scn vada , o mostri orgoglio e fasto
Per gran tesoro accolto, o ’n sua possanza
Troppo confidi, olirà ragion superbo:
Nè per corona antica ed aureo scettro
Altrui rassembri imperioso e grave :
Ma di sè la caduca e fragil parte
Disprezzi , e solo estimi i beni interni ,
E l’ anima immortal , cui nulla estingue.
E delle cose umane i giri incerti
Pensi e ripensi , e '1 suo pensiero affisso
Tenga all’ eterne pur, come a suo centro.
E se la Luna impallidita e scema
Col perturbato aspetto unqua l’ am istà ;
Più dell'anima sua si dolga e gema,
Gli’ acquista la virtù , tesoro e dono
Prezioso del Cielo , onde s' avanza ;
E poi la perde : e ’l primo onore antico ,
E la sua diguitate in sè non serba.
E veramente a’ vaghi e lunghi errori
Dcll’inslahil pianeta uom folle e stolto
Vaneggiando somiglia , e ’n vari modi ,
Come la Luna , si trasmuta e cangia.
Alcun vi fu che della mente umana [me,
Ch’ ha due potenze o pur due parli insie-
E I* una a far , l’altra a patire acconcia ;
Quella ch’illustra, rassomiglia al Sole,
Quella eh’ illuminala indi rischiara
Il tenebroso e fosco, ei fa sembiante
Alla Luna, eh’ altronde ’l lume prende ,
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LE SETTE GIORNATE
E dell* altrui splendor lucente appare.
Perchè la parte In noi soggetta a morte
( Se 1* intelletto ha parte a morte esposta)
Pur col lume dell'altra alluma cd orna
In sè mille leggiadre e chiare forme.
Ma quella eh' I suo’ raggi alimi comparte,
Temer non può di morte ’l duro fato;
Talché Dio la credea nel seco! prisco
Filosofando l’ingegnosa turba.
Altri Dio no, ma creatura e parto
Da Dio prodotto , a cui di Sole il nome
Per P alta luce sua concede e dona.
Ma ’n disparte si stia d'acuto ingegno
L'animosa ragione, e ceda intanto
A quel che più conferma antica fede ,
Ed animosa pur ; chè meglio 'I vero
D’ ogni primo intelletto, in Dio conosce.
Or dimostriam , come V errante Luna
Giovi col variare, e parte accresca
Le cose che la terra in son produce,
O nutre ’l mar nel salso umido grembo
Perocché ’l crescer suo riempie e colma
D’ umore i corpi, e ’i suo scemar gli scema,
E quasi vota ; in si soavi tempre
L’ umido e ’l caldo ella congiunge e mesce.
Perchè fredda non è la bianca Luna ,
Coni’ altri estima : e solo algente appare
A paragon del Sole , onde si scalda.
Però , quanti’ ella col suo cerchio intero j
Mostra dall’alto cielo il pieno aspetto.
Emula vaga del fratello ardente ,
E (se dir lece) quasi un Sol notturno;
Allor le notti tepide e serene
Son più dcU'altrc,in cui d’adunca falce
Mostra l’ immago, o con argentee corna
S’ incurva avanti al Sole , o pur da tergo.
Allor vieppiù germoglia ’l verde tronco
Con nuove frondi e rami, c più s’ impingua
1/ umida sua midolla entro la scorza :
E più ripiena è in mar la dura conca
Di prezioso cibo ; e pure avviene
Ch’altri dormendo sotto ’l cielo aperto,
Lo testa grave del suo umor riempie.
Lascio or da parte , come l’ aria e i venti
Ella commova , o ’l mar perturbi e queti.
E tanto basti aver narrato ornai
Di sua grandezza e de’ suo' vari effetti ,
Ond’clla giova. E non dee senso umano
Esser giammai di misurarla ardito;
Cile quivi *1 suo giudizio è ’ncerto e falso.
Cotanto è grande, e'n cotal guisa illustra
Gli abitatori c le città disgiunte
Dal vastissimo mar , dall’ ampia terra :
DEL MONDO CREATO. 13!
0 slan in parte ove dechina *1 Sole ,
0 pur ne’ regni della bella Aurora :
0 sotto 1* Orse, e nella Zona algente :
0 pur nella fervente arida fascia ,
Che per mezzo 'I tcrren divide e cinge;
Gl’ illustra, dico, e quasi ai modo istesso,
Noi, altri con obliqui e torti raggi.
Altri con dritti , c questa è vera prova
Ch' ella sia grande, e ’n van ripa gna *1 senso
0 la falsa ragion , che ’l falso afferma :
K non v* ha loco ingegno di sofista.
Ma quel che fece a noi si caro dono
Della mente immortai, c' insegna ancora
A conoscere ’l vero. E quella eterna
Sua sapienza, ond’ egli fece ’l mondo ,
Grande in picciole cose ancor dimostra :
Maggior nelle maggiori a noi la scopre,
Siccom'è ’l Sole c la ritonda Luna, [gli,
benché 'se quello, o questa in parte aggua-
0 paragoni al suo Fattor sovrano)
Verso di lui ch’ogni grandezza accoglie
In sé medesmo, c come cosa angusta
1/ universo nel pugno astriuge c serra?
E quello e questa avran sembianza e forma
D’avido pulce, o di formica industre.
Fece nel tempo istesso ancor le Stelle,
Quei che prima avea fatto ’l fermo Cielo
Nel di secondo, c non appieno adorno;
bene h’ altri Stelle di nomar presuma
1 sublimi non pur celesti lumi,
E quasi eterni, c nei suo giro affissi ;
Ma le Comete e le figure ardenti ,
Che ’n varie forme fiammeggiar nell’alta
Aria veggiamo , o nel sublime foco
Che sotto ’l giro della Luna accollo
Con lei s’aggira di perpetuo moto.
Ma queste colassù mai certo loco
Aver non ponilo , e pur grandezza c forma,
Od ordine costante : e ’n breve tempo
Sparir dagli occhi, e dileguarsi in tutto
Soglion per l'aria dissipate e sparse;
Siccome quelle che dal sen fumante
Han della terra ’l nutrimento e l’esca.
E se la madre lor dinega ’l cibo
Arido, che diviene in breve adusto ,
Viver non possa, onde tra spazj angusti
La vita loro è terminata e chiusa.
Talornonponnoun giorno, anco talvolta
Nel punto che s’ infiamma ella s’ estingue.
Onde quell’ animai che ’n riva nasce
Deiripani sonante, e vede appena
Un solo e breve Sol nato coll’Alba,
Giungendo innanzi sera al fato estremo
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132 POEMI
Quell’ animai, dirli’ io, di’ avara c scarsa
Ebbe più d’altro la Natura c’I Cielo,
Con sorte sua migliore in terra nasce ,
Clic nel elei queste varie accese forme.
E Stelle pure altri le appella e noma :
Altri Stelle cadenti ; onde sì spesso
Agogna rimirando il volgo errante ,
Se morir ponno, o se cader le Stelle,
Ch* esser dovrian per digli! tate eterne,
0 quasi eterne, e trapassar vivendo
De’ secoli volanti ’l lungo corso.
Marosi parla, chi ragiona a’ sensi
Del volgo infermo, e ’1 suo parlar gli adatta.
Ma tra queste figure in cielo accese ,
E quasi impresse , c di sua nota aduste ,
Ila» loco alcune sì costante e certo ,
E così lunga e così stabil vita.
Ch’altri le stima del sublime cielo
Parte non pur, ma bella e cara parte.
Siccom’ è quella via lucente e bianca.
Che del latte al candore i lumi aggiuuge
Di tante fisse Stelle Ivi cosparse ;
La qual è via eh’ adduce all’ alta reggia
De’ favolosi Divi : e strada ancora,
Ond’all’ animo umano è aperto ’l varco ,
Per cui discenda nel corporeo albergo,
E poi ritorni rivolando in alto
Alla sua pura c sua fatale Stella :
Così credcano ; e questa è fama antica.
Ma la Cometa di possente aspetto,
Ch* 1 purpurei tiranni c 1 regi invitti
Ancidc fiammeggiando e muta i regni ,
Breve spazio ha di vita a tanta possa ,
E di due anni ’l corso appena adempie.
Così nel tempo dell’ infanzia umana
Invecchia e muore la terribil luce,
Che dà spavento a’ miseri mortali, [ero
Questa giammai tra ’l Capricorno e’ICan-
Apparir non ci suol , o pur di rado
Ivi si può mostrare : c pria eh’ avvampi ,
Con sua gran forza la dissolve ’l Sole.
Ma oltra quell’ obliqua c torta strada ,
Per cui fanno i pianeti eterno giro, [l’ Orse ;
S’ infiamma e splende tra quel cerchio e
Indi , spiegando la sua ardente chioma,
0 pur la barba ; di sanguigna fiamma
Accesa e sparsa , c paventosa in vista,
Con annunzio di morte altrui minaccia.
E questa ancor, benché dannosa e fera ,
Sorti di Stella *1 glorioso nome,
Che non conviene a sì maligno aspetto :
Nè d'innocente luce unqua si vanta;
Bench’ altri dica eh’ a Nerone Augusto
SACRI.
Innocente apparisse; e ’n ciò lusinga ,
Perdi* ella nacque, col lasciarlo in vita ,
Al mondo tutto : c fu noccnte ed empia
Più nel salvar sì dispietato mostro ,
Clic in uccider altrui sembrasse unquanco.
Ma se di queste fu la pura e bella
E santa luce , fida e cara scorta
De’ peregrini regi d’ Oriente;
Salto colui che di sua mano eterna
Formella in prima e le diè luce e moto,
Che parer volontario allor polca ,
Come s’ella intelletto avesse ed alma;
Ma questa fu della divina destra
Opra novella c fatta a sì grand’ uopo.
L’ altre create già nel quarto giorno
Furo», come si stima, e mente c vita
Ebbero dal celeste eterno Fabbro.
Vita non già, che si nutrisca c prenda
Forza dal cibo , c per digiun languisca.
Cercando col suo corso ’l vitto e l’ esca
Dalla terra e dal mar, che sempre esala,
Come alcuni affermar del secol prisco,
Ch'cbberdi sapienza ingiusta fama;
Ma lieta e gloriosa e pura vita ,
Clie’n Dio sempre mirando, in lui s’eterna,
E di sapere e del suo amor si pasce.
Queste divine e gloriose menti
Furon da Dio create il di primiero
Innanzi al Sole, c i bei stellanti giri :
E poi da lui divise il giorno quarto
Ne’ propri luoghi ; come accorto duce
I suo’ fidi guerrier distingua e squadra ;
E ’n guardia lor dispone, e lor confida
Città forte ed alpestra e torre eccelsa.
Parte fu mossa a raggirar nel corso.
Non faticoso c non costretto a forza,
Quelle sublimi sue lucenti rote:
E parte ancor, fin dal principio eterno,
Alia difesa delle genti umane
Fur destinate da quel Re supremo.
E poi dovean , quai messaggier volanti.
Far manifesto il suo voler in terra, [gli! :
Portando e riportando, or grazie, or pre-
Grazie divine, ognor veloci e pronte ,
E preghi umani , spesso, c lenti c tardi.
Altre, mai sempre al suo servizio intente.
Stanno fide ministre appresso e ’ntorno,
E sembran quasi innumerabil prole.
Nè da quel dì che prima gli occhi aperse
II padre Adamo alla serena luce ,
Tanti del suo corrotto e ’mpuro seme
De’ faticosi e miseri mortali
Fur già prodotti a travagliar nel mondo
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quanti di quei divini alati spirti
Fur destinati a quell' eterna pace ,
A quel piacer che non ha One , o tempo.
Che gli fa sempre neghittosi e lieti
D’ un ozio eterno, e senza officio ed opre ,
E senza cura di terreni atTanni,
Eche gli astringe a quel gravoso impaccio,
Di girar senza posa i cieli a forza ,
Quasi animali alla marmorea rota
Legati , in guisa d’isslon penoso.
Ch’avvinto giace, e sempre è mosso in giro,
Erra egualmente, e'n suamenzogna adom-
bra.
E'I gran maestro di colorchesanno: [do,
Quel che 'il tante sue scuole insegna '1 nion-
Seguendo ’J moto c 'I senso, infide scorte,
Errò egli ancor. Ma con men grave errore ,
Quand’ei quelle divine eterne menti.
Filosofando annoverar presume ,
E ’n numero si breve accoglie c stringe
1 cittadini del celeste regno;
Perocché quanti sono I vari moti ,
Onde con vari modi è mosso ’l cielo.
Tanti motori all’ alte spere assegna.
Ed olirà questi non adora, e placa,
O non conosce nel divino impero
Altri offici, altri Numi ed altri Dei :
E senza proprio ministero ed opra
Non estimò che ’n oziosa vita
Vivesscr pigre c neghittose indarno.
Dunque sol tante , al suo giudlcio errante,
Esser polca» , quante a’ celesti giri
Potesser poi bastar; gli altri soverchi
Tutti estimava, ed adorati invano,
Fìnti di Grecia Numi, o pur d’ Egitto.
E non s’avvide '1 pellegrino ingegno
Che nella gloriosa eterna reggia
Altri esser denno ancor gli offici e l’ opre,
Che quella sol di raggirare attorno
I,' eterne spere nel contrario moto.
E conoscer non volle, o pur s'infinse,
Che piu alto e più degno e nobil fine
Si conveniva agl' intelletti eterni,
Di quello, senza cui soverchie estima
l-e nature divine, e quasi invano.
Chè ’l muover sempre le stellanti rote,
E fin corporeo, e quasi a’ corpi affisso,
E ne' corpi occupato, e basso officio.
Verso di quel de' più sublimi spirti,
Che stanno appresso e ’ntorno al Re super-
Altro fin dunque piùsublime ed alto, [no.
Altro più degno ed onorato oggetto ,
Altro più santo ministero, e sacro.
131
Numero via maggior ricerca c vuole
Delle menti immortali, e gii non debbe
Il Signor de’ signori, e ’l Re de' regi
In solitaria reggia e ’n volo regno
Regnar quasi solingo, c ’l basso mondo
Empier d' abitatori, onde s'accresca
Dell' imperio terrcn l’orgoglio e ’l fasto.
Nè dovea dare a’ gloriosi Augusti ,
Ed agli altri quaggiù corona e scettro.
Tante genti, talli' arme e tante squadre.
Ed eserciti tanti , c ’n tante guise
Della terra e del mar raccolti e sparsi :
Nè riserbar por sè schiera, o falange,
Rench’egli basti solo. Ah ! troppoindegno
Era della sua gloria , e troppo anguste
Son le misure , alla materia affisse:
Troppo 1 numeri scarsi , onde si conta
Tutto ciò che la terra e ’l mar profondo
Nel grembo accoglie, o ’l ciclo, esposto
a' sensi.
Altro numcroèancor, che non s'accresce
Per secare ’l continuo, e tutti avanza
I numeri quaggiuso. Or chi presume
D’annoverar le pure eterne menti?
Deh! non vedete or quanti raggi intorno
Sparga questo corporeo instabil Sole,
Lo qual del sommo Sole è quasi un raggio ?
Or quanti sparger dee raggi lucenti ,
Quante fiamme lassuso, e quanti ardori
Quel primo della luce eterno fonte?
Ma noi cape '! pcnsicr, nè lingua esprime,
E quel che sovra ’l del si conta c segna,
Innumerabil sembra a' sensi umani.
E certo alla ragion , giudizio eterno
Mosse ’l sommo Signor, che fece ’l mondo,
A far più numerosi 1 più perfetti.
Perchè negl’ imperfetti ei non abbonda.
Quinci addivien che le feroci belve
Son poche e rare in solitaria selva , [te
0 ’n monte ermo e selvaggio : c d'altra par-
Pascono i campì i numerosi armenti,
E copiose ancor le gregge umili
Seguono del pastor la fida scorta.
Ma de' figli d' Adamo il seme sparso
Riempie Europa, e l’altre parli Ingombra
Della terra , eh’ è stretta e bassa mole
S’al Ciel la paragoni, ampio e sublime:
E ’l Ciel de’ propri abitatori illustra ,
Più che di Stelle assai , le parti eccelse.
E non contento de’ suo’ primi antichi ,
E quasi eterni abitator celesti ,
1 peregrini ancora in sè raccoglie ,
E nati in terra di terrestre limo.
134 POEMI
E l' alte sedi alla straniera turba
Lieto prepara; e l’accompagna e giunge
AH’ angeliche squadre, e quasi agguaglia;
Benché d’Adamo 1 mal concetti figli
Non siano adatto all’ampio ('deio esterni.
Perchè celeste è l’alta c bella origo
Dell’ alma umana, c lieta al Liei ritorna,
Siccome a vera patria, c patria antica.
Da questa della terra ombrosa chiostra,
Ov* ella visse peregrina errante.
E se l’ uom, cinto di corporee membra
Nacque d* Adam , che di fangosa terra
Fu generalo, ei pur di Dio rinacque
ingenerato poi d’acqua e di spirto ;
E , come crede de* paterni regni ,
Aspira alle celesti alte corone.
Ma dove mi trasporta innanzi al tempo
L’uraauo amor, che ’n noi sì dolce innesta
Nostra natura? Ora ’l mirabil corso
Seguiam del Cielo e delle Stelle erranti,
A cui , quasi motrici, il Padre eterno
Assegnò quelle eccelse e pure menti :
Non quasi forme, in sua materia immeuse,
Ma quasi auriga al suo veloce carro.
E quinci incominciar del Ciclo i moti ,
L’un dalla destra alla sinistra parte.
L’altro dalla sinistra in ver la destra.
E chiamo destra ’l lucido Oriente,
Onde si muove T primo Ciel rotando.
Che lutti gli altri seco affretta e traggo;
E dal proprio cammin quasi distoma.
Sinistra parte l’ Occidente appello.
Onde simuovongli altri, c ’l Sole istesso.
Che pur dall’ Oriente a noi si mostra
Coll’ altrui moto , e nello spazio integro
D’un giorno è ricond otto , ond’ ei si parte.
Perchè ’n un di, che ’n sè la luce e l’ombra
Contenga, compie ’l suo perfetto giro
La prima spera : c l’ altre in vario tempo
Col proprio molo fan contrario corso;
Qual minuta formica, o picciol verme,
Clic da rota corrente è tratto intorno ;
Ed egli intanto alla contraria parte
Da sè medesmo muove, assai più lento.
In trentanni sen va correndo a cerchio
Quel che rasscmbra a noi pigro Saturno,
Più veloce degli altri e più corrente :
Ed in due volte sci placido Giove;
Ed in due anni appresso il fiero Marte,
Che ’n questa guisa ei si conosce e noma
Dal volgo in terra : e ’n un solando ’l Sole :
E ’n poco men la graziosa Stella,
La qual lieta si leva innanzi all'alba.
SACRI.
E Lucifero ha nome; e poi n’appare.
Espcro detta, allorché ’l Sol tramonta,
E’o quasi pari spazio in sè ritorna
Quel già creduto messaggier volante.
In venti giorni poscia , e ’n sette appresso
Fa ’l suo viaggio la più tarda Luna,
Che più veloce sembra; e questo avviene
Perchè ’n giro minor si volge, e riede
Colà più tosto , onde si mosse in prima.
E questa fu quasi maestra antica
Di partir l’ anno , che ’n sci mesi e ’n sei
Divise a* suo’ Romani il vecchio Noma;
Perocché tante volte ’l Sol raggiunge ,
Tornando a quel principio onde partissi :
Ma prima in questa guisa i Greci ancora
L’avean partito, e i più vetusti Ebrei.
Romolo poi meno al celeste corso
Ch’ai guerreggiare intento, e quasi rozzo
Delle cose divine , in dieci parti
L’ avea diviso : c quest’ crror corresse
11 saggio re sabin, canuto ’l mento.
In questo modo i due pianeti illustri.
Da chi gli scorge nel perpetuo corso.
Furo ordinali col lor giro all’ anno.
Anno è il ritorno del corrente Sole,
Dal segno islesso nel medesmo segno
Onde si parte; anzi nel punto, affisso
Nel segno, quasi a termine costante;
Perchè tornando alla medesma stella
Onde partissi, dilungata alquanto
La troverebbe, e trasportala a cerchio
Dal primo ciel col suo veloce ratto:
Ma chi lo scorge a far la state e ’l verno ,
Questi l’ Italia e tutta Europa appella
Coi nome degli Dei bugiardi c falsi.
Ma pur Angeli sono, e pure menti.
Deli’ alta Provvidenza in ciel ministre;
Imi quai dispose per cammino obliquo
1 sette erranti, c ’n mezz’ agli altri ’) Sole ;
Porci»’ ei ci vari le stagioni e i tempi :
E ’n questa guisa sia cagione ai mondo
Ch’altri nasca, altri muoia, c vita in morte
Trasmuti, e morte in vita, in giro alterno.
Perchè mentre lontano il Sol dimora
In quel lato, onde spira ’l nubil Austro,
Di lunghissime notti il nostro adombra ;
E l’aria si raffredda e si perturba
D’ ogn’ intorno alla terra, e ’n folta pioggia
Condensati vapori, e ’n larghe falde
Caggion di neve , che poi stretta in gelo
Ricopre ’l dorso degli alpestri monti ;
E frenando a’ gran fiumi ’l ratto corso ,
Tardi gii rende, e quasi in saldo vetro
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Converte le paludi c i pigri «ugni.
Ma quand’ ei dal Meriggio a noi ritorna,
In mezzo quasi del cammin rotondo,
Parte la notte e 'I giorno in spazio eguale,
E l’aria scalda con soavi tempre.
Allor Zefiro spira : allorsen riede
La Primavera verdeggiante e Hcta,
Coll’ erbe e I fiori , sua dolce famiglia:
E gravida la terra ’1 sen fecondo.
Che pur dianzi chiudra la neve e 'I ghiac-
Apre soavemente a’ nuovi parti. ciò.
Germogliai! le fiorite ombrose piante ;
Nascono gli animali in terra e ’n acqua :
E si conserva la perpetua prole,
Insinche’lSol, quanto più può, s’apnressa
A’ freddi regni d’Aquiion nevoso.
Dov’ ei nel Cancro si ritiene, e ferma
Quasi ’lsuocorso.efapiUlungo’l giorno:
E con più tardi passi ornai per drillo
Sul capo nostro quasi egli si spazia ,
E l’aria d’ ognintorno a noi riscalda :
Arida fa la terra , e i semi sparsi ,
E degii alberi i frutti ancor matura.
In questo mese è fiammeggiante ’l Sole
Olirà misura, e men obliqui raggi
Spiega più d’ alto ad illustrar la terra.
Son lunghissimi allora i giorni estivi,
E brevissime l’ombre; ed all’incontro
Ne' brevissimi giorni H corpo opaco
Lunghissime fa f ombre opposte al Sole.
E quest' avticnea noi, ch'abbiamo albergo
Infra quel cerchio, oode ritorna Apollo,
E l'altro che dall* Orse ’i nome prende ,
Poste non lunge a’ gelidi Trioni.
E noi mai sempre solo al destro Iato
L’ ombre mandiamo inverso Borea e il
Carro:
Ed altri sono in più fervente clima,
1 quai dell'anno uno e due giorni interi
Ombra non fanno, allorché gira T Soie
Nel cerchio del Meriggio , e d’ atta parte
Con dritti raggi gli rischiara e scalda.
Ed allora addiviene 'n quelle parli
Che per angusta bocca I cavi pozzi
Illuminali sleno Invino al fondo ;
Come ’n Siene, e ’n Berenice ancora,
E più lontan, nell’onorata reggia,
Ch' hadue rami nel Nilo, e quinci e quindi,
E dalia suora dì Cambise estima
Ebbe gii ’l nome, e la famosa tomba.
Ed oitra l’odorata aprica terra
Degli Arabi felici, ha strana gente,
Cbesoargel'ombra 'e ne sortisce ’l nome)
D’ entrambi i lati, incontra’I Boreael’An-
Equest’avvien, mentre vicino ’l Sole [stro
A’ freddi regni d’Aquiion trapassa ,
E gii lieto n’ accoglie ’l nuovo Autunno ,
Ricco de’ pomi e del suo vin spumante.
Con verde ancora e pampinosa spoglia:
Allora tempra i rai del Soie estivo ,
Scema gli ardori, e l’ombra amico acere-
to le notti co’giorni in libra agguaglia; rsce;
Ed innocente ne conduce al Verno :
In cui di nuovo ’l Sol da noi si parte ,
E s’avvicina agii Arabi ed agl’ indi.
Questi sono del Sole il moto e ’l corso.
Queste dei tempo ie vicende e i giri ,
Per cui qui si governa umana vita.
Ma degna ancor di meraviglia è l’arte
Del Fabbro eterno, e la sublime ed alla
Sua provvidenza, eh’ alle strade oblique
De’ sette erranti il termine prescrisse,
E vieppiù angusta via ristrìnse al Sole
Perocché soli il Sol giammai non varia
I.a torta linea , che divide e fende
Il cerchi» delia vita in parti eguali.
Gli altri escon fuor, ol’una, o l’ai ira parte,
Qual più , qual meno : e la feconda Luna
Vagar per tutto ’l cerchio ardita suole.
Esce Venere fuor del cerchio istesso.
Più della Luna audace e più feconda.
E quinci avvlen che ne’ deserti incult]
Sia 1’ Affrica arenosa e l’India adusta,
Di si vari animai nodrice e madre.
Né qui hiasmar la Provvidenza eterna ,
Ch’ali’ ordine del mondo, ai sommo, al col-
Di tutte l’ altre cose in lui prodotte, [mo
Giungilo le dispietate e strane belve
Merav Iella e decoro , e i fieri mostri.
Or mentre ’l Sol , per l’alta via rotando.
Giammai non esce dal camnùn prescritto!
Mostra con questo chiaro, illustre esempio
Al Monarca dei mondo 'I calle angusto.
Da virtute e da legge a Itti prefisso.
E s'egii ha ’ncontra dall’ opposta parte
La tonda Luna, eh’ al superbo Drago
Preme la lesta, o pur la coda ingombra,
Le nega i dolci raggi e ’l chiaro lume,
E ’n merzo sì frappon l’ arida terra r
Perchè la l.una impallidita adombrai
E se la vaga Luna a lui s’ aggiunge
(Il che due volte ne’ Gemelli avviene)1
Il Sole in parte a noi s’ oscura e vela.
E quinci avvisa , che se imbruna e perde
Per difetto lassù celeste luce ;
Non è luce mortai nel basso mondo ,
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POEMI SACRI.
136
Non splendor dì fortuna, onde s’abbagli
L’inferma vista dell’ errante volgo,
La qual talvolta non si turbi e manchi.
K solleva ’l pensiero all’ alta e prima
Santa luce divina , c luce eterna ,
Che lassù non conosce Occaso , od Orto ,
Nè difetto giammai , nè scema, o langue:
Ma già dì nostra umanità vestita
Fece seco ecclissar turbato ’l Sole,
Olirà suo slil : con meraviglia c scorno
Della natura lagrimosa e mesta :
Nè la cagìon conobbe umano ingegno.
Ma come appressi e s’ allontani ’l Sole ,
Perchè da sera l’ incostante Luna [ da :
Nasca sempre, c’n sull’alba ellas’ascon-
Pcrchè Saturno, (dove e ’1 fiero Marte
Serbili ordin contrario , innanzi al giorno
Tutti nascendo, e poi caggendo a sera :
Kd altri alleili si diversi e tanti,
di' appaion colassù di spera in spera ;
Varie fur le cagioni addotte in prova
Da varie sette, in contemplar discordi.
Altri, osservando 1 duo’ contrari moti
Ne’ cieli , e dal primlcr conversi e ratti
I meri sublimi incontra ’l proprio corso ,
Disscr che d’ognì cielo il proprio centro
•'.entro è del mondo, e ’ntorno a lui si volge
Pieno e perfetto T lor ritondo giro.
Nè questi sovra agli stellanti chiostri
llan locato altro corpo ed altro cielo:
Ma poser sott'a lor que' sette erranti,
Clic fan si varia l’ armonia superna ,
E rammirabil sua celeste lira.
Molle dando a ciascun rotanti spere ;
Come rote diverse , o molli carri
Si danno ad un signor per vari effetti,
De' quali il porta alcuno, altri il riporta
Per contrario sentiero , onde partissi ;
E di globi volgenti e rivolgenti, [da.
Qual più qual meno, il lor giudizio abbon-
ila tre delle portanti e vaghe spere
Concede prima al Sole il vecchio Eudosso :
Tre similmente all'incostante Luna :
Quattro agli altri pianeti. E di que’ girl,
Che riportano indietro, un meno assegna
FuorchcallaLuna, acuì nel loco estremo
Uopo non è chi la riporti , o torni.
Ma due poscia Calippo al Sol ne aggiunse
Delle portanti : e due portanti ancora
Giunse al servigio del notturno lume ;
Sicchè'n tutto cinquanta , olirà le cinque ,
Fur numerate dagli antichi ingegni.
Tanti carri di stelle , e d’ or cosparsi ,
Tante fervide rote e tanti ordigni,
Tanti e si vari moti , e unti girl
Servono alla suprema eterna mole,
Che’usè medesma si raggira c volge.
E'I gran maestro di color che sanno.
Quel che’n mille sue scole Insegna ’lmon-
Segul costoro, allorché ’n allo intese, [do,
Forse con doppio error, che I corpi accreb-
Molto e molto scemò le pure menti, [bc
Ma la novella età vieppiù conturba
L’ ordì ne antico, e spere aggiunge a spere,
E moti a moti ; anzi ’l tremante Cielo
Primo ci finge, e quasi infermo e stanco
Mentre eh' egli s'appressa , o fa lontano.
E ’n questa guisa baldanzosa ardisce
Vincer d’arte e d’ ingegno T secol prisco.
Volgendo pure , e rivolgendo intorno
Ai proprio centro, che del mondo è centro,
I vari Cieli , a lor giudicio eterni.
Altri per altra via seguirò Ipparco,
E Tolomeo, eh' alle stellanti spere
Faquasi oltraggio, e'nlordivisa, o finge
I moti e i cerchi assai distorti e strani ;
Mirabil mostro! e mentre al Sol concede
Tre spere erranti, senza dubbio afferma
die quella , che fra l' altre In mezzogira.
Non fa centro del mondo ’l proprio centro:
L’ ultima in parte ancor distorceepiega.
Afferma ancor clic, mentre T Sol rotando
Va in questa guisa, or più s’appressa al
centro
Dell’ universo, or sen fa più lontano, [chio
Nel maggior cerchio ancora un picelo) cer-
va immaginando, il qual si muova intorno
Sovra i poli suo’ propri , e lasci ’1 centro
Del mondo fuor del mezzo : e’n lui ripone
II Sole, ora’n sublime ed altro sito,
Ora ’n più basso : ora appressar la terra ,
Or dilungarsi : or con distorto corso
Lontra gli ordin de' Segni andar errando
Ora seguirlo. E nell’istesso modo
Fa ritrosa la Luna, c'1 suo bel cerchio
Finge ineguale, e non ritondo appieno,
E la figura le distorce, e ’l corso.
Cosi di queste due discordi sette ,
L’ una ben non dimostra, e non ci appaga :
L’altra, mostrando, è ingiuriosa ed empia
Conira i celesti giri , a cui la forma,
E ritonda e perfetta invidia e toglie.
ET lor semplice moto, onde Natura
Disdegnosa sen duole c sen richiama.
E la filosofia seco ripugna
All' apparenza , e con ragioni invitte
LE SETTE GIORNATE
l.c ribellanti scuole In terra sparge.
Ma 'I senso ancora alla ragione amico
Mostrarsi può, s’ altri in lontane parti
Peregrinando agli Etiopi adusti ,
Giungerà mai nella fervente zona,
Dov'è ’l cinto maggior che fascia'l mondo.
Ivi , se'I Sole in questo picciol cerchio
Incgual si movesse , egual non fora
Il di più lungo alla piu lunga notte.
E se la Luna pur nel cerchio impari
E non ritondo , si girasse attorno ;
Dopo saria mutar talvolta ’l sito [so.
A quella macchia ond’é'l suo volto asper-
Dtinquepiit non presuma ardito ingegno,
Incontra ’l vero, Incontra ’l ciel superbo,
Finger nuove lassù figure c mostri.
Ma clic ? ci afferma ancqr l' eli vetusta
I.e non credute meraviglie antiche.
E dc’suo'millc e mille e mille lustri,
E mille e mille il favoloso Egitto
Par che si vanti : e ’n più moderne carte
Delle menzogne sue famose c conte
La già vecchia memoria ancornonlangue.
E si ragiona ancora , ancor si scrive
Che, nel girar de’ secoli volanti.
La prima sfera si rivolge intorno.
Non dall’Orto lucente al nero Occaso,
Ma dal Settentrione al Mezzogiorno ;
E quinci dimostrar (s’io dritto estimo)
Come’l veloce Sol più e più s’ affretti,
Mentr’ci declina pur dal cerchio obliquo,
E gl’istessi affermar ( crescendo ardire )
Che’l Sol due volte dal lucente Occaso
Nacque: e due volte ancor mori nell’ Orlo,
Portando a noi dall’ Occidente’! giorno,
E lui chiudendo nell' avversa parte,
E ’l mutar di quel punto, In cui fermarsi
Ci sembra ’l Sole , e far più lungo ’l corso ;
Che Solstizio chiamò l’antica Roma,
Di tanto variar cagione esterna
Forse eredeano ; e fu dagli altri ascritto
All' alto ingegno degli Egizi industri,
E mutatoli Solstizio ancor si narra,
Perch’ei fu già ne’ lucidi Gemelli,
Or ò nel Cancro. E dunque inslabil punto
Quel clic sembra lassù si forte affisso.
Nò costante è del del l’ordine e l'arte,
Né costanza ò ne’ corpi , o sien d’ immonda
Rozza materia , o di più scelta e pura.
E se pur questo è vero, ò vero ancora
Che del Settentrlon l'eccelsa parte
Fia nel Meriggio alQn cangiata, e volta ,
Equella in questa: e’1 Sol, che gira errando
DEL MONDO CREATO. I3T
Perle distorte vie d'obliquo cerchio,
Allor farà più dritto alto viaggio
Per quella fascia, ond’ è partitoli mondo.
Tante varietali , c si discordi
Vedrà , quando che sia , l' età futura
Negli ordini supremi ; e pur son questo
Del Ciel le veci; ov’ ò chi ’i crede, e ’l pensa?
E di ciò la cagion s’ adorna e Unge,
Mutando regni, anzi pur regi al Cielo,
Da cui l' un fu scaccialo , e l' alto impero
Già prese delle Stelle alto monarca.
E regnando ’1 primier , che fu Saturno ,
Dalla parte, or sinistra, il Ciel si mosse;
Poscia usurpando Giove alto governo ,
Repente’! volse dal contrario lato,
E mutando del Cielo il moto e'I giro ,
Tutte insieme cangiò le cose a forza.
Quaggiù soggette al variar de’ Cieli.
Allor, come si finge, uom curvo e bianco ,
E nell' ultima età vicino a morte,
Rivolsc'ndietroaglianniil proprio corso,
E ritornò verso l’età matura
E già perfetto : c quinci passo passo
Vago giovili divenne, e poi fanciullo,
E con tenere membra alfine infante :
E dall’infanzia giunse al fine estremo
Di questa vita, c si nascose in grembo,
Pargoleggiando, dell' antica madre.
Oh! di favole antiche ombroso velo,
Per cui traluce l’incostanza Incerta
De' corpi tutti , e de’ supremi ancora !
A' quali ha dato Dio perpetua legge ,
E lunghissima ancor, ma non eterna.
Però , quando che sia , riposo avranno ,
Cessando ’l lor continuo e certo corso.
E ben di ciò vedransi in Cielo i segni
Anzi ’l gran di dell’ ultimo spavento,
In cui deve cadere accesa, od arsa
Questa del mondo ruinosa mole.
Allor cedrassi ’l Sol converso in sangue :
Ed altri segni spaventosi e fieri
Nel volto mostrerà l’orrida Luna.
Però disse , creando , ’1 Fabbro eterno :
Sìan i segni ne' tempi , e slan ne' giorni ,
Esian negli anni ì segni. E I segni or sono
Pur quasi note nella Luna impresse,
E ’n fronte al Sol modesmo , ond’ ci ci mo-
Ciò che fa d’ uopo alla terrena vita [ stra
De’ faticosi e miseri mortali.
Spcsso’n turbata vista annunzia ’l ciclo
Venti e procelle c tempestosa pioggia.
E l'arida staglon conosce ancora
L' uom già canuto, e per lung' uso esperto.
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1J8 POEMI
Ed una pur di tante cose insegna
Quel cli'è vero Signore c vero Mastro,
Quand’ egli disse : Rosseggiando, il Ciclo
Gii si contrista , onde sari tempesta.
E questoavvien , quando si muove ’l Sole
Per entro a fosca e tenebrosa nube
Dell' aer denso e 'mpuro , onde traluce
Quasi per colorato e grosso vetro ;
Però sanguigno, e quasi involto ci sembra:
0 quand' intorno al Sol si gira e volge ,
Gemino Sole , o pur tre Soli insieme
Fan di sè spaventosa c fiera mostra :
Siccome vide gii l'antica Roma ,
Ed ora a' nostri tempi avvien sovente
Là sotto i sette gelidi Trioni.
Talor veggiamo entro l' oscure nubi ,
Distese in lungo variar le verghe ,
1 colori dell' Iri ; c fiero turbo [ bo ,
Quinci ancor si dimostra, pioggia, onem-
Alnien d’aria mutata indicio aperto.
L’istabil Luna ancor a noi predice
Co! vario aspetto ’l variar de’ tempi.
Perchè sottile e pura ’l terzo giorno
Stabil serenità promette, e segna ;
Mas’ ella ’ngrossa mai l’ un corno e 1* altro,
SACRI.
Quasi vermiglia; allor altrui minaccia
Gran pioggia, e folla; o pur di torbid’ Au-
lì violento impetuoso assalto. [stro
Ma i vari segni in Cicl vieppiù distingue
Ne’ regni d’Aquilon, canuto e scaltro
Per lunga esperienza’! buon nocchiero.
E se giammai quella che ’1 Sol circonda,
Nubilosa corona, o l’aurcc Stelle,
In sè medesma si dilegua c cade;
Quasi egualmente al suo sparir s’attende
Un placido sereno, e ’l mar tranquillo :
Ma quando ad una parte ella si frange.
Da quella , onde si rompe T bel contesto
Dell’ aerea corona , attende ’l vento.
Se da più parli ella si squarcia e solve.
Nascono da più parti i feri spirti
Quasi repente, e fan contesa c guerra
In Ciclo c'n Mar, eh’ è tempestoso campo
Delle sonore c torbide procelle.
Ma questi segni fa costanti c tari
L'alto voler di Lui che muove ’l tutto.
Cosi gli piaccia a noi pace tranquilla
Mostrar dall’ allo : c disgombrar d' intorno
Quel die sovrasta minaccioso e grave
A questa vita procellosa e 'licerla.
GIORNATA QUINTA.
Nella quale furono da Dio creali i Pesci e gli Augelli.
L' antico abilator d' estranea parte ,
Che tornar pensa alla sua patria illustre,
Dopo varie fortune, e grave esilio,
E molti in faticosa, e dura vita
Trascorsi lustri , al suo fedele albergo,
Ed al cortese albergator si mostra
Grato, ed amico anzi ’l partir estremo.
Cosi noi, che bramiam di far ritorno [po.
Al del, quando che sia, tardi, o per tem-
Da questa mcn sublime opaca chiostra
Della terra, c del mar, clic ’nlorno inonda,
Da cui moli' anni I nutrimento e ’l cibo
Si caro avemmo , e si gradito ostello ;
Dobbiate gli ultimi offici c i detti e 1 doni
Di pictatc e d'amnr; dobbiamo i pegni
Di non oscura e non mortai memoria
A questa nostra si pietosa e cara
Nudrlce antica, che fanciulli in grembo
N' accolse , e vecchi ne sostiene c folce :
A questo mar che ne trasporta e pasce ;
A questo , onde spiriamo aer sereno.
Dunque narriam , come la sjnta destra ,
Poiché In tal guisa ebbe ciascuno adorno.
Di vari abitalor frequenti c lieti
Facesse tutti alfin nel giorno quinto;
Sicché non vi lasciò spazio, nè clima
Di vasta solitudine, e dolente.
Nè di perpetuo orrore incolto ed ermo.
Avea la dotta man del Mastro eterno
Di bel fiori di stelle ’l del dipinto,
E pur, com’occhi suoi lucenti c vaghi.
Già colla Luna in lui creato ’l Sole ;
Quand'egli disse: L'acqua ornai produca,
E seco l’aria partorisca insieme
Ogni vivo animai che vola c repe.
E nel suo comandar tutti repente
I fiumi diventar fecondi , e i laghi :
E i vaghi armenti e le squammose torme
De’ propri notatoti ’l Mar produsse s
E quanto ancor d'immondo c di palustre
Limo è ripieno, e senza corso, o moto
Ristagna, ed impaluda in pigro letto, [re,
Sortl'l proprioornamentoc'! proprio ono-
E non rimase neghittoso, o voto.
LE SETTE GIORNATE
Allorché Dio creò di nuovo il mondo;
di' immantinente gracidar nascendo
Nello stagnante umor rane palustri.
E si fatti animai nasceano insieme;
In guisa, ad eseguire '1 sommo impero,
Si mostrar Tacque frettolose e pronte,
E tutti quei , di cui potriansi appena
Le varie sorti annoverar, parlando,
Subito nati, in operosa vita,
E sé movente, disegnerò a prova
Di quel clic gli creò T alla possanza.
Che narrar non si può con lingua umana.
Ed allor prima fu creato, e nacque
Dotato T animai d'alma e di senso.
Perchè le piante e le frondose sterpi
Degli arbori , eli' al Ciel spiegar le chiome.
Bendi' abbian vita, onde si nutre, e cresce
Dall' umide radici '1 verde tronco.
Animali non son , nè ’n cara dote
Ebber dal Padre etcrno’l senso e l'alma.
Onde sentiamo, si diversi obbietti :
Benché vi sia chi non dineghi , e toglia
Alle scorze selvagge, ai rozzi tronchi
Un inchinarsi, un ripiegar sé stesso,
lln distender i rami in cara parte ,
UT è quasi un moto di frondose braccia
Per secreto desio d’amore occulto.
E nelle piante ancor stupido senso
Conobbe alcun antico , o che gli parve.
Ma resti pur questa sentenza errante
In quel silenzio , a lor cotanto amico.
Come si sia, creali il quinto giorno
Fur gli animanti, a cui non lega, e ’ndura
Rozzo e tardo stupore i pigri sensi.
E qualunque animale, o rcpe, o guizza
0 nel sommo dell'acque, o pur nel fondo,
Prodotto fu per ubbidire al suono
Della divina ed immutabil voce.
Nè (in pochi e brevi detti) alcun rimase
Escluso dal sovrano eterno impero.
Non quei, che T animai, figliando in parto,
Soglion vivo produr, delfini e focile :
Nè meno ’l picciol pesce, onde sovente
La man del pescatore a fune avvolta,
Per secreta virtù stupisce e turpe :
Non chi T ova produce , o chi si copre
Dì molle squamata, o di più dura scorza :
Non quel eh’ hanno le penne , o pur non
Ma tutti tur nelle parole accolti, [l’hanno.
E quasi ìnclilusi sotto certa legge ,
Del lito i vaghi abilator guizzanti.
E quei che nel profondo ’1 mare alberga :
Equei ch'allusi stanno a' duriacogli :
DEL MONDO CREATO. 139
Equcicbevannoinsiemeinamplagreggia:
E quelli ancor eli' erran dispersi a nuoto :
E le balene smisurate e Torcile,
Co’ pesci picciolissimi e minuti ;
E se fra questi ha pur chi 'I molle peso
Del corpo sovra i piè sostiene e porta,
Son di natura ambigua e quasi incerta :
E ’l gemino lor vitto In terra e ’n onda
Yan ricercando, non contenti appieno
Di semplic’esca, od' un sol cibo al pasto.
E son fra questi le stridenti rane , [ge
E I granelli di più branche ; a cui s’aggiun-
II cocodriilo, e '1 uotatnr cavallo,
Che del Nilo trascorre i largii! campi
Ed ondeggianti per l'asciutto rive.
Perdi’ i piccioli, i grandi, i dubbj e i certi,
Sotto ’l decreto d’ un eguale impero
Esser vario sortirò , e varia vita.
Allorché disse Dio : Producali Tacque.
E dimostrò colla mirabil voce
Quanto la vaga ed umida natura
Dell’instabil umor convenga a' pesci.
Perocché qual è l'aria a’ levi augelli,
0 pure ail animai clic spiri iu terra.
Cotale è T acqua al notator marino ,
Ed a qualunque guizzi in fiume c ’n lago.
E la ragione è manifesta a' sensi;
Perchè ’l polmon nella sinistra parte
Fra le viscere nostre ha ’l proprio sito
Spongioso e raro e trasparente, in guisa
Di specchio, o d' altro clic riceve immago
E la ritorna : c si ristringe ed apre.
Quasi mantice , o folle ; e ’l rezzo c T aura
Spirando e respirando, accoglie e rende ;
E ventilando, è refrigerio al core.
Clic di purpureo sangue è caldo fonte.
E coll’ istesso spirto , onde rinfresca
L’interna arsura, anco si forma e tinge
In vari delti la sonora voce.
Ma diè Natura alle guizzanti torme
In vece di polmon le curve branche :
E mentre le distende e le raccoglie ,
Dentro l’acqua riceve, o pur la sparge;
E cosi ’n loro ’l proprio officio adempie,
Ch'è quasi un respirar d’umore c d’onda.
Ma pur voce non manda ’l muto pesce :
Nè domestico mai , nè mansueto
Diventa : nè sostiene ’l tatto e i vezzi,
Onde palpa e lusinga umana destra ;
Benché U’ alcuni pur si narri e scriva ,
Ch'ban per propria natura c proprlasortc.
Olirà T uso comun , sonoro spirto :
Altri suono non pur, ma voce ancora :
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POEMI SACRI.
HO
AUri quasi parole , In cui distingue
Non ben loquace lingua ì propri altetti.
perche non basta al suon lo spirto interno,
Ond’ ci si forma , e '1 suo spongioso e raro
Polmone, c la sua vola umida canna,
Fistola detta; ma la voce appresso
Sol nella gola si figura e fìnge.
Alle parole ancor la lingua c i denti
Son d’uopo; onde non parla, e non informa
Gli accenti suol quel clic di lingua è privo.
Ma ’l suon nell' altre parti ancor si frange ;
Come nel cinto clic traversa e fascia
Le vespi e l’ api, si percuote e rompe
L' interno spirto; e quinci s’ode un roco
Mormorar, che per l' aria ’nlorno aggira.
Altri rompendo nell’istessa fascia.
Che cìnge ’l corpo suo, lo spirto interno.
Canta battendo l’ale : e 1 verdi boschi
Suonano ’ntorno a quei sonori accenti
Della cicala a’ lunghi estivi giorni.
Ma fra’ pesci nel mare, o’n fiume, o’n lago
Alcun non manda fuori o voce o suono,
Che sia molle , o di crosta almen coperto.
Altri con vario suon garrisce e stride,
Talché del suo stridor risuona intorno
L'onda sovente, e dal concento II nome
Prese quel pesce in mar, clic detto é lira.
Stride ’l pettine ancora, e stride a prova
La rondine marina : e questo e quella
Stridendo vola, est solleva in alto [tocca.
Con lunghe e larghe penne , e'i mar non
Ma nel fiume Acheloo non solo stride,
Ma voce’l suo cinghiale aversi crede.
E ’l cucco notatore ha voce aneli’ egli ,
Onde al cucco volante è quasi eguale;
Ma non é vera voce , e voce assembra
L’interno spirto, die si frega e frange
In quell’ orride branche, ond' ei risuona.
Ma sue parole quasi , e sua favella
Tra l' acqua c ’l limo ha la loquace rana ,
Delle paludi abitatrice immonda, [gua,
E quest’ awien , perché ha polmone e lin-
Di cui compiuta é l’ una e l' altra parte :
La prima al modo pur degli altri pesci :
E l'altra ancor, che manda’l roco suono.
Al gorgozzuol s’attacca c sì congiunge.
Ed ulular le rane , c gli altri ancora
Sotto Tacque s’udir pesci lascivi.
E P ululare é un amoroso invito,
Onde’l cupido maschio alletta, o chiama
La femmina consorte a dolci nozze.
Ma ’1 veloce delfino ha voce c suono,
Pcrch'ei non é senza polmone e sangue;
| Ma non halingua.ond’ei fortnle distìngua
| Quel suon ches’odc mormorar sull'acqiie.
I Ma ronfar gii dormendo ancora uditi ,
Il dormir son veduti umidi pesci :
I E quei clic dura crosta involse e copre
Poiché non abbian Tumide palpebre.
Le quai, chinate nel soave sonno,
liicnpron gli occhi a’ notalori stanchi.
Ma dal placido lor queto riposo ,
in cui sol mossa è la guizzante coda,
L’accorto pescator conosce ’l sonno.
Né gli trafigge sol col suo tridente
Ma colla cauta nian gli palpa e prende.
E spesso preda fa di quei eh' adissi
Sano agli scogli, o nell’ arene avvolti,
0 sotto un sasso , o sotto ’l curvo lido
Dormono ascosamente, o ’n imo gorgo.
In questa guisa é col pungente ferro
Presa l’ orata : e ’l lupo ancor percosso
Si desta appena, in cosi fisso ed alto
Sopore é immerso : e ’l fin del suo riposo
E col principio dì sua morte aggiunto:
Anzi dal breve nel perpetuo sonno
Desto ei trapassa , e se n’ avvede appena.
Ma ’l veloce dclfin , la grande e vasta
Ralena, mentre dorme in mezzo all' onde.
Fuordal sommo dell'acque innalzae spar-
La sua fistola cava , ond' ella spira : [ ge
E leggiermente le sue penne intanto
Agita c move. E nell' ombrosa notte, [sci
Vicppiùche’n altro tempo, il sonnoa’pe-
S’ irriga ; e pure in sul meriggio estivo ,
Allorché pasce i favolosi armenti
Proteo nelle marine ampie spelonche,
Come creduto fu , le plstri c l’ orche ,
A cui fa l'alga immonda un pigro letto.
Dormono ilunghi giorni : e dorme appres-
L’indovinopastor,trevolteequattro [ so
Gii numerate le squammose gregge.
Ma le favole antiche in altra parte [que
Han più opportuno loco, lo taccio adun-
Di Proteo e d’Arion , che tratto a riva
Dal veloce delfin , campò da morte :
E laccio ancora i mal creduti amori
Del pio delfino, c del fanciullo estinto ,
Per cui si dolse T suo marino amante :
E vinto aifin dal suo dolore Insano
Mori gemendo ’n sull’ asciutta arena.
Ma se di ciò si nega a prisca fama
Credenza alcuna, almen dì fede indegna
Non sia l’antica istoria, in cui si legge
Che la natura ancor piotate insegna.
Quasi maestra a’ pesci , e quasi madre.
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quinci al curro dclfin le gonfie mamme
Diede» perch* ei nudrisca i cari figli;
Anzi ei di nuoto ancor nel curvo ventre
Raccoglie i pargoletti , e si rientra
Ond' usci prima il non cresciuto parto ,
Quand’è più tempestoso il mar sonante.
Cresciuto poi fra le procelle , e i nembi ,
Sicuro apprende ’1 gir per Tonde a nuoto.
Senza temer flutto spumoso, o turbo :
Arte paterna : e pur col padre appare
Qual fida aita a’ naviganti audaci;
Ond’ antivede ’l buon nocchiere accorto
L’orrida guerra de’ contrari venti
E drizza al porto l’agitata prora.
Ma qual canuto pescatore, e lasso,
Ch’appo le rive del Tirreno invecchi,
0 del mar d’Adria, o deli’ Egeo sonoro ,
0 lungo ’i Caspio, o lungo’l ponto Lussino,
0 ’o su’ lidi vermigli, o dove inonda
Il gran padre Occan Germani e Franchi,
Scoti e Britanni, od Etiopi ed Indi ;
Qual, dico, abbia ivi l’età sua fornita
Nell’ infeconde c solitarie arene,
E ’ntomo a’ cavernosi e duri scogli ,
Or l’amo ed or le reti in mar gettando,
Narrar potria degli umidi notanti
Le tante sorti, in cui distinta e scevra
È lor natura e la progenie antica,
E ben mille maniere e mille modi
Di varia vita, e di costumi e d’opre
Pur variate, e lor diverse parli?
Perch’ altri ne conosce ’l mar d’Egitto,
E l’Eritreo, che fa Tonde sanguigne:
Altri l’Ircano, c quel d’Assiri e Persi :
Altri quello in cui lava 1 piedi Atlante:
E quello in cui biancheggia Indo ed Idaspe,
Che sono al nostro mare in tutto estrani ,
Od in gran parte peregrini ignoti :
Quanti ancor ne produce in grembo e pasce
L’ Ocean sotto T Orse , e sotto ’l cielo ,
Jn cui più non appare ’l Carro e l’Orsa,
Che qui saria quasi mirabil mostro ?
Ma pur da prima gli produsse in vita
Tutti egualmente la divina voce:
E ’n sì varie maniere anco distinse.
E quinci avvien ch’altri nel primo parto
Manda fuor T ovo : e noi riscalda , e cova.
D’augello in guisa; e non si forma ’l nido,
Nè con molta fatica i figli ei nutre ;
Ma l’acqua ’l peso in sè caduto accoglie ,
E ’l fa vivo animai , che guizza e nuota.
Altri produce l’animai da prima.
Nè come ’n terra’l mulo, o pur nell* aria
Sogiion molti meschiar l’ incerta prole
Lascivi augelli ; ma progenie immista
Si perpetua fra lor sempre feconda
Con legittime nozze; chè natura
Ha certe leggi , ond’ i consorti accoppia.
E se pur mesce la murena al fiero
Maschio serpente, l’un depone ’l tosco.
L’altra noi fugge, o’I suo marito abborro.
Nulla sorte di pesci ha d’ una parte
La bocca armata degli acuti denti ,
Dall’ altra affatto inerme , c quasi ignuda ,
Come ha fra noi la pecorella e *1 bue ,
E ni un pesce ancor , come si narra ,
Suol ruminare ornai sazio del pasto.
Se lo scaro ne traggi : c tutti a prova
Hanno in guisa di sega i bianchi denti
In due fila ristretti : e quinci e quindi
Vario c distinto è il cibo. Altri di fango
Si pasce e nutre : altri di funghi ed’ alga:
Altri d’erbe marine , ovver palustri,
0 di quelle ond’ i fiumi han verde ’l fondo :
Ed altri corre frettoloso all* esca ,
Che suol gettar nell’ acque umana destra,
E pur di cibo uman vago si mostra :
Altri ’i pesce minor nell’amo ingoia.
La maggior parte pur de’ pesci ingordi
Scambievolmente si divora e strugge,
E del maggior sempre ’l minore è pasto.
E spesso avv ien che nell’ istcsso modo
Quel che pur dianzi del minor satolla
Fece l’avida fame, or fugga invano
11 suo maggior , che lo persegue c caccia :
E dal gran predator sia preso alfine ,
Ed empia T uno e T altro ’l ventre istesso.
E questo ancor fra noi più spesso incon-
tra :
Perchè ’l possente a cui fu dato in sorte
Sovra umil plebe ’l grave imperio c’ngiu-
Pasce de’ più minuti avido ’l sangue , [sto,
E di qualunque gli è soggetto e servo.
E’n che diverso è un fiero ingordo petto,
Ch* avara fame di ricchezze c d’oro
Stimola sempre, c’nsazlabil rende,
Dal gran mostro del mar, che mille e mille
Via men forti di lui persegue, ed empie
Di lor la sua profonda alta vorago?
Già colui , fatto ingiurioso ed empio ,
Delpovcrel vicino i beni ingombra;
E tu dì lui , rapito e preso a forza ,
Godi le prede e le rapine antiche
Con tirannico dente , e rodi e struggi
E quasi parto a tue ricchezze aggiungi
Quel, che ’n moli’ anni egli usurpò rapace ;
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H2 POEMI SACRI.
E'n guisa lai più dell' araro araro ,
E dell’ ingiusto più n'apparl ingiusto.
Guarda clic non t' attenda '1 fine islesso ,
Nel quale incappa, csèmedesmo avvolge.
Mentre gli altri persegue, il pesce incauto;
Iodico amo pungente , o nascia , o rete.
Non fuggirai, non fuggirai , superbo,
Dopo tanti, altrui fatti, iniqui oltraggi,
L’ultima pena, che sovrasta, e tarda,
E qual sasso pendente aitili minaccia.
Ord'un minuto animalctto c vile
Riconosci l’insidie , e 1 falsi inganni ,
E fuggi ornai di frodi indegno esempio.
Il granchio la soave c dolce carne
Brama della marina e nobil conca :
Diffidi preda , e preziosa c cara ;
Perdi’ a tenero cibo un duro vallo
Fece natura, e circondollo intorno.
E perchè ’n guisa si congiunge e serra
L’una coll’altra forte e salda testa.
Che non viponno entrar Torride branche
Che fa dunqu'egli? quando in mar tran-
Solto 'I sereno cielo al chiaro giorno[quillo
De' dolci raggi , e del soave aspetto
Gode la conca , e si dispiega e spande ;
Allor, quasi di furto egli nascoso.
Un picciol sasso entro vi getta : c vieta
Ch’ella più si ricopra e si rinchiuda:
E ’n questa guisa della debil forza
Può adempire I difetti astuto Ingegno.
Oh di malizia , e d' uomo iniquo c scaltro ,
Ma pur ili rozza e d'infeconda lingua
Maligno magistero, c muta Tramici
Tu, se brami imitar P industria e l'arte,
Nell' acquistar , de' tuoi vicini ’l danno
Schiva, c non fare a' tuoi fratelli oltraggio,
Fuggi de’ condannati ’l vile esempio:
E di povero aver contento c lieto ,
La povertà , eli’ a sè medesima basti,
A’ diletti molesti , a’ servi onori
L'mil preponi all’ alterezza , al fasto :
E di te stesso in te trionfa c regna ;
Chè non han regno eguale o Sciti , od Indi.
Nè ilei polipo indietro i furti lo lascio ,
E I falsi inganni ; chè se mai s'appiglia
A qualunque si sia marina pietra.
Egli repente si dipinge e veste
De’ colori di quella, e lei rassembra.
Però se ’l pesce , che trascorre a nuoto ,
Da' sembianti ingannato in lui s' avviene,
Pur duro sasso ’l crede in mare occulto ;
E di leggiero è sua rapina e cibo.
Di tal costumi i lusinghieri accorti
Sun ne’ palagi de' possenti Augusti ,
0 de* regi sublimi : e ’n questa guisa
S'inchinan pronti ad onorar T altezza
Della fortuna ; e trasmutar sè stessi
Sogliono in color mille , e ’n mille forme
Siccomel'uso, o ’l tempo, o come chiede.
La voglia del signore , o’i suo diletto ,
Variando tcnor , sembianti e vesti ,
Parole e modi : e co' modesti insieme
Sono modesti : e sospirosi in atto
Co’ più dolenti; e con gli allegri, allegri:
Protervi co’ protervi : c legge c norma
Si fanno d'altrui senno, ed' altrui gusto.
Talché agcvol non sembra , o leve cura
Schivar i’ insidioso e duro incontro
Di questi in guisa, die si cessi ’l danno,
Clic T empietà sotto ’l contrario aspetto
Della pietà suole apportar sovente.
Di tal costumi ancor rapaci lupi
Soglion vestir di mansueto agnello
Candido manto , e semplicetti in vista
Altrui mostrarsi. Fuggi, ali! fuggi, amico.
Il costume si doppio e si perverso.
Segui la verità. Gradisci , ed ama
li sincero condor d'alma innocente,
E la non violata e pura fede, [avvenne
Vario è’I serpente e l'angue, e quinci
Clic ’l condannò sentenza antica e giusta
A trar per terra steso ’l proprio corpo.
Sincero è il giusto, e nulla mente, o finge.
Come Giacob , però l' accoglie e loca
L'alto Signorc'n sua magione eterna.
Ma questo cosi vario e’ncerto albergo,
Ov'abltiam, vivendo, è T ampio mare,
E grande e vasto, in cui serpenti e draghi,
S' aggirati senza fine, e (ieri mostri :
E’n lui co' grandi soli confusi e misti
I piccioli animali : e tutti insieme
Saggio governo c giusta legge afTrena
I popoli natanti. Ed tiai ben onde
Seguir d' alcun tu possa ’l raro esempio ;
Non accusarlo sol , se vizio , o colpa
Di natura imperfetta in lor conosci.
E prima , tu non pensi , c non rimiri
Come sian compartiti a' vaghi pesci
I propri luoghi, e quasi i propri alberghi,
I propri regni, onde da quello a questo
Non soglion trapassar, se non di rado ,
Gii altrui campi usurpando, e’I leltoe'lci-
Ma tra' confini suoi quasi ristretto [bo?
Ciascun si spazia entro ’l sortilo regno.
Nè geometra i lunghi spazj ed ampi
Divise lor : nè d' alte mura intorno
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143
LE SETTE GIORNATE
Circondò le magioni umide, algenti.
Nè termine vi pose : e d’ ogni parte
Quel che lor giova, è largamente aperto ,
E quasi destinato in propria sorte :
Questo sen questi pesci accoglie e nutre :
L'altro pasce quegli altri: e colle, o monte.
Coll' aspre rupi c con distesi gioghi ,
Non gli disparte , e non recide ’l passo.
Ma certa legge di natura a tulli
Divìde con misura eguale c giusta
(Come è prò di ciascun) l’ albergo e M loco ;
Ove con gli altri si raduni e pasca,
E quel , che basti in un sol giorno al vitto.
Già tali non siam noi, del padre Adamo
Contaminata prole, e'n Dio superba ;
Perchè noi trasportiam de’ padri antichi
I termini già affissi , ed ampio acquisto
Faccialo pur sempre d’occupata terra.
Casa a raso aggiungendo, e campo a cam-
Città spesso a ci (tate, c regno a regno, [po,
Ch* a’ vicini si scema, e toglie a forza.
Conobl* prima le balene e Torcile
II loco che natura a lor prescrisse ,
E’I preparato pasto, e'I mar prorondo
D’ isole desolate olirà I paesi
Abitati occupar , dove non resta
D’ alcuna parte più la stabil terra :
Dove più non appare o lido, o monte:
Dov’arar non si ponno I vasti campi
D’innavigabil mare ; ove non giunse.
Spiando nuove genti e nuovi regni ,
E nuova gloria , il navigante audace :
Ove non prisca istoria, o vecchia fama,
Non ardir, non pensiero umano ed alto
Del folle immaginar, la nave approda.
Ma quel medesimi, ignoto immenso mare
Ingombrar le balene, eguali a’ monti.
Come si narra da nocchieri esperti :
Nè d’isola, o citiate oltraggio, o danno
Da lor riceve , o la nemica forza
Provano unquanco ingiuriosa e’n festa.
Ma qualunque di lor maniera e sorte.
Quasi in città , quasi in contrada amica ,
Anzi paterna , con antiche leggi
Nelle parti del mare , ove sortilla
Voler divino e sua natura , accampa.
Peregrinando ancor sen vanno i pesci :
F della patria In volontario esilio
Son rilegati in parte ignota e strana.
E si partono insieme accolti a stuolo ,
E’n guisa di guerrier, ch’ai dato segno
Lasci. in le proprie tende c’I proprio cam-
Seguendo’l suon della canora tromba; [po,
DEL MONDO CREATO.
Allorché ’l tempo destinato appressa.
Desti dalla possente antica legge
Della natura, e frettolosi e pronti
Verso *1 Settentrione han volto ’l corso.
E gli vedresti di torrenti in guisa
Correr dalla Propontide congiunti
Nel mar Eussino. Or chi li muove e regge?
Qual imperio di rege? o qual d’araldo
Al suon di trombe pubblicato editto
R già prefisso tempo a lor dimostra?
Chi guida 1 peregrini ? Or non conosci
L’ordine otcrno clic penetra e passa
Per le minute parti, e tutto adempie?
Non fa contesa alla divina legge
Ubbidiente ’l pesce; c a lei contrasta
L’uomo, indarno ritroso e ribellante.
Perchè Ha mulo, non avere a scherno
Il privo di ragion ; che vieppiù folle
Se’ tu, mentre ripugni all’alto impero
Del Re celeste. Odi la voce , ascolta
Del muto pesce le parole e i detti ;
Perchè ci parla quasi M moto e P opre ,
Onde a peregrinar t’ invita e desta ,
Ed a lasciar torbido flutto amaro.
Cercando in altra parte acque più dolci
Ne* regni d’ Aquilone, ove riscalda
Meri co’ suo’ raggi ’l Sole, c meno attragge
Delle sue parti più leggiere in alto.
Nè l’avaro desio di merci , o d’auro ,
Lor muove a trapassare i mari , e i fiumi ,
Come gli uomini suol, ma sol d’immista
E legittima prole amore e zelo.
Ma ricerrhiam perdi’ I giganti alteri
Più la natura non produce , e figlia
La terra pregna deU'orribit parto:
Ma di elefanti ancora , e di balene
Non si ri pente. E se fatture ed opre,
Son pur della divina eterna destra,
Son buone , e buone fur da lei prodotte ,
Che le produsse grandi , a’ monti alpestri.
Ed all' isole eguali : e’I nostro orgoglio
Volle abbassare, e darne alto spavento
Con quel sì mostruoso e fiero aspetto,
E colla smisurata orribil mole.
Perocché Dio, quando creò primiero
Tanti animali , e sì distinti e vari
E d’ opere e di moto c di sembiante;
Altri a servirne gli produsse in terra
Per uso umano , ubbidienti al nostro
Placido impero, e talor grave ed aspro.
Per sua grandezza , e per sua gloria ancora
Alcuni altri produsse: e'n lor dimostra
Quella , che fa gran cose , arte divina ,
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144 POEMI
E divina virtù , che presso e lunge ,
Più, e men chiaramente altrui risplendc.
Ma degl' industri Greci il folle ingegno
Le meraviglie del Signore eterno
Rivolse ’n giuoco , ed adombrarle in parte
Volle con varie sue menzogne adorne ;
Mentre descrisse olirà le mete c i segni
D' Alcide Invitto 1 favolosi regni
Di <|ue’ felici, e le giù illustri e conte
Isole fortunate , e '1 lungo corso
Di temeraria nave : c ci dipinse
Lo smisurato pesce , e'I vasto grembo,
Che popoli diversi in sè rinchiude;
Talché 'I profondo c tenebroso ventre
Alle genti nemiche, all'arme infeste
É di battaglia un periglioso campo.
Ma le navi da' pesci in mar sommerse,
Anzi da un pesce solo il fero assalto
Fatto a mille superbe armate navi ,
Favola non fu giù , nò scherzo o giuoco.
Ni favola è quel Giona in mar sommerso,
Ed inghiottito dal vorace mostro.
Ma dell’alto Signor l'alta possanza
Nelle picciolc cose altrui si scopre ,
Non sol nelle più grandi. Ecco trascorre
A vele piene c sparse il mar sonante
Con destro vento corredata nave :
E pesce minutissimo repente
Tarda e ritiene T suo veloce corso.
Come s’ ella radici in mar profondo
Atcss e fatte : e quinci al pesce il nome
Dal ritardar fu dato. E gran temenza
Non solo danno altrui balene ed orche,
0 la seca marina , acuta i denti ,
0 'I cane, o quella pur, che spada assembra;
Ma tal pesce ì nel mar, ch'ai line estinto
È paventoso ancora , e'n guisa punge,
Che presto apporta inevitabil morte.
E la picciola ancor marina lepre
Repente ancidc: epurse agguagli '1 danno
In paragon col prò , l' utile avanza :
E ci giova de' pesci ancor l' esempio.
Ma se te stesso ben misuri e stimi,
Uom, tu sei pesce , c questa vita (Il mare :
Ed alla rete , che si lancia in alto ,
E tanti vari pesci in sè raccoglie,
È somigliante '1 gran regno del Cielo ,
Che nc' suo' lacci ne raguna c strìnge,
E poi gli eletti nc' suo' vasi accoglie ,
Gli altri fuor getta, e ” distingue c parte.
Cosi avverrù nel co' .umar del mondo,
Clic gli Angeli uscirai!, santi ministri
Del Giudido divino: e fian divisi
SACRI.
I re! da' giusti, e quei dannati al foco,
Questi alla gloria destinati in Ciclo.
Vi son dunque de’ pesci e buoni e rei :
E 'I buon la rete non involvc e lega ,
Ma 'I leva in alto , c l’ amo non l’ ancidc ;
Ma d’ innocente 'I bagna c puro sangue
Di piaga preziosa. Uom, tu se' pesce;
Tu se' quel pesce, a cui l'aperta bocca
Dimostrò la staterà entro nascosa.
E '1 libero voler che ’n te riserbi,
Son le bilance tue distorte, o pari.
Uom, tu se’ pesce ; e '1 pescatore è Pietro,
0 chi di Pietro ha qui sembianza c vece.
Questo mare è il Vangelo, in cui si fonda
La Chiesa, eli' è di Dio sacrato albergo.
Non temer, o buon pesce, o rete, od amo.
Clic non ancidc altrui , ma sol consacra.
Se pesce sei , fuor delle torbid’ onde
Sorgi sublime, c 'I tempestoso flutto
Non ti sommerga : e s' è tempesta in alto.
Nuota sicuro, e ti ricovra al fondo :
E s’ è tranquillo 'I mar, fra l' onde scherza :
E s'è procella pur sonora, c turbo.
Guarda clic 'I nrmbo Impetuoso e denso
Non li percuota fra gli scogli al lito.
Ma sorgi, ornai sorgi dal mar profondo,
E 'I nostro ragionar dall'ondc emerga.
Miriamo in alto, alziamo al Ciclo i lumi :
Veggiam mirabilmente 'I lito adorno :
II sai tratto dall' onde in bianco marmo
Quasi indurarsi : e qual purpurea pietra
Rosseggiar sotto 'I ciclo il bel corallo,
Clic dentr'al mar fu molle e tener' erba :
E tra le conche biancheggiar lucente
La dura perla , c tra l'incolte arene
Fiammeggiar l'oro : e quasi care gemme
Di piu colori le dipinte pietre.
Nutrito ancor nell' acque è l'aureo vello:
Ed ha l’onda i suo' fior che sparge c porta
Sovra le sponde : e quindi 'I lucid' ostro
Anco risplende : e ciò ch’i duci invitti
III lieta pompa trionfale adorna :
Ciò clic s'adora nc' possenti regi ,
0 nc’ purpurei padri oggi s’onora,
É bellezza e tesoro c cara merce
Del Marc, anzi del Mar cortese dono.
Mill'allrc aggiungi ancor bellezze e feste,
E marittime vaghe altere pompe.
Spira 'I vento soave, e placid' aura
Con dolce mormorar susurra c vaga,
E 'nerespa l' onda ; che spumoso argento
Pur tra li scogli, o presso al curvo lido
Somiglia , e spesso a’ lucidi zaffiri
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LE SETTE GIORNATE
L'acqua profonda, cd a' soavi raggi
Del Sol si Unge di piropi in guisa.
Le vele sparse ventilar lontano
Veggonsibianchcggiandoa cento, amllle,
E ’n corso superar cavalli e carri.
E spiegar le famose Insegne antiche
Dipinte navi , c co' pungenti rostri
Fender )' umili vie : guizzare intorno
GII umidi pesci : e dimostrar sovente
Il veloce delfino 'I curvo tergo.
E lieti rimbombare a suon di tromba
Le sponde e Tacque, e gli arsenali el porti
Pieni di navi, e d'altri In varie forme
Contesti legni : e bella antica mole
Far ampia strada a’ cavalieri illustri,
E frenar di Nettun l'ira e l'orgoglio.
E i premj ancora, e l'onorale palme
De’ vincitori io scorgo, e’n varie antenne
La gloriosa inchino aita Corona, {doso
Ma già coni' uom, che dentr’ al sono on-
DelT Adrian si tuffi in lieto giorno,
E'n celebrato onor di pompa antica ,
E cerchi i piti riposti oscuri fondi ,
E i duri e sotto Tacque accolti scogli,
E i secreti che'l mare asconde in grembo,
Per riportarne su gettala gemma
Tra suo' purpurei padri al veglio duce;
Cosi dal suo profondo anch'io risorgo,
E dagli oscuri e tenebrosi abissi ,
La bella verità, ch'ivi sommersa
Par che si giaccia , porto in chiara luce ,
E pure agli occhi de’ mortali esposta
L 'offro da contemplar: nè manto appanna
Le care membra, o Telo 'I crine adombra.
Or dagli ondosi campi alzarmi a volo
A' ventosi dell'aria ardisco c tento.
Chi mi dà Tale'ii guisa di colomba.
Perch’io sovra le nubi e sovra I venti
M’ innalzi , e fra’ volanti al Ciel vicino
Mi spazi? Quel clic sovra 'I del ne scorse.
M'affidi ancor, mi porti e mi sostegna
Per questo procelloso e ’ncerto regno
Della fortuna , che si varia e cangia
In tante guise; c tanti alberga e pasce
Turbini e ven ti, e pioggie e nevi e fiamme,
Ond’è turbato degli augelli’! volo.
Era già ornalo 'I cielo , e picno'l mare.
Verdeggiavano i boschi c i prati e i monti,
Quando Dio comandò che sovra ’i suolo
Terrestre isser volando i vaghi augelli
Per T aria, in cui s' accoglie c si condensa
Quell'umido vapor ch'esala in aito
Dal freddo grembo dell'opaca terra.
DEL MONDO CREATO. MS
Talché repente gli animai pennuti
Nell’aere incominciaro '1 voloe’l canto.
E chi tra’ muti pesci era pur dianzi
Desto, tra'l suon di tanti auge! canori
Or darò gli occhi in preda ai pigro sonno
E neghittoso e lento a’ vaghi augelli
Cederà nel lodare T Re superno ?
O’n render grazie a chi ci nutre e pasce?
Quegli duevolteaprova, e innanzi al gior-
E quando’) Sol da sera i raggi accoglie, [no,
E l’Oriente scolorito imbruna.
Fan di soavi note un bel concento :
Ed or tacita l'alma , c non sonoro
Trar vorrà T uno e l’ altro estremo tempo.
Che s'appella dal suono, e’n lui si chiude,
E s’apre T giorno strepitoso e ’ntento
All’ opre faticose de’ mortali?
Ah! non sia ver. Ma raccontiani seguendo
Del quinto di le buone e nobili opre.
Sono a’ pesci sembianti I vaghi augelli ;
E tra'l notante, e'1 volatore alato
F. quasi parentado : a quello T nuoto,
A questo '1 volo dift natura in sorte.
E l'uno e l'altro I liquidi sentieri
Colle sue penne seca e coila coda ,
Or mossa alquanto, or quasi in giro attorta,
Che ’n vece di tlmon governa'! corso.
Son diversi però : eli’ a’ pesci 'I cibo
Ministra l’onda instabile e vagante :
Agli augelli la ferma c stabll terra,
Però al notante necessari i piedi
Nonson, come al volante ; e quinci avviene
Che questo n'è fornito, cqtiel n'è privo.
Ma pur al crocodillo, il qual sovente
Scende a predar sull’ arenose rive
Del Nilo , i corti piè natura diede,
Anzi i piedi dal suolo ebbero 'I nome ;
Chè pedo il suol fu detto in greca lingua.
All'incontro un augcl per l'aria a volo
Si spazia, e sovra T ali ognora 'I peso
Porta e sostiene del suo debil corpo ,
Acuì piedi negò l'alma Natura;
Come gl' insegni , nel sublime volo
A mirar aito, a deprezzar la terra.
E quinci porge esemplo a nobilalma.
Ch'aspira al Cielo, e prende’l suolo a scher-
Questo alla rondinella appar simile, [no.
E tra' sassi pendenti in verde speco
Si forma ’l nido di tenace fango.
In cui s’ apre a gran pcn a angusto ’l varco :
Cipselo’l nominò la Grecia antica.
Altri de' volatori han piedi in sorte ;
Ma pur son male acconci al far rapina,
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Ufi POEMI
Ed al cacciar; c '1 nutrimento e l’esca
Cercan nell' aria. Annoverar Tra questi
Si può la rondinella peregrina,
A cui di piedi in vece è 11 basso volo ,
Che vicino al tcrrcn coll’ ale ’l rade;
E quella ancor, eh' è dell' erbose rive
Abitatrice, onde Riparia è detta.
Sono in moli' altre guise ancor diversi
Gli augelli, e di grandezza e di figura,
E vari di color, vari di vita.
D’opere variati e di costumi.
Ora, lasciando addietro i molli modi, [te,
Ond' han le penne scisse, o’ nsieme aggiun-
Quasi di pelle , o di vagina avvolte,
0 fuor di modo pur tenere e molli ;
Dirò ch'altri sian puri ed altri impuri :
Quegl’ Innocenti e mansueti, in terra
Scelgono 'I vitto pur di seme e d'erba;
Questi son vaghi di più fero pasto.
Di cruda carne e d' atro sangue ingordi.
Però |* unghie pungenti e curvo'l rostro
Ebbero ’n vece d’armi, e penne al volo
Più dell’ altre veloci , onde la preda
Sia tosto presa e lacerata in parti.
E non si fa di questi o stormo, o greggia ;
Ma soglion 1 feroci andar soliughi
Alla rapina ; e sol gli accoppia e giunge
Amoroso desio di cara prole.
Gli altri raccolti sono iu vari stormi ,
D’ amica compagnia bramosi e lieti ;
Securi no ; chi li perturba e sparge,
E spesso ancide il predator rapace.
E tali son le semplici colombe,
A cui si prezioso e bel monile
Fa la natura dì colori e d’auro,
E le gru peregrine e i magri storni :
Di questi, altri soggetti a grave impero
Non sono, c'n liberti tranquilla vita
Yivnn quasi con proprie antiche leggi :
Altri banno'l duce, ed ordinati a squadre
Seguon la scorta lor per l' aria a volo ;
Altri son propri abitatori antichi
Del suol nativo ; altri volar da lunge
Sogliono in terra cstrana , e ’n altro clima
Cercar più caldi Soli inuauzi al verno :
Altri ritornan pur co' freddi giorni
Percgriuaiulo alla stagione estiva.
Tornano al fin d'autunno i tordi a volo
Nel tepido confili del verno algente.
Dove son tesi lor ben mille agguati
NeU’inospitc terra : altri gl' inganna
Coll' Infedele insidiosa gabbia :
Alcun gli prende col tenace visco :
SACRI.
E nelle reti alcun gl’ involge e lega.
E la cicogna, ritornando, innalza
l.a primavera le sue verdi insegne.
Altri son della mano a' vezzi avvezzi.
Che dolcemente gli lusinga e moke.
Ed alla mensa del signore usati.
Altri son timorosi : e I dolci nidi
Fann' alcun' altri negli umani alberghi.
Altri selvaggi quasi , e quasi alpestri.
Prendono i luoghi solitari in grado.
Ma gran varietà la voce e '1 suono
Ea ne' volanti augelli . c gran divario.
Altri tacili sono , altri loquaci
Senza musica alcuna e senza canto :
Alcun' altri canori : ad altri insegna
IV assomigliar del suono i vari accenti
l.a Natura maestra , c l'uso e l'arte :
E la pieghevol voce in dolci modi
Inchina ed alza : altri ritrosi, indotti.
Con perpetuo tenore in un sol tuono,
Mandan fuor sempre l' immulabll voce.
E pomposo '1 pavon : superbo '1 gallo :
E la colomba placida e lasciva :
E la pernice perfida e gelosa,
Ch' a depredare I cacciatori aiuta.
Amano alcuni di raccorsi insieme,
E congiunger le forze , e i cari alberghi ,
Quasi in una città comune a tutti,
Sott’ un lor proprio re : l' impero e’1 fasto
Ricusan altri de! signor superbo;
Talché ciascuno a se provvede e pensa.
Sia da quegli'l principio, onde l'esempio
Prendiam per l’uso dell’ umana vita.
Comuni bau Tapi le citladi e i letti
Di molle cera , e le odorate celle :
Comune ’l volo c la fatica e Poppe
Di mlrabil lavoro, e i cari paschi ;
E comune hanno ancor la prole e i figli.
Clic non son nati in doloroso parto,
D'amor lascivo, il qual congiunge c mesce
l.'alTaticate insieme immonde membra;
Ma rolla bocca fuor succhiati c scelti,
Dagli odorali e rugiadosi fiori.
Poi tulle insieme in bella schiera accolte
Sott' un ordine solo , un solo impero
Seguon d' un re , eh’ è venerato a prova.
E non sostiene alcuna uscire a' prati ,
D'erbe vestiti, e di bei fior dipinti.
Se prima'l re non incomincia '1 volo.
E non è questo re per caso eletto ,
0 per Fortuna, che sovente innalza
A somma podestà l' indegno c'1 vile;
Nò per giudizio dell' errante volgo :
Digibzed Ijy.GoOgk
LE SETTE GIORNATE
Nè come erede dell’ antico regno
Degli avi anticbi nel superbo sullo
S'asside, gonfio del paterno fasto,
E ’ntenerito da lusinghe e vezzi ,
Nell’ arti pellegrine incolto e rozzo ;
Ma per natura T nobil regno acquista,
E da natura ha le reali insegne
D’ oro lucenti , onde s’ adorna e splende :
E gli altri dì grandezza e dì figura,
E di costumi mansueti avanza.
£ ben d’aculeo il re pungente armato,
Ma V aculeo non usa in far vendetta ,
Perchè son leggi , non in breve carta,
Od in aride foglie , o ’n frale scorza ,
O ’n durissima pietra impresse c scritte.
Ma da Natura entro le menti infisse;
Ch’ove è più di possanza e di valore ,
Più vi sia di clemenza e di piotale.
Ma qualunque dell’ api il re non segue,
O pur si mostra in ubbidir ritrosa.
Del temerario ardir tosto si pente ,
O di sua tracotanza , e sente ’l colpo :
Fiero gastigo in sò medesmo , ed aspro ,
Che già soleano usar gli antichi Persi,
Dando a sè stessi volontaria morte.
Nlun barbaro re di Persi, o d’ Indi ,
0 di Sarmati pur, o nuovo o prisco.
Con tanta riverenza al regio scettro
Vide inchinarsi i popoli devoti ;
Quanti ne vede nel minuto stuolo
II fortunato re dell’ api industri.
Che l' arme , onde natura T fece adorno ,
Non usa ne’ soggetti e negli umili.
Odan di Cristo i servi, a’ quali è imposto
Che non si renda mai per male il male ,
Ma che nel bene il mal s’ avanzi c vinca ;
Odan deli' api caste il santo esempio ,
Nè d’ imitarlo alcun si prenda a sdegno ;
Cli’ ella nel procurarsi il proprio vitto
Non guasta l' altrui cibo, e noi corrompe ;
Ma di cera si finge 1 dolci alberghi ,
La qual da vari fior! accoglie e mesce.
E pur di fiori l’ ingegnosa , e d' erbe
D’ ogn’ intorno spiranti ’l vario odore,
Ixica alla sua capace angusta reggia
1 primi fondamenti , e sovra asperge
D' umor celeste rugiadose stille :
Liquido prima , e poi tenace e denso.
E con cera sotti] divide e parte
Minutissime celle , a cui di sovra
La somma parte , eh' è pendente c cava.
Fa lestudinl,evolte;e l'unaaU’altra [vre
S’ appressala guisa tal, eh' aggiunte c sce-
DEL MONDO CREATO. H7
La vicinanza lor dislringc e lega
Più forte insieme la tenace mole,
E fa non ruiuoso a lei sostegno;
Sicché può sostenere T dolce peso ,
E ritener che giù non caggia ’l mele.
E ben si mostra l' ingegnosa pecchia
Architetto nell’ opra , e nel lavoro
Maravigiiosa , c saggia e dotta appieno
Di quanto ’J geometra insegna e trova
Perchè formò le celle in giusto spazio
Con sei angoli tutte, e fianchi eguali :
E non per dritto i’ uuo all' altro appoggia.
Ma quelle Infime sedi in guisa adatta
Alle sovrane sue concave parti ,
Che nulla ne patisce ’l sommo e l’imo.
Ma come annoverar potrò narrando
De’ cari augelli le si varie vite 1
L’estrane gru dentro l’adunco piede
Portano ’l sasso, onde si folce, e libra
Tra Paure incerte l'agitato volo.
Mentre ne’ giorni nubilosi e brevi, [bro,
Lasciand’ addietro ’1 Termodonte, o l’E-
Passano i larghi mari , e ’n sull’ apriche
Sponde soglion vernar dell'ampio Nilo.
Tal per savorrainmartra'tentiePonde,
Altre rive cercando, ed altre parti.
Regge ’l suo corso la spalmala nave.
Queste ban di notte sentinelle e scorte ,
Che mentre Patire in placida quiete
Dormon sicure, van girando intorno,
E le notturne insidie , e i venti e Paure
Spian da tutte le parti impigre c pronte.
E poi fornita quella guardia, e ’l tempo
Di lor vigilia, a suon quasi di tromba [no
Dcstan gli addormentati : e gli occhi al son*
Danno per breve spazio : e’ n quella vece
Altri succede al faticoso ufficio.
Una precede l' altre, e quasi avanti
L’ alte insegne precorre : e poi si volge
Nel tempo dato : e la sua sorte e 1 loco.
Che si conviene al duce, altrui concede.
Dimostran molto di ragione e d’ arte
Le cicogne, e ’n tal guisa al tempo istesso
Quasi a spiegate insegne in queste parti
Vengon da più lontano ignoto clima.
E le nostre cornici amica guardia
Lor fanno Intorno, in ampio stuol con-
E son fidatascortaal lungo volo [giunte.
Co nlra la forza de’ nemici augelli ;
Come soglion guerrieri inglesi e scoti ,
0 germani ed iberi uniti In lega.
Ed in quella stagione in loco alcuno
Non ci appar la cornice , o poi ritorna
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148 POEMI
Tinta le piume d’onorate piaghe,
E del già dato aiuto i segni mostra.
Deh ! chi descrisse lor si certe leggi
Di sì pietoso officio ? o chi minaccia
Si grave accusa , o pur sì giuste pene
Achi gli ordini infermi, e ’l proprio loco
Per viilate abbandona in guerra, oin cam-
po?
Quinci prendete esempio, egri mortali:
E l'uomo impari dagli auge! volanti,
Quai degli ospiti sian le giuste leggi :
Nè chiuda avaro albergator superbo
Le dure porte a’ peregrini erranti
A mezza notte, o lor dineghi ’l cibo;
Se per gli estrani augelli i nostri augelli
Non ricusan d’ espor la vita in guerra,
E de* perigli altrui si fan consorti.
E qual altra cagion di fiera morte
In Sodoma versò di fiamme ardenti
Dal Ciel turbato spaventosa pioggia.
Clic la ragion del violato albergo
Sprezzata, e rotta? e quell’ iniquo oltrag-
Ma la pietosa provvidenza e cara, [gio?
La qual delle cicogne è vecchia mastra ,
Destar ben può de’ figli il dolce amore
Verso gli antichi loro e stanchi padri.
Quelle d’intorno al gcnitor languente,
A cui per lunga età cadere a terra
Sogliono i vanni c le minute piume,
Stanno pietose : c le già afflitte membra
E nude di pennute e lieve spoglie,
Scaldano al volator lassato e grave
Soavemente colle proprie penne;
E gli portano ’l cibo, ond’ eì si pasca:
E sollevano ancora c quinci e quindi
Coll’ ale il tardo veglio : e ’n questa guisa ,
Le disusate membra all’uso antico
Già richiamanti, danno aiuto ai volo.
Ma qual fra noi di sollevar I* infermo
Padre non sembra fastidito classo?
Chi n' impone alle spalle il grave pondo,
Quel cli’è creduto nell’ istorie appena?
E non più tosto disdegnoso c schivo
All'altrui braccia le caduche membra
Commette, e ’l mal locato officio a’ servi ?
Ora prendiani lodato c caro esempio
Di materna pietate , e non si dolga
Di povertatc, o di miseria alcuno,
Nè della vita sua disperi c pianga;
Mentr'ei riguarda ’l magistero e l’opra
Della pietosa rondinella industre.
La rondinella di minuto corpo.
Ma di sublime egregio, e chiaro afletto
SACRI.
Povera e bisognosa, *1 proprio nido
Ella medesma pur compone e finge ,
Prezioso vieppiù di gemme e d'auro.
Perchè d’ogni tesoro è vile ’l pregio
Allato a quell'albergo, in cui s’annida
La sapienza ; e ben è saggia e scaltra
Menlr’ella del volar mantiene e serba
La vaga liberiate : e nutre e pasce
I pargoletti, ancor teneri figli.
Sicuri dall’ insidie e dagli assalti
Degli altri augei, sotto i sublimi tetti.
Là dove l’uom ricovra : e per usanza
Al conversar uman così gli avvezza.
È’ mirabile ancor l'ingegno e l’arte,
Ond* a sè stessa le sue proprie case
Fa senz'aita d’architetto o fabbro;
E le festuche pria prepara e sceglie,
E le cosparge di tenace fango.
Per congiungcrlc insieme; e se co' piedi
Non può in alto portar tenero limo,
I/ali d’acqua si sparge, c poi di polve
Arida e leve; ond’ ella fa di nuovo
La fangosa materia all'umil casa.
Con questa, quasi colla, aggiunge insieme
Le già scelte festuche, e di lor forma
II nido a’ figli : a cui se gli occhi accieca
Pungendo, alcuno; ella ’l perduto lume
A’ ciechi rende colla medie’ arte.
Or chi di povertà si lagna e plora.
Miri la rondinella : e grazia speri
Da quel Signor, eli’ a lei sì larga dote
Diede, e sì ricco don d’ arte e d’ ingegno :
Onde di povertatc e di fortuna
Ogni sciagura, ogni difetto adempie
In sì lodata e sì felice inopia.
L'alcione, del mar picciolo augello.
Forma di palla in guisa ’l dolce nido
D’arido fior, clic ’l mare in sè produce;
E i pargoletti figli a mezzo 'I verno
Dalla tenera scinde e frale scorza
Nell’arenoso lito, in cui depone
Dell' ova ’l caro suo portato peso.
E questo avvien , quando da fieri venti
11 Marc a terra si percuote e frange:
E biancheggiando di canuta spuma
Sparge le molli arene, e i duri scogli.
Dell'alcione al desiato parto
È sopito ’l furor d’orridi venti ,
Son quetc Tonde tempestose, e ’ntorno
Sgombre le nubi , e serenato ’l ciclo :
In sì tranquillo c sì felice aspetto
De’ fidi augelli alla progenie arride:
E ’n sette prima di sì lieti giorni
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t
LE SETTE GIORNATE
Suol covar l’ uova la pennuta madre.
Negli altri sette uutre i nati figli.
Ed a questi ed a quelli ha’mposto’l nome
Dall'alcione *1 navigante esperto :
Ed al candor di lucido sereno
Da tutti gli altri gli distingue c segna.
Questo ci rassicuri c ci conforti ,
Perchè chiediamo a Dio le grazie e I doni ;
Lo qual, se’» grazia d’un minuto augello
L’orribil placa, e grande c vasto mare.
In mozx’ al tempestoso ed aspro verno,
K lo ritiene, c il fa tranquillo e piano;
Clic farà, s* egli intende al nostro scampo?
0 se provvede airuont, suo figlio eletto,
Di sua divinità sembiante inimago?
La lortorclia dal suo amor disgiunta.
Non vuol nuovo consorte e nuovo amore ;
Ma solitaria c mesta vita elegge
Jn secco ramo, c ’i» perturbalo fonie
La sete estingue : c de! marito estinto
Cesi ri ninna la memoria amara.
A lui sua castità conserva c guarda
A lui di moglie ancora ’l caro nome;
Perché solvcr non può l’iniqua Morte
Le sanie leggi di vergogna , e i patti ,
A cui s’astrinse volontaria in prima.
Quinci la vedovella esempio prenda ;
Nè baldanzosa alle seconde nozze
S’ affretti, e tuffi nell’ obblio profondo
L’amor suo primo e la sua prima fede.
L’aquila in allevar la nobil prole
È vieppiù d’altro disdegnosa e ’ngiusta;
Chè di tre figli i due percuote , e scaccia
Con gli aspri colpi de’ suo’ duri vanni ;
E ’l terzo alleva , a cui non inanelli ’l cibo,
Che suol rapire ’l predator volante;
E forse altra cagion più bella e giusta,
Non avarìzia del nutrir la spinge
Ma severo giudicio , onde riprova
l'eoo)' a lei non convenga) indegno parto :
Perchè volge l suo’ figli inverso ’l Sole ,
Sospesi in aria nell’ adunco artiglio:
E quel che non dechina a’ raggi ardenti
La ripercossa vista c '1 debil guardo,
Ma ’ntrepido nel Sol l’ affisa e ferma,
E scelto a prova, e gli altri abborrc e sde-
(Pur com’ indegni di reale onore) [gna
Con quel suo generoso e gran rifiuto.
Ma gli scacciati entro ’1 suo nido accoglie
Quella che rompe 1* ossa, e quinci ’l nome
Prende , od aquila sia bastarda , e nata
Di gcnitor deforme, od altro augello:
Nè gli lascia perir d’orrida fame.
DEL MONDO CREATO. 149
Ma co’ suo’ figli lor nutrisce e serba.
E tali son quei duri acerbi padri ,
Cli' espongono i bambini , o sono iniqui
Nel compartir fra’ suoi l’avere e l’esca
E tutti quel, ch’hanno l’artiglio adunco,
Allorcli’i figli timidelti ’l volo
Tentali primiero, c spiegan l’ale appena
Con mal sicure ancora e ’nccrte penne.
Gli spingo» tosto dal paterno nido ;
E s’ alcuno al partir è tardo o lento ,
Coll’ ali sue percosso e ripercosso
Precipitando ’l caccia ’l fiero padre.
Ma verso i figli suol l’amore e ’l zelo
Della cornice assai di laude è degno.
Clic ’n atto di pietosa e fida madre
Raffrena nel lor primo ardito volo
I.a debil prole, e lor ministra ’l cibo
Lunga stagion, perchè s’avanzi c cresca,
E molti sono ancora, e vari augelli.
Cui non fa d’uopo, in generare, il maschio,
Come gravidi sia» di vento c d’aura.
Ma son poscia infecondi i nati figli ,
Nè fan perpetua la ventosa prole
D’ Euro i nipoti, o pur di Noto e d’Austro.
Ma senza mescolarsi , c senza coppia
Di maritale amor concepc e figlia
L* avvoltar, clic sì tardi a morte giunge;
Meraviglioso al mondo, c raro mostro,
Che col secolo suo la vita agguaglia.
Or se deride alcun gli alti misteri
Della nostra divina invitta Fede,
Nè creder può che da virginei chiostri
Dell’ intatta Regina il Figlio uscisse.
Di sua verginità servando ’l fiore;
Miri qual dia famoso c reno esempio
Alle cose divine alma Natura :
E quel che può nell’ aria augel volante,
Possibil creda a Dio , che puote ’l tutto.
E i medesml avvoltoi presagio e senso
Hanno quasi divino, ond’è prevista
De’ guerrieri la morte; anzi talvolta
Sogliono accompagnar Tarmate squadre,
Antivedendo la sanguigna strage
Dell’ orrida battaglia , c ’l fin dolente.
Ma chi potria delle locuste appieno
GII spaventosi eserciti narrarti?
Ch’ ad un quasi di guerra orrìbil segno
Sogliono a schiere sollevarsi In alto ,
Ed accamparsi , ed ingombrar d’intorno
Quant’ è largo ’l paese , c i dolci fruiti
Pria non toccar, clic dal sovrano impero
Lor sia permesso ’l depredare i campi?
Debbo anco dir, come al meriggio estivo
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ISO POEMI
Le canore cicale 1 verdi boschi ,
Quasi nel petto avendo interna lira,
Faccian sonar con que' continui accenti?
0 come ’ncontro al Sol ripari e schermi
DI luoghi (enebrosi , c d' ore tarde
Cerchi l’ auge! , che dall’ antica Atene
Alla sua Diva fu nutrito, e sacro?
E com’ el solo Infra gli augei volanti
Adopri I denti , e In quattro pie si fermi ?
Benché due n’abbia l’alfricano augello,
Ch’ ha si gran corpo , e di sì grave peso ,
Sovra due tanto egli ’l leggero appoggia ,
E l’ali sue quasi di cuoio spiega:
E come penda l’un dall'altro avvinto,
Quasi catena Inanellata e lunga:
E ’n questa guisa pur Natura insegni
Di seambievol amore i fermi nodi :
E come gli occhi dell’ auge! notturno
Sian somiglianti ad uom, che tutto intenda
D’umana sapienza a' vani suiti] ?
Perchè di quello iu lenebroso orrore
La vista è forte, e poscia ha lumi infermi,
Laddove ’l Sol le tenebre disperda.
Cosi di questi appare acuto ingegno
Nei vano contemplar; ma in vera luce
La dehil mente imbruna, e tutta adombra.
Debbo anco dir, come ti svegli all’ opre
Di canoro aogellin l’acuta voce, [desta
Che (unge intuona, c ’l Sol richiama, e
Il peregrin, e ’l buon cultor ne’ campi,
L' uno al suo faticoso aspro viaggio ,
L’altro a secar le gii mature spichc ?
0 dir come ne rompa ’l dolce sonno ,
E n'invili a vegghiar con fida guardia
Conira l’ insidie d’ avversario antico
Il tardti augei , che già sottrasse al risco
La gran citta , del mondo alta regina,
A lei scoprendo la notturna fraudo ,
E ’l barbaro crude! ned’ ombra occulto,
Cile per oscure vie saliva in alto
A quel suo trionfale altero monte ,
Ove gii sorse in maestate augusta
Alta rocca ali' imperio, a Giove il tempio?
0 descriver degg’ io del bianco cigno
Il divino presagio, e ’l dolce canto.
Anzi l’ antiveduta c lieta morte?
Onde l’ alma humnrtal s’ affida , e spora
Farsi Ut sovra ’l Liei per grazia eterna.
0 del verme Indiano , a cui natura
Mirabilmente fa le corna e l'ali,
Espor si varie e si cangiate fonile ?
Però, voi, che sedendo, illustri donne.
Tessete c ritessete in tronchi e ’n Bori ,
SACRL
E ’n pià maral igliosc altre figure
Prezioso lavoro , e cari slami ,
Da (unge a voi mandati insln dagl’ Indi ,
Per adornar di vaga e molle veste
Le care membra; voi, nell’opra, o donne.
Dovete richiamar nell’ alta mente
Quel ch’altre volle ragionare udiste.
Che risorger dobbiam , ripreso ’l manto
Di nostra umanitate, e farci eterni.
Tutte vestile allor dì luce e d’auro
Risponderete al Sol , che Palme illustra.
Assise in gloriosa ed alta sede,
E d’ altro ornate che di perle e d’ ostro.
Or a le mi rivolgo, e tu supremo
Fra gli altri onore avrai negli alti carmi ,
immorlai, rinascente, unico augello:
E questo lia quasi odorato rogo
Di chiare laudi , in cui la fama antica
Si rinnovi nel mondo, e Pali spanda,
E per questo sereno e puro cielo
Lieta si spazi c gloriosa a volo ,
A scherno avendo ornai gli arabi monti.
Dio, fra gii altri dipinti e vaghi augelli ,
Quel di, che prima dispiegar le penne
Per Paria vaga al suoli dell’alta voce,
Fe’ la fenice ancor, come si narra ,
Se pur degna di fede è vecchia fama.
E ’n si mirahil forma il Padre eterno
Di mortai , rinascente , unico augello
Figurar volle quasi in raro esempio
I,’ immortai , e rinato , unico Figlio ,
Che rinascer dovea , come prescrisse.
Quanti’ ei ne generò P eterno parto.
Loco è nel più remoto ultimo clima
Dell’ odorato e lucid’ Oriente,
Là dove P aurea porta al elei disserra [no.
Uscendo ’l Sol , che porta in fronte ’l gior-
Nè questo loco è già vicino all'Orto
Estivo, o pur ali’ Orto, onde si mostra
Il Sol cinto di nubi a mezzo ’l verno ;
Ma solo a quello, ond’ ei n’ appare, ed esce
Quanti’ i giorni e le notti insieme aggua-
tai si stende negli aperti campi [glia.
Un larghissimo pian : nè valle , o poggio
In quell'ampiezza sua tlcchina, o sorge.
Ma quel loco è creduto alzare al cielo
Sovra i nostri famosi orridi monti
Sei volte e sci la verde ombrosa fronte.
E quivi senza luce al Sole è sacra
Opaca selva : e con perpetuo onore
Di non caduche fronte è verde ’l bosco ,
Che P ondoso Ocean circonda intorno.
E quando dell’ incendio i segni adusti
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LE SETTE GIORNATE
Nel del lasciò nel carreggiar Fetonte ,
Seeoro ’l loco fu da quelle fiamme.
Eqnando giacque in gran diluvio 'I mondo
Sommerso , ei superò le orribili acque.
Nè giungon quivi mai pallidi morbi ,
Opur l'egra Vecchiezza, oT empia Morte ;
Non cupidigia , o fame infame d' oro ,
Noti scellerata colpa , o fiero Marte ,
0 pure insano amor dì morte iniqua.
Sono l' ire lontane, e 1 duolo e ’l lutto,
E Povertà di orridi panni involta,
E i mal desti pensieri , c le pungenti
Spinose enre, e la penuria angusta.
Quivi tempesta, o di turbato vento
Orrida forza ’l suo furor non mostra.
Nè sovra i rampi mai l’ oscure nubi
Steudono ’l negro e tenebroso velo ,
Nè d’ atto cade Impetuosa pioggia ;
Ma ’n mezzo mormorando in vivo fonte
Lucido sorge e transparente e puro,
E d'acque dolci e cristalline abbonda:
E ciascun mese egli si versa e spande ,
Talché dodici volte ’l bosco irriga.
Quivi alza rami da sublime tronco
Arbor frondosa, e non caduchi e dolci
Pendono i pomi tra le verdi fronde.
Tra queste piante, e ’n quella selva alberga
Appresso ’l fonte l'unica Fenice,
Che della morte sua rinasce c vive :
Augello eguale alle celesti forme ,
Che vivace le stelle adegua , c *1 tempo
Consuma, e vince con rifatte membra.
E come sia del Sol gradita ancella,
Ha questo da Natura officio e dono ,
Che quand' in cielo ad apparir comincia
Sparsa dì rose la novella Aurora,
E dal eie! caccia le minute stelle ,
Ella tre volte e quattro in mezzo all' acque
Sommerge’l corpo, epnr tre volte equat-
Liba quel dolce timor del vivo gorgo, [tro
Poscia a volo s’ innalza , e siede in cima
Dell’arbore frondosa, c quinci intorno
La selva tutta signoreggia e mira :
Ed al nascer del Sole indi conversa,
Dei Sol già nato aspetta i raggi c ’l lume.
Ma poiché l’aura di quel lurid'auro.
Onde fiammcggia’l Sol, risplende espira,
A sparger già comincia ’n dolci modi
Il sacro canto : e la novella luce
Colla mirabil voce affretta e chiama;
A cui, voce di Cinto, o di Parnaso
Dolce armonia non si pareggia in parte.
Nè dì Mercurio la canora cetra
DEL MONDO CREATO, lì)
L'assembra, nè morendo ’lbianco cigno.
Ma poiché Febo del celeste Olimpo
Trascorre i luminosi aperti campi ,
E per quell’ ampio cerchio intorno è v oito.
Ella tre volte ripercossa al petto
L’ ali d’ oro e dipinte , al Soie applaude
Con non errante suon tannile e 1 giorno.
E la medesma ancor parte e distingue
L’ ore v eloci , e queir accesa fronte ,
Venerata tre volte, alfin si tace.
Pur come sia dei sacro oscuro bosco ,
E di que’ tenebrosi ed alti orrori
Sacerdote solinga , a cui son conti
I secreti del Orlo e di Natura :
Però di riverenza e d' onor degna.
Ma poi , fomiti cento e cento lustri.
Nella vetusta età più grave e tarda ,
Ella , che già passare a volo i nembi
Poteva c le sonore alte procelle ,
Per rinnovar la stanca vita e ’1 tempo
Chiuso e ristretto pur da spazj angusti ,
Kugge del bosco usato il dolce albergo.
E di rinascer vaga , i lochi sacri
Addietro lascia , e vola al nostro mondo,
Ov’ha suo' regni l'importuna Morte.
E già drizza Invecchiata ’l lento volo
In quella di Soria famosa parte,
A cui died' ella di Fenice ’l nome.
E di selve deserte ivi ricerca
Per non calcate vie secreta stanza ,
E si ricovra nell’oscuro bosco.
Ed ailor coglie deli' aereo giogo
Forte palma sublime, a cui pur anco
Comparti di Fenice 1 caro nome ,
Cui romper non potria co' feri denti
Serpe squainmosa, o pure aitgel rapace,
Od altra ingiuriosa orrida belva.
E chiusi ailor nelle spelonche 1 sentì
Taccion fra’ cavernosi orridi chiostri,
Per non turbar co’ lor torbidi spirti
Del bell' aer purpureo ’l dolce aspetto.
Nè condensato turbo 1 vani campi
Del del ricopre , ed al felice augello
Toglie la vista de’ soavi raggi.
Quinri ’l nido si fa : sia nido, o tomba
Quello in cui pere, acciò rinasca e viva
L’ augcl , che di sé stesso è padre e figlio,
E sè medesimi egli produce e cria.
Quinci raccoglie detl’ antica selva
I dolci succhi , e' più soavi orlori ,
Che scelga ’l Tiro, o l’Arabo felice,
0 Pigmeo favoloso , od Indo adusto .
0 che produca pur nel molle grembo
J52 POEMI
De’Sabei fortunati aprica terra.
E quinci l’aura di spirante amomo,
Colle sue canne ’l balsamo raguna ;
Nè cassia manca, o l’odorato acanto,
Nè dell’ incenso lagrimosc stille ,
E di tenero nardo i nuovi germi ;
E di mirra v'aggiunge i cari paschi;
Quando repente ’l variatili corpo,
E le già quote membra alluoga e posa
Nel vital letto del felice nido:
E nel falso sepolcro ardente cuna
Al suo nascer prepara anzi la morte.
Sparge poi colla bocca 1 dolci succhi
Intorno, c sovra alle sue proprie membra.
Ivi l’ esequie sue si fa morendo:
E deboi già con lusinghieri accenti
Saluta ’l Sole, anzi l’adora e placa:
E mesce umil preghiera all'umil canto,
Chiedendo i cari incendj , onde risorga
Col nuovo acquisto di perpetua forza.
Fra’ vari odori poi l’alma spirante
Raccomanda al sepolcro ; c non paventa
L’ardita fede di sì caro pegno.
Parte di vital morte ’l corpo estinto
S’ accende, e l’ardorsuo Gamme produce,
E del lume lontan concepe’l foco,
Ond’egli ferve olirà misura, e flagra ,
Lieto del suo morir, perchè veloce
Al rinascer di nuovo egli s’ affretta.
Splende quasi di stelle ardenti ’l rogo ,
E consuma’! già lasso c pigro veglio.
La Luna’l corso suo raffrena e tarda,
E par che tema in quel mirabil parto
Natura faticosa c stanca madre.
Che non si perda l’immortale augello;
Ma di gemina vita in mezz’ai foco
Posto in dubbio confin distingue e parte.
Nelle ceneri aduste alfin converso,
Le sue ceneri accolte egli raduna
In massa condensate , e quasi iu vece
È l’occulta virtù d’interno seme.
E quinci prima 1* animai ci nasce,
E ’n forma d’ ovo si raccoglie ’n giro ,
Poi si riforma nel primicr sembiante :
E dalle nuove sue squarciate spoglie
Alfin germoglia l’ immorta! Fenice.
Già la rozza fanciulla a poco a poco
Si comincia a vestir di vaga piuma.
Qual farfalla talvolta, a’ sassi avvinta
Con debil filo, suol cangiar le penne.
Ma non ha per lei cibo ’l nostro mondo :
Nè di nutrirla alcun si cura intanto;
Ma celesti rugiade intanto liba;
SACRI.
Dall' auree stelle e dall’argentea Luna
Cadute in cristallina e dolce pioggia.
Queste raccoglie, e fra ben mille odori ,
Sin che dimostri ’l suo maturo aspetto
Nelle cresciute membra, indi si pasce.
Ma quando giovinetta ornai fiorisce.
Fa ritorno volando al primo albergo.
E quel ch'avanza del suo corpo estinto
E dell’ aduste e ’nceneritc spoglie.
Unge di caro ed odorato succo ,
In cui balsamo solve, incenso e mirra,
E con pietosa bocca indi l’informa,
E tondo ’l fa : siccome palla, o spera:
E portandol co’ piedi , al lucid’ orto
SI rivolge del Sole, c ’l volo affretta.
E l’accompagna innumerabil turba
D’augei sospesi, e lunga squadra c densa ;
Anzi esercito grande intorno intorno
Fa quasi nube, e ’l volator circonda.
Nè di tanti guerrieri alcuno ardisce
Al peregrino duce andare incontra;
Ma dell’ardente re le strade adora.
Non il fiero falcone ardita guerra
Gli move , o quel eh’ i folgori tonanti
(Cotn’ è favola antica) al ciel ministra.
Qual le sue barbaresche orride torme
Scorgea dal fiume Tigri il re de’ Parti ;
Di preziose gemme , e d’ aurea pompa
Altero, e di corona ’l crine adorno,
Purpureo ’l manto , eli’ è dipinto e sparso
Dal lago di Soria di perle e d’oro ,
E col fren d’ oro al suo destricr spumante
Regger soleva ’l polveroso corso
Per le città d’ Assi ria alto c superbo ,
Ov* ebbe fortunato ed ampio impero :
Tale ancor va , meraviglioso in vista,
L’augel rinato, e con reale onore
E reai portamento i vanni ei spiega.
Il color è purpureo , onde somiglia
Il papavero lento, allorch’ al cielo
Le sue foglie spargendo, al Sol rosseggia.
Di questa quasi velo a lui risplendc
Il collo , la cervice, il capo e ’l tergo.
Sparge la coda, clic di lucid’ oro
Rassembra e d’ostro poi macchiata e ti nta.
Nelle sue penne ancora orna e dipinge.
Pur come in rugiadosa e curva nube.
L’arco celeste , in cui si varia c mesce ,
Verdeggiante smeraldo a’ bei vermigli,
Ed agli altri cerulei e bianchi fiori.
Ha duo grand’ occhi, eguali a duo giacinti,
E riluce da lor vivace fiamma ;
E pur gemma somiglia ’l rostro adunco.
LE SETTE GIORNATE
La testa le circonda egual corona ,
Come la cinge al Sol co* raggi ardenti.
Son le gambe squammose, e d’or distinte,
L* unghie rosate, e la sua forma illustre
Tra quella del pavon mista simiglia ,
E dell* augel che *n riva al Fasi annida.
Grande è cosi eli* appena augello, o fera
Nata in Arabia sua grandezza agguaglia ;
Pur non è tarda , ma veloce e pronta,
E con reale onor nel ratto volo
La reggia maestate altrui dimostra.
Del verde Egitto una citiate antica
Ne’ secoli primieri al Sol fu sacra :
Quivi sorger solca famoso tempio
Di ben cento colonne altero e grande,
Già svelte dal tebano orrido monte;
E quivi, com’è fama, il ricco fascio
Ripor solea sovra i fumanti altari :
E *1 caro peso, destinato al foco,
Alle fiamme crcdca ire volte e quattro,
Adorando del Sol 1* ardente iminago.
Fiammeggia *1 seme acceso, e ’l sacro fumo
Con adorate nubi ondeggia c spira,
Talch’egli aggiunge agli stagnanti campi
Di Pelusio; e spargendo odori intorno,
Di sè riempie gli Etiopi e gl* Indi.
Meravigliando alla mirabil vista
Traggc l'Egitto, c *1 peregrino augello
Lieto saluta, e festeggiando onora
Repente : e la sua forma in sacri marmi
Scolpita, è in lor segnato *1 nome e*l gior-
O fortunato, e di te padre e figlio, [no.
Felice augello, e di te stesso erede.
Nutrito e nutritor, cui non distingue
Il vario sesso e lunga età vetusta
Non manda, come gli altri , al fine estremo :
Nè Venere corrompe, o *1 suo diletto
Non cangia indebolito, e vati dissolve :
Cui di Venere in vece è lieta morte,
Onde rinasci poi l' istesso ed altri,
E colla morte immortai vita acquisti.
Tu , poiché la vecchiezza i mari e i monti
Cangiato ha quasi, c varialo *1 mondo,
Perpetuo ti conservi, c quasi eterno,
A tc medesmo ognor pari c sembiante.
E tu se’ pur del raggirar de’ tempi ,
E de* secoli tanti in lui trascorsi ,
Di tante cose e di tant’ opre illustri
Sol testimonio, o fortunato augello :
DEL MONDO CREATO. 153
E felice vieppiù, perch’a noi mostri,
Quasi in figura di colori e d’auro,
L' unico Figlio del suo padre Iddio,
Dio, com’ è *1 padre a lui sembiante e pari.
E la Natura col tuo raro esempio
Insegna pure all'animosa mente
(S’ella dubita mai) com’Ei risorga
Dalla sua morte, c dal sepolcro eterno.
E benché nostra pura e’nvitta fede
Abbia lume più chiaro onde c’ illustri.
Te non disprezza, e con perpetuo onore
Il tuo bel nome al suo Fattor consacra,
Cli* è sommo Sole, ond* ha sua luce il
Soie.
Fallo avea tutto ornai gli umidi campi ,
Ch* agitar suole *1 vento obliquo, o l’ onde,
Co’ propri abitatori il Padre eterno,
S’ abitatori pur dell’ aria vaga
I volatori augelli, e non più tosto
Son della terra, ond’ hanno ’l cibo e ’l volo ;
Quand’ egli vide *1 suo lavoro e l’opre
Tutte esser buone, c gli animai feroci
Buoni pur anco : e sua bontate impressa
In lor, qual nota del suo Mastro o segno;
Però gli benedisse. E ’n questa guisa
Disse : Crescete; e numerosa prole
Tutte Tacque riempia, e ’n sulla terra
In gran numero ancor s’ avanzi c cresca
Ogni progenie de’ volanti augelli.
E della santa voce il santo impero
Ancora è certa e ’nvlolabil legge.
Perchè dopo tanl’anni c tanti lustri;
Tanti secoli, a volo ornai trascorsi
Da’principj del mondo a quest’estrema
E tarda etate, in cui s’appressa *1 fine ;
Nè progenie di lor, nè fera stirpe,
0 per diluvio, o per Incendio ardente,
0 per lunga mortale orrida peste,
0 per lor feritale, o per T insidie
D’ umano Ingegno, o per P orribil armi
Estinta non rimase, o scema unqnanco ;
Ma quasi eterna si perpetua c serba.
Tanta della divina c santa Voce
E la virtù che lor difende c guarda ;
Perchè sia appieno e ’n ogni parte adorno
Questo che tutti abbraccia e tutti accoglie
Nell’ ampissimo sen, capace mondo.
Cosi fu fatto; ed al mattino il vespro
Giungendo, impose fine al Quinto Giorno.
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154
POEMI SACRI.
GIORNATA SESTA.
Nella quale creò Dio ogni specie di Bruii e l'Uomo.
Là dove innalza '1 celebrato Olimpo,
Creduto degli Dei lucente albergo,
Sovra tutte te nubi, c sovra i venti
Nell’aria quota la serena fronte,
E dove Alfco nelle sue Iucid' onde
Portar solea già l’ onorata polve
De’ vincitori, a coi le membra asperse.
Propose i vari prenij a' giuochi illustri
L'antica Pisa : e i più veloci c i forti
Vide sovente in dubbia lotta, o ’n corso
Affaticati : e i cavalieri e i cai ri
Colle fervide ruote all’ alla meta
Girarsi intorno, e ’n varie altre contese
Ricercar pregio e fama e chiaro grido :
E vide a prova ancor sublimi ingegni
Far di sè paragone, e ’n dolce canto,
0 con soave pur faconda liìigua
Gli udì maravigliando; e ben conobbe
Che pari non arca mercede o palma :
Ma 1 primi di nelle tenzoni antiche
Talvolta scn (lassar dubbiosi e ’ncerti
Senza corona, e sol nel giorno estremo.
In cui maggior fu la fatica e ’l risco
Del contrastare, o ’l vergognoso scorno
DI ceder vinto, diede i cari pregj
Fermo giudicio al vincltor felice :
E rimbombar d’ intorno il cliiaro nome
Udissi al suon della canora tromba.
Ma in questo quasi agone e quasi campo
Di sapienza, ov* adoriamo assiso
In altissima sede, a Dio sembiante.
Quel, cui permise ’l giudicarne in terra
Giudice non severo, anzi clemente ;
Più sollecita cura, e più gravosa.
Cura incerta d’ onor ne preme e ’ngombra
Nel giorno estremo, e nell’ estremo corso ;
In cui di faticosa aspra contesa
Quasi corona, o premio è posio innanzi,
Dura pena all* incontro altrui minaccia.
Già non è pari’l giuoco, e pari ’l frutto
Tra quel che lotta col nemico, o canta
Al dolce suon delle sonore corde,
E’1 mio (se lece dir) contrasto indegno;
Gli’ ivi ’l periglio è sol fastidio e scherno
Degli udi tori : e ’n questo è danno e morte.
Amici, adunque a me pietoso aiuto
Date, vi prego, e quasi lena e spirto :
E di par meco entrate in quest’ adorno
Maraviglioso, grande, ampio teatro
Delle cose create; in cui mirando
Il magistero del gran Padre eterno ,
Quasi per gradi alziam la pura mente
All’ invisibil suo felice Regno,
Ove gli ultimi premj altrui rìserba.
Nè già ricerco io qui verde ghirlanda
D’allor frondoso, che si sfronda, e perde
In breve tempo la vaghezza e ’l pregio :
0 di pallida pur famosa oliva.
Qual da' gran fonti già del gelìd’ Istro
La riportò d’ Anfitrione il figlio;
Ma sieno 1 pregj miei salute e pace
In terra, e più negli stellanti chiostri.
Intanto a voi questa corona eccelsa
È posta innanzi, e voi medesmi al vostro
Puro giudicio di lodevol opra
Bramo di coronare. Udite adunque
Con pietosa udienza, o fidi amici.
L’aspra natura dell’ estranio belve.
Dell’ umil gregge e de’ terreni armenti,
E dell’ uom, cui di terra il Padre eterno
Creò dasezro, c da principio umile,
Formollo imperioso a scettro, a regno,
E di vita immortai ; se propria colpa
Non era a lui di faticoso esigilo
Dura cagione, e d’odiosa morte. [Gelo
Poich’ebbe ’l grande Iddio spiegalo ’l
Sovrano, c stesa ancor l’ infima terra,
E fermato ’l ritegno in mezz’all’acque,
Che sovra c sotto le distingue e parte ;
E comandalo che s* aduni insieme
Quella Natura instabile e vagante :
E imposto al mare ed alla terra ’l nome,
E l’arida di piaute ornata e d’erbe;
Indi si volse a far più bello ’l Mondo,
E died’al giorno ed all’ algente notte
I duo’ lumi maggiori e più lucenti,
E tutti variò di stelle e d’ auro
Con diverse figure e vaghi giri
I primi corpi, e con perpetue tempre
Maravigliosa fé’ la vista, e ’1 corso.
Poscia prodotti entr’ all’ondoso grembo
Dell’ acque amare e dolci i vari pesci,
E nell’ aria i volanti e levi augelli ;
Disse Dio Creator (e ’l sacro detto
Fu certo impero, c ’nvlolabil legge)
L* anime de’ viventi ancor produca
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LE SETTE GIORNATE
D’ogni sorte la terra, e ’n quattro piedi
Altri appoggi ’l corporeo c grave pondo
Altri nel suol disteso ’1 porti e serpa :
E la progenie anco produca, e figli
Di quali nque altro va rependo, e insieme
Colle fere produca armenti e gregge.
Cosi Dio fece le terrene belve,
E le cornute, o pur lanose marni re
De7 mansueti, e quei ch’ai suol congiunti
Strisciando se u’ andar col giro obliquo.
Dunque animata è quest’amica Madre?
Dunque anima ha la Terra, oud’ ella al par-
Quasi femmina, fu bramosa e pronta ? [to,
E loco han pure 1 Manichei superbi
Di saper vano, c le menzogne antiche
Di chi filosofando c mente e spirto
Died’ a questa mondana ed ampia mole?
Lo qual per enlr’a lei trapassa e spira.
Confa lor parve, e ’l cielo e l’ima terra;
E la spera del Sol lucente e vaga,
E ’l globo della Luna, e l’ auree stelle;
E dell’aria e del mare i larghi campi
Nutre, e misto al gran corpo in vari modi
Muove agitando le diverse membra?
Ma chi vestire osò d’alma spirante
La terra, o volle dar sua mente al mondo,
E farlo Dio, non che spirante e vivo
Animai, che luti’ altri accoglie in grembo ;
Male intese di Dio que’ sacri detti,
E ’n peggior parte la sentenza torse.
Perdi’ alma non avea l’arida terra;
Ma chi le comandò, largille ancora
La virtù di produrre i nuovi parti.
Nè quando detto fu : Germogli ’l fieno,
E ferace di frutti il verde tronco;
Ella ’l produsse alior, siccome occulto
Il si tenesse nel profondo seno : [elee.
Nè palma, o quercia, o l>cl cipresso, od
Pur come ascoso dal fecondo ventre
Dì fuor mandò sovra l’ inculto suolo;
Ma delle cose, che si fanno, o fersi,
E il divino parlar natura e vita.
Dunque quando ’l Signor disse : Germogli;
Intese in sua divina alta favella : [bo,
Non cacci fuor quel che raccoglie In greni-
Ma quel eh’ ella non ha, di nuovo acquisti;
E la forza a lei diede il Padre eterno.
E ’n questa guisa or le comanda, e dice :
Produca l’alma; c non dell'alma innata
Intender vuol, ma di virtù largita
Colla mirabil sua divina voce. [so;
Ma non comanda all* acque al modolstes-
Sol l’impone il produrchi serpe e striscia
DEL MONDO CREATO. 1S&
Coll’ alma viva : od alia terra impone
Che partorisca P anima vivente.
E cosi disse Dio, se dritto estimo,
perchè nell’ acque agli umidi notanti
Compartir volle men perfetta vita;
E men degna natura : e quinci avviene
Ch’ entr’ al denso elemento, e ’rnpuro emi-
Abbian via men acuti e puri i sensi, [sto
Grave è l’ udire, e ’l lor vedere ottuso,
E memoria non hanno, c non s’imprime
Nel senso interno immaginata immago.
Nè contezza è fra loro, o per lung'uso
Notizia alcuna, onde ’n si rozza vita
La carne, e ’l ventre signoreggia e regna.
Ma ne’ terrestri Imperatrice e donna
E P alma in guisa, ebe talor si crede
Che di ragione e d* immortale ingegno
Eli’ abbia larga partee ricca dote.
Interi i sensi, c ne’ presenti oggetti
Acuti sono, c del passato impressi
Alti vestigi, c non dubbiose, o ’nccrte
Son le memorie ; e lor virtù non (angue.
E colla voce non oscura i segni
Sogliono dar de’ loro interni affetti.
E quinci ’n lieto, o ’nsuon dolente c mesto.
L’allegrezza si mostra, o ’J duolo appare,
0 di cibo ’l desio di fuor si scopre,
0 rimbomba Pamor ch’entro gl' iniìamnia,
E non può starsi in fero petto ascoso
Sotto tenera lana, o duro ed aspro
Ispido vello : onde *1 belar dell’agno,
E ’l nitrire e ’l ringhiar son quasi note,
E ’l latrar, 1* ululare in monte c ’n bosco,
0 pur lungo un corrente e chiaro fiume
E ’l muggir e ’l ruggir, d’affetto interno.
Mill’ altri affetti ancor con mille voci
Suol variando dimostrar Natura.
Dall’ altra parte, degli ondosi regni
L’errante abitator non solo è muto,
Ma immansueto, e dall’ usanza abborre
Dì nostra vita, e per lusinga o vezzo
Mai non s’ avvezza, e nulla apprende, o
prende
Di nostra umanità : ma schiva e fogge
D* esser consorte all’anima che regna.
In questa guisa Dio creò nell’ acque
Corpi animati, e nella terra ei volle
L’ alme crear, da cui si regge *1 corpo.
Quinci ’l suo posscssor fu nolo al bve.
Conobbe P asine! l’ umil presepio
Del suo signor ; ma non conobbe ’l pesce
Il nutritor : tale entro P acque, e tanto
Fu lo slupor dì tardo e grave scuso!
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i SC POEMI
(Conobbe P asine! l’usata voce,
E conobbe la via eh* egli trapassa,
E fu duce talora all’ uomo errante
Nell’ incerto seiitier, ond’ ri travia.
Nè di più acuto udire, o più sottile
(Se’l ver si narra) altr’ animai terrestre
Vantar si può soli' a si rozze membra;
Ma nel cammello portatore estrano
Di graii pesi, ed Affricati deforme,
È dell* ingiurie alta memoria c salda,
Ed ira grave al vendicar costante;
E percosso talor l’ira profonda
Lunga stagion riposta in scn riserba,
Pur come estinta, c la ripiglia a tempo,
Rendendo ’l male c ’l ricevuto oltraggio.
Udite voi, che di virtulc in guisa
La memoria dell’ onte in voi, di sdegno
E d’astio e di rancor nutrite occulta,
Udite ’l paragone, a cui sembianti
Fate voi stessi, mentre Tire ascose
Tenete pur, come fav file ardenti
Solt’inganncvol cenere sepolte :
Ch’accendendosi poscia in secco legno,
0 ’n arid’esca, fiammeggiar repente
Sogliono, c rinnovare ’l foco estinto.
In colai guisa l’anima superba
Fu ne’ bruti prodotta, c voi l’ esempio
Seguite pur delle sdegnose bel\c.
Ma qual si fosse già nel primo parlo
L’alma loslra immortai, fia noto appresso:
Or detrattila ferina a voi si paria.
L* alma d' animai fero è vita c sangue :
Ma *1 sangue ’n carne si condensa c cangia :
E la carne corrotta alfin in terra
Pur si risolve; onde mortale è l’alma
Di feroce animale, anzi piuttosto
Un non so clic di morto. Udite adunque
Perdi’ alla terra Dio produrre impose
L’anima de* viventi : c come segua
Che l’alma in sangue si trasmuti e volga,
E*l sangue in carne, e quella carne in terra,
E per le stesse vie si \olge e riede
La terra in carne, c poi la carne in sangue,
K ’l sangue in alma; onde ritrovi e vedi
Che t'anima de’ bruti è sangue e terra.
E non pensar che piu del corpo antica
Sia l' alma fera, onde rimanga in vita
Poscia, che ’l suo mortale estinto giacque ;
Ma riconosci le cangiate forme,
E i variati giri ; c fuggi intanto
Degl’ ingegnosi le canore ciance,
Che starlan meglio in lor silenzio occulte.
Non hanno questi pur rossore c scorno i
SACRI.
Di far che 1* alma, onde uom ragiona e ’n»
tende.
Sia quella stessa onde latrando ’l cane
Scn corse, e sibilando empio serpente.
E fin goti sè medesmi in varie forme
Esser mutati, c non pur servi c regi
Sott’a lari sembianti c varie membra
Esser già stali ; ma vezzose donne,
0 pur marini pesci, o piante, o sterpi.
E ciò scrivendo, più di pesce, o tronco,
Si mostrati di ragione ignudi c d’alma.
Ma fra tanti superbi c varj ingegni
Non sorse alcuno in quell’ età vetusta.
Clic l’anima stimasse o limo, o terra.
Ma seguendo del moto o pur del senso
(Incerti duci) le vestigia c I segui.
Altri la credea spirto ed aer Icic,
Altri foco sottile, o vi\a fiamma,
Altri pur la stimò natilo umore,
Altri lapor da quel rumante c misto :
Terra nessun. Cosi la Madre antica.
La Terra, dico, clic produce c figlia
L’alma dc'iiii, quasi inculto germe.
Fu defraudata allor del proprio onore
Da que' superbi, c ’u contrastar costanti,
E discordi fra lor ritrosi ingegni.
Ma noi rendiamo aita gran Madrcantica
L’otior dovuto del suo nobil parlo;
Esita figlia chiamiain l’alma spirante
Di feroce animale. Or non ci caglia
Se nuì’a ora di nuovo, n di vetusto
Delle figure della vasta Terra
Osiamo d* affermar con certe prove,
Ouasi giudici giusti in tanta lite.
Perdi’ altri mol ch'ella figura e forma
Abbia di sfera: altri la laria r finge,
Otias» un cilindro, c simigliarne ai disco :
Altri la fa come sia cesta, od aia,
>acua e cava nel mezzo, c d’ogni parte
Pur egualmente la polisce ed orna.
E que!, che ratto immaginando al Cielo
Fu come scrisse ne’ toscani carrai,
Indi pur vide, o di veder gli parve
La Terra, che ci fa tanto feroci ,
Quasi una bassa e picciolctta aiuola;
Ma pur in giro ei la circonda e forma.
Ed altri ancor nelle due estreme fasce,
E nell’ ampia di mezzo e larga zona
La privò d'abitanti : c nuda ed erma,
E con squallido aspetto orrido in vista
La ci dipinse, c ’n alla nei e c ’n gelo
Sepolte figurò le parti estreme.
E ’l maggior cinto dalle fiamme acceso
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LE SETTE GIORNATE
Sol due ione lasciò soggette al Sole ,
Che mai per dritto non rinfiamma e scalda.
In due grandi endsperi, c sempre avverso
Fa con obliqui raì più dolci tempre.
E noi ]'una abiiiam, chè quinci c quindi
Yiviam ristretti in breve spazio angusto
Dal gel perpetuo, o dall’ardor soverchio.
L'altra soli’ altro ciel barbare genti
Accoglie, a cui sparito è il Carro e l’Orsa.
Ma la novella età discopre e mostra
Ch'ogni di lei gelata, o accesa parte,
L'uom dalla prima sua terrena stirpe
Duro animai costante alberga c pasce.
Talché non sembra l’abitala terra
Timpano più come affermando insegna
Il gran maestro di color che sanno:
Nè 'il Torma di lorica agli occhi appare;
Ma pur in cerchio si rivolge e gira ,
Di pomo in guisa che si fende ed apre.
Isola no, che non si giace in seno
Al gran padre Ocean, ma'l tiene in grembo,
Come osa d’ affermar l’età novella.
Che per troppo veder men alto intende.
Ma sia di ciò quel che ragione e senso
Può dimostrar ne’ più vicini obbietti.
Or tacciam sue figure, c i larghi spazj
Non misuriam qual geometra in giro,
E non vogliam superbi al Re del cielo
Pi sapere agguagliarci e di possanza.
Perch’ ei la terra nelle man rinchiuse ,
E misurò pur colla mano i mari ,
E tutte Tacque insieme, e ’lcicl col palmo:
Chi pose i monti spaventosi in libra?
E’n giogo i boschi e Taspre rupi in lance?
Chi tien dell’ampia terra ’l largo giro?
E in guisa di locuste in lei dispose
Gli sparsi abitatori c'1 ciel sublime.
Quasi camera sua, si fece in volta.
Se non il Re, che lui sostiene e folce?
Non affermiamo ancor con vano orgoglio
Quanto T opaca e tenebrosa terra
L* ombra fosca ed algente innalzi e stenda;
Ni* come privi di splendor T errante
Luna, quand’ella giunge ’nconlro al Sole:
Nè s* ella di Ciprigna ancora adombra
Il vago aspetto eia sua luce imbruni;
Ma tutti siam per meraviglia intesi
Alla voce di Dio , che corre c passa
Alle cose create, e compie ’l mondo
Nelle parti di mezzo e nell’ estreme.
Qual ampia spera, o pur marmorea palla,
Ch* è da robusta man percossa c spinta,
Giunge ’n loco pendente, ed indi a basso
DEL MONDO CREATO. 157
Dal sito che s’avvalla e ’n giù declina,
E dalla propria sua volubil forma
Con veloci rivolte in giù rotando
Portata va, sinché le arresta ’1 corso
La piana terra , in cui si giace c posa ;
Tal della santa voce al suon commossa
La Natura trascorre, c passa a dentro
In tutto quel che nasce csi corrompe;
E va servando ogni progenie e stirpe
Simile a sé, lindi’ ella al fine aggiunga.
E del cavallo il succcssor corrente
Fa che ci nasca ; c pur sembiante al padre:
Dal tauro ’1 tauro con sue dure conia :
Dal superbo leon villoso ’l tergo
Nasce ’l leone, ed ha pungente artiglio:
E ’nsicmc col leon T impeto c T Ira
Nacque, c quel suo magnanimo disdegno.
Onde Tumil nemico a terra steso
Trapassa alteramente, e non l’offende ;
Nacque T amor di solitaria vita.
Per cui sprczzaicompagni,cquasi abbor*
E per deserte arene, o ’n alta selva [re.
De’ Mauritani, o de’ Numidi errante
In caccia c ne’ perigli ci va solingo,
0 pur fra ’l Nesso e l’Acheloo corrente,
Dov’ i leoni producea l’Europa.
E ’n guisa di possente aspro tiranno,
E per natura indomito e superbo,
Nè degna egual, nè dell* estremo cibo
Pascer la cruda sua fame profonda :
Cotanto schiva il disdegnoso gusto
L’avanzo di non presa immonda preda.
Si larghe canne ancor le diede ’n sorte
Natura, e grande c si Porribil voce.
Clic l'alto suo ruggir di tema ingombra
1 più veloci e i più leggieri al corso,
E sbigottito alfin gli arresta e prende:
Ma dopo ’l pasto egli è giocoso e lieto,
E festeggiando, con gli amici ei scherza
Quasi di nulla tema e non sospetti.
Poi fatto grave nell’età vetusta,
E lardo in caccia, osa’l feroce veglio
Alle città dar periglioso assalto,
E gli uomini Infestar fra l’ alte mura.
Ma questa cosi fiera orrida belva,
Quando più superbisce, e’n maggior rabbia
Divenuta crudel lo sdegno accende ,
Teme d’ardente face, e fugge M foco.
E sbigottito ancora ei fugge ’l gallo,
E impaurito è più dove biancheggia
Il bel candor delle spiegate penne.
E la pantera, impetuosa belva ,
È repente agitata : a’ varj moti
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158 POEMI
Dell’ alma sua veloce ha ’1 corpo acconcio,
E le membra pieghevoli e leggiere.
E delle macchie sue quasi dipinto
Mostra ’l bel pardo variata pelle :
Ed ascondendo ’l suo feroce aspetto,
Colla pittura delle spoglie , alliec
I semplici animali, e troppo incauti:
Cosi gli prende, c ’nsidlosa fraudò
Le giova più nella selvaggia preda,
Che ’l suo corso veloce, o ’l leggier salto.
Ma l'orsa è neghittosa e pigra e tarda,
E di costumi occulti e'n alto ascosi :
E di simil figura ammanta e veste
L' alma feroce : ha grave e rozzo ’l corpo,
Quasi Indistinta e mal composta mole.
Ch' entro l’ algente ed orrida spelonca
Ha sue latebre, ove s' agghiaccia ctorpe.
Ma poscia nel furor s’ infiamma c ferve
E cerca d'ogni ingiuria aspra vendetta.
E ’neontr’ al ferro ella s’ avventa e ruota
Ne’monti alpestri e piaga aggiunge a piaga,
Correndo quasi a volontaria morte.
Ma pur con lingua industre Informa e finge,
Di fahbroln guisa,! suoi deformi orsacchi.
E tu, più rozzo assai d’orsa silvestre,
I costumi de’ figli Incolti ed aspri,
Mcntr’ ò retate ancor tenera c molle ,
Non formi, non polisci c non adorni?
Nò ’n pietosa opra hai lusinghiera lingua.
Ma In officio crude! pungente c dura?
E l'orsa ancora alle sue proprie piaghe
Sa (com’insegna la Natura industre)
Ritrovare ’l rimedio, onde risana;
Perchò, quando più son profonde e gravi.
Col verbasco le tura, e l'arid' erba
Terge la parte sanguinosa c secca,
E la serpe d’inferma c scura vista
Di finocchio si nutre : e cosi scaccia
Quell’ Infelice umor che gli occhi appanna.
L’ aquila ancor colla lattuca agresto
Conferma ’1 vacillante e dchil lume;
La testmline allor, che ’l fero tosco
Della serpe rancide, e dentro serpo
II pasciuto velcn , salute e vita
Dall’orìgano cerca, e non indarno.
E l' egra volpe in discacciar la morte.
Che le sovrasta, usa nel proprio male
Due lagrimctte di stillante pino.
E la montana capra, allorcli’ afiisso
Di pennata saetta in mezzo al fianco
Ha ’l duro ferro, medicar sò stessa
Sa con quell' arte che Natura insegna :
E dittamo pascendo , il duro strale
SACRI.
L’ esce por dair interna c grave piaga.
Della scimia ’l Icon languente ed egro
Avidamente cerca ’l fero pasto.
E beve ’l pardo della capra ’l sangue.
E pasce i ramoscel d'olivo il cervo.
E tu dell’ alma tua languida a morte,
11 rimedio non trovi? e non conosci
La vera medicina? e non delibi
Succo vltal dalle sacrate carte?
E i presagi del tempo ancora insegna
Mastra Natura, c'I variar del cielo
Dal caldo al freddo, dal sereno al fosco;
E qual tempesta indi minacci, o tutbo.
Talché in antiveder la pioggia e i venti,
E le procelle torbidi e sonanti
Talor men dotti son gli umani ingegni ,
La pecorella all’ appressar dei verno
DI largo cibo sì provvede e pasce.
Quasi antevegga la futura Inopia,
Che l’oscura stagion gelando apporta :
E 1 buoi rinchiusi nel più freddo tempo
Entr' alle calde loro Immonde stalle.
Quando la primavera a noi ritorna.
Mossi dal lor nativo e certo senso
I.a domita cervice, e ’1 collo irsuto
Stendono oltr’i presepi, e pur guardando
bramati d' uscire al tepido sereno.
L’istrice ancor nelle sue proprie lustre
Fa doppia quasi porta , onde respiri :
E di lor una ò volta al nobil Austro,
E l'altra al fiato d' Aquilone algente;
E se teme di Dorca '1 fiero spirto,
(lontra ’lScltentrion si tura ’l varco;
Ma se ’l vento afTrican l' offende e turba ,
Quel suo foro ventoso incontra chiude,
E si ricovra alla contraria parte.
E quinci chiaramente a' sensi appare
Che l' alta Prov v idenza in ogni lato
Trascorre e passa, e ’l tutto adempie ed or*
E per le cose eccelse c per le illustri [ua:
Non mette ella in non cal l' oscure e basse;
Ma nel vile animai un certo senso
Suol destar nel futuro, onde provveggia
Egli asò stesso. E l’uom mai sempre intento
Si starò nel presente , e quasi a bada
Senza pensar nella futura vita?
Deh ! rimiri T lodato e raro esempio
Della formica faticosa e 'ndustre.
Che ’l vitto, onde si pasca al freddo vento,
Rlpon la state : e benché lungo ancora
Sian di stagion molesta i giorni algenti ,
Neghittosa non cessa, e non s'allenta
l.a negra turba ; anzi sò stessa av vezza
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO. 159
Nelle fatiche , e per gli adusti campi
Pene l’opra non men, che l’orac’l giorno.
Sin ch'abbia ne' snoi spechi ’l gran riposto.
Essa coll' unghie proprie incide c sega
1 cari frutti, e'nmniditi al Sole
Gli asciuga e secca j e 1 bel tempo sereno
Spiando , gii prevede i lieti giorni ;
Talché, (pianti" ella i grani a’ raggi espone.
Pioggia non stilla dall’ oscure uubi ,
E di sereniti I* Indicio è certo.
Quinci ripon nelle sue celle anguste
L'asciutta messe, e poi la serba e parte ;
Custode e dispensiera e ’ntenta all'oprc.
E non sol mentre ’l Sole accende I campi.
Ma le fatiche sne notturne ancora
Dal ciel rimira la rotonda Luna ;
E quelle più serene e calde notti
Tolte al dolce riposo , al queto sonno,
E giunte al travagliar continuo e lungo.
Tanta In minuto corpo industria c lena
Di spirto infaticabile e ’ngegnoso
Pose Natura , eh’ è miratiti madre ;
Anzi della Natura il sommo Padre
Tanta virtù le diede in raro dono.
Ob come grandi sono, oh come eccelse.
Come meravigliose , o Mastro eterno ,
Tutte l' opere tue , che tu facesti
Con Infinita sapienza ed arte!
Ma noi nepoti del vetusto Adamo ,
Pur , quasi doni di natura e doti ,
Abbiam molle virtù, che proprie , e nate
Coll’ ignudo bambin d’ un seme istcsso
Sono, ed uscite da' materni chiostri.
Nè legge , od arte , o pur antica usanza ,
0 nuovo esempio le dimostra c ’nsegna,
All' alma ancora semplicetta e vaga ,
Che pargoleggia eulr’ alle molli membra;
Ma sua propria vaghezza e suo desio
L’ inchina , e move con amico affetto
Chi ne insegna d’odiar la febbre e i morbi
Seguaci c gravi, ond'è languente ed egra
L’umanitatel e d' abborrir la morte
Senza maestro e sena’ altrui consiglio ?
Non arte , non ragion , non uso , o legge ;
Ma quella , che ne fa cotanto amici
A noi medesmi , lusinghiera c dolce
Nostra natura, a noi l'insegna e detta.
In questa guisa ancor la nobil alma
Dechina ’l vizio , e volontaria T fugge
Sena’ altra cura , o magistero , od uso.
E reggendo Virtù , di' è bella in Tista,
Se n lnvaghisce e ia ricerca e segue;
Talch' è fuga de’ vizi il primo passo,
Ond'eHa i suo’ vestìgi indrizza ai Odo.
Ed ogni vizio è male interno e morbo
Dell’ alma inferma, e ’n van desire accesa.
E la Virtù, eh' è sempre al vizio opposta,
E saniti dell’alma; ond'è nell'opre,
E negli offici suoi costante c salda.
E quinci a tutti la Giustizia è cara ;
È cara la Prudenza: e grazie e laude
Ha la Modestia : c ’n più miratiti vista
La Fortezza, virtù dell'alma invitta,
( Malgrado di Fortuna empia e superba)
S’onora c cole, e simolacrl cd archi
Le sono alzali , c sacri altari e trmpj.
E queste ha per fedeli e care amiche
L’alma domesticata, c se n’ adorna.
Più che dì sanili , le membra c ’l corpo.
Amate 1 parili , o voi pietosi figli :
E voi , pietosi padri , i figli amate
Senza irritare il gioveniie sdegno;
Cliè Natura il v’ insegna e ven costrìnge.
S’ ama la leonessa, orrida belva ,
I pargoletti suoi ; se ’l fem lupo
Difende I lupicinl , e ’nsino a morte
Per lor combatte; avrà suoi nati a scherno.
Più crudel delle fere, il erodo padre?
Tanto rigor, tant' odio, c tanto nbblio
Di Natura sari nel petto umano ?
0 del materno amor soave e dolce
Forza, che pieghi la feroce tigre ,
E dalla preda , a cui vicina c stanca
Corre anelando, la rivolgi indietro
Alla difesa de’ suoi cari parti !
Coni’ ella trova depredato c sgombro
li suo covil della gradita prole ,
Repente corre : e le vestigia impresse
Preme del cacciator , che seco porta
La cara preda : e quel rapido innanzi
Fugge portato dal destricr corrente :
E per sottrarsi alla veloce belva
(Ch'altra fuga non giova, od altro scampo)
Con questa fraude d' ingegnoso ordigno
Delude la rabbiosa, e sè difende.
Perchè di trasparente e chiaro vetro
Una palla le getta innanzi agli occhi ;
Onde schernita dalla falsa immago
La si crede sua prole , e ferma ti corso,
E ['impeto raffrena, e il dolce parto
Brama raccor nel solitario calle ,
E riportarlo alla sua fredda cava.
E ritenuta pur dai falso inganno
Delle mentite forme , anco ritorna
Ma più veloce assai (ch’ira l’affretta)
Dietr’ a quel predator eh' innanzi fugge,
t
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160 POEMI
E gli sovrasta ornai rabbiosa al tergo.
Ma quel di nuovo col fallace obbiclto
Dello speglio bugiardo aflrena c tarda
Il corso della tigre, c si dilegua.
Nè dalla madre per obblio si perde
ta sollecita cura, e ’l proni’ amore.
Ma l’ infelice si raggira intorno
A quella vana e 'ugannatrice immago,
Quasi dar voglia a’ propri figli il latte.
E ’n questa guisa la schernita belva
La cara prole, e la vendetta ancora
Perde in un tempo, eh* è bramata e dolce.
E se ’n tal guisa suol amar la tigre ,
O la consorte del Icon superbo ,
0 del famelic’ orso , i propri figli ;
Qual maraviglia fìa , s’ amar tediassi
La mansueta ed innocente agnella
E la cerva selvaggia c fuggitiva
Il dianzi nato ancor tenero parto?
Fra molte pecorelle in ampia maiidra
Il semplicetto ignei, scherzando a salti,
Esce dal chiuso ovile, e di lontano
Ei riconosce la materna voce.
E ricercando dal suo proprio latte
1 dolci fonti affretta ’l debil corso:
E dove sian le desiate mamme
Vote del proprio umore, ei se n’appaga,
Nò fugge l’ altre più gravose e piene :
Ma le tralascia: c ’l suo dovuto cibo
Sol dalla madre sua ricerca e brama.
La madre ’i dolce e pargoletto figlio
Fra mille e mille, al suo brlar conosce.
In questa guisa di ragion sublime
Ogni difetto un largo senso adempie.
Che per natura in umil greggia abbonda,
Forse acuto vieppiù del nostro ingegno.
Ma nel suo partorir solinga cerva
Mostra vieppiù d'accorgimento e d’arte,
D’altr’ animai, in cui sia parte, o seme
Di provvidenza , c di ragione industre.
Però piuttosto alla pietatc umana
De’ suoi cerbiatti crede ’l novo parto ,
Delle fere tremende; e l’ aspre rupi,
E le selvagge lustre, c i lochi incubi
Fugge la paurosa : e dove scorge
De’ piedi umani le vestigio impresse
Press’ alle vie da lor calcate e corse ,
Ivi sicura ’l suo portalo espone :
E dell’ erba siSiclia ivi si pasce,
0 nelle stalle qui ricovra, c scampa
Gli artigli e i denti di selvaggia belva:
0 dura cuna in rotta pietra elegge
Là dove s' apre un solo e picciol varco ,
SACRI.
E i pargoletti suoi difende e guarda ,
E lor da quattro mamme il latte istilla ,
E da due mamme quelle a cui Natura
Fu di tal nutrimento avara e parca.
E perdi’ ella di tele amaro è priva.
Ha lunghissima vita ; onde talvolta
Candida appare , e nel condor senile
E venerata dall’ amiche genti :
Siccome quella, che sen giva errando
Libera e sciolta, in solitaria chiostra.
Che liberolla ’l suo felice Augusto.
La vaga fama alla famosa cerva
Le corna d’oro ancor figura e finge,
E le circonda di monile ’l collo;
Ma dell’onor delle ramose corna,
E di questa nativa altera pompa
La Natura privollc, avara madre:
E ne fu più cortese e larga a* cervi.
I quai le soglion rinnovar sovente :
E lasciando le vecchie a terra sparse
Dal proprio peso, onde son piene e dense.
Rifar le nuove alla superba fronte ;
E ciascun anno un lungo c nuovo ramo
Aggiunger pur delle ramose corna;
Dalle quali anco germogliò talvolta
L'odra seguace frondeggiando in alto.
Oh! meraviglia, onde Natura accrebbe
Vaghezza e pompa all’ animai fugace,
Ch’è pur fugace, c paventoso c vile
In cosi altero c così fero aspetto,
Armato di sue lunghe e inutili arme.
E ’l suo gran core, onde ’l formò Natura,
Non è d’ orgoglio , o d’orgoglioso ardire,
Ma di viltate c di timore albergo.
E in guisa pur di timidetta lepre
II suo liquido sangue appena ha fibre.
E quinci avvienche non s’accoglie cstrin-
Tenace e saldo, ma simiglia il latte, [ge
Mal senza quaglio appreso, onde ci trascor-
Ma talvolta d’ainorc acceso e punto, [re.
Nella stagion, che ’ntepidita ’l grembo
Apre la verde Terra, e ’l pigro gelo
Già si dilegua , e per disfatta neve
Gorron turbati i rapidi torrenti ;
Risveglia’! cervo al cor guerriero spirto;
E fa battaglia , c di ferire ardisce ,
S’ alcun per l’alta selva a caso incontra.
Ed allora non pur le tigri c i lupi ,
E gli orsi informi c la dipinta lince
E’1 cinghiai, che fregando al duro tronco
L’ orride coste, di tenace fango
Passi alle dure spalle aspra lorica ;
Ma cupida d’ amor la fera madre
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LE SETTE GIORNATE
Erra, obbliando i pargoletti inermi,
Cbenon iian fati’ ancor gli artìgli c 'I vello.
E i più timidi ancora in furia, c in foco
Sospinti son da stimoli pungenti.
Smisurato furor conduce e porta
filtra il sonante Ascanioc i gioghi alpestri
D’Jda sublime, olirà l’ Eufrate c ’l Tauro
L' aride madri del guerriero armento.
Passano i monti, e gli alti fiumi a nuoto;
Fuggon tra sassi dirupati c scogli ,
E per valli profonde , e non incontra ,
0 Sole, ai nascer tuo, nè ’ncontro ad Euro,
Ma verso Borea e Cauro, e d’onde attrista
D’oscura pioggia i cieli il nubil Austro.
Quinci lento veneno alfln distilla,
Ch'lppomane chiamò la prisca lingua
Degli antichi pastori : e fu sovente
Scelto già dall’ iniqua empia matrigna,
E con erbe maligne , e con parole
Non innocenti fu adoprato e misto.
Tanto polea l’ amore e ’l dolce zelo
Di più tenera prole in fero petto :
Tanto ardente desio di nozze immonde ,
Che per natura si risveglia e ’nfiamma,
E negli orridi boschi ad aspra guerra
Move non pur le dispietate belve
Ma i duci ancor de’ mansueti armenti
Pendon sospesi alla battaglia incerta
Che di piaghe e di sangue ’l petto irsuto
Lor empie e sparge , e la fronte superba ,
Le mute spose, eie cornute torme,
Di cui debban seguir l’audace impero ,
Eia vittoriosa altera scorta,
E non osati partir la fera zuffa
Meravigliando I lor maestri istessl.
E se !' amor de'lìgli, o quel cheagglungc
Insieme a generar cupida coppia.
Può tanto in cor ferino e ’n rigid’ alma ;
In quei che fa di sè vaghi e superbi
Nostra ragione c ’l nostr’ umano orgoglio ;
Quanto potrà? Qual meraviglia adunque
S' una c due volle , anzi tre volte e quattro
Per l' istessa cagion s' accese ed arse
Dell'odio antica inestinguibil fiamma?
E l'Asia contra la superba Europa
Di ferro e di furore armata In guerra.
Strage c ruinc e fieri inccndj ardenti
Mescldando ne ’ngombrar la terra e Tonde?
Nel fido cane ancor [se dritto estimi)
Dove manca ragione ’l senso abbonda.
E quel eh' appena i più sublimi ingegni,
Filosofando nell’ antiche scuole ,
Conobber degli acuti sillogismi ,
DEL MONDO CREATO. l«l
Mentre varie figure in varie guise
Tessean di lor con intricali nodi ;
Quell' (stesso , dicb’ io , subito ’l cane
Per sua natura agevolmente apprende;
Perchè trovando le vestigia impresse
Della timida lepre , o pur del cervo ,
Arriva là , dove si fende e parte
L'na strada in più strade, e 'iilorno a’ primi
Principj delle vie s’ avvolge e gira ,
Odorando i sentieri , o 1 passi sparsi :
E fra sè stesso in questa guisa intanto
Sembra sillogizzar : La vaga fera [corso,
0 ’n quella parte , o ’n questa ha volto ’l
0 per quest’altra almen s’ indrizza e corre :
Ma non seti va per questo, o quel sentiero,
Dunque per questo calle i passi affretta.
Cosi conchiude argomentando ’l cane ;
E ’l pronto senso è di lung’ arte in vece
Per cui rifiuta ’l falso, e trova ’l vero.
Nè più ne ritrovar le varie sette ,
Scrivendo collo stile , o colla verga
Nell’ arena del lido , o ’n secca polve ,
Degli argomenti le diverse forme :
Due condcnnando , come false , a morte ,
L'altra approvato, in cui rimase impressa
La verità , clic nel soffiar dell’Austro
Poi si cancella , o nel gonfiar dell’ onda.
E non s’ av vede la superba mente
Degli orgogliosi e miseri mortali ,
Clic ’n polve è scritta , ed In minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin che Palme illustra :
Onde nell’ imbrunir d’ un breve giorno
La si porta e disperde ’l mare e ’l turbo.
E bench’ antica età si glorii e vanti
Di sacre note e di colonne eccelse ,
In cui descritte fur le nobil arti
In quel sacro a Mercurio adorno tempio :
E sian per fama ancora illustri e conte
L’ altre colonne , in cui serbar credeva
Da’ diluvi sicure , e dagl’ incendj
Mill’ antiche memorie a terra sparte ;
Iti queste e quelle , nel cangiar del tempo,
Non rimane di lor vestigio , o polve :
Si lunga notte ’nvolve 1 nomi c l’opre.
Ma contra ’l senso de’ veloci cani
1 timidi animali hall senso ed arte,
Onde sovente i lor vestigi ispessi
Soglion guastar , perchè la fuga occulta
Segno palese non discopra e mostri.
E conoscono ancora i venti e P aure ,
Ond’ è iiortato agii odoranti cani
11 noto odor, che gli tradisce e nenie.
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I«2 POEMI
Così U Provvidenii in ogni parte
Trapassa e giunge , ed al fugace scampo
De' paurosi ella ulora intende ,
E spesso lor concede ingiusta preda
Agli animosi, e la virtù ferma
Colle spoglie de' tinti onora, e pasce
Pur di rapina le robuste forte.
Ma qual memoria e sì tenace e salda
Cmìiì t quella taior del fido cane ?
0 qual d’ animo grato e di costante
Altri puO meritar più chiara laude ,
Se ardisce ’1 fido caa col fiero assalto
Scacciar empio ladroa dal caro albergo ,
Vietando ì furti al predatar notturno ?
Ed al pugnare ed al morire è pronto
Coll' amato signore , e per l’ amato
Signore almeno , e consertarlo in t ila ,
Se stesso offrendo a gloriosa morte?
Spesso innatui al sublime altero seggio
De’ giudici seseri il fido cane
Fu de' Docenti accusator, latrando,
E spesso 1 muto testimonio indegno
Non fu di fede, e cadde In giusta parte
Sovra 1 reo la temuta orrida pena.
In Antiochia già, come si narra,
In solitaria parte estinto giacque
Un uom, ch'uà fede! cane atra compagno,
Nell’ ora che tra 'I lume incerto e l’ ombra,
La queta notte dal sonoro giorno
Strepitosa divide , e desta all' opre
1 mortai faticosi, e 11 richiama
Dalle fatiche al lor riposo amico.
E r urei sor ch’ebbe mercede in guerra ,
Era uom CTudel , di sangue e di corrucci ,
Che si pensò celar la fiera morte
Sotto l'oscuro e tenebroso manto
Delia caliginosa e fredda notte ;
E dal medestno manto andò coperto
in più lontana e più sicura parte.
Ciacca nell' atro sangue il corpo estinto
Squallido, immondo e pien di morte T vol-
Spars’eraintornoarhnirarioT volgo, [to;
Il can , gemendo in lagrimcv ol suono ,
Piangea del suo signor r orrida morte.
Intanto qnel che deir iniquo fatto
Dianzi contaminato indi partissi.
Per non esser sospetto , c intiera fede
D' incoccala acquistarsi , ivi con gli altri
A parlar dell’ atroce , orribU caso
Facea ritorno con sicura fronte :
( Tanta è la fraude dell’ umano ingegno )
Entrando in quella folta ampia corona
Dui popol vario, assai pietoso in vista
SACRI.
S' appressava a colui eh’ anriso giacque.
AUor cessando alquanto il fido case
Dal lauientevol gemilo dolerne.
Prese delia vendetta erribil armi ,
E preso 'I tenne con gli acuti denti ;
E mormorando il misera fili verso ,
Tutti converse in doloroso pianto.
E fede ei fatta alla mirabil prova
Solo '1 tenne fra molti e non lasciate,
Nè railentoiio da' tenaci morsi.
Alfio turbalo il reo del certo indicio.
Ritorcer in altrui la grate colpa
-Nou polca più deii'odio e dello sdegno,
E dell’ iugiurioso e grave oltraggio ,
Nè'l sospetto estirpar del proprio fallo
Nell' altrui mente infisso; e 'a questa guisa
Far vendetta polca , ma non difesa
Da un quasi muto accusator latrante,
E preso e violo c condannato a morte.
Ma chi potria le meraviglie antiche
Narrar de’ cani, e i rari illustri esempi!
E chi sepolti entro l’ istessa tomba
Mostrarsi col signor? o ’n rogo ardente
Co' medesimi onor gli accesi ed arsi ?
0 ’n guerra pur tra folte schiere e<l armi ,
Celebrar la nativa invitta fede?
Citi da' tiranni , o da’ nemici estinti
Oserà di sacrar sanguigne spoglie
Alla gloria de' cani? e'n viva pietra
Scolpirli ’n leiseguarl'iraprcse e i nomi
Di que’ famosi , che da lunga guerra,
E lungo esilio trionfando insieme
Co' fidi amici , rilomaro aifine
Nell’alta patria clic circonda ’l mare!
Scppelo ben la Grecia antica , e ’1 vide ,
Che Uni' isole in seno inonda e chiude.
Taccio ne’ monti e nell' alpestre selve
Tante vittorie loro antiche e nuove.
Taccio i capi recisi e ’n alto affissi ,
E taccio di feroci orride belve
In guisa di trofei sospese spoglie.
Ma dove ancora io voi tralascio addietro,
0 ’n brevissimo dire astringo c premo,
Dcstrier veloci , c portatori illustri
De’ cavalieri in gloriosa guerra ,
E ’n polveroso arringo c ’n largo campo ?
Degli onori compagni o del periglio
Sete guerrieri voi , che mossi a prova
Al chiaro snon della canora tromba
Avete parte in sanguinosa preda;
E ’n auree spoglie c ’n onorata palma.
E ’l vide già non pur l'antica Pisa
Ne’ vari giuochi , o 1 celebrato Olimpo
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
163
Ma Tebe e Troia, anzi gli spazi e i lustri,
Ch’cbber d’Olimpo misurato ’l nome,
E Maratona c Leu t ria , c poscia ed ante
Delia nobil Farsaglia i piani e i monti.
Ove portando pria sul forte dorso
Nelle battaglie ’l cavalier novello.
Miraeoi novo e non veduto mostro.
Somigliaste ’l biforme alto Centauro.
Chi potrebbe di voi le spoglie c i pregj
Narrar appieno, e le fatiche e i merli?
Voi spargeste non pur nell' alle imprese
Col piagato signore il largo sangue ;
Ma (se creder ciò lece} il largo pianto
Ancor versaste con affetto umano,
Lagrimando sua dura acerba morte.
Voi parte in gran trionfo, c ’n nobil tomba
Co’ regi aveste, c con gli croi vetusti,
E deste ’l nome alla città famosa
Sepolta, c serba ancor la fama c ’l grido.
E voi non di tridente , onde percossa
Partorisca la terra, altera prole
Foste, nè vi formò terrena destra.
Ma l'alta voce del Signore eterno.
Più di tromba sonante , al nascer vostro
Principio diè, pria clic di terra in terra
La sua possente man formasse Adamo.
E questa che più chiara ognor rimbomba
Nella Natura ubbidiente ancella ,
Di voi perpetua la progenie e ’l nome.
Ma quel guerricr in voi spirto superbo.
Ch'ali' uom quasi vi fa d'onor congiunti,
Urnilii coll’ esempio il Ile celeste.
Che fra ben mille olive, c mille palme
Premer degnò d’ un asinelio ’l tergo;
E voi concesse a’ gloriosi Augusti ,
A’ magnanimi regi, a' duci invitti:
In guisa tal, clic l'alterezza e '1 fasto ,
Ed ogni altra mondana Illustre pompa
All'umiltà conceda I primi onori
Ed a quell’ umil sofferenza e queta.
Ch’ai mansueto gli omeri prepara,
E nel presepio ha più sublime lim^'
E più virino al Regnator cclcs* 1
Che ’n del tra’ fav olosi e v^’
Non ha ’1 destriero, o sua i
Ma qual mi porta sp
Studio, o vaghezza ol<
Torniamo a contro
Fatte da Dio la ;
Chè provvidcii
Che dell’atr'
Fe’ la prò '
Quasi irl
' Fece all’ Incontra fertile e feconda
De’ timorosi la fugace prole,
Di cui suol farsi agevolmente in caccia
Larga e diversa preda. E quinci avviene
Che molti figli suol produrre al parto
La llmidctta lepre; a coppia a coppia
Gli partorisce la selvaggia capra.
E di gemelli ancor Faglia silvestre
Suol andar grave, e gcncrarl’ insieme.
Perchè non manchi da vorace fera
Consumata la stirpe. E d' altra parte
La Ocra leonessa appena è madre
D' un figlio sol , che ’l lacerato ventre
S’apre co’ duri artigli ; e’n questa guisa,
Ancldendo la madre allordi'ci nasca.
Al nascer suo fa sanguinoso ’l varco.
E la v Ipera ancor fiera mercede
Rende alla genitrice, e fuor se n’esce
Rodendo l’alvo alla pregnante serpe.
Se di vari animali ancor rimiri
Le varie parti , a te non fia nascoso
Il magistero del Fattore eterno.
Che nulla fece in lor soverchio, o manco.
Perchè volle adattare acuti denti,
E quinci e quindi alle ferod belve.
Divoratrici di sanguigno pasto.
Ma d' una parte sola armano i denti
Quelle , di' han vario cibo c vari pasch
Ne’ verdi prati ; c ’l ruminar concesse
Alle innocenti in oziosa vita.
E le gole e le pelli c i ventri e i seni ,
E le reti coll' altre incerte |>arti ,
Ove s'accoglie, onde trapassa ’l cibo.
Onde nutrisce le diverse membra
Il puro e leve, e l'altro impuro e grave
Poi ritrova all’ uscire aperto 1 varco.
Non soli vani artifici, o fatti indarno.
Ma necessari ; e di ciascuno appare
E l'uso, e ’l prò, per cui mantieusiinvit'
0 breve , o lunga
Del cammello
In guisa tal.
E giunge m
Quasi
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164 POKMI
Che di grandezza ogni terrena avanza
Bestia superba , e gli fu dato ad arte.
Perchè dar possa altrui tenia c spavento ,
Quasi di collo ancor i'oflìcio adempie; [glia
Perocché breve ha ’l collo, e non l’aggua-
A* piedi , e se 1* avesse ancor più lungo ,
Mal sostener potrla la mole e 1 pondo.
Però col naso el si provvede , c prende
Col naso ’l cibo, e 'il guisa è cavoadcnlro
L’estranio naso, che raccoglie e serva
Mei voto suo del ragunato umore
! quasi laghi , onde la sete estingua.
Di fiume ’n guisa poi gl' irriga e sparge ,
(a>mc lucido Tonte in bianco marmo
Scolpito da maestra e dotta mano.
E d' urna in vere effigiala belva '
Con estraneo sembianze orrida in atto,
La qual dal naso, o dall' aperta boera ,
0 d'altra parte d'acque infonde e versa
1 larghi rivi, e 'I suol n’asperge intorno.
Cosi la smisurata indica fera
Del pria raccolto umor Ta larga copia
Mirabilmente , onde ’l suo naso assembra
Fontana, di Natura emula c d’Arle.
Ma coll’ istesso naso ancor sovente
Suol far l’officio di pieghcvol mano:
In tante guise egli ’l ritorce c stende.
E col medesmo ancor placido c queto
Ed innocente, ci suol passar per mezzo
Le mansuete e semplicette gregge.
Senza notar le pecorelle umili,
Che gli cedono ’l passo c quinci e quindi.
Ma I più feroci impetuoso afferra,
K leva in aria, c poi gli sparge a forza,
Precipitando orribilmente a terra.
Cosi gran sasso ancor levato in alto
Da macchina, talor ruina a basso
Da lei sospinto, o dal suo proprio pondo.
Ma come il collo c la cervice è breve ,
Altramente saria soverchio peso
Del vasto corpo, che s’ appoggia e ferma
Sovra i suo' mai composti e rozzi piedi ,
Che non mostrati giuntura, onde distinti
Sleno, c le gambe son di trave in vece,
0 di colonne alla gravosa mole.
E in guisa d'uomo ci sol l’ incurva c piega,
Mentr’egli siede, masi volge c pende
Sempre o sul manco lalo.o pursul destro;
Perchè impedito dal soverchio pondo ,
Sovr’ entrambi non può star dritto e pari.
Perù sì vede ognor pendente c citino
Nell' un de* lati allorché siede e posa.
Anzi delie ginocchia ci sol ripiega
SACRI.
Le deretane, e l’ uomo in ciò somiglia ;
I.' altre rigide slansi, e dure c salde.
Onde s'appoggia ad un selvaggio tronco
D'orrida pianta : ivi riposa c dorme
Un suo duro, profondo c pigro sonno.
Ma la pianta si piega al peso c frange;
Talvolta ancora ella è recisa e tronca
Dal cacciator, che de' suo' lunghi denti
Cerca l’avorio; eli' è si cara merce,
Onde si faccia poi mirahil opra ,
E di barbara man raro lavoro.
Cade al cader del suo rollo sostegno
La fera belva ruinosa a basso ;
Com’ edificio , clic dì scossa terra
Il moto crolla, c vacillando adegua
Alsuol.cb'è di ruina ingombro e sparso.
Nè potend'clla più levarsi in alto,
E dal gemito suo tradita a morte,
Che gli passa coll’ arine ’l molle ventre.
Nè potean penetrar l’irsuto dorso
Con lance e strali, e l’altre estreme partì
Dell’ elefante che si lagna c more.
Ma sov ra le sue grosse , orride spalle
Ei suol portare in perigliosa guerra
Torre, che grave appar d’ armata gente.
E portando il gran peso ei tutto atterra
Ciò clic rinconlra, e par volubil monte.
Od animata rocra ’1 fiero mostro;
Onde solean gii gli Africani c gl’indi
Perturbar le nemiche avverse schiere ,
E l' armi sanguinose a terra sparse
Calcar sovente, e rabbattute squadre.
Questa gran fera se non more, o cade
In lagrlmosa guerra, o ’n fera caccia,
Anni trecento vive; e senso e spirto
Ha di pioti : talché devota adora
1.’ algente I.una, che le notti illustra.
Un'altra fera è li nel freddo clima.
Dove l’Orsa del cielo i fiumi agghiaccia.
Nè di pioti , nè di grandezza eguale.
La qual pensando alla futura fame
(Conserva fa del divorato pasto
In un proprio e nativo e largo vaso,
Ove ’1 ripone al maggior uopo, e ’l serba:
Tratlonel poscia, indi si ciba c pasce.
Cosi di cibo l’un, d'umore ed' onda
Provvido l’altro, non patisce inopia ,
In guisa di città ch’assedio e guerra
Aspetta, c 'manto si provvede ed empie
Di clùch'al vitto uom chiede, i cari albcr-
E i larghi vasi c le profonde fosse. [ghi,
I Ma pur quest’ animai si fero e grande,
I Cui Roma vide trionfante e lieta ,
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LE SETTE GIORNATE
Quando Leon sedea nell’ alta sede, [guisa
Domato all* uom soggiace. E ’n questa
Volle mostrar Iddio, che in tutto fece
I feroci animali all' uom soggetti ;
All’ uom sua viva e sua diletta immago;
All' uom che ’n guisa d’ immortale crede
Delle cose divine elegge e chiama
All’alta gloria del celeste regno.
E non sol lece contemplar mirando
Negli animali più feroci c grandi ,
Quella divina provvidenza ed arte ,
Cbè ne’ piccioli ancora ella si mostra:
Sìccoik* ancor non men dell’alto monte,
Che vicino alle nubi al ciel s’ innalza ;
Mirabil sembra la profonda valle.
Dove si schivi ’l fero orgoglio e l’ira
De’ venti, usali a ricercar mai sempre
L’eccelse parli ; c si ricovra c scampa
In queta parte, e soli* un puro cielo,
Che ’n sè conserva tepido c sereno.
All’elefante, eh’ è si fiero e grande.
Spavento dà con paurosa vista
(Olii ’l crederebbe?) Il vile e picciol topo.
Lo scorpìo ancora orrido pare a’ grandi,
D’arme pungenti e di veneno armato.
Ma non però la temeraria lingua
li suo veneno in Dio rivolga c versi;
Nè gli dia colpa che *1 serpente c ’l drago
Egli facesse ; e ’l verme e ’l picciol angue,
Che lunge saettando amaro tosco,
Ancide l’ uom con dolorosa morte.
Cbè ’n questa guisa ancor s’accusa ’l Ma-
Se dalla temeraria età proterva, [stro,
Che ribellando alla ragion contrasta,
Temer si fa colla severa sferza ,
E con dure percosse c dure piaghe;
E ’l medico in tal modo ancor s’ incolpa,
Ch’ indi ricerca medicina a’ mali.
Tu, se confidi iu Dio, securo ascendi
II basilisco venenoso e l’ aspe,
E T leone c ’l dragon sopprimi e calca;
Che sopporranno al piè sicuro c giusto,
La domita cervice e ’l collo a forza.
E di Paolo t’ affidi ’l chiaro esempio,
Alla cui santa invlolahil destra
(Menlr’ci disceso nell’ apriche rive
Di Malta, raccogliea materia al foco)
La vipera non diè tormento o morte :
Nè quel che di leggìer s’ appiglia c serpe,
Tosco micidiale a lui s* apprese :
Tanto la grazia può d’alma innocente.
Ma debb’ io far noiosa e fera istoria
Di vipere crudeli e di ceraste?
DEL MONDO CREATO. 165
D’ idre, che di colubri un folto vallo
Sibilando si fan d’ intorno al collo
Ceruleo e gonfio, ed all* orribil testa?
Opur d’aspidi sordi ai forte carme?
0 di fare, di ceneri e di chelidrl?
D’ alfasi algente, o del serpente acceso.
Che dardo sembra ? e come dardo il tosco,
Uccisor de* mortali, avventa e lancia?
0 pur di te, che più famosa palma
Fra le pesti aflricanc ancor 1’ acquisti
Nocendo altrui ? Nè solo spirto e I* alma.
Ma ’l cadavero istesso a morte involi
Anzi ’l rapisci e gliel consumi a forza?
Come’lpitlor che delle membra estinte
Il pallor, lo squallor dipinge, ed orna
Di colorì di morte esangue aspetto,
Parte ci aggiunge orride fere c mostri
Spaventosi, e gii fa sembianti al vero :
Ma dove ’l vero di spavento ingombra ,
Delle finte sembianze il falso inganno
Altrui diletta, e ’l magistero adorno;
Cosi con questi miei colorì e lumi
Di poetico stil , con queste insieme
Ombre di poesia, terribil forme
Fingo, e fingendo di piacer m’ ingegno
Àgli alti ingegni, c dal profondo orrore
Trarquel diletto, che i più saggi appaghi.
Ma pure (schivo altrui fastidio e scherno,
E per questa di fere e di serpenti
Arida, adusta c spaventos’ arena
Più non mi spazio, ed a più lieti obbietti,
Quasi nuovo Caton, mirando io varco.
Ma i frettolosi passi anco ritarda
Larga schiera di strani orridi mostri ,
E di vari animai volami a stuolo,
Clic da putride membra estinto corpo
Produsse, o senza seme, c senza padre
L’antica madre ancor produce, e figlia
Dal riscaldato, e ’nsieme umido grembo.
E queste innumcrabili e vaganti
Danno anzi noia, che terrore o doglia.
Quante, oh ! quante ne veggio in nubi, o’n
ombra
Volarmi intorno ed oscurarne *1 cie!o![bra?
Ma chi gli scaccia in trapassando e sgom-
II tuo lume gli scaccia, o Padre eterno.
Gli’ io chiedo a te, dove dal Santo il Santo
Par che discordi, e sia contrario in parte.
Se tu Dio fosti creator di mosche.
Io, quanto lece per ragione umana,
Ch’ al tuo lume divin l’ illustri o ’nformi,
Oso affermar che tu creasti allora
In lor perfetta età maturi ì parti ;
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1GS POEMI
Di piante e d’ animai perfette uscire
Nel bel paese delia chiara luce
Alia alta noce del tuo santo impero.
E non fu alcuna tralasciata addietro
Delle selvagge ed infeconde piante,
0 pur delle feconde ; e gii nascendo
Sin dal principio erano adorne e gravi
Di sue frondi ciascuna, e de' suoi frutti.
E non com' oggi avviene, oggi a vicenda,
Mentre sue volte ogni stagione alterna,
Son generale, e non già tulle Insieme.
Prima ’l fecondo seme è sparso in terra,
0 pur la stirpe in suol profondo affissa ,
E poi nascer reggiani le piante c l' erba,
Ed avanzar crescendo, e d' una parte
Le radici mandar sotterra a dentro
Di fondamenti in guisa, e d' altro lato
Verso ’l cielo intubare ’t tronco e i rami ;
E poscia germogliar le fronde e i fiori.
Ultimo nasce ’l frutto, e ’nchlno ei pende ;
Ma non maturo, nè perfetto ancora.
Appoco appoco ei si trasmuta, e cangia
Molti vari sembianti e molte forme.
Prima minuto è«ì che gli occhi inganna,
E quasi dalia vista egli s' invola,
E rassomiglia gli atomi volanti.
Che ci appaion del Sole a' chiari raggi.
Dappoi nutrito dell' unior terrestre.
Ed irrigato da rugiade ed aure.
Si nutre e cresce, c si colora c tinge
Come opra ei fusse di pittore illustre.
Ma quando Dio creò di nuovo ’i mondo.
Tutte le selve di frondose piante
Perfette egli produsse, c ì dolci frutti
Tra’ rami si vedean, non mica acerbi,
Quasi appena cominci, anzi maturi
Faceano invito a’ non ancor prodotti
Animali, c dovean la fame e ’l gusto
Lusingar tosto alle dolcezze ignote.
Gravida ancora , a quel sovrano impero,
La Terra partorì la stirpe e l’ erbe
E I dolci fruiti. In cui virtù nativa
Era nascosa di fecondo germe,
E di seme immorlal, che quasi eterno
Dovea poi rinnovar te cose estinte.
E gli animali poi creati insieme
Vestiti fur delle lor peUi irsute,
0 di candida, molle c pura lana ;
0 di sue corna e di pungenti artigli
Ciascun apparve immantinente armato
Nell’ età sua perfetta e già matura.
Nè della prima infanzia allor conobbe [bra.
Alcuno il tempo c ’n non cresciute mem-
SACRL
Anzi questa gran mole ancor novella ,
Questo grande, elicli’ io, mlrabil mondo
Non conobbe l’ infanzia, e tuli’ insieme
Perfetto apparve, c nell’ aspetto adorno.
Ma non fur opre tue gli orridi mostri?
Opre tue non fur già. Maestro e Padre
Della Natura, ma sol vizio e colpa
Della maleria a dismisura ingiusta.
Ch’or lia dlfetto,or nclsoverchio abbonda.
E s’addivien giammai che ’l maschio seme
Debole, c raro sia dal veglio stanco,
0 sparso dal fanciul, nè vincer possa
Con quella sua virtù,che ’nforma e more
Ne’ chiostri occulti dei femmineo ventre
L’ indigesta materia umida, e ’nforme;
Femmina nasce, c eli’ ella nasca è d’ uopo :
E se non caro, è necessario il parto.
Ma d’ uopo non è già elle sia prodotto
Orrido mostro al mondo, e non ci nasce
Per grazioso fin, ma grazia, o fine
Non ha nascendo : e ia materia invitta,
E ribellante alla miglior natura.
Ch’ai meglio è sempre in operando intenta,
£ impossente cagion del nato mostro.
Ma la materia vinta, e non ribella.
Nè ’n contender ritrosa accoglie ’n grembo
Le forme obbediente, c quinci nasce
Maschio ’l figliuolo, e di bellezze adorno,
E di fattezze al genitor sembiante.
E chiunque traligna, ai proprio padre.
Ed alla stirpe de’ maggiori amica
Disslmil fatto, è quasi al mondo un mostro.
E spesso avvicn eh’ egli traligni in guisa,
Degenerando da progenie illustre,
Che dall’ umanità quasi è diverso;
Ned uomo è più ; ma d’ odioso aspetto
Del male sparso c mai concetto seme
Un mal nato animai ci nasce e vive,
Ch’ è detto mostro ; c la natura istessa
Lo schiva cd odia, e disdegnando abborre.
E già, come divolga antica istoria,
Con testa di monton nacque un fanciullo,
E con testa di bue poi l’ altro apparse.
Ed un vitello ancora ebbe nascendo
Il capo di fanciul : 1’ ebbe di toro
Un’ undl pecorella e mansueta.
Ma chi non sa ia mostruosa forma
Della chimera? in cui la capra aggiunta
Era al leone, c ’l Icon giunto al drago?
E chi non sa siccome accoppia e mesce
L’ istessa fama alla giumenta li grifo
Là fra le nevi d’ iperborei monti ,
0 de’ Rifcl, dov’ ci difende e guarda
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LE SETTE GIORNATE
1.’ or ti bramato da' mortali erranti ?
E Torme sono ancora illustri e conte
Quelle che figurò l’ antico Egitto,
O P Affrica arenosa : e questa affisse
All’ uoffi di bue la spaventosa fronte ,
E col tei ricopri P altere corna
Giove ancor, nominando 7 falso Nume;
Ed adorollo in suo famoso tempio,
Ch’ un tempestoso mar d' arene intorno
Ginger solca ne' solitari campi.
Quel con faccia di cane altrui dipinse,
O pur impresse 7 suo latrante Anubi,
Olirà milP altri idoli suoi bugiardi.
E la Giudea dall' affricano inganno
Non fe' diverso il simulacro, o 7 mostro
Quando a Moloc i sacrifici offerse.
Ed a questo fallace e vano errore
Origin prima dii Natura errando
filtra 7 suo fin nel mostruoso parto.
Suol partorir ancor di molte membra
Confusi i mostri, e sul medesmo busto
Molte giunger Insieme orride teste,
O molti piè sopporre al corpo istesso.
E quinci preso ardir la fama audace
Briareo fece, ed Egeon gigante,
E gli armò cento mani e cento braccia.
E di corone ancora ornò la fronte
Di Gerlone, e nell'antica Spagna
Collocollo in sublime ed alta sede;
Ma in questa guisa forse ella dipinse
L’anima umana, imperiosa, altera.
In cui son tre potenze insieme aggiunte.
Or, lasciando da parte occulti sensi,
E di favole antiche ombre, o misteri,
Onde sua luce al vero ancor s'adombra:
Simigliarne ragion produce i mostri,
E d' offeso animai confonde e guasta
Mentr'al materno sen tenere membra,
O sia difetto di confuso seme ,
0 di materia pur maligna colpa,
E vizio innato : e ciò più spesso incontra
1 n quei , che fan si numeroso il parto.
Tal è del gallo la pennuta madre,
E tale ancor la semplice colomba.
In cui figli lalor confuse e miste
Ebber le membra : e con due teste ancora
Fu giù veduto un orrido serpente.
Ed al buon servo di Gesù diletto
In quel sogno divin con sette apparse
L’estranea belva , a cui lasciva donna
Premendo assisa alteramente 7 tergo,
Attrasse 1 regi agl’impudici amori.
Con sette è finto l’ animai di Lenta ,
DEL MONDO CREATO.
Orrida peste ; e rinascenti al ferro
Kur creduti quc'capl , e 'adorno tronchi.
Tralascio alfin deli' animai rinchiuso
Nel laberinto la dubbiosa forma.
E tralascio di Sfingi e di Centauri ;
Di Polifemo e di Ciclopi appresso.
Di Satiri, di Fauni e di Silvani,
Di Pani e d’ Egipani e d’altri errami ;
Ch’empier le solitarie inculte selve
D’ antiche maraviglie , e quell’ accolto
Esercito di Racco in Oriente ,
Ond’ egli vinse e trionfò degl'indi.
Tornando glorioso a’ greci lidi ,
Siccom'i favoloso antico grido.
E lascio gli Arimaspi , e quei ch’ai Sole
Si fan col piè giacendo e schermo ed om-
E i Pigmei favolosi in lunga guerra [bra;
Colle gru rimarransi . e quanto unquanco
Dipinse ’n carta l’Affrica bugiarda.
Perchè vero non è che mai prodotti
Fosser si mostruosi , e vari aspetti
Dalla Natura. E s'è pur vero in parte,
Dio non produsse allor creando i mostri;
Perocché 7 mostro èquello, in cui s’incol.
Difetto di materia, o pur soverchio, [po
Ond’ ai suo genitor disvimi! nasce;
Ma rade volte : e ’n odiosa vista
E di Natura vergognoso scorno :
0 pur (• segno, onde 7 gran Re superno
Sgomenta gli egri e i miseri mortali,
E minaccia la pena e morte e scempio.
Non fece allor creando il Padre eterno
1 muli , o pur le mule : e quella e queste
Illegittima prole e dubbio parto
Kur poscia d’ animai, eh’ aggiunse ’nsieme
Desio sfrenato di natura : c nacque
D’ asino 7 forte mulo e di giumenta ;
E di pronto destrier veloce al cono
La mula , uva di pigra c larda madre ;
E somigliando 7 generoso padre
Corse talvolta nell' Olimpo a prova ,
E riportò correndo ’l caro pregio.
Ed or si gloria di portar sul dosso
Sacri , purpurei padri in Vaticano
In di festo ed altero c nobil pompa :
E incontra move a messaggicri eletti
Degli alti regi c de' famosi Augusti.
Nacque talvolta del destrier corrente
li mulo ancora, e l’asina si vanta
Pur anco di veloce e nobil madre;
Ma l’ uno sparge non fecondo 7 seme ,
L’ altro l' accoglie in non fecondo ventre :
Però nascer non suol del mulo il mulo,
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POEMI SACRI.
Come dall’ un reggiani nascer sovente
L’altro cavallo, e nel guerriero armento
Succeder generoso al padre il figlio.
K la cagion di ciò varia s’ adduce.
A’ corrotti meati il cieco veglio
La reca; quel dich’io per fama illustre,
Ch’ai vaneggiar de* miseri mortali ,
Rider soleva; e le sciagure c i danni
Del suo dotto ei degnò continuo riso.
Ma quel che si lanciò nel foco ardente
D’Etna sublime, c la sua vita (ahi folle.;
Volle finir nella fumante fiamma,
Giudicò poi che mal s’ apprenda insieme
Il liquido col liquido commisto ;
E si mescoli meglio ’l molle e ’l denso.
Come addi vie n a chi fonde , c disfacc
I metalli diversi e lor confonde.
Che lo stagno e l’argento in un condensa.
Altri di più sublime e chiaro ingegno,
Che fu maestro di color che sanno,
Quant’ in mille sue scole insegna ’l mondo,
Della sterilità piuttosto assegna
La più vera cagione al freddo seme.
Pcrch’ è fredd’ animale , e pigro e tardo
L'asino, e ’ntollerante al freddo verno.
Però di Scizia nel gelato clima
Ei non ci nasce fra le nevi c il gelo ;
Benché tra’ Franchi ei nasca, e fra’ Brilan-
E dell’asino nato è freddo il mulo, [ni.
Però sembiante al padre il freddo seme
II figlio non produce in freddo grembo;
Ma s’addita talor per raro mostro.
Meravigliando, della mula il parto.
E ’l mulo ancor, quando seti’ anni ei coni-
si mesce alla giumenta, ed ella espone [pie
Nuovo pori ito del mirabil figlio.
Ma dove ardente Sol la Siria accende
Sovra Fenicia già ne’ tempi antichi
Solean le mule partorir sovente,
E* de muli nascean sembianti i muli ;
Talché passò negli ultimi nipoti
La memoria degli avi , e lungo tempo
La bastarda progenie ’n pregio lue.
Or mancata è la stirpe, e spento ’l nome
Tra* nuovi Siriani c tra’ Fenici,
Nè vantar se nc può Sidone, o Tiro.
Nascer soleva ancor ne’ primi tempi
Di cavallo c di cervo il figlio misto,
Che prendeva l’onor di lunga chioma,
E di vaghe ramose altere corna
D’ enlrambo i suo’ parenti insieme aggiun-
Illegittimo sì , ma bello e grande [ti :
Mirabil figlio, e leve e presto al corso.
E poi crescendo gli pendeva al mento.
Pur come barba fosse , il lungo vello.
Fra gli Aiacetl già l' amiche selve
Libera già pascendo errante fera ,
Dove pascer solcano i buoi selvaggi ,
Con muso adunco, e con ritorte corna.
Con nero pelo , e con robuste membra.
Or non so chi la veggia, o dove appaia.
Benché nc’ climi algenti , orridi boschi
SogHano anco nutrire i buoi silvestri,
E sian fra noi famosi e gli uri c l’alce.
Ma del cavallo e del corrente cervo
Par che non sia più noto ’l misto figlio;
Nè ’l feroce destrier si giunge al pardo
In guisa tal che nc veggiamo ’l figlio.
Siccome il rimirò l'età vetusta :
Tanto l'onor della bastarda prole
Manca, volgendo gli anni, e ’l nome e ’l gri-
fi quest’av> ien, perchè fatture ed opre [do:
Non furdi quel celeste eterno Fabbro,
Il qual perpetue fe’ le varie stirpi
Degli animali , e le rinnova e serba.
Mancate son ancor I* estranee e miste
Forme confuse d’ animai feroci.
Che prcss’ a’ fiumi accoppia A finca adusta,
D’orribil vanità fiera c superba,
0 van mancando: chè serbarsi in vita
Lungamente non può di vario seme
La progenie illegittima ed incerta.
Sol legittima stirpe è quasi eterna.
Siccome piacque al suo Fattor , creando.
Ma già vicino all’alta e nobil meta,
A cui lasso cursor m’ affretto e corro.
Del bonaso m’avveggio, e dell’Iena
Lasciata addietro, e dell’ orribil fera.
Che Tossa umane trae d’ oscura tomba,
E la voce dell’uomo assembra c finge.
Veggio ’l rinoceronte adunco ’l naso,
E veggio te , che d’un bel corno altero.
Purghi del losco le turbate fronli.
Veggio che fra le nevi e l’alto ghiaccio
Il rangifero, occulto al nostro mondo,
Porta correndo le veloci rote.
Veggio mill* altri , e nell’ algente Zona ,
E’n quella che più ferve c più s’infiamma,
Qui non visti animai, ma chiari e conti
Per lungo grido di perpetua fama.
Ma però non ritardo ’l lento corso.
Già stanco e grave, c là m’ appresso c
giungo,
Dove tra le fiorite ombrose piante,
E tra mille vaghezze e mille odori ,
L’ uom creato da Dio m’ aspetta e chiama.
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LE SETTE GIORNATE
Quale esperto figli noi, clie’n festa e ’n
Spaziò per città calcata, e piena [pompa
Della minuta errante c bassa plebe;
Se tede alfine In più sublime parte
Del caro padre ’l veneralo aspetto,
Là dov’ adorno di lontan risplendc
Un re possente di corone c d’ostro;
Sdegna la varia turba, e Turni] volgo,
E là ricovra , ove T affida e ’nvita
Presso all’altera maestade augusta
Del genitore antico il lieto cenno,
0 pur l’ imperiosa e nota voce :
Tal per questo creato, adorno mondo,
CITÒ città di mortali ed’ immortali
Grande e sublime, in cui perpetue leggi
Son prefisse ab eterno al viver nostro.
Pur dianzi io ni’ avvolgca bramoso e vago
Di tante meraviglie, a parte a parte
Tutte cercando, e rimirando intorno:
Onde fermai talvolta i lardi passi
Fra gli animai, che son l’ ignobil volgo.
Or che mi s* offre in vcnerabil fronte
Nel Paradiso il Genltor vetusto
Non diviso anco dal suo Re sublime,
Ohbliando luti’ altro, a lui mi volgo,
Ed odo voce che nel cor rimbomba,
Non già da statua del bugiardo Apollo,
O da ruvida quercia o da spelonca.
Nè d’idolo scolpito in legno o in marmi.
Ma sin dal Ciclo, c ben celeste assembra :
Uom, conosci te stesso, o santa scorta,
Che per questo sentiero a Dio conduci.
Perchè la nostra mente a Dio s’innalza
Sovra sè stessa c lui conosce e ’ntende.
Nè contemplando i bei stellanti chiostri,
E ’l gran giro del Sol , che tutto illustra,
Cosi possiam nell* invisìbil luce
Conoscer il gran Dio che fece ’l mondo;
Come dal contemplar la nostra mente
A conoscer la sua leviamo in alto
L’ali del pronto c fervido pensiero,
Che non si ferma negli umani obbietti.
Ma qual luce degli ocelli , ove si giri ,
Ove si fermi, ivi rimira e scorge
Prati , selve , campagne c mari e fiumi,
Aspri monti , erti poggi ed ime valli :
Pur non vede sè stessa ; e ’n chiaro speglio
Sol di sè può veder la vera immago :
Tal mente umana , che tutt’ altro intende,
Quanto di fuor di lei dipinge ed orna
La mano e l’arte del gran Mastro eterno;
Non intende sè stessa, c non conosce
Quei eli’ ella sia , se non s’ Illustra al Sole
DEL MONDO CREATO. 109
Di verità , quasi cristallo ardente :
Ed illustrata non rimira, e guarda
Come in ispcglio pur la proptia forma,
E quel Signor, che della propria immago
La fece adorna , c di beltà sembiante.
S’ ella adunque òdi macchie orride asper-
Tergasi, e puro in sè raccoglia ’l raggio [sa.
Della Divinità , che ’n lei fiammeggia.
Poich’ebbe fatti gli animai terrestri,
L*opre sue buone Dio conobbe, e disse :
Facciali! noi Tuoni, com’èla nostra imma-
Simil a noi. Fere la Terra e ’l Cielo, [go.
Pur dianzi e’I Sole e gli stellanti chiostri:
Nè chiese aiuto, o dimandò consiglio.
Ed or creando l’ uomo ei si consiglia :
Tanta opra fui Giudeo protervo ed empio.
Odi la voce del Signor, che parla.
Ed a chi parla? a sè medesmo e seco.
Tu , clic di verità sol vedi ’l lume.
Siccome per finestra acceso raggio ,
Ritroso e ribellante ancor repugni?
Nè tre varie persone in Dio conosci ,
Quasi sotto un bel velo ano! dimostro?
Qual sollecito mai notturno fabbro,
0 qual maestro di mcn nobll arte,
Solo sedendo fra’ suo’ propri ordigni ,
Là dove nìun altro insieme adopra,
Dice a sè stesso, e sè medesmo alTretta
Con importuno c frettoloso impero:
Facciam la spada , o pur l’adunca falce
Facciamo immantinente, o’I curvo aratro?
Ciancc son queste, anzi calunnie espresse
Di falsa lingua alle menzogne avvezza;
E s'infinge ’l Giudeo, mentre figura
A sè medesmo pur mentite larve.
E come orride belve all’uomo infeste.
In angusta prigion ristrette e chiuse.
Non polend’ adempir l’ardente rabbia.
Fremono In quel serraglio, e’n fero suono
Dimostrati Tamaror dell’ira accolto,
E la natia lor feritale interna :
Cosi gli Ebrei sospinti a passi angusti
Osano d’ affermar che ’l Padre eterno
Con gli Angeli ragioni in questa guisa,
('on gli Angeli, che stanno a lui d’intorno ;
E gii Angeli ministri all' opre Invili.
Quasi egli chiami del consiglio a parte
1 servi suoi, che sono all’uom conservi,
E gli faccia signori in si grand’opra.
In cui l’uomo è creato a Dio sembiante.
Qual magistero al suo maestro eguale
Esser potrebbe? oli sorda e cieca mente,
Oh sciocchezza c follia d’alma profanai
8
170 POEMI
Molli seni raccòrrò , e fargli degni
Di tanl’ officio, e rifiutare *1 Figlio?
Pensa a quel che poi segue: A nostra imma-
L’uom farriani. Forse un’immagiu sola [go
Ha con gli Angeli Dio? come una forma
lstessa è necessaria al Padre e al Figlio?
Ma nell* uomo, ed in Dio l'alta sembianza
Non è figura, o qualità del corpo,
Ma solo è proprio alla divina mente
L’immago, onde F umana ancor s’informa
E'n tre potenze interne Iddio figura.
Perchè sicrome Dio sè stesso intende ,
E sè stesso intendendo , ama sè stesso ;
E quinci nasce ]' Intelletto ctonio;
E d’ambo quinci c quindi eterno Amore
Spira ; c tre lumi sono, c non tre Dei,
Ma tre persone in un sol Dio congiunte ;
Cosi la nostra mente in noi produce
La volontate, c la memoria appresso
Di questa, c quella si figura c forma:
In guisa tal, clic la natura umana.
Bendi' una sia da tre virtù distinta,
In sè dimostra la divina immago,
Ed In sè stessa Dio conosce ed ama.
Fece ancor somigliante il Padre eterno
L’anima c la ragion, eh' è l'uonio esterno
A sè medesmo, di' è divino amore.
E dell’esterno Adam vestilo intorno,
li tenne occulto, c ricoperto a’ sensi.
E si perclf egli è buono c saggio e giusto,
Pietoso e forte in tollerargli oltraggi.
Lunga stagion ne soffre, c non s’ affretta
A vendicarsi; c poi si placa c molce.
Tale ei creò Tuoni primo, e '1 feo sembiante
Nel puro amor, eh’ è la virtù primiera ,
E d’ ogni altra virtù divina c sacra
Impresse in lui mirabilmente i segni.
Come ’1 pittore alla sua bella immago
Col suo leggiadro slil colori c lumi
Vari, e diversi ognora aggiunge e sparge ;
Ed ombreggiando anco le va d’ intorno.
Sin eh' è perfetta la figura c T arte ;
Cosi '1 Piltor di nostra umana mente
Colorò Tallita c de' suo’ raggi illustre
Tutta la fece, e del color distinto [lumi.
Sempre accrescendo a lei splendori c
E come In scultorcal bianco marmo
Col duro ferro, e toglie sempre, c scema
Quel eh’ è soverchio, c dall’ incisa pietra
Spira alfin quasi viva c vera forma;
Cosi togliendo alla materia ’1 Fabbro
Della natura glorioso, eterno,
Quel di’avea di più duro c di terrestre,
SACF.l.
L’ uman sembiante in viva terra apparve.
Talché divenne F uom sembiante immago
Della Divinità , che ’n Dio risplende.
Ma quel colori, c la mirabil luce
D’altri falsi colori asperge c macchia
La progenie, ch’ognor traligna, c perde
Lesuc prime sembianze c tutto adombra.
Talché Dio non somiglia, c quasi assembra
Pittura tinta col pennel d’ A verno;
Ed allumata in Flegctontc o in Lete,
La nostra umanità macchiata c lorda.
Dunque in sè stesso l’uomo ornai conosca
Contaminate le div ine forme.
E mentre può, si ripulisca e terga, [corpo;
E sempre all’alma aggiunga, c toglia al
Perchè simil si veggia al primo esempio,
E F uom figliuolo al Ile del Cicl si mostri ,
E degno erede del celeste Regno.
Poi benedisse Dio la cara immago
Di sè, da sè creata, c disse appresso:
Crescete in numerosa c bella prole :
Riempile la terra , c lei soggetta
fate all’arbitrio vostro, al vostro impero.
Signoreggiate in mar gli umidi pesci,
E ne* campi dell’aria i vaghi augelli,
E qualunque animai si move iu terra.
Soggetto sia non meno al vostro regno.
In questa guisa tu creato appena,
Uom, creato re fosti, e l’alto impero,
E la sublime polestalc impressa
Non li fu data in secco o fragil legno,
0 nelle pieghe pur di breve carta,
Perchè la roda alfin putrido verme:
Ma la Natura scritta in sè riserba
L’alta voce divina, e ’l chiaro suono.
Comandi, c ’l naturale c giusto impero
In terra estenda, e denti’ al mar sonante,
E nel sublime ancor doli’ aria vaga.
Imperioso tu nascesti in prima ;
Or perchè dunque se rvi a’ propri affetti,
E la tua dignità disprezzi e perdi ,
Ligio ornai fatto del peccato c seno?
Perchè te stesso prigionier cattivo
Fai di Salando, in sue rateile avvolto,
Se già nascondo sci principe detto
Delle cose create, e re terrestre?
Perchè, quasi gettando, a terra spargi
Quel eli’ ha nostra natura in sè più degno
Di riverenza c di sublime onore?
Qual all’ imperio tuo prescritto in terra
È fine? o pur nell’ aria, o ’n mar profondo ?
Se ben Le stesso e lui misuri e scorgi.
Non hai tu penne da volar nel cielo ;
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LE SETTE GIORNATE
Ma l'ardita Ragion nulla ritiene.
Questa coll' ali sue trapassa a volo
Non pur dell'aria I piu ventosi campi,
Ma del elei gli stellanti ed aurei chiostri.
E via men cupo c men prorondo '1 mare
E del suo peregrino e vago ingegno.
Che va spiando dentro a* salsi regni
I secreti dell’ onde c i sensi e i fondi
E le sue occulte meraviglie : c quindi
Vittorioso alfin ritorna in alto.
Di saper ricco e d* immortai tesoro.
Cosi per arte dell* umano ingegno
Prende tutte le cose e fa soggette.
E disse Dio di novo : Ecco a voi diedi
Ogn* erba , che da seme in terra sparso
Germogli, ed ogni pianta, in cui sembianza
È di sua stirpe: e quinci *1 cibo e l’esca
Avrete : c ’l vitto insieme ancor n’ avranno
1 volanti del del sublimi augelli ,
E i più gravi animai , die *n sulla terra
Move e trasporta l’anima vivente.
E ’n questa guisa nell’antico stato
Dell’ innocenza , anco innocente ’l cibo
Non macchiato di sangue, o d’empia morte
Contaminato, o da rapina ingiusta.
Fu conceduto all’uomo, e dato insieme
AH' animai, che senza sdegno ed ira
Era soggetto al mansueto impero.
Non uccideva ancor d’erba nocentc
Maligno tosco , o pur d’orribil angue.
Ma tutto quel che produrea nel grembo
La madre terra era salubre e caro.
Nè tinto ancor s’avea l’artiglio e i denti
L’ affamato leone, o’I lupo, o l’orso,
Nè l’avvoltoio allor da corpo estinto
Cercava ’l cibo, perchè morto ancora
Non era alcuno, e delle morte membra
Non era ancor molesto e grave ’l lezzo :
Ma pascolar ne* verdi erbosi prati ,
In guisa di canori c bianchi cigni ,
E siccome veggiam talvolta i cani ,
Cui la Natura è mastra, andar pascendo,
GIORNATA
Nella quale, trattandosi del Giudicio finale, e
da Dio cri
Roma , dappoi che *1 glorioso impero
Ebbe dbteso dall’ Occaso all’Orto,
E posto *1 freno all’ Aquilone c all* Austro :
Al popol vincitor mirabil vista
Di duo teatri in un sol giorno offerse ,
DEL MONDO CREATO. 171
E ritrovar la medicina occulta i
Cosi pasccvan quei l’erbc novelle.
Ch’or son voraci di sanguigno pasto.
Non si faceva ancor ingiuria in caccia.
Non eran tese ancor l’ insidie ascose
Alla selvaggia e solitaria vita.
E i feroci animali all’uomo amici.
Tutti con lieto c con benigno aspetto
Placidi, umili ivano errando intorno
Ubbidienti a quel sì giusto impero.
Perchè non solo re d’orride belve,
E di serpenti, o pur d’augei sublimi,
E di volanti in mare umidi pesci
Era l’uom primo : ma signore, c donno
Ne’ propri affetti avea lo scettro e ’l regno,
E I suo’ propri pcnsier teneva a freno.
Saldo e costante , imperioso c grave.
Ma poiché ribellante al santo impero
Del Creator sprezzò l’alto divieto;
A lui mostrarsi ancor ribelle in guerra
L’ orride belve: c le caduche membra.
Clic strugger poi dovea l’orrida morte.
Altro cibo nutria di sangue asperso ,
Cibo mortale, a’ miseri mortali
Dato per esca in men felice stato.
Dappoiché l’ acque nei diluvio accolte
Ondeggiando coprir le piagge e i monti.
Ma perchè Tuoni, divina e sacra immago.
L’aita origine prisca anco riserba;
Non perde il naturai suo primo impero
Sovra le fiere : e può con giusta legge ,
Anzi con giusta e conceduta guerra,
Farne preda c rapina, e cibo c veste
Alle sue faticose c dure membra.
Nè questa legge è ingiuriosa ed empia,
Ma di Natura, anzi del Re superno.
Che fece serve all’ uom Torride belve,
E le gregge e gli armenti e i vagiti augelli,
E gli abitanti ancor del mare ondoso.
Così fu fatto. E Dio conobbe e vide
L* opere sue perfette. E ’l sesto giorno
Ebbe qui fine , ed egli in sè riposo.
SETTIMA.
Ila gloria eterna, si dimostra il fine per cui fu
x> l'Uomo.
I quai si congiungean volgendo attorno :
Sicché le genti In lor divise c scevre,
Di cui Tona pur dianzi all’altra parte
SI stava occulta , coll’ unirsi insieme
Nell’ ampia forma d’un perfetto giro,
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POEMI SACRI.
Si vider tutte; e non rimase ascoso
Alcun di loro, anzi mirando a cerchio
Ripieni i gradi dell’assisa turba.
Meraviglia e diletto ebber repente
Pur dell’aspetto inusitato e novo.
Ma in questo eli' allor fece’! Mastro eterno
Gran teatro, e volubile e rotante,
Ch’anfiteatro di sua gloria assembra;
Reuch’ una spera sola in sè congiunti
Duo rinchiuda diversi ampi cmisperi,
Pur I* uno all’altro si nasconde e cela.
E dell* opposte in lor divise genti
Questa mai quella non rimira o scorge.
E già nulla ne 'illese, e ’n dubbio visse,
Se pur altri abitanti avesse ’l mondo,
0 fosse in parte solitaria ed erma
La terra ignuda, o soli’ all* onde ascosa :
Nò perchè sempre intorno ’l ciel si volga,
Sarà giammai , che la girante scena
Mostri i popoli a noi, eh ’han fissi incontra
1 lor vestigi nella prisca terra,
Onoi co’ nostri alberghi a lor discopra
In questi quasi pur distinti gradi,
Per cui s’ innalza e si dechina *1 polo.
Ma quel che far non può volubil giro
Di tanti cicli, c infaticabil corso.
Fa della mente, clic si volge e riede
In sè medesma, il rapido pensiero,
Ch'èquasi un suo perpetuo e vario molo.
Perchè dinanzi a lui si toglie ’l velo
Della terra interposta ;c ’n Dio mirando,
Scorge nel suo gran lume ’l mondo accolto.
Clic divieti quasi angusto all’alma accesa,
Che fuor del inondo è ratta ; e nulla adoni-
I popoli co’ regni a’ lumi interni. [bra
Talché ne’ gradi lor disposti intorno
Sol contemplando, il pellegrino ingegno
Scopre i ferini ed ultimi Riarmi,
E scopre insieme gli Etiopi c gl’ Indi.
E d’nn lato gli appare ’l freddo Carro ,
E’I pigro Arturo; e pur nel tempo istcsso
Altro polo, altri lumi insieme ei scorge.
Non perchè ’l mondo a lui s’accorci cstrin-
Ma perchè la sua niente in Dio s’avanza ga,
E divicn ampia si, eh’ a lei soggetto
L’universo in un guardo accoglie e mira.
Come già vide ’l benedetto Padre,
Gli’all* allo ciel di mille accesi lampi.
Parte seguendo ’lsuo pcnsicr sublime.
Ricerca pur, s’ove ’l Cultore eterno
Segnò morendo ’l luminoso calle ,
II Paradiso a maraviglia adorno
Facesse : c ’u qual estranio ignoto clima
Florisser le felici c nuove piante
Quando pria fu creato ’l padre Adamo.
Era dunque compiuta ornai la Terra,
Compili i cieli, e gli ornamenti c i fregj
L* opere di sci giorni avean distinte,
E quel meraviglioso alto lavoro;
Quando cessando Dio d'opra novella,
E del crear, ebbe nel dì seguente.
Che fu settimo giorno , alto riposo.
Nè fu poi Creator di nuova prole ;
Ma le prodotte conservando in vita.
Di lor prese il governo. E tli quotarsi
Nelle cose create a lui non piacque.
Già fece ’l cielo; od acquetarsi in cielo
Non prese in grado. E i bei stellanti giri
Fece; e col vago Sol l’errante Luna:
Nè volle riposar nell’ auree stelle,
0 nella sfera del sovran pianeta,
Ovver nel cerchio della Luna algente.
Fece la terra ancor, eh’ è ferma e salda;
Nè riposò nella gravosa terra.
Che ’n sè medesma si mantiene e giace.
Dove dunque, ed in chi quiete e posa
Ebbe il Fattor di cose eterne c magne?
Ben è ragion clic le costanti e gravi
Sien quelle sole, in cui non prenda a sde-
Di riposare: anzi quiete e moto, [gno
Non fu giammai senza la stabil parto.
Però sempre si muove ’l ciel non tardi
Sovra i suo’ poli, e quinci e quindi affissi,
E non si moveria, se stabil centro
Ei non avesse al suo perpetuo corso.
Onde si finge ’l favoloso Atlante,
Che ’ntorno a’ poli opposti il ciel rivolge,
E nella ferma terra i piedi appoggia.
E gli animali ancor mobili c vaghi
Mover non si potrian, se ’n lor non fosse
La stabil parte che s’acqueta e posa.
E però quella, chesi curva e piega
Nel movimento, è lor di centro In vece.
Dunque se mover debbe il Motor primo
Non sol convenne ch'egli immobil fosse.
Ma che ’n non mobil parte il moto eterno
Fermasse ancora. E di fermarlo in terra
Ei non degnò. Dove fcrmollo adunque?
Qual della terra è più costante mole?
NcU’uom quetollo e l’uomo al fin dcll’o-
\ olle crear perchè cessasse ’l moto, [prc
E se moto non fu , l'arte divina
Restasse di crear l’ opre moderne.
Più della terra adunque è l’ uom costante.
Siccome quel che dell’eterno esempio
E vera immago , c ’l suo caduco e gravo
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LE SETTE GIORNATE
Spogliar si deve ; e ’ncorruttibll forma
Rivestendo, lassuso alfin s'eterna
Nella quiete d'invisibil regno.
In questa guisa volle Iddio, creando,
Mostrar della sua morte alto mistero.
Quasi in figura; anzi predir da lunge
Ch'anzi i tormenti della morte il Figlio
Dovea nell’ uom quotarsi ; e ’n membra u-
A guisa di mortale, al dolce sonno [ mane,
Conceder gli affannati e lassi spirti.
Dunque s'acquetò Dio nell* uom terreno:
E I* uomo in sè non ha quiete o pace?
Non han quiete in sè gli egri mortali ;
Ned opra di Natura in sè riposa.
Ma gira ’l foco nel perpetuo corso
Del cicl sempre inquieto, e sempre vago.
L'aria agitata da contrari venti,
È da sè stessa ognor divisa c sparsa.
L'acqua trascorre, e senza pace ondeggia.
E questa, cii*a noi par gravosa c ferma ,
Terrestre mole ancor si scuote, e crolla
Da’ fondamenti : c ruinose atterra
Le cittadi, c le terre eguali a’ monti,
E i monti stessi: e scissa 'I pcttoc ’l grembo,
Talor nelle voragini profonde
Scopre i regni di Pluto e i ciechi abissi ;
E l’ultima ruma altrui minaccia.
Ma nel suo Creator pace c riposo
Han le creale cose. E ’n sè medesmo
Egli s’acqueta: nè d’esterna gloria,
Nè d’altro ben, fuor di se stesso, ha d’uopo:
Ch’ è sommo bene; e con riposo eterno
Governa l’immortal felice regno
Là, 've dal travagliar ne chiama a parte.
E se *n terra nell' uom quotarsi ei volle.
Fu perchè l’uomo in Dio s’acqueti alfine.
Però quand’egli in sì mirabil tempre
1/ umanilade al suo divin congiunse,
Pose alla vita faticosa e stanca
In sè medesmo alfin dolce restauro.
E gloria e grazia , onde s’ adempie c bea
Nostra natura d’ esaltar cotanto,
In lui si vide. Adunque *1 sesto giorno
AH’ opre nove fin sul vespro impose.
Nè poi nova progenie, o nova stirpe
Egli dovea creare. E ben convenne
Che del gran mondo producesse ’! parto,
E di tutte le specie in lui raccolte.
Col numero di sei, ch'è più fecondo.
Ma dica quel eli' ha la scienza e l’ arte
Del numerar, coni’ è pregnante il sci;
E nelle parti sue perfetto c pieno,
Generar poi di sè varie figure
DEL MONDO CREATO. 173
Di numeri egli possa : c tutto aggiunga
Ciò clic nelle sue scole insegna 'I mondo.
Dicavi ancor, coni’ è infecondo il sette,
Perocch’egli di sè nulla produce ;
E di nulla è prodotto; c poi seti vanti,
Com* ei faria di gran tesoro occulto.
Or tralasciai!!, quasi sprezzando, addietro
Quello , onde tanto va gonfia e superba
Mondana sapienza; e sol ci caglia
Dell’uso de’ fedeli antico e sacro.
Onde al settimo dì s'aggiunse onore.
L’onoraro i Giudei nel sesto giorno.
Quando lieti innalzar frondose tende;
E rlcovrar soli* a’ selvaggi alberghi.
E l’onorar nel di famoso ancora,
('.he per le trombe, e celebrata pompa,
E sonoro , e festante, e pregio al sette
Non men degli altri il dì propizio accrebbe.
E ’1 settimo anno fra gli antichi Ebrei
Fu d’ognl riverenza e d’onor degno.
Perchè ne* sei, ch’cran trascorsi avanti.
Lecito era a ciascun fender la terra
Col duro aratro, e ne’ solcati campi
Sparger con larga mano il fertil seme;
Ma nel settimo poi contento c pago
Ei raccogliea dal non arato grembo
Sol quanto volontaria ella produce.
Esci anni serviva ’l prisco Ebreo:
I.ibero da fatica c da servaggio
Era ’l settimo poscia. E ’l duro giogo
Degli Assiri superbo olirà I* Orante,
Olirà 1* Eufrate in Babilonia oppresse
Anni settanta i miseri cattivi,
E nove appresso, e candida rifulse
1.’ antica liberiadc al popol servo,
Quando’l sette col dieci ha pieno ’l giro.
Or trapassiam senza dimora a’ nostri.
Ben sette volte il dì cade e risorge
Il giusto cui d’ Adamo il grave iucarco,
E la natura sua caduca atterra,
Ma la grazia ’l solleva ; c ’n questa guisa
Di tal numero noi consorti andremo.
Settimo Enoch dal genilor primiero
Morte non vide: e ’l gran mistero adombra
Questa, ch’or vive, ed all'Impero estinto
Sorvivc ancor Chiesa immortale c santa,
E settimo Mosè dal padre Abramo
Preso la legge, c la cangiata vita,
L’ Iniquità scacciata, c ’l varco aperto
Alla giustizia ; e Dio, eli’ a noi discende
Con membra limane, cs’avvicina e giunge,
E più santa vlrtutc insegna al mondo
Mirabilmente, c nova legge apporla,
174 POEMI
Pur da Mosè son figurati In parte.
Ed aggiungendo pure al diecc il sette,
E sette appresso, dal vetusto Adamo
]1 Figlio di Maria prodotto apparve.
E poi conobbe ancora ’l vecchio Pietro
Del numero del sette alto mistero ,
Che di perdono e di quiete è segno, [ to.
Ma noi conobbe appien ,clie d ubblo e ’nccr-
Prima ne parve, c poscia ei puri' intese,
Chè ri veiol lo il suo Signore e Mastro,
Lo quale in perdonando aperse ’l grembo
Delle sue grazie, e de’ tesori eterni:
Nè sette volte sole, anzi settanta
Sette fiale a perdonare insegna.
Onde alla pena di Caino ingiusto,
E già macchiato del fraterno sangue.
Il perdono di Pietro allor risponde,
Quasi dall’altra parte il fallo opposto.
Ma ’l perdon del Signore adegua e passa,
Di Lamech condannato antica colpa:
Perchè di leve error perdono angusto
Par che si dia : ma se ’l peccato abbonda,
Ivi la grazia oltra misura avanza.
Ed a chi molto si perdona e ’ndulge,
Molto concede di fervente amore
Quel eli’ è verace amante e non s'infinge.
E di perdono adunque e di riposo
Segno ’l settimo giorno, in cui cessando
Il Padre eterno, di cessare esempio
Diede all’antico Ebreo, ch’iudarno or cessa
D’opre c di fede neghittoso e tardo.
E quel settimo dì mattino ed alba
Ebbe, nè vide poi la sera il vespro, [giorno,
Ch’ ancor non giunge, e non adombrai!
Lo qual s’illustra di perpetua luce.
Ma le veci del tempo, e ’l corso e i giri
Chiudono i nostri dì fra mane c vespro,
In cui ciascuno ancor s’ adopra c cessa ,
Ed al riposo le fatiche alterna ,
Insin che giunga spaventoso in vista
Quel che dee consumar la terra e ’l cielo,
Settimo giorno minacciato innanzi
Orribilmente. Allor le mura eccelse
Di questa luminosa antica mole
Espugnate faranno alte mine,
E ’l foco Uncilor, predando intorno
(ìli umidi regni, e i già fumanti e negri
Campi della fervente arida terra ,
Parrà che tutloabbia converso in fiamma :
Sicché appena del mondo ornai disfatto
Vedransl l’arse e ’ncenerite spoglie.
Quasi trofeo della Giustizia eterna.
Ma nel princìpio dell1 orribil giorno,
SACRI.
In aspettando i minacciati incendj.
Nozze non si faran, nè liete pompe;
E non si canibieran le care merci
Fra l’Indo o’I Mauro, o fra lo Scila algente
E P EUopo : anzi ’l timore adusto,
Nè la coltura de’ fecondi campi
De’ mortali sarà studio e fatica.
Ma d’ un novo stuporla terra ingombra
Attonita parrà; parran tremanti
Tutte l'opra di Dio creale in prima ,
Per l’ improvviso, insolito spavento.
E i giusti ancor delia sentenza estrema
Timore avranno. Allora il padre Àbramo
Temerà, non di foco, o di tormento.
Ma del grado d’ onore, a cui sortillo
La provvidenza del suo Re superno:
E ’n qual ordin de’ giusti a lui riserbi
La Giustizia divina i premj e ’l loco,
0 sia ’l primo, o ’l secondo, ostasi ’l terzo.
E ’l Re del del folgoreggiando in alto
Dimostrcrassi in bianca nube accolto.
E come nube, eli’ 6 squarciata,» velo,
1 cicli a lui dinanzi aperti c scissi
Vcdransi rivelar l’alta possanza.
E mille appariranno e mille ardenti
D’ esercito divin falangi e squadre ,
Risplendendo lassù di luce e d'arme.
Fiammeggerà coll’oro il fino elettro
Entr’alle spaventose oscure nubi;
E vedransl ir vagando a nembo a nembo.
E più di tuoni spaventosi udransi
Terribilmente le canore trombe.
Crollati c scossi i bei stellanti chiostri
Tremar tutti vcdransi al gran rimbombo.
Tremerà nell’orror confusa e vinta
La Natura creata; avran temenza
Gli Angeli stessi, e riverenti in alto
Al fulminante Re staranno intorno.
Qual re de’ Persi mai, d’Assiri o d’ Indi,
Si coronato fu d’orride schiere
Entri a presa città, che ’l foco e ’l sangue
Correndo inonda, e orribilmente ’ngotn-
E di recise membra, e di cosparte [bra;
Duine ’l ferro ancor riempie c colma?
0 qual immago d’illon superbo.
Clic fu dai greco incendio arso c combusto:
Qual dell* imperiosa alta Cartago
Ruinosa caduta, o di Corinto,
0 di Nunianzia pur ruina e scempio;
Qual di tulli, dich’io, confusa c mista
Lagrimosa e sanguigna , orrida immago
Potrà rassomigliarsi ai già distrutto
Entri a fumanti incendj , c vasto mondo r
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ns
LE SETTE GIORNATE
Che di sè stesso a sè fu rogo c tomba?
Allor rapiti fiano a volo i giusti ,
E le nubi saran carri volanti ,
Che porlerangli, c i duci Angeli eletti,
D'auriga in vece al nubiloso carro
Ciascun tari veloce ed allo il corso.
Risplcnderan come lucenti stelle
Allora i giusti. E dal gravoso pondo
De’ lor peccali , e di lor colpe avvinti ,
Cadranno i rei nel precipuio eterno
Oppressi: e non sarà eli’ indi risorga
Alcun giammai dall' odioso lncarco.
0 grande, spaventoso, orrido giorno!
E fia pur ver ch’abbia mattino ed alba?
Nè fine imponga a tan l’orrore il vespro?
Ovvcr termine fia pur anco affisso
A quel gran dì de’ prenij e delle pene.
In quell' ultima sera? E nova luce
Risponderà meravigliosi, eterna
Nel giorno ottavo, onde le menti illustri
Qual Roma già famosa , e nobil opra
Del gran Quirino e del nipote Augusto,
Del novo imperio fondatore c padre ;
Da barbarica man percossa, e vinta
Cadde in s£ stessa , e fra ruinc e morti ,
In sè medesma poi sepolta giacque;
Col vicario di Cristo indi risorse
Più bella agli ocelli della niente interna,
£ maggior di sè stessa, anzi del mondo,
Che capace non è del santo c sacro
Tuo regno già fondato in salda pietra:
Tal (s’agguagliar si può la parte al tutto)
Avrà suo fin questa caduca mole
Dell’universo, c col girar del tempo
Il girevol teatro a terra sparso
Cader vedrassi iu cenere c ’n faville:
Poi rifallo sarà dal Fabbro eterno;
R risorgendo in più mirabil forma.
Non fia soggetto al variar de’ lustri;
Nè mai più temerà mina o crollo.
Ma questo ora del cicl volubil tempio
Fermo sarà col Sole, e ’l torto corso
Fermo ancor fia dell’ alte stelle erranti.
Talché i beati avran costante albergo
Là dov’eterna fia pace tranquilla,
E non commossa da tempesta o turbo,
Pura invisibll luce, c stabil giorno.
Cui termine non fia l’orrida notte,
Nè correr si vedrà da mane a vespro;
E non avrà coll’ombra il giro alterno.
Nè con varia stagion vicenda c corso :
Ma premio avrau lassù le nobili alme.
Di riposo e di gloria in un congiunte,
DEL MONDO CREATO.
E fia somma quiete il sommo onore.
Là dispensate fian corone c palme
A’ gloriosi, c seggi alti lucenti.
E quei, che guerreggiaro in lunga guerra,
Quant'è la vita de’ mortali erranti
Sovra la terra, c riportar Vincendo
Dal nemico Saianuo in duro campo
Mille vittoriose e sacre spoglie.
Lassù vedrà usi trionfando a schiera
Nel gran trionfo eterno, c ’1 gran vessillo
Coronali seguir del Re possente
Degli altri regi. E la divina destra
In quel d’eternità lucido tempio,
Onde precipitando angel rubello
Cadde, sospenderà le spoglie eccelse,
Fi l trofei della Croce. 0 lieto giorno,
Giorno sacro e felice, in cui s’eterna
Da pompa trionfai , la gloria c ’I canto
E la quiete. Allor quiete c pace
Avran le menti rapide c rotanti.
Gli’ han sì vari i pcnsicr, sì vario ’l moto:
Ed or fuor di sè stesso un dritto corso
Fanno, alle cose pur caduche e basse
Quasi inchinando, e con distorti giri
Corron talvolta oblique ;c*n sè medesme
Si rivolgon talora , o fanno ’l cerchio,
0 ’ntorno a quel divino immobil centro,
DI cui l’anima vaga è quasi sfera.
E di Fortuna ancor l’iustabil rota
Ferma allor fia, s’ella col Ciel si volge.
Riposo ancora avranno 1 nostri alleiti.
Che ’nconlra la divina eccelsa mente
Fanno ritrosi passi, e torlo calle.
Siccome opposti al più sublime ciclo
Soglion volgersi ancor Giove c Saturno,
E la stella di Marte c di Ciprigna.
E giusto è ben che s’ allor fine avranno
1 moti delle stelle erranti c fisse ,
L’abbiano quegli ancor di mente e d’alma
Umana, di’ assembrar del cielo ’l corso.
Tulli avran pace allor nel fisso punto
Della Divinità. Riposo eterno
Sarà l’intender nostro e ’l nostro amore.
Che ’n tante guise ora si varia c cangia,
E con tante volubili rivolte.
Riposo eterno fia la grazia c ’l merlo,
E ’n seggio ctcrno.Orclii fra noi s’attempa
In aspettando *1 giorno, c sofTra e speri ,
E del tempo c del Fato i duri colpi
Vinca sol tollerando, c giusto oltraggio
Faccia alla disputala orrida Morte, [pio
E mentre il gran Clemente al primo csem-
La Chiesa Informa, ed all’Idea celeste,
176 POEMI
Seco ciascuno ancor nel puro tempio
Della mente serena Iddio raccoglia ;
E gli figuri il simulacro interno
Di sua pietà. Sia Palma il sacro aliare;
Vittima l’innocente acceso core;
Amor di carità sia foco e fiamma:
Così prepari in sè l’ interno albergo,
Pur volubile ancora, e pur costante
Ne* giri incerti, insili clic ’I nudo spirto
Voli a quella sublime eterna reggia.
Là dov'è ’l sacerdozio aggiunto al regno.
Ma dove, oli dove mi trasporla *1 corso
Del fervido pensier? dal giorno estremo
Torniamo a quello, incili creato in prima
Fu dal celeste il genitor terreno.
Dio sparsa non avea la pioggia ancora
Sovra l’arida faccia, e ’l secco grembo
DcU’ampia terra ; e’I buon cultorde’campi
Nato non era faticoso all’ opre.
Ma sorgea dal terreno un chiaro fonte.
Che tulio P irrigava, c i monti alpestri
Talvolta ancor bagnala, e l'aspro rupi;
Siccome ’l Nilo il verde piano inonda
Dell’Egitto fecondo, e i lieti campi
Di negra arena ricoperti impingua.
E fosse quello o nube aerea, o fonte,
Era sublime sì, ch’agli erti gioghi
Mormorando spargea I* onde correnti.
Fonte, fonte fu quella, c d’alta parte
Ne’ principj del mondo ancor novello
Fu a’ monti in vece di piovosa nube,
Non pure al polveroso ed timil suolo, [no,
Formò adunque *1 Signore, e ’l Padre eter-
Eterno Dio I’ noni di terrestre limo.
Ed in far questa della specie umana
Quasi statua vivente, ei pura elesse,
E sincera materia, allor di nuovo
Dall'acque separata : c *1 misto umore [glio
Colonne c sprcsse, e quinci c quindi ’l me»
Della terra ci v’aggiunse a prova scelto :
Sicché ’n sè non aveva o colpa o vizio,
Quella prima materia, in cui l'albergo
Fabbricar volle alla più nobil alma
Fornita di ragione, e quasi il tempio.
Fu la malizia poi difetto c colpa
Nella materia del corrotto seme.
Onde la fame e l’ importuna sete,
E di languide febbri esangue schiera,
E la pallida morte alfin deriva.
Ruoli era ’l Fabbro, c la materia e l’arte
Fu buona aneli’ ella; onde leggiadre cdal-
E ben formate fur le nove membra [te,
A maraviglia, e forti insieme e belle
SACRI.
Del padre Adamo : c da vermiglia terra
Prcser vago color le guance e ’l pelo.
E ’l nome egli medesiuo indi sortio,
Misterioso nome, in cui s'espresse,
Ch'egli’n terra nascea signore e donno
Dell* Oriente e del contrario Occaso;
E delle parti d’Aqullone e d'Austro.
Nell’alma ancora usò mirabil arte;
Nè ’n farla riguardò creato esempio.
Ma ’n sè medcstno,e nel suo proprioVerbo,
Di cui fece nell' uomo divina innnago.
E ’n faccia gli spirò spirto di vita :
Non di sè stesso già divina parte,
Com’ altri stima, ina creato spirto,
E somalo da lui, perch'egli avvivi,
E<1 animato faccia ’l nobil corpo.
Siccome Fi dia d’Alessandro invitto
Dappoi facendo ’l simulacro illustre,
La magnanima fronte al Ciel rivolse;
E ripiegando la cervice altera.
Gli alti di lui costumi in guisa espresse,
Ch’ci non contento dei terreno impero.
Par eli’ aspiri alte stelle, e ciiicda’l Ciclo,
Cosi ’l Fabbro primler la fronte c gli occhi
Alzò dell’ uomo alle stellanti sfere;
Perchè là guardi, onde celeste erigo
Ebbe l’alma inunortal, ch’eterno regno
Parche chieda per grazia al Padre eterno.
Ma tuli’ altri animali a terra ci volse
Pendenti e proni, a rimirar costretti
Pur sempre la comune ignobil madre;
Come slen nati ubbidienti al ventre;
Perchè ’l lor fine è pure ’i pasto e ’l cibo,
E terreno piacer gli alletta e moke.
Ma se talora olirà ragione in alto
Intende l’uomo, e senza grazia o merlo
Aspira al Cielo , c superbisce ed osa ;
Miri la terra, e ’n sè rivolga e pensi
Cli’cgli nato di polve, alfin in polve
Sarà converso; e ’n eor superbo appiani
Ogni pensier, che di sè stesso ’l gonfia.
E come quel , che serva, ignobil madre
Di nobil genitor produsse in vita ,
Spira ’l paterno orgoglio, ePIree’l faste
Della progenie antica; c’n alte imprese.
Generoso, talor s* arrischia c tenta: *
Poi ripensando alla materna stirpe ,
AI soverchio ardimcntoci stringe ‘1 freno:
Cosi l’uom dell’antica c bassa madre
L’umll principio suo contempli e guardi
Il seno, ond’egli usci, eli’ ei pruine e calca
Con piè superbo, irriverente, audace.
Come s’ egli dal Ciel recalo avesse
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LE SETTE GIORNATE
Di materia celeste aspetto, e membra.
Pensi fra sé ch’egli è animai terrestre;
Che per terra ci cammina ;c’n terra ci ccr-
11 nutrimento, e si riposa in terra; [ca
E per la terra ancor è in lite e guerra
Sovente, e corre forsennato all’arme;
K non fa grande mai , nè lieve impresa.
Se non sovra la terra : e l’ire estingua,
Egli ardenti desili ammorzi e queti.
Questo pensier, che all’ umiltà l’ inchina
Alcune volte, altre solleva al Cielo
Il suo spirto immortai, che ’l line affìsso
Non loca in terra, o pur nell’ auree stelle,
Ma nel Signore, al cui sublime seggio
Il ciel del cielo è quasi terra umile :
Tanto è lontano alla divina altezza!
Ma non sol nell'aspetto e nella fronte,
Mirabil arte fu del Mastro eterno ,
Chè’n ogni parte ella trapassa a dentro,
E la celeste ancor figura c forma.
Ma pur siccome in rocca, e in torre eccelsa
Son disposte le guardie intorno intorno,
Onde sccura da notturna insidia
Il nemico lontan discopre e vede;
Cosi a guardia i veloci e desti sensi
Collocò nella lesta il Fabbro eterno.
Fe’ quasi vallo le palpebre agli orchi,
E le ciglia pelose; e ’l varco aperse
Alle sonore voci, onde trapassa,
Dimcssaggieroinguisa addcntro’l suono,
E di fuor le novelle al core apporta.
Ma fece all' altre cose ’l passo angusto,
E quell' umide vie rivolse in giro
Qual la ber luto, e più spedito calle
l'or doppia strada a’ dolci odori aperse.
Umida c molle diè la lingua al gusto.
Clic distingue I sapori; e sparse ’1 tatto
Per ogni membro umano, e ’ntorno al capo
Fece delle sue proprie e vaghe chiome
Quasi natia corona, ond’ei s’ adorna
Questa mole, che Possa insieme avvinse
Co* nervi, che son quasi i lacci e i nodi
Tenaci e lenti , ond’ ei s’incurva e piega.
Fece quasi di sangue un vivo fonte
Il core, ed altre fonti interne appresso,
E, quasi rivi di corrente umore.
Le vene, che dal core all'altro membra
Portano’! sangue, onde s’ irriga ’l corpo.
E tutta in tutto lui diffuse e sparse
L’ alma , che ’n ogni parte è tutta ancora :
Benché tre sieno in una , e sien congiunte
Le due mortali all’ immortai sorella;
Perch'ella avvolta entr'a’ corporei chiostri
DEL MONDO CREATO. 177
| Non sdegni d’abitar terreno albergo.
Sin che ’l Signor la si richiami al Cielo
Da quella guardia, ch'ei la pose in terra.
Nell'alta dunque della nobil testa
Rocca fondolh, c quasi in propria reggia.
Ivi dell’uom.ch’è quasi un picelo! mondo,
A lei concesse l’onorato impero :
L’ altre, come soggette al giusto regno
Nelle più basse parli il Fabbro eterno
Dispose; c rimovendo i lochi e i seggi.
Dalle profane separò la sacra
Potenza. E l’ira, eh' è di fiamme ardente,
E di vendetta ingorda av vampa e ferve.
Precipitosa pose in mezz’ai petto.
Ed albergolla nel sanguigno core :
Nè rinchiusa starà ne’ segni angusti :
Ma spesso per timor s’agghiaccia e stringe.
E’1 ventoso polmone appresso ei giunse.
Che di mantice ’n guisa, accoglie e rende
L’aure di fuori, e quel calore interno
Col dolce respirar tempra e rinfresca.
La cupidigia le supreme parli
Altrui concesse, e quasi a forza spinta,
Si ritirò nell’ ime : ivi ricovra.
E quel cinto, che l’ uom traversa e cinge,
La divise dall’altra ; e quasi belva
Al suo presepio ivi rimase avvinta.
Avidamente ivi si nutre e pasce;
Anzi mille rabbiose, ardenti brame
Empier non può famelica e vorace.
Ch’ora avaro pensier la fiede ed an^j
Con dura sferza ; or della face avvampa
Di mille amori, e tutta è foco e fiamma, [lo
Qucstooravvicn, chèl’uuae l’altra appun-
Della Ragione ha scosso ’l giogo c ’l freno ;
E nemica si mostra c ribellante.
Ma quando pria creolle il Padre eterno.
Nè tumulto, nè guerra era nell’alma, [di
Ma somma pace, e ’n sommo amor concor-
Ubbidian della Mente al giusto impero.
E 'I suo volere era costante legge
All’alma di giustizia ancor amica.
In questa guisa la divina destra
Formò Tuoni primo non soggetto a morte;
Ma per grazia, iinmortal, non per natura,
Come l’Angelo pria di pura mente ;
E lui formò là sovra ’l polo aprico
Dell’antica Damasco ; c vecchia fama
^Sc degna è pur di fedeì ancor rafferma.
Poi trasporlollo entro l’ameno e lieto
Suo Paradiso, che d’ombrose piante,
E di feconde a meraviglia adorno
Fe’ l'arte e l’opra del Cultore eterno.
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178 POEMI
Loco è nell’Oriente, ove percossa
Dai Sol vicino più s’ accende e flagra
Quella maggior del cielo adusta parte
Posta ’n mezzo fra ’l cerchio, onde rivolge,
Quasi fermato, il Sole il corso errante
Dall’ albergo del Cancro, e l'altro giro,
In cui dal Capricorno indietro ei toma.
Quivi di piante coronato e d'ombre
Un altissimo sorge e sacro monte,
Làdove ne’vapor ristretto in nebbia, [già,
O’n nube ascende, o condensato in piog-
E non si spira ancor procella, o turbo
Obliquo e denso, o fulmine tonante.
Nè vi giunse del Sol ritorto '1 raggio
In guisa, ch'egli l’aria infiammi e scaldi.
Però benché nel pian la terra avvampi,
E Stiepidisca le frondose falde
Del vago monte , al molle erboso tergo
Col soverchio calor non toglie '1 verde,
Variando stagione , o noia apporla ,
Ned alla sua fiorita c lieta fronte;
Ma l’odorale sue dipinte spoglie
Fioriscon sempre, e le corone eccelse.
E rugiada dal cicl, che ’n perle accolta
Stilla più larga, le corone ingemma,
E d'argento le fa le spalle c '1 seno.
Però ch’ivi l’ algente ed umid’ ombra
Sempre col chiaro di lo spazio adegua :
Onde quanto le scema 'I caldo giorno,
Tanto la fresca notte indi l'accresce.
Arroge ’l cristallino e chiaro fonte,
Lo qual di largo umor l’ irriga c sparge,
E versa di piacer ampio torrente.
E vi s’aggiunge ancora il rezzo e l’ aura :
Ch’aura non è, che di vapor terreno
Fumante, c grave esali impura c mista,
E col torbido volo i vaghi spirti
Disperda per quell’ aria, e cresca e scemi,
E lalor cessi , e perda ’l molo c l’ ali.
Ma (se creder ciò lece} aura celeste
Fatta dal giro del sereno cielo ;
E move dOrlente, c inchina c piega
Lo fronde e i rami alla contraria parte
Dolce spirando, e con perpetue tempre.
Qui pose il Padre eterno il padre Ada-
E degno ’l fc’ di quel felice albergo; [ino:
In cui produsse ogni più bella in vista
Stirpe frondosa, o più soave al gusto.
Del Paradiso ancor piantò nel mezzo
Il legno della vita, e ’l legno insieme,
Ch’ a distinguer dal bene insegna ’l male.
E ’l fiume del piacer le piante asperge:
Do! fuor del Paradiso inonda , c corre
SACRI.
Rapidamente, c si divide in quattro.
Fison fu detto ’l primo, or detto è Gange,
Quasi emulo del mare, il qual circonda
Degl'Indi la feconda, aprica terra;
Ove le vene son di ìucid' oro ,
Ove ’l carbonchio pur fiammeggia e vince
Col suo splendor le tenebre notturne; [de
E dietro il Prasio ancor verdeggia e splen-
Con miir altre lucenti e chiare gemme;
E somigliante alla più nota oliva [bra.
Vi sorge ’1 LMelio, c frondeggiando adorn-
E lagrime odorale istilla e sparge
Lagrime amare, ma lucenti in vista,
E Gcbon il secondo, or Nilo appella
Nuova non pur, ma giù vetusta ctale.
Questo alla terra d’ Etiopia intorno
Corre ed impingua i campi al verde Egitto»
Il terzo si chiamò dal corso il Tigre,
Perch’ ei nel corso la saetta assembra :
E serba ancor l’antica gloria c ’l nome.
Corre conira gli Assiri Eufrate il quarto,
E l’uno c l’altro, pria congiunto e scevro.
Poscia c di nuovo alfin congiunto e misto.
Della Mesopotamia il suol rinchiude.
Santissimo Cullor di sacro Monte,
Allato a cui Parnaso umile e basso
Sarebbe in vista, e ’n chinerebbe a prova
La sua gemina fronte, e ’l doppio giogo.
Benché di lauri s’incoroni ed orni.
Non dirò, siami tu d’Apollo in vece.
Ma tu discopri del fallace Apollo
Mille menzogne, e tu rivela il vero,
Clic nell’antichità si sta sepolto,
E ne’ profondi tuoi misteri ascoso.
Tu, che’l tuo Paradiso adorno e lieto
Facesti in lui spargendo ’l rezzo e l’ombra:
Tu, che versasti l' urne a’ puri fonti.
Ed apristi a’ gran fiumi occulto ’l varco;
Tu ’l sito scopri, e *1 gran principio ignoto,
E ’l non costante lor cangiato corso.
Tu ’1 facesti , c rifar la terra e ’l cielo
Potresti ancora , e del tuo ardente spirto
Spira a gran pena a me l’ aura celeste.
È ver, che ’l terzo Cielo , ove fu ratto
Già Paolo col penslcr levato a volo
Sia terrei! Paradiso? è terra in cielo?
E nella spera dell’opaca Luna
È pura terra forse? e spechi e selve
Vi sono? e verdi seggi c verdi chiostri
Cingoli lassù selvaggi , ombrosi tempj ?
E se terra non è confusa c mista
Col ciclo, onde la Luna ’l volto adombra?
0 pure, onde s’ adombra crraute ingegno,
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LE SETTE GIORNATE
Che terra e Paradiso In elei ricerca?
L'audace peregrino indarno agogna.
Mentre di qua dal Cancroci purne chiede,
0 pur di là dal Capricorno oppo*sto,
In più temprata zona; e ’ndamo i fonti
Ei spia del Nilo, ond’ ò contesa ancora
Ne’ monti d* Etiopia, c quei del Gange,
Nel Caucaso gelalo, o in monti armeni.
Quelli ond'escoD veloci Eufrate c Tigre;
E s’ivi pure ci lor ritrova c scorge;
Come *1 tuo Paradiso il vivo fonte
Ila di quattro famosi e ciliari fiumi?
Forse il tuo Paradiso il giro integro
Dell’inarata ancor terra feconda
Fu in quel dell’ innocenza antico stato?
O varTaro i fiumi ’l letto e ’l corso?
E dal primiero or fan lungo viaggio?
Cotanto può mutar l’età vetusta?
Forse nel Paradiso i primi fonti
Sorgono mormorando e chiari ai ciclo;
E poi sommersi entro ’l profondo grembo
Della caliginosa oscura terra,
Van sotterra girando i ciechi regni
Sin che di nuovo apparsi in chiara luce
Altri fonti di sè nell' erte rupi
Fan deli’ aspre montagne esposte a’ sensi?
Ma i primi fonti ancor nascondi e copri
Al vano studio de’ mortali erranti,
Non pur all’ animosa c debil vista.
Occulto è dunque ’l gran principio interno
Del puro fonte , onde ’l piacer si versa.
E quando tutta ne* diluvi accolta
Giacque sommersa la gran madre antica ,
Quel fonte sol non si diffuse c sparse.
E fu dall’ acque allor sicuro il sacro
Monte di Paradiso, c ’l loco eletto
AH’ umana natura in fido albergo,
Ch’ai cerchio della Luna è sì congiunto.
Ma qual di ciò sia l’ombra antica, o ’l vero,
Ch’ illuminar può le moderne carte ,
Rivelai tu ; tu , clic le menti illustri ,
Santissimo cultor del nostri ingegno,
Che fai dell’ alma un Paradiso adorno,
In cui le piante son pensier sublimi
In contemplar di te nodriti e colti:
E d’ una fonte istcssa i quattro fiumi
Son le quattro Virlutt in sè distinte.
Ma quel fonte se’ tu. Tu vivo fonte.
Che d’eterno piacer le menti aspergi ,
Ond* ogni alta virtù deriva e nasce:
Or tc stesso dimostri all’ ombra , all’ aura
Or bel rubo fiammeggi , e ’n viva fiamma
Altrui tl manifesti , e in luce ardente.
DEL MONDO CREATO. 179
Dio l’uomo in guisa di traslata pianta
(Chò pianta è l'uom ) nel Paradiso ameno
Locò portato dal fecondo suolo ,
Ove prima creollo; c quivi in guardia
Il pose di quel lieto e dolce loco ,
Perch'egli oprasse; e già creato indarno
Egli non era a neghittosa vita.
Bcnch’ uopo non Tacca fatica od opra
A quell antica c più feconda madre.
Madre da* parti non lassata o stanca ,
Cli’avea dì mamme in vece i fiumi e i fonti.
Onde versava umor si largo e dolce ;
Certa meravigliosa alma Pandora,
Che l’ampio vaso avea ripieno e colmo
Di tutti i doni , onde diletta c giova.
Ma più bell’ opre, c di più belle parti
All’ uom si convenia l’alta coltura,
Perch’ adornar dovrà la nobil mente
Di cari fregj e di virtù sublimi ;
Fra cui tiene Pietà le sedi eccelse;
Pietà, ch’è vero culto, onde s’adora
Nell’alma riverente il Re del Cielo.
£ tra gli antichi Ebrei canuta c sacra
Fama eli’ al figlio ereditaria ’l padre
{.asciò quasi per mano; indi s’accrebbe,
E vola , e spazia ancor canora e grande.
E questa afferma ai suoli di varie lingue,
E con milP ali ’l suoli divolga c porta.
Che mentre 1* uom vivea solingo c sciolto,
Senza la fragil sua consorte errante,
Non ancora creata ; il dolce loco
De’ suo’ diletti , il Paradiso ameno
Del suo piacer, non fu sembiante a’ nostri.
Perchè fra’ nostri una minuta selva
Lieta fiorisce, c non ha senso ’l bosco
D’alberi pieno , e con perpetuo onore
Serbano alcuni ognorla fronde e il verde.
Altri sol verdeggiando, i cari germi
Mandano allor, che giovinetto è l’anno,
E la stagione in giovenil sembianza,
Di sue ghirlande va superba e lieta.
Altri soglio» produrre i dolci frutti
Si cari all’uomo; altri alle ferc’l cibo.
Ma ’l Paradiso del Signore adorno
Animate avea già l’ altere piante,
E tutte avean favella c senso c mente.
0 meraviglie del Signore eccelse
In cui nulla è di falso; e ’l finto adombra
Quel, clic di vero si nasconde e cela!
E disser questi ancor clic ’l nuovo mondo
Era all’uom, clic pur dianzi in terra nacque.
Quasi un’ampia città, eh’ ignobil mastro
Non fe* di rozzo legno o rozza pietra;
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180 TOEMI
Nò circondotta di caduche mura;
Nò di stagliarne umor fosse palustri
Cavoilc intorno. Ivi sicuro e lieto
L'iioni si vivea, come signore e donno
Degli animai clic ’l suolo e ’l mar produce,
Chò tulli ad ubbidire orali costretti.
Molli apprendean soli’ al soa\c impero
A servir volontari in lieta pace.
Avea l’ampia città disine leggi,
Assai più salde, che ’n metalli e ’n marmi ,
Scritte nella natura. Avea gli antichi
Suoi cittadini illustri, anzi celesti:
Gli Angeli, dico, e le superne nienti.
Glie sortir colassi! si larghi campi
Di pura luce e di splendore eterno,
Kd abitar negli stellanti alberghi.
L'uoiti felice vivea tranquilla vita,
Sincerissima ancor, qual nuovo figlio.
Ed erede immortai del He del Gielo,
Del suo zelo ripieno, e del suo spirto.
Formando a suo piacer la mente ;e i passi
Per le vestigia sue drizzando in allo,
E per le vie della virtù sublimi,
Per le quai solo è di poggiar concesso
All'almo, che scn fanno a Dio ritorno.
E perchè all’ uomo ereditario *1 regno
Si doveva quaggiù nel basso mondo
Sovr’agli altri animai, ch'lian vita ed alma;
Ed al re nominare i suoi couviensi
Soggetti e servi ; e conosciuti a nome
Separarli nell’ opre e negli offici.
Gonio la virtù lor richiede c ’l morto:
Tutti condusse ’l suo Signore e Padre
Insieme gli animali a lui davantc.
Perdi’ ei pensasse imporre a tutti il nome
Proprio, c qual conveniasi a lor natura.
E fa come ’l maestro allorch’ei sveglia
Nell’ alma giovami l' abito interno,
E prova fa del suo veloce ingegno.
Peniceli’ allor non traviò dal vero
Tanti nomi imponendo il padre Adamo:
Anzi le occulte (piatitati espresse
Degli animali , e lor costumi interni,
In guisa tal, ch’ai primo suon distinto
Dell’ umana favella era compresa
Di ciascun la natura ; anzi commossa ,
E placida ubbldia , veloce c pronta
A quell’ imperiose alle parole.
Ma se tanti animai clic ’l mar produce,
E ’l fiume e ’l lago nell’ ondoso grembo ,
Tanti che l’ampia terra in sè n’alberga,
Fur noti ail* uom primiero, c mossi e tratti
Sol dalla voce , e mansueti e umili
SAGRI.
Veniali, deposto *1 lor superilo orgoglio,
La natia ferità , gli sdegni e l' ire ,
Fbhidlenti e chini al giusto impero:
Qual meraviglia fias’ altri racconta
De’ suo* lardi nipoti illustri esempi?
E Temistocle pur ci adduce, c Ciro
Imperador de’ Persi, c ’l duce mauro?
A cui non di cammelli o d’elefanti,
E di mille aflricanc orride belve.
Varie di forme c di natura e d’opre.
Ma de’ lidi guerrieri i nomi appieno
Fur noti? tanto da quel primo esempio
La natura miglior traligna c perdei
Ma perchè nulla è mai costante c ferma
Cosa mortale , c si trasmuta e cangia
Ivi più spesso, ove reale altezza
L’animoso pcnsler solleva ed erge ; [ro.
Convenne che l’uom primo, c ’l re primie-
Ch’espressa aveva in sè del nuovo mondo
Quasi Timmago, c ’i simolacro esterno.
Anzi f ininiago pur del Re del Cielo,
Da cui format’ avea la mente e T alma;
Convenne, dico, ali’ uomo, anzi fu d’uopo
Ch’egli d’orrore c di miseria umana
Fosse a’ nipoti il primo esempio in terra.
Femmina fu caglon di tanta colpa,
Di tanti mali c della stessa morte.
Femmina a deprezzar l’alto divieto
Del Re celeste lusingando il mosse.
Poich’ebbe collocalo il Padre eterno
L’ uomo in quel vago Paradiso ameno
Finch* ci, come doveva, alfin traslaio
Fosse alla gloria del celeste regno;
Gli comandò, non per ministro, o ’n sogno,
O tracmlol di sè, ne 1* alta voce
Risuonò ’n rubo acceso, o ’n vaga nube;
Ma parlò per sè stesso al padre Adamo,
Come agli Angeli suoi, se pur capace
Era dì stia divina alta favella :
E la sua mente in sì mirabil modo.
Ch’esprimer non si ptiolc,allor commosse.
Prendi ( gli disse ), Adamo, il caro cibo
IT ogni pianta che sia nel Paradiso,
Cliè le concedo tutte, c solo io vieto
Quella delia Scienza, onde s* apprende,
E si distingue poi dal bene *1 male.
Perchè ’n qual giorno sia che di lei gusti,
Morrai di morte. Oh minaccioso impero!
Oh lerribil sentenza ! oh grave pena!
Ma T uom semplice ancor nel puro stato
Di quella pura e candida innocenza
Il non commesso male occulto ignoto
Non conobbe ab esperto, c non s’ accorse
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LE SETTE GIORNATE
Clic Dio vita è dell'alma, e ’n preda a morte
L'abbandona, partendo, ond’ ella pere
Nel suo peccato e nella colpa ingiusta.
Ma doppia minacciava, e fera morte
Nell* aspro suo divieto il Re dei Ciclo.
Come la bianca e semplice colomba
Nata di nuovo, e non avvezza ancora
A' perigli mortali, in mezz* all' alma
Porla seco un natio timore interno.
Che la spaventa della fiera morte;
Oude visto da lungo augel rapace
Spiega 1’ ali volanti, e si dilegua ;
Cosi nell’ uom fu di natura in vece
La voce minacciosa, e ’l gran divieto.
Per cui non conosciuta ornai paventa
La morte. Arrogo poi la propria colpa
Nata da quel sapere, anzi dall’ opra :
Cliè non è nel sapere o colpa o vizio.
Ma pur fu da piacere e da lusinga
Vinta aitili quella tema, ond’ egli osando
Dell* ignoto saper il dolce gusto
Provar, poi violò la prima legge.
E col peccalo allor dischiuso ’l varco
Trovò la Morte, ond’ ella entrò nel mondo
Per ampissima porla; c’n guisa ingombra
Or le sue parli, clic la terra e ’l mare
Son un regno di Morte atro e funesto :
E qui T impero trionfando a forza
Non pur ella usurpò nel padre Adamo,
E nella stirpe, che traligna e perde ;
Ma ’n colui che morendo i cari pegni
Ritolse a morte, e trionfò d’inferno.
Siccome egro languente, e spesso ingordo
Di caro cibo, che soave al gusto.
Alla salute è reo, talché s* avanza
L* ardente febbre, ond’ ci morendo aitine
É della morte sua cagione c colpa.
Perchè male ubbidì severa legge ,
Che ’l medico prescrisse a’ vaghi sensi :
Così dal dilettoso e dolce inganno
Fu vinto Adamo, e la cagione antica
Egli a sè stesso fu d’ orrida morte;
Non Dio : chè non creò la morte e i mali
La divina Bontà, ma i nostri errori.
E del nostro peccar previde ’l fallo,
K *1 consenti : chè se ’l peccar non fosse,
Non sarebbe virtù di mente, o d’ alma.
Perchè I* alma ondeggiante in quest’amaro
Mar della tempestosa e dubbia vita;
Non s* affondasse alfin tra scogli e sirli ;
Quasi governo, onde rivolga ’l corso,
Legge a lei diede, e dirizzolla al porto
Della salute c della pace eterna.
DEL MONDO CREATO. 181
Ma vide Dio che scompagnato e scevro
| L’ uom non dovea menar sì lunga vita
In guisa pur di solitaria belva :
[ Però pensò dì far all’ uom solingo
La compagna, c l’aiuto a lui simile.
Ed In Adamo infuse ’l dolce sonno;
Kd irrigò di placida quiete
Tutte le membra al sonnacchioso e lento.
F quinci d’ una costa ’l molle corpo
Edificò della consorte ; e poscia
La nuova sposa gli condusse innanzi.
E disse Adamo in placido sembiante :
Osso dell’ ossa, e di mia carne è carne
Questa fatta di me donna c virago.
Però lasciando l’ noni la madre e ’l padre.
Alla consorte sua sarà congiunto.
L’uno c l’ altro ora allor le membra ignudo,
E non avea di ciò vergogna ancora :
Perchè non anco era in caduche membra
Legge a quella sublime c giusta legge
Della Ragione, avversa c ribellante.
Però nulla bramare» ’l velo e ’l manto
A quelle nude, alfine ascose parti,
A cui la nuova età poi d’ oro c d’ ostro
Cercò di vesti, e ricca c varia pompa
Con mille preziosi ed aurei fregj.
In questa guisa fece ’l Fabbro eterno
Questa del mondo sì mirabil mole;
E Puom creò, cb’è quasi un picelo! mondo ;
E la compagna sua formò da sezzo ;
E pose (ine alle sue nobil opre.
Allor non solo le superne menti ,
Gli Angeli, dico, c le Virtù celesti
Esaltando lodar I’ eterno Padre;
Ma i Cicli anco ’l lodaro, e ’nsieme a prova
L* acque, eli’ ci sovra 1 Cicli avea raccolte
Il celebrar con alto e chiaro suono.
Lodollo ’l Sole, c voi, lucenti Stelle,
E tu ’1 lodasti ancora, o bianca Luna.
0 nubi , c voi , voi , nubi oscure c nembi,
E voi, nevi c pruine, c voi tonando
Il celebraste ancor, folgori ardenti.
E ’nsieme risuonar la notte e ’J giorno
Del suo gran nome ; e ’l gran rimbombo ac*
S* udì nella serena c chiara luce, [colto
E nell’ oscure ed orride tenebre.
La Terra ancor sovra sè stessa al cielo
Esaltava ’l Signor con Iodi eccelse.
E P esaltar sovra ’l lor giogo i monti
Alpestri e duri, e I verdi ombrosi colli,
E mormorando insieme *1 mar sonante;
E mormorar I fonti e ! vaghi fiumi
S’ udian del glorioso c santo nome.
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i8* POEMI
E gli augelli nell’aria, e I vaghi pesci,
E le selvagge c mansuete belve
Facean delle sue lodi un chiaro canto.
Lodarlo poscia entr’agli adorni tempi
] sacerdoti ne* sonori carmi ,
E l’ anime de’ giusti; e i nudi spirti
Non tacqucr le divine eterne lodi.
Talché a lui di tre mondi un sol concento
Della sua eccelsa gloria ognor rimbomba.
Ma pur questo corporeo e veglio stanco,
E seco l’altro che s’ invecchia e langue,
Dopo sì lungo raggirar di lustri ,
Già de* secoli alfine il loda e canta.
E dice : 0 mio Signore , e Padre eterno
Che già di nulla mi creasti adorno
Mirabilmente, e mi servasti in vita
Poscia nel gran diluvio c negl’ incendj :
lo per me son caduca e grave mole,
E ruinosa alfln, non pur tremante;
Ma la tua destra mi sostiene e folce
Sì, ch’io non raggio, e ’n me rivolge ’I corso
Perpetuo ancor sovra la stabil terra.
Talché ’n sì lunga età, lasso! ravvisto
A me stesso fanciullo ancor somiglio,
E gli ornamenti miei non vario, o perdo,
Nè di tanti lucenti ed aurei fregj
Manca pur uno. E s* io dunque disgiunto
Senz’indugio sarei converso in nulla.
Quanto m’ è dato, a te ni’ unisco amando,
SACRI.
E nelle parti mie t’adoro; e cerco
Uniilernente, c ti sospiro e chiamo ,
E ti piango talora, e ’n folta pioggia
Quasi mi stillo, e ’1 mio fallire incolpo.
E nel pianto e nel canto a tc consacro.
Quanto lece, me stesso, acciocch’ a sdegno
Non prenda in me la tua div ina Immago,
E ’l simulacro di tua mano impresso.
Ma fuor di me pur ti ricerco, c piango :
Dove se’? dove se’? chi mi t’ asconde?
Chi mi t’invola, o mio Signore e Padre?
Misero! senza te son nulla. Ahi lasso!
E nulla spero, ahi lasso! e nulla bramo.
E clic posso bramar, se ’l tutto è nulla,
Signor, senza tua grazia? A te di novo
Sovra me stesso pur rifuggo, c prego
Teco sovra me stesso unirmi amando.
Già mi struggo d’amor, languisco amando.
E s* altro incendio mi consuma e strugge,
L* amor tuo più lucente, c ’n altra forma
Poi mi rifaccia, e le fatiche, ’I moto
Tolga alla mia natura egra e languente.
Abbia riposo alfìn Io stanco veglio
Mondo, che più s’ attempa e ’n le s’ eterni
Sin che sempre non sia volubil tempio.
Ma di tua gloria aitili costante albergo.
Cosi ragiona’! Mondo. E sorda è l’ alma,
Clio non ascolta i suo’ rimbombi e ’l canto,
E seco non congiunge ’l pianto c I preghi.
ERASMO DI VALVASONE,
ANGELEIDA.
CANTO
lo canterò del del 1* antica guerra,
Percui sola il principio e I* uso nacque.
Onde tra il seme uman non pur in terra,
Ma sovente si pugna ancor sull* acque :
Carcere eterno nell’ abisso serra
Quel che ne fu l’ autore, c vinto giacque :
E i vincitori in parte eccelsa ed alma
Godon trionfo eterno, eterna palma.
Spirto, che terza sci persona in Dio,
E di tc lutto nudri e tutto n’ empi ,
PRIMO.
Tu che vedesti i! santo stuolo, e il rio
Con quali arme pugnar ne’ primi tempi.
Degna col tuo favor nel petto mio
Mandarne di là su graditi esempi :
Ricorro a tc, non delle Muse al coro,
Chè ciò non lian tra le memorie loro.
Non era infine allor con doppio monte
Salilo oltra le nubi alto Parnaso : *
Nè verdeggiava il lauro, o il sacro fonte
Tratto da ricca pietra area Pegaso :
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ANGELEIDA.
Onde benché or sen’ cinga altri la fronte,
E bea Ui quello incssiccabil vaso.
Già di ciA non farà pregiali versi,
Se tu del tuo favor sovra non versi.
Gran prova è ben per non calcata via
Dal secol prisco entrar a figger l’orine :
E pur là 've mi tragge audacia pia,
E novello furor, gioisco pome :
Duro cammin con minor scorta pria
Tentai sovente : or se dal elei m' informe
Duce miglior, temer del fin inen deggio.
Quanto in meglio il desir tempro e correg-
Chè s’cbber caro già l’cladi antique [gio.
Udir in altro stile, in altro canto
De’ terreni fratelli , anime inique,
L'immenso orgoglio c il temerario vanto:
Che volsero assalir per strade oblique
L' aurate stelle e ’l loro imperio santo.
Svellendo dal tcrren con fiera possa I sa.
Pelio, Otri, Olimpo e l'indo ed EmoedOs-
F. se fu caro udir con cento braccia
Briareo smisurato essere asceso
A guerreggiar con Giove a faccia a faccia,
E poi cader dal gran folgore acceso;
Perchè non crederò, che ’l vero piaccia
Fuor dell’ antiche favole disteso?
0 11 sentir eruttar sotto Etna il vero
Tifeo tutto di fiamme adusto c nero?
Quelle favole fur ; io condur tento
Veraci istorie al luminoso die :
E de* veri giganti il rio talento
Cantar con novi accenti e note pie :
Onde d’ intorno all' Alpe c al Tagliamcnto
Eco risponda alle fatiche mie :
Che s’ anco d’ Adria non le sdegni il lito,
Nulla più chero, è il mio desir compilo.
Benigni eccelsi Padri, eccelso onore
D' Europa tutta, e della fè di Cristo,
Che la pace, di cui l’ Angcl vittore
Fece a’ regni dei Cicl perpetuo acquisto.
Donate a’ vostri popoli , e ’1 valore
Dell’ arme alla pietà serbate misto,
E l’ arme vostre, non l’ altrui mine,
Ma sol la nostra pace hanno per fine.
Eccelsi Padri , che ad un Duce solo
Intorno fate a noi quella sembianza,
C3ie intorno a Dio degli Angeli lo stuolo
Suol far lassù nella beata stanza;
Se da quegli alti gradi al basso suolo
Di chinar gli occhi mai tempo v’ avanza,
Mirate al voto mio, di’ esser indegno
Di voi non può, s’ intende a tanto segno.
E voi , Signor, dal cui sereno volto
183
Dipemlon tante menti e tante ciglia.
Signor dal cornun voto al seggio accolto.
Che l’ Adria regge e la sua gran famiglia;
Al mio novo desir, che in voi rivolto
Da voi dell’ ardir suo gliauspicj piglia.
Consentite, clic a dir tanto alto monte
Coi favor vostro c vostro nome in fronte.
A voi. Signor, a voi debito è questo
Del certame divin sembiante umano,
Clt’ alla guisa di Dio scic ognor presto
A reprimer d’altrui l'orgoglio \ano :
Alla guisa di Dio custode desto
Fate il vostro tcrren tranquillo c piano:
E il difendete, si come egli i cieli.
Dai furor de’ Luciferi crudeli.
Scorre per lutto 1’ Oriente armato
Di ferro e foco il sanguinoso Marte :
Ogni cosa rivolta ed ogni stato,
Nè di sè lascia vola alcuna parte :
Geme l’ Occaso, e l’ Oceano irato
Mille navi apparecchia arbori c sarte.
Onde picn di furor Tago c Tamigi
Esercitili tra lor fieri litigi.
Oh tinaie è da veder l'infausta imago
Della misera Francia! oh come offesa
Alto orgoglio la tlen, clic per lei vago
Movendo va più che clvll contesa!
Le stesse furie dall' Inferito lago
Solisene uscite e la campagna hall presa,
E tutto essendo pien d’ ira c di foco
Loco non lian le leggi in alcun loco.
Dall' uno all’altro Sol, sol tra noi lieta
La bella pace si dilata e stende :
La terra l’aria e’i mar ride c s' acqueta,
E securo il paslor al gregge attende :
Qui la candida Fè, qui l' aurea Pietà,
Qui la santa Giustizia albergo prende :
E qui le Muse puon cantar all’ ombre
Da’ verdi lauri d' ogni tema sgombre.
Ed io qui proverò temprar la lira.
Si che possa con suon sublime e degno
Giugner fiu là, dove la mente aspira,
A cantar l' arme del celeste regno,
Che or a voi si propizio e lieto gira,
E con tutte le stelle intende a un segno.
Di serbar sempre c far del vostro impero
All’ afilitta Virtù rifugio vero.
Rideva il mondo ancor fanciullo e bello
Crescendo tra le man del sommo Padre :
Nulla era in lui di spaventoso o fello,
Ma tutte l’opre sue bolle c leggiadre :
Nè nuvolo tornea, che al sol ribello
Avesse a far di giorno ombrose od adre
181 POEMI
I.’ oro, nò il guardo delle stelle ardenti
Toglier di notte a' torbidi elementi.
(intento il foco del supremo giro.
Non era mai per dimostrarsi altrove,
l à 've 1* empie comete ardono, e ’l diro
Folgore scoppia dalla man di Giove:
I.uciiio senza Incendio al bel zaffiro.
Gli' eterno sovra lui rotando move,
Unito era per far sol aureo letto
Al tranquillo del mondo a lui soggetto.
E questo voto, che poi Borea cti Austro
S' ban fatto di discordie orribil campo.
Pai caldo Nolo all’ agghiaccialo Plaustro,
E da questo c da quello estremo lampo,
Sarebbe stato un spazioso elaustro,
Ove avreste a piacer, e non per scampo,
Steso, augel peregrini, il vostro volo,
Spirando amor in voi zefiiro solo.
Non avrìa inteso il regno di Nettuno
Fuor del confili delia cognata terra
Montagne d’onde alzar per l’aer bruno,
E fin ai Cielo minacciar di guerra :
Senza procella e senza sdegno alcuno
A’ pesci , clic nel fondo occulti serra,
Saria stato tranquilla e dolce sede.
Ch’ornò riposo s'ha, nè nianlicn fede.
Quest* infimo terreno, or stcril mole,
Cile appena arato ancor frutto produce
P' ogni stagione, c non pur quando il Sole
Pai Montone o dal Cancro arido luce,
Ci avria fatto veder rose e viole
Cali biondo onor dell’ Eleusina Duce,
E il vin senza sentir colpo di falci
Palo ri avrian di Pacco i gravi tralci.
Non fora stata l’ Infornai caverna,
Clic nel gran ventre del tcrren discende
Due volte quanto alla magìon superna
Occhio ben san l’ acuto sguardo intende,
I)’ alcun bisogno alla Giustizia eterna
Per castigar l’altrui nequizie c mende;
Ch' ogni ros' era ed innocente e pura
Creata dal gran Re della Natura.
Onde anco non avria mai tolto il peso
Peli’ aurate bilance in mano Astri a ,
Nè snudata la spada, o il braccio steso
Sovra le colpe altrui vindice Bea :
A piò del suo Fallar col guardo Inteso
Pasciuto avria quel ben, clic i Santi or bea,
Senza mai paventar altro sembiante
Pi quel, clic il mondo avesse preso al ante.
Questo stato si vago c si giocondo
Primo ruppe nel Ciri l’ Augel più degno :
Che mentre troppo alzar si volle al fondo |
SACRI.
Cadde sospinto dal fraterno sdegno ;
Era superlor, or tutto il pondo
Gii grava addosso il fabbricalo regno :
Gran principio, alta itnagine dì cose.
Che i fratelli a' fratelli incontro pose.
Perorile avendo al suon di sante note
D’ ardente Sole e scintillanti stelle
Ad ornar il gran Pio l’eccelse rote.
Che imaginar non si potriau più belle;
Perchè non finte in van fossero, e vote
Pi propri abitator sì ricche celle,
Fé’ degli Angeli ancor l’ eterna gente
Sovra ogni creatura alla, eccellente.
Oli ! che veder per la magion celeste
Ire e tornar quei fortunati eroi
Ricchi di gemme e d’ inaurate veste
I>’ altra finezza, clic non son tra noi :
E farsi plebi ad ogni celino preste
( Ma tonto ben turbarsi essi da poi )
A portar quinci e quindi i gran percetti
Pi Dio, che in nunzi suoi gli aveva eletti.
Pi questi il più diletto, il più gagliardo,
E di tutte le grazie il più splendente.
Nella bellezza sua rivolse il guardo,
E s’ alzò nella sua superba mente :
Poi nullo avendo al suo fattor riguardo
(lontra lui stesso si levò repente.
Nò contento del suo stato secondo
Bramò nel seggio entrar del Re del monde.
Brontolio, ahi folle! e tosto mise in punto
De’ suoi seguaci unstuol troppo profano:
Nò tante arene ha il Ilio al mar congiunto.
Nò tante erbe ha di state il monte e il piano,
Quanti allor seco al temerario assunto
Disposti alzar la bellicosa mano : [pra,
Ma qual s’apprende mai pensier, non ch'o-
Che ’l lucido del Cicl tosto non scopra?
l a nell’ empirea ed elevata sfera,
Ove si sta di Pio la gran famiglia.
Pai colmo sorge con la cima altera
Gran torre, il cui splendor foco somiglia :
Quivi si sta la Fama, e tutta intera
Ha del mondo la mole anzi le ciglia.
La terra, il mar, sette pianeti e il cielo
Degli animai , clic ne fan caldo e gelo.
Cent’ occhi e cento orecchie ave, e cu-
ti del Signor, che fe' tutte le forme : [stode
Quinci e quindi rimira attende ed ode.
Nò di , nò notte mai s’ adagia o dorme :
Nò spiar sol degli animanti gode
I pensier, i consigli , i passi c Torme;
Ma nò si move fior, eh’ ella no! senta,
E tosto innanzi a Dio tutto apprcscnta.
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ANGF.LEIDA.
Questa leggiadra e pellegrina donna
Dell' eccelso suo Re ministra fida,
Senti l' orgoglio (e si straziò la gonna
Per duol , per ira ) della turl>a infida :
Tosto, e come a talli’ uopo non assonna,
Dall’ eminente colmo alzò le strida,
Ed a’ fralei del Cicl, popol fedele,
Fe’ de’ fratei sentir l’atto infedele.
Qual di ricco signor ancella accorta.
Che gli ocelli al pigro sonno ultima cede ,
Mentre ognun posa ed è chiusa ogni porta,
S’ occulta rianima errar per casa vede,
Sbatte le mani, e scapigliata e smorta
Scorre, e soccorso d’ogn* intorno chiede.
Nò 1 passi mai, nè mai la \oce arresta.
Se pria non scorge ogni persona desta :
Su su correte ed occupate i passi.
Schierale tutti i santi ordini vostri,
Dicca la bella donna, c non si lassi
Serper tanta nequizia in questi chiostri :
0 custodi del (ìlei, qual motto fassi
In mezzo dì voi stessi ? o furie, o mostri ,
Oh di che segni, oh di che speme armati
Sorgon contro il Fattore appena nati!
Arse degli altri allor subito foco
1)’ ira nel cor, c di desir intenso
Di vendicar il cornuti Padre, e il loco
Comune, e ’I comune anco onor oflenso :
Passa d' un coro in altro un niormor roco
Per tutti ì cieli immantinente estendo :
Nè v’è requie, o riposo, ognun già brama
L’arme, e sol arme ognun replica e chiama.
Ed un, ch’avca fra gli altri!! primo vanto
Di dar spirto al metallo, e saper l’arte
D’accender le battaglie al fiero cauto,
E raccoglier ad un le schiere sparlo.
Alla rocca di Dio, ch’aianza tanto
L’al lo ciel, quanto il cicl qucsl'umil parte ;
Poggiando fc’ sentir l’aurea trombetta,
Che nell’ ultimo giorno anco s’aspetta.
L* allo fragor dell’ improwiso suono
Senti per tutti l suoi cardini il mondo,
E per lui corse un mormorante tuono.
Che dal sommo il crollò fino al profondo;
Degli Angeli altri in cielo, ed altri sono
Tra gli elementi, ed han diverso pondo:
E 1’ udir lutti, c tutti alzar le penne
Là onde il suon della battaglia venne.
Sebben del Ciclo abitatori eterni
Han colassi! la lor vera dimora.
Non sol però ne’ lochi almi e superni
Sempre, ma giù nel nostro mondo ancora
Han dalla man di Dio varj governi ,
18S
E portati suoi mandati ad ora ad ora :
Chi la terra, chi 11 mar, chi l'aria regge.
Ed ha ciascun la sua prescritta legge.
Altri frenano i venti e le tempeste,
E tengon altri il mar tra le sue sponde.
Perchè non sempre I* aria ombrosa reste.
Nè tutto assorban il terreno r onde :
Altri fan verdeggiar l’ ernie foreste,
0 le terre di gran rcndon feconde :
E custodir ad altri in sorte è dato
li seme uman, eli’ allor non era nato.
Sono animali tra le stelle aurate
D’ umani volti , e de’ ferini ed empi :
Son sette lumi , a cui 1* antica date
Drizzò si come a Dei e statue e tempi :
E la mirabil lor velocitate
Cangia a noi le stagioni e muta 1 tempi :
Ma che non cangio via, nè mutiti 1’ anno
Gli Angeli curan, clic tra lor si stanno.
Che più? fin dentro degli ascosi spechi
Dell’ opaco lerrcn, che senza raggio
Di Sol mai sempre son perduti c ciechi,
Stanze d’orror, fan gli Angeli passaggio :
E perchè ordin divin d’ alto si rechi ,
Or F uno, or V altro n* è fcdel messaggio :
E natia gente del beato regno [gno.
Reggon le parli ancor, eh’ ha il Ciclo a sde-
Cosi quanto circonda, c china, e saie
Quest’opera di Dio, eh’ è cosi grande,
Agli Angeli temprar c regger cale :
E lor virtù per tutto entra e si spande,
Di qua, di là presti a rivolger l' ale
Ovunque il sommo Genitor li mande :
Nè cosi tosto hanno il mandato udito
Di lui, che già son giunti e 1* han fornito.
Dunque sebben ancor non avea preso
Il mondo in tutto il destinato aspetto.
Pur gran numero d* Angeli disceso
Fin allor era dal celeste tetto :
E ciascun stava ad aspettar inteso,
Che ’1 mondo fosse in fin al fine cretto.
Per pigliar del suo carico l’ assunto,
Quando la tromba udir tutti in un punto.
Tutti i misteri lor, tutti gli uffici,
Gli* aspcttavan dall’ uno all’ altro polo.
Tutte del mar cercando le pendici ,
Lasci aro n tosto e si le varo a volo :
E per I’ aria ancor fosca auge! felici
Movendo 1* ale in giro a stuolo a stuolo
Si ricovrar veloci al patrio ciclo.
Che fa di fin piropo agli altri velo.
Quali colombe semplicette e pure.
Che col largo sercn del novo giorno
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ISO POEMI
Intente a ricercar varie pasture ,
I .asciato avean l’ amato lor soggiorno :
Se tinto poscia il del di nebbie oscure
Con fiero lampo c roco suon d’ intorno
Minacci a' campi empie tempeste c danni,
Levatisi frettolose alte sui vanni.
E 'I largo gregge in un raccolto c stretto
Da tutto il pasco erranti c peregrine
Solcan dell’ aria il tenebroso aspetto,
Né s'arrestano pria, che giunte al fine
Dell' alta torre al desiato tetto.
Ove antiche osti sono c cittadine;
Di qua, di Ili per le distinte sponde
Ciascuna nella sua casa s'asconde.
Tutta in sé stessa intanto si raccolse
La madre delle cose alma Natura :
Strinse le mani, ed a mirar si volse
L’ ancor informe tmivcrsal fatturar [se,
Poi d' un gran pianto, clic dagli occhi sciol-
RigA la faccia nuvolosa c scura ,
E girò I languidi occhi al suo Fattore,
Dal cui scn pur aliar usciva forc.
Misera ! disse, oltimÉ da queste spade,
Che crollano ora il elei di molo orrendo,
Pregnante donna , è di mia verde ctadc
Nel primo fior, clic tristo augurio prendo!
E corsa ogni tuia gioia, ogni bcltadc, [do:
Ch'Io mi sperava,or spenta esser comprcn-
Chc se nÉ franco ò il elei d' ire c di guerre,
Qual posa crederò ch'abbiali le terre?
Se 'I Clel, eli' a le, Signor, vicino c puro
Luce, c pur or hai di tua man costrutto,
Scorge tra il popol suo i olcr si duro,
E rimaner non sa placido tutto;
Quai fiati le genti sul terren, ch’oscuro
Riceverà dal Ciel bonaccia e flutto?
Come avrò io tra gli elementi pace.
Se ciò, cli’É sovra lor tutto è pugnace?
Clic s'io posso sperar tanto martire.
Meglio É,Slgnor,chc in questo sen fecondo
Quei vivi semi ornai tu non inspire, [do:
Chcliannoaformardisigrau mole il pon-
Mcgllo É rimaner sterile, eli’ empire
Di si rei parti il travagliato mondo,
Cbe osino alzar contra I decreti tuoi
La faccia, c voler quel , clic tu non vuoi.
Qui si tacque ella, ed : 0 mia fidaaucella,
II sommo Creator a lei rispose,
A te non si convicn cessar da quella
Opra, che il mio voler prima l' impose :
Suo fine avrà la fabbrica novella
Del mondo tutto, e delle varie cose,
Che a far hanno di lui l' interno pieno,
SACRI.
Ned a te caglia quali elle si sieno.
All’ Angel cittadin del Ciel creato
Per farlo di maggior grado, non fue
Per nostro alto decreto aver negato
Sciolte ed in suo poter le voglie sue ;
Ecco lo stesso arbitrio anco Ila dato
All' uom futuro, perchè in questi due.
Clic porterai! di noi l'effigie io mostra,
A esercitar s' ha la Giustizia nostra.
Che se fosse a lor due poco, nè molto
Rotto il voler quanto piu loro aggrada.
Fora alla santa ancor Giustizia tolto
L' usar sovra di lor vindice spada :
Ragion , non nego, hai di turbare il volto,
Perchè tra’ figli tuoi veder t’ accada
Querele ed odj, c chi tanto vaneggi.
Che osi anco non temer le nostre leggi.
E per dirti ancor più della tua doglia.
Tu se’ fatta del ver certa indovina : [glia
Gilè questo Angelo allier, clic ora s’invo-
Del nou suo seggio a far folle rapina.
Sedurrà l’ uomo ancor, perchè si foglia
Dal voler nostro, e fia la sua rulna :
Cli’ essendogli concessa immortal sorte.
Sospingerà sè stesso in scilo a morte.
Perderà le delizie c il Paradiso,
Ove gli fia di nostra mano eretto
Miracoloso albergo, ed ove assiso
Potesse il mondo tutto aver soggetto :
Felice lui , se con sccuro avviso
Abborrissc dell’angue il fiero aspetto.
Clic proponendo farlo quasi un Dio
Lo trarrà seco in precipizio rio.
L’uomo creato a poter viver sempre,
E fatto assai di nostra bocca accorto.
Clic dall'aurata pianta si coutcmprc.
Clic falso Drago al piede ella avrà attorto;
Guasterà si le sue primiere tempre
Spregiando d' ubbidir, clic ne fia morto :
E scenderà di grado in grado poi
Il peccar e il morir tra figli suoi.
Nè fia dimora ; orgogli c risse e faci ,
E ferri c frodi ed omicidj e sdegni.
Cicchi al ver, pigri alla piotate, audaci
Incontra il giusto ed ostinali ingegni.
Il corso turberan delle tue paci .
Ove invan tu drizzasti i tuoi disegni :
Lascia ogni speme: ovunque Amor si voi-
Appena troverà chi lo raccolga. [ga,
Nè pur tra quei fratelli avrà ricetto.
Clic nascerai! da' due primi parenti :
Cliè nel sangue dell’ un con rio dispetto
L’altro tosto farà le man noccnli :
ANGELEIDA. 187
Ed indi crescerà dì peno in petto
Tanto oltre la malizia delle genti ,
Che ne farà da' liti, ove s’alberga, [ga.
Dar loco al mar.pcrchè il lerrensommer-
Edallor si elle di nemboso Telo
Avrai caglon di far la faccia oscura :
E passe ratti al core Immenso gelo,
Veggcndo minar tanta fattura ;
E temerai sotto l' irato Ciclo
Non aver loco più d' esser Natura ;
Ma che ritornin gli elementi tutti
In novo caos, e ne sian poi distrutti.
Ci sta fermo nel cor romperle sponde,
Che riterranno il mar ne! suo confine,
E piover lungo spazio ancor l' altre onde,
Che cingeran le stelle a noi vicine;
Si che ogni parte del terreo s’ affondo ;
Nè pur il largo pian, le valli chine.
Ma gli alti monti ancor, e ciascun' alpe,
Caucaso, Pindo, Olimpo, Aliante e Calpe.
Cresccran Tonde, enonpurnaveopon-
Non avrà loco più per far passaggio : [te
Non pur non ila città, che l’alta fronte
Non chini, e non si faccia ermo selvaggio :
Ma là dove useran sull’ ale pronte
Le colombe occupar un orno, o un faggio,
Staranno i pesci, c per P acquoso dorso
Le damme natcran veloci al corso.
Tra il Nolo e l'Aquilon,l’Ortoe l’Occaso,
Al discoprir della guazzosa arena,
Con picciola famiglia un sol rimavo
Fia, che ristori il voto mondo appena :
Ma che prò? non ancor fia disuaso
L'uomo dal fabbricar macchina piena
1)' error, onde di novo ardito invano
Provochi noi con scellerata mano.
Perderan le lor rupi antiche i monti ,
Adeguerai} gii antichi apici al piano,
E furassi empia torre, che sormonti
All’ alte nebbie con T orgoglio umano,
Cosi credendo, quando anco n’ adonti
Con nove Ingiurie, all'acque esser sovrano,
Sempre die vindice ira il cor ne mova
D'acque in terra mandar procella nova.
Quasi manchino a noi folgori c faci
Da far al mondo con gl’ lnccndj guerra
Per lo scempio di questi animi audad ,
Il cui peccar nessun termine serra.
Quando mancasser pur tanti vivaci
Fonti da far maggior diluvio in terra :
Quasi chi il mondo avrà di nulla fatto,
Noi possa nulla far anco ad un tratto.
Ma fia del fallo lor minor lo sdegno
Nostro, onde resti n flagellati e domi ;
Confonderemo il lor folle disegno
Col far, che usin tra lorvarj idiomi :
Col far sì, che ciascun di proprio ingegno
Chiami le cose c loro imponga noini :
E non intendan , c non aleno intesi ,
E si spartano in lingue ed in paesi.
Equindi avran principio Armeni, Persi,
Greci, Frigi, Latini, Arabi e Sciti;
E fieno in genti e nazlon dispersi
Della terra e del mar per tutti i liti :
E saranno tra lor tutti diversi
1 lor linguaggi , le lor leggi e i riti :
Tesseran altri 1 legni , ed a cercare
Se n' andran lo divise isole in mare.
Tant’oltrcaleuni andran per Tacque im-
A fabbricar le lor patrie remote, [mense
Che fra terra non fia chi di lor penso:
E saran genti a tutte T altre ignote :
E miraeoi parrà, che navi estense
Dopo gran giro dell’ eterne rote
Per lo largo Oceano abbiano ardire
Quasi in un altro mondo Irle a scoprire;
Qui giunto quasi ornai tacer volesse,
Fcrmossi un poco il Fadtor del mondo :
E la ministra sua la faccia eresse,
E replicò con un sospir profondo :
Poi che gli uomini avran lor sedi messe
Tra’ suoi confini , avrò lo mai giocondo
Stato, Signor; e rimarranno spenti
Ne’ propri alberghi i lor folli ardimenti?
A te, figlia, non lice acquetar mai,
Diss’ egli , il zelo ardente e il duol materno
In terra, e quasi peregrin sarai.
Che molto paté per paese esterno :
I già divisi popoli vedrai
Garrir ancora con furor alterno :
Nè contenti del suo, fard ciascuno
Al regno del vicino oste importuno.
Un tiranno uso di passar ne’ fini
Di chi fia meno armato o nien robusto,
E di mille città, mille domini
Far un imperio smisurato, ingiusto.
Far un monarca, die l' Occaso Inchine,
Inchini T Orto, e il Ciel freddo e T adusto
Che confini col Sol , sempre che ’l chiame
Fortuna, avrà le man pronte e le brame.
E fian dì questi rei tutti conforti ,
Tutte instigaxlan , tutti maneggi ,
Che or son con I* arme impetuosi sorti
Per por nell’ Aquilone alti I lor seggi s
Vedi ornai , vedi con che modi torli
Quassù nel puro Ciel s' erri e vaneggi :
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188 POEMI
E vedi per T altrui menzogne quale
Fia laggiù in terra il popolo mortale.
Tante, a cui servirà per senno il senso,
Fiere, c che albergo per lo selve avranno :
Tanti mostri , che fian nel mare immenso,
Tanti augei, clic per l’aria errando andran-
no :
Le piante e gli elementi e il Cielo accenso
Di vaghi lumi c le stagioni c l’anno:
La pioggia c i venti e il rugiadoso umore
Lodcran tutti il lor sommo Fattore,
E questi due, clic in seno un vivo lume
Avranno impresso per restar beati
Di noi mirando l' infinito Nume,
Volgerai! quinci il guardo, c saran dati
A tentar dura impresa, aspro costume,
Sciocchi a sperar ed a volere ingrati :
Sciocchi a sperar quel, eh' esser mai non
puote ,
Ingrati a chi gli ornò di tanta dote, [gno
L’ un del mondo occupar presume ii re-
in sè medesimi altier non men che avaro:
L’altro per più saper corrà dei legno
Fuor dolce e dentro mortalmente amaro :
Che s* oserai! bramar senza ritegno
Quel, che a ciascun le sue leggi vietaro,
Qual meraviglia poi se Ha diviso
Questi dal Ciel , c quei dal Paradiso ?
Qual meraviglia poi, se vindice ira
La nostra figlia, la Giustizia eterna
Movra nel centro giù di quanto aggira
Dentro di s è la rcglon superna,
A fondar, a serrar la prigion dira ,
L'oscuro abisso della cava inforna.
Dove lungi da noi rcstin sommersi
Questi al nostro voler animi avversi?
Questi, questi, che in terra e in Ciel più
Fian di tuU*altri,anzi pur sono il fine^degni
Di tutte le belle opre c gran disegni,
A cui s’ indrizzan queste man divine.
Dall’alma luce a tenebrosi regni,
Da stato eccelso a misere ruinc,
Da dolce libertadc a fier servaggio,
Chè tale è il rnerto lor, faccian passaggio.
Quivi l’un nel suo trono altero seggia.
Quivi sè stesso e sua bellade ammiri,
E quivi l’altro, quel che importi , veggia
Voler, sapendo, un Dio quasi apparire.
E pur l’ un si potea di questa reggia ,
L’altro del Paradiso il bel fruire
Fin che avesse piaciuto al nostro zelo
Dar anco a lui perpetuo albergo in Cielo.
Ma nè, figlia, però turbar la fronte,
SACRI.
Si che non serbi di letizia segno:
Chè se Giustizia ognor per punir Tonte,
Che ci si fanno, invoca il nostro sdegno ;
Pietade ancor dall’ altra parte ha pronte
Le lagrime c le preci, cd è ritegno
Alla giusta vendetta, c può non meno
Che la stessa Giustizia in questo seno.
Nacquer ambe ad un parto, e non dislcn-
I.' una dall' altra mai lungi i vestigi : [de
Ciascuna per la sua causa contende
Eloquente del par senza litigi :
Tempo verrà, che la IMetadc emende
Il futuro supplizio, ondo t’ affliggi:
Ed apra ai seme uman largo cammino.
Onde possa nel Ciel farsi divino.
Tempo verrà (dentro il tuo cor riponi
Questo ferino voler del nostro petto )
Che P eterna Pietà sè stessa doni
Al mondo errante, e vesta umano aspetto,
E per far che Giustizia a lui perdoni.
Unisca due nature in un soggetto,
Chè la divina ancor fia teco unita,
E farassi una età d’oro gradila.
Tu non intendi or ben questo mistero,
CIT eccedo il tuo poter, nè Li sgomenti :
Chè alla sublimità di tanto vero
Appena ascendon le celesti menti :
Di cui parte or s’ oppone al nostro impero.
Onde il futuro tuo danno argomenti :
Or attendi il lor caso, c gioirai.
Che risorger Tuoni possa, essi non mai.
A questo dir, a quest' ultime note.
Che uscir dal petto al Re dell’universo.
Natura serenò le belle gote
Dal timido pallor che v’era asperso.
E lieta attese poi, come si vote
Il Ciel dal nuovo popolo perverso
Fatto a Dio, fatto a lei, fatto alla pace
Del mondo ornai continuo oste pugnace.
Raccolte intanto mille schiere insieme
Rainboduo gli eniisperi, ove eran sparlc ,
L’angelico furor mormora e freme,
E s’ accende c dispone al fiero marie :
Già sotto il pondo raddoppiato geme
Il concavo del ciel per ogni parte.-
E le nascenti stelle erranti c fisse
Tinge por gran slupor pallido ecdissc.
1/ altere Insegne e tremolanti al vento
Dell’ eterno seren stendonsi in alto :
Vcstonsi l’arme ic beate genti
Splendide d’oro e di fregialo smalto:
E s’ affrettali I’ un T altro impazienti
Alia dimora del vicino assalto:
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m
ANGEl
Nè però s’arman tutti ad una guisa,
Nè tutti adorna la roedesma assisa.
Altri al tergo si cinge , altri alle piante ,
L’ale e l’ale tra lor sono diverse : [Mante
Altre verdi , altre azzurre, altre han sem-
D’oro ed altre d’argento, altre son perse :
Altre di stelle rilucenti , quante
Pura notte ebbe inai, veggonsi asperse : 'de
Sembrano altre il pavon , (piando egli stcn-
Sua rota, e contra il Sol mille occhi accen-
Millc varietà distinte in liste [de.
Vergato han altre di diverso raggio,
Da poter far stupir tutte le viste,
Che volesser tra lor scorger vantaggio :
Mille varietà confuse e miste
Dipinto in altre hanno un fiorito maggio.
Rose e viole, e giacinti e ligustri.
Che il rugiadoso Sol nascendo illustri.
Varie son l’ arme ancor, la lancia scuote
Altri, c co’ dardi alLri la palma impetra :
Con mazza , o con accetta altri percolo ,
Altri all’omero appende arco e faretra:
Volge altri un'aurea fromba in spesse rote,
E fa strider per l’ aria orrida pietra :
Adopran molti il foco, a tutti cade
Dall’ anche il fiero onor dell’ auree spade.
Gli elmi c gli scudi e i rilucenti arnesi
Fregian chiari crisoliti e smeraldi:
Vibrano raggi più che il Sole accesi
Rubin piropi cd adamanti saldi :
Tale dopo la state, allor che 1 mesi
Il maturo anno suol render men caldi.
Le grav i piante ingemma , imperla , inno*
Ricco giardin di cariata mostra, [sira
Ma le pietre, l’ ace iar, l’ oro, l’ argento ,
Le perle e l’ altre angeliche ricchezze
Non son quali in alcun basso elemento 1
L'umana industria più brami cd apprezzo:
Altra materia adina , altro ornamento
Ilan le belle arme in loro, altre fermezze :
Nascon nel Cielo e d‘ ogni grave vote.
Ritrai le appien lingua mortai non puole.
Nove duci e nove ordini di schiere
Slan per entrar nel bellicoso campo:
L’immensa luce il cicl lucido fere,
E reflessa arde in un continuo vampo :
Esce fuor tutte l’ altre alme guerriere
Con tutto il capo, e con più chiaro lampo
D'oro c di penne, onde lontan si scerna
Il General della miliziaactema.
Quale se follo sluol di laghi augelli
Opposto al Sol vada scolendo l’ ale r
Splendono tutti variati e belli :
,EIDA.
Ma s’altera tra lor volando sale
L’aurea fenice, avanza questi c quelli.
Quasi anco al Sol , che la ralluma, eguale :
L* onoran gli altri , e sen’ adorna e invaga
Tutta l’orientai felice plaga.
Acciai’ non è l’ usbergo suo, nè fregio
Gli fa rubin, topazio, od adamante:
Ma gemme son del più stimato pregio
L’arme intere dal crin fin alle piante:
Ed egli eccelso di persona , egregio
Di gesti cd autorevol di sembiante.
Con la possente destra un’asta vibra;
La manca ha nello scudo aurata libra.
Questi dappoi che i suoi fratelli armati
Vide,cd a far l’aspra battaglia ardenti,
Salito in parte, ove da tutti i lati
Render dal volto suo gli scorse intenti ,
Poi che d’intorno un poco ebbe girati
Gii occhi con maestà benigni e lenti,
Col calce della lancia il suol percosse.
Trasse un sospiro, c tal parole mosse:
Può star, nienti divine, amata prole
Dell’ eterno Fattor, che in Gel si scorga
Fra l’ angeliche genti (oh strane fole!)
Chi con profano ardir contra Dio sorga?
Quanto sieno le doti altere c sole
Riposte in noi , chi fia, che non s’accorga ?
Or che ? forse c di più bramar ne lece
Lo scettro di chi noi di nulla fece?
Dianzi nulla eravamo; alta possanza,
Infallibil saper, amor immenso
Ne creò tal, che nulla altra sembianza
Più sembri Dio, quanto fia il mondo eslen-
Poteaci dar per nostra patria stanza ( so.
L’ inslabil aria , o l’ elemento denso ;
E diecci il sommo Gel ; nè corpi oscuri.
Ma Dei n’ ha fatti , od intelletti puri.
0 frati, cd è tra noi chi lo sconosca.
Mentre più brama ardito, empio presume?
Qual folta nebbia d’ignoranza adesca
Della nostra natura il vivo lume?
Qual invido maiorii dolce attosca.
Che in noi si stilla da perpetuo fiume?
Grande nequizia ben ; ma già non faccia
L’ infamia uni versai, quando si taccia.
Perchè appo Dio l’onor nostro non sce-
me,
Perch’ci dall’amor suo noi mai non sciolga ,
l)i nostra schiatta il tralignante seme
Di nostra propria man quinci si tolga:
Pace non fia , non fia concordia insieme ,
Ma tutto in odio il primo amor si volga:
E la fraterna rimembranza rada
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1 00 POEMI
Quinci c quindi dal cor nemica spada.
Contrastili Parme aH’arme, csian diverse
Tutte dell’ opre e dei voler le tempre:
Con ferro e foco sian le man converse
In cielo e in terra a novi oltraggi sempre :
La nemistà, che strada oggi s’aperse
A* nostri cor, nessuna età contempre :
Ma quanto ci daran le forze, duri
Perpetua guerra a’ secoli futuri.
Venga stagion , clic del Fattor eterno,
A maggior onta lor, dal cielo valchi
L* unica prole e fin dentro 1* inferno
L* empie reliquie ne debelli c calchi:
Or da noi s’ incominci il primo scherno,
Per noi sian spinti da* celesti palchi ;
A ciò s’aspiri, a ciò da noi s’attenda,
E poi quinci il futuro augurio prenda.
Questo Ciustizia vuol, questo richiede
L’obbligo nostro, c clic di lor anco era,
E quella riverenza . e quella fede ,
Che rupper essi , c noi serbammo intera :
L’utile anco concorre, e la mercede
Che vincendo da noi certa si spera :
Nostre le spoglie, e le ricchezze tutte
Saran , che fur per loro in Ciel costrutte.
Chedirò della gloria ? oli quanta pompa,
Oh che trionfo condurremo in Cielo!
0 frati, o frali; ornai nulla interrompa
I/cnta dimora il vostro innato zelo:
Nè che quella crudel schiera io non rompa
In voi mai nasca di temenza gelo:
Sarà facil l' impresa , e quando sia
Diffidi anco, ella è dovuta e pia.
Ma facile sarà, non vi spaienti.
Che fosser dianzi i più famosi e belli,
I)’ ogni virtù i più ricchi , i più eccellenti ;
Chè ogni grazia lor toglie esser ribelli:
Le stesse lor superbie ed ardimenti
Senza consiglio gli avran fatti imbelli:
Da Dio vengon le grazie , e sol l’ impetra
Chi si rivolge in lui, non chi s'arretra.
L’alta virtù, che dal fecondo seno
Di Dio cadeva in lor dianzi si grande,
(.adora tutta in noi, citò da quel pieno
Fonte di grazie invan nulla si spande :
Il divino favor mai non vien meno
A dii gli apre la via , quand’egli il mando :
Fogliando or noi, ch’ossi raccor noi sanno,
C vorrà nostro prò farsi il lor danno.
Sentir ornai, sentir, 6 frati, parmi
Dalla perdita loro il mio vantaggio:
Io mi sento aggrandir, sento allumarmi
Da più lucente ed abbondante raggio :
SACRI.
Ma che? noi preso abbiamo in man quest’
armi
Per vendicar di Dìo Io stesso oltraggio :
La causa è sua, noi suoi campioni , Il fine
Qual esser può , se non le ior ruine ?
Deh ! non vedete ornai come s' adombra
w II ciel di notte tenebrosa orrenda?
Non vedete di Dio la destra ingombra ,
Quanti ornai di lassù folgori accenda?
Oppur del primo caos la faccia e l’ ombra
Di novo per lo mondo ornai non scenda.
Se tanto ardir, se tanto orgoglio spira,
Cile lo stesso Fattor provochi ad ira?
Nè per ciò già v’allctto, o vi lusingo,
Che di temenza in voi scorga alcun segno :
Pur troppo ornai d’ entrar nel fiero arringo
Arde e di freno ha d’uopo il vostro sdegno:
Ma per mostrar clic anch’io pronto m’ac-
cingo ,
E con voi primo all’ alta impresa regno.
Io vegno con voi primo, e questo petto
Vuo* che sia primo agli avversari obbictto.
Il primo incontro, il più feroce orgoglio.
Con che a ferir verrà l’oslil masnada.
Tutto in me solo a sostener mi foglio ;
Qui si rintuzzi , e qui si spezzi e cada :
Esser al corso loro intoppo e scoglio
Mi vanto a vostro schermo : e quanto bada
L’empio a por meco al paragon la mano ,
Tanto s’indugia alla vittoria invano.
Cosi dicendo il condottier prestante.
Che spinge e frena l’ immortai valore.
Arse dal volto delle genti sante
Della nova ira ior segno maggiore:
Gir vogliono e pugnar, c pria che canto
La tromba il segno, dar loco al furore:
Ardcvan prima, or sono incendio e foco.
Nè sè stessi capir ponno in un loco.
Quai feroci destrieri anzi le mosse.
Clio ad or ad or stanno aspettando il corso :
Zampa altri, altri nitrisce, altri le scosse
Chiome si spande per lo mobil dorso:
Brace son gli occhi, e nuvolose e rosse
Fiamme spirai le nari : il duro morso
Sona tra denti, e li ritiene appena.
Che non si avventili nella aperta arena.
Da tanto ardir, da cosi pronte “voglie
Ben certa il lor gran duce ornai presente
La futura vittoria, c pur non scioglie
D’altri pensieri ancor l’avida mente:
Tripartisce l’esercito, c raccoglie
Da nove schiere in tre tutta la gente :
Fa tre duci maggiori, ed ogni duca
Digi
ANGKLE1DA.
Vuol che tre schiere e tre duci conduca.
Regger all’ uno il destro corno assegna ,
Il manco all’ altro , e pongli in guisa d'ale :
li terzo ha la battaglia, c vuol che vegna
Questi a pugnar col confalon regale:
Egli di qua, di là passa cd insegna.
Prega, comanda, ed or agli altri eguale
In parte vien delle fatiche, ed opra
Di sua man anco , ove il bisogno scopra.
Ma clic bisogno n'ha celeste gente,
Ch’ opra senza intervallo e mai non erra?
Imaginlamol noi quale un possente.
Un valoroso eroe sovra la terra ,
Che mova campo con pietosa mente
Per la fè , per le leggi a giusta guerra :
Chò quel clic PAngcl fa tosto tra suol,
È per tempo c per gradi esempio a noi.
Fiammeggia dentro il confalon dipinto
Dio stesso, c tre comprende in un sembian-
A guisa di gran fabbro egli succinto [ te :
Quel ch'era nulla, e in nessun locoavantc,
Tosto 6i fa d’ oscura nulic tinto
Il mondo comparir sotto le piante;
Terra non è, non mar, non aria o foeo.
Ma passa in tulli (piatirò a poco a poco.
K da principio vau , nullo ed informe ,
Ma cosi nullo pur si chiude in seno
1 semi tulli, onde le varie forme
Uscir, eli’ han poscia rimborso pieno*.
Era come un pallon rozzo e deforme.
Privo d'ogni beltà, d’ogni sereno:
Era una raggirante ombra , una nebbia
Discorde in sò , si clic spartir si debbia.
Il grate c il leve, c il calido c l’algente,
E la molle materia era c la dura
Tutto un volume, c non avea presente
Effigie alcuna, ma l'avca futura:
Però clic liscia della divina Mente
A informarne ciascun miglior natura :
Questa natura era un amor, clic prese
Ciascun di propria aver stanza c paese.
Al grave riposar nel centro piacque,
E il terrcn duro e l'acqua instabil feline :
Dal leve, che volava in alto, nacque
l/aria : ma il più sottil foco ditenne : [que.
Più puro ora ancor quel che fc’ l'altro ac-
Chc contengono il ciel, che noi contenne :
Nel ciel nacquer le stelle c il Sol , che in-
torno
(lira, e distingue il tempo e mena il giorno.
Ecco, e si veggon già di vaghi augelli
Per Paria vota errar schiere gioconde:
Guizzar i pesci inargentati e snelli ,
191
E splcndcggiar dal cristallin dell’ onde :
L' ombrose valli e i colli aprici e belli
Farsi di varj fior, d' erbe c di fronde ;
Pascer greggi cd armenti , orride belve
Celarsi al fosco delle opache selve.
Prende l’ eterno Dio feraci zolle
D'alta virtute, e le maneggia c preme :
Fassi il novo terrei) tenace e molle
D’umorsanguigno,cvì s’ incarna insieme.
E il nobil animai indi s’ estolle
Primo progenitor dell’ uman seme :
Vive del divin fiato, c porta impressa
In sè del suo Faltor l'effigie stessa.
Di quest’ opre, le qual nel mondo parte
Erano, e parte si veniali facendo,
Il gran vessillo del coleste Marte
Di fulgid’ or tremava in alto ardendo :
Gilè a chi lo fe’ con sì mirabil arte
1! perfetto e il futuro ad un stringendo.
Tutto è presente, c innanzi agli occhi suoi
Sta fermo il tempo, e non ha prima o poi.
Fuor tulli i cieli c la materia tutta,
Sovra ogni altra opra eccelsa c pellegrina
La creatura angelica costrutta
La parlo tieu clic a Dio più s’ avvicina :
Ed una donna sconoscente c bruita.
Che dall' eterno ben parte e declina.
Tra quel popol felice entra e il seduce
A ribellar dal sempiterno Duce.
La donna in sè medesimi orrida, bieca
Di qua, di là susurra, e spira un fiato
Torbido sì, clic P Ange! anco accicca.
Clic tutto lume fu da Dio crealo :
Onde a propria virtute allier si reca
L’eccelso don che il suo Faltor gli ha dato :
E poi si vede, ancor che sì feroce.
Vinta cader sotto una santa croce.
A questa insegna fortunata c maglia,
Ove del mondo il gran lavor sì stampa,
11 difensor di Dio nella campagna.
Che d’altra luce che di Sole a\ vampa.
Raccoglie l'immortal sua gran compagna,
E contra P infcdcl turba P accampa : [da
E vuol clic questa segua, in questa appren-
L'ardir, il tempo, e il modo onde contenda.
E tutto a un tempo al Padre anco rivolto,
Che sol col cenno P universo regge ,
Or pregili , or lodi porge, c dal suo volto
Novo vigor accoglie , onde guerregge :
Signor, dic'ei , clic questo stuolo accolto
Miri a far suo voler della tua legge,
Snsticnlo or tu , che puoi , da te dipende ,
E che non cada esser tua grazia iu tende.
192 POEMI
Ben tentò quel fellon,che a te s’aggua-
Far questi ancor della nemica setta: (glia,
Ma chi fisa in le gli occhi , non abbaglia
Menzogna di gran don, che altri prometta :
Essi meco s'armar a pia battaglia,
E vengon pronti a far di te vendetta :
Eia faran; eh' esser non puon perdenti
In te sperando, in te restando intenti.
Non ò maggior di me : ciascun m’onori,
Dice i! superbo a' suoi seguaci infidi :
E di mille bestemmie e mille orrori
Fa il mondo risonar da tutti 1 lidi;
E questi servi tuoi da tutti i cori
Alzano al nome tuo soavi gridi :
Tu ferma di tue grazie in lor le tempre,
Perdi’ umili in tuo onor cantino sempre.
Si diran poi , clic da profondi , oscuri
Abissi questa luce alma traesti ,
E forma a’ torbidi clementi , e a' puri
Cieli , che in nessun loco erano, or vesti :
Ciò eh* è presente e ciò che ne’ futuri
Tempi avverrà, tu di tua man facesti :
Onde tu solo sei possente , c solo
Signor e solo Dio dal centro al polo.
Disse, c questi soavi ultimi accenti
Fur quasi a’ suoi fratelli un chiaro cenno
Di far udir gli angelici concenti
Concordi al dolce suon che i Cieli fenno :
I Cieli, quasi musici stromenti.
Le lodi incominciar, che a Dio si donno,
Col suon che fan le lor perpetue rote,
E v’ accoppiar poi gli Angeli le note, [za
Oh che note, oh che note, oh che dolcez-
Allor n'empì quella beata stanza!
Quanto più fisi nell’ eterna altezza
Di star quei santi spirti hanno in usanza
Di noi , che alletta sol mortai bassezza,
Tanto quell' armonia la nostra avanza :
Da Dio l’apprendonessi,enoidal mondo,
Tutto è questo turbato, e quid giocondo.
Tu facesti, diceano, e tu mantieni,
Signor, il mondo, e ciò che in lui si gira :
Tu gradisci gli umili , e i grandi affreni :
Somma è la tua pietà, tremenda l’ ira :
CANTO
Ma già non lungi udito hanno l’ ascolte
Dell’ avversarie corna il suono altero :
E veduto han le insegne in alto svolte
Spander caliginose un splendor nero :
Eli ammonite sou le schiere accolte
SACRI.
In tua man sono i folgori e i baleni :
Ne pari al tuo poter poter si mira:
Tu scuoti il basso centro, ed ogni estrema
Parte del cielo al tuo cospetto trema.
S’inchini dunque e ciò che dentro il clo-
E ciò che sovra il ciel dimora face, [lo.
Ciò che spedito di corporeo velo
In alto vola, e ciò che grave giace,
Al tuo gran nome, e con intenso zelo
Tutte le cose inAc rirerchin pace :
Che ogni altra speme falli, e puoi tu solo
Levarle in gioia, ed inchinarle in duolo.
Ma se tu puoi ciò che t’aggrada, e fai
Col tuo semplice dir tutto perfetto,
Deh! volgi l’occhio del tuo sdegno ornai
Dove ha questo fcllon l’animo eretto:
Che poggiar là, dove Invincibil stai
Si pensa, e pari aver regno e ricetto :
A te, sommo Fattor, sciocca fattura
S’agguaglia, e mal nò sè, nò te misura.
Qual potrà sorger mai monte dal piano,
Che gravi come di tua mano un dito?
Qual duro sotto alla tua grave mano
Potrà non rimaner conquisto e trito?
Oh! cieca cupidigia, oh sperar vano!
Come noi vede ancor? come ò si ardito,
Che stenda I' ale del suo folle orgoglio
Fin al tuo santo inacccssibil soglio?
Ma sol che l’ira tua si desti , e poco
Schermo avrà poi la dispettosa schiera,
Che di trovar nel tuo retaggio loco
Ribellando da te s’ attenta e spera :
Destisi , ornai si desti : e sarà un gioco
Breve il fiaccar la sua perfidia altera :
Destisi , ornai si desti : e come rota.
Senza intervallo alcun , li triti e scuota.
0 posisi anco, e sol che lieto spiri ,
Si come suoli , in noi destra fortuna.
Sgombreremo tosto questi santi giri
Della mala semenza che gl’ imprima :
Tue son queste arme, c tu. Signor, le giri
Immobil sempre, c senza noia alcuna :
A te pugniamo, e fi a della vittoria
Tutto nostro il sudor, c tua la gloria.
E CON DO.
A difender di Dio l'eterno impero.
Che tnovan tosto, e che di tutto il campo
Al nemico che vieti, facciano inciampo.
Nè vi fu indugio: ebber le trombe appena
Tempo di dar alla battaglia il segno,
ANGELEIDA.
193
Ch£ tutta fu la marziale arena
Piena d’arme, d' orror, d'odio e di sdegno.
Tal furor seco, e tal procella mena
Per l' agitalo umor del salso regno.
Quando si scioglion dall' eolio claustro
Dall'un lato Aquilon, dall’ altro l’Austro.
Ratto saria fuggito In mar Boote,
Se fosse stato allor nell' alte sfere.
Cacciando a forza le gelate rote.
Che ora si pigre son, per non vedere.
Con torvo sguardo e minacciose gote
Alzossi in mezzo ad ambedue le schiere
L’ empia Discordia, ed ordinò l’ assalto
Per non dover mai più salir tanto alto.
Il primo giorno ed ultimo, che il Cielo
Mirar potesse la crudcl, fu questo :
Allora a ricoprir di falso velo
Il volto, ed a mentir parole e gesto,
Allora ad arrotar l’ Iniquo telo,
E renderlo a due tagli acro e funesto.
Allora ad Inasprar mischie e contese ,
E ber dell’ altrui sangue avida apprese.
La Fede annata col miglior drappello,
Quasi Amazzone ardita, era alla fronte :
E contra lei col popolo ribello
L' empie squadre facea Megera pronte.
Ma l' arme strane, e lo spettacol fello
Chi verrà mai che degnamente conte ?
E i novi mostri , e le diverse forme,
Che vestiron quel di l’ inique torme?
Santo Nume divino. Amor, che spire
Voglia e sapere In noi , che mal non erra,
Forma tu il canto mio, tu il mio desire
Reggi , c da questo sen note disserra,
Che del celeste orror facciano udire
Con felice desilo l' istoria in terra :
Tu il sai , tu lo vedesti , e tu il mi detta
Chè I’ esempio da te solo s' aspetta.
Puro candor di maltutln sereno,
Allor che l' alba al più temprato maggio
Amoroso piacer versa dal seno,
Non cominciò mal di con si bel raggio,
Che allo splendor, al candido, che avieno
GII Angeli in si, potesse far paraggio,
Allor, che usciti dall' eccelsa mano
Di Dio pargoleggiar nel ciel sovrano.
Ma poi che troppo in si medesmi intenti
Conobber mal la lor bellezza altera,
E non furo a sperar dubbiosi o lenti
Quel sommo onor, che solo in Dio s'invera,
Tutte le membra lor già si lucenti
Notte coperse spaventosa e nera,
E mani , e pii divini , ed ale e volti
Furon diversamente in bruti volti.
Nottole e Gufi, e simili altri augelli
Armano a mille 1 pii d' unghia crudele :
E mille a guisa van di Vipistrelli
Solcando l' aria con alate vele :
Mille hanno adunco il becco ; e 1 guardi felli
Scmbran da' volti lor fosche candele :
Corvi e Mulacchie mille e mille Grifi
Fanno una schiera di sembianti schifi.
Ne fanno un’ altra I Satiri e i Silvani ,
E 1 Fauni , che natura hanno biforme :
1 volti hanno e le braccia e i busti umani ,
E I passi e i piè fanno di capra l' orme :
Sono i mostri del mar ancor più strani ,
Glauci e Tritoni uniti in grosse torme :
La barba e il crln sono alga ,e il petto e il ter-
Annano conche di scaglioso usbergo, [go
Vecchi marini , e smisurati Ceti
Orche e Pistri c Balene e nomi mille,
Che nel fondo del mar stanno secreti ,
E non lascian quassù l' onde tranquille :
Sirene , e mille poi Ninfe che a Teli
Corte formar di mostruose anelile ,
Che sovra sono vergini , e decresce
Doppia la parte inferlor in pesce.
Chi porria mai contar quanti d'Arpie
Fa brutti da veder L ingorda imago ?
0 quelli , che strisciavan per le vie
Con sembianti altri d' Idra, altri di Drago?
Chi degl’ immensi augei le membra rie,
Che infamar poscia lo Stimfalio lago?
E chi la turba , che si copre c cinge
Dell’ effigie di Gorgone, o di Sfinge ?
Cerberi mille più che pece neri
Mandano in aria tre latrati a un tratto :
Più son le Sciite, che ringhiosi e fieri
Volti di can dell’ anguinaglie han fatto :
Infiniti ancor quei , che i Linci alteri ,
E 1 crudi Licaonl han contraffatto :
Altrettante Chimere e Mlnotauri,
Un esercito fan soli i Centauri.
Otl , Efialti , Enceladi e Tifei
Con tutto il petto cscon degli altri fora :
E con lor i Corioni e gli Ante!
E 1 Politemi sonai armati ancora;
E tutti i mostri degli antichi Dei ,
Che deformi nel ciel feronsi allora,
Iside e Anubi , quali ora nell’ atra
Valle infernai l’ un mugge, c l’altro latra.
Cosi veggiam sotto il ceruleo tetto
Del cavo ciel l’ oscure nebbie sparse
Dall' umido Austro con diverso aspetto
1 DI mostri in mille imagini formane;
9
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,<H POEMI
I.eon, Tigri, Cinghiali ni uman petto
Col dorso e con le groppe accomodane,
Giganti stender gli omeri eminenti ,
E finir poi ne’ piò torti Serpenti.
Di questi in qual più strana effigie e vesta
Si trasformò ciascuno in quei momento.
In tale ancor per più suo obbrobrio resta,
E dai manto ha conforme anco elemento:
Altri in fiumc,altri in monte, altri in foresta
Alberga, ed altri tra il marino armento :
Gran parte in aria, e dove ognun s'appiatta
A ooccr ivi , ivi a frodar s' adatta.
Ivi ì tempi , ivi i punti , ed ivi attende
L' occaslon : nè pur passar a voto
Una ne lassa mai , tutte le prende :
Lo sguardo a tutte tien desto ed immoto ;
Trappole mille , e mille lacci tende
Al folle, al saggio, al valido, all'egroto :
Nè v’ bari li re più che la plebe oscura.
Tra l’ arme, e l’ or condizlon secura.
Se lingue cento c cento bocche avessi ,
Voce di ferro ed indefessa lena ,
Non saria che del terzo ancor potessi
Dei falsi Angeli dir le forme appena :
Nè In quanti modi agli elementi stessi
Fanno ingiuria sovente, ove non frena
Gli accesi animi lor somma pictade.
Che ripone a' fratelli in man le spade.
Gradi, bidenti e rugginose scuri.
Adunche falci e fessi pini ardenti.
Strali di tasso velenosi e duri ,
Nodi (T acciaio c sferze di serpenti ,
E scudi ed elmi affumicati, oscuri.
Variano l’ arme dell’ orribil genti ••
Vomita» altri ancor, si come Caco,
D1 acceso fumo in aria ondoso laco.
Di salnitro e di zolfo oscura polve
Chiude altri in ferro cavo, e poi la tocca
Dietro col foco, e in foco la risolve ,
Onde fragoso tuon subito scocca:
Scocca c lampeggia, ed una palla volvc.
Al cui scontro ogni duro arde e trabocca :
Crude! saetta, clic Imitar s’attenta
L’arme, che il sommo Dio dal ciclo avventa.
L’ Angelo rio, quando a concorrer sorse
DI saper, di bellezza e di possanza
Con l’ eterno Fattor, perchè s’accorse [za.
Quell' arme non aver, che ogni arme avan-
L’ empio ordigno a compor l'animo torse.
Che ferir può del folgore a sembianza :
E con questo a’ di nostri orrido in terra
Tiranno, arma di folgori ogni guerra.
Queste faccie or si strane, c che sì beile
SACRI.
Uscirmi prima dalle man paterne ,
Empite avean lor legion ribelle [ne,
D’ altre forze anco, ed’ altre squadre ester-
S’ esterne pur chiamar si ponno quelle
Ch’ una stanza han con lor nell' ombre
averne :
Nacquero allor, clic contra Dio si volse
L’ Angelo, e testo seco egli le accolse.
Le accolse, e le ebbe care, e da quel gior-
K.sse forza ed onor prcser da lui : [no
Ed ci , poi ebe dal del cadde con scorno,
E fece dopo sè cader altrui ,
Variamente le sparte, e manda attorno
Fide ministre de’ precetti sui ,
Anzi soo sente, ad infestar il mondo ;
Ne gode lutto il Tartaro profondo.
Attonito rimase il Ciel , che se erse
Nel suo sereno a guerreggiar condotte
Le sconosciute plebi, e le perverse
Arme de' figli dell' oscura Notte :
Menzogne v' eran d’ abito diverse ,
Falsi Spergiuri ed Impromesse rode :
Indi il conscio Rancor, indi di dure
Spine trafitte eran l'ultrlci Cure.
Quinci in fretta l' Audacia.equindi alenta
l'asso venian mille Paure smorte :
L’ iniqua Fraude unita ai Tradimento
Con grossa schiera di Lusinghe torte.
Il furto, che cammina a lume spento,
E la Rapina sua dolce consorte :
E il vindice Odio, l’ Ira e il Furor stolto,
E sanguinoso T Omicidio in volto.
Prodighe voglie, e poi Tristizia a lato,
L’ Avarizia del suo sempre digiuna :
L’ Invidia, che P altrui felice stato
Mira con bieco sguardo e faccia bruna :
Tien sovra tutte l’ altre il capo alzato
L’empia Superbia, e non ne degna alcuna :
Tiranno Dominar, che il volgo preme,
E poi l'Ozio e l’ Amor vengono insieme.
Vacilla sovra i piè I' Ebrezza grave
Col lauto ouor di copiosa mensa :
Tarda il Sospetto ad ogni passo, e pare :
Va senza fren 1' Ostinazione acccnsa :
Indi tra varie Querimonie prave
l a Lite viene, c la Calunnia esterna :
E il Ciel spregiando c Dio, mille mine
Dietro si traggo l' Impietade al fine.
T ra questi e quelli empio gigante ed aito
Con cento braccia il crudel Duca sorge :
Coperto il petto di ferrigno smalto
Cinquanta scudi a sua difesa porge :
Arme cinquanta avventa al fiero assalto.
ANGELEIDA. 195
Ed in Ini solo nn gran misto si scorge
Di tutto il reo, di tutto il truce ; e solo
Mostro è de’ mostri del suo vario stuolo.
Qual sovra gli altri alpestro monte stassi
Col dorso pien di Tarlati orrori ,
Alte querele , antri cari , acuti massi ,
Aspri torrenti ed agghiacciati umori.
Torti sentieri , dirocciati passi ,
Ombre , sparenti e faticosi errori ,
Feroci belve , e dove salì c scendi ,
Silenzio rotto da muggiti orrendi.
Sovra esso il nero e smisurato busto
Sette teste il crudel corona d’ auro,
Ma l’ auro splende d' un colore adusto.
Quale il volto nilrlam del fosco Mauro :
GII cade poi dal dcretan del fusto
Infln al suolo gran coda di tauro,
Che. il terzo dietro strascinando tragga
De’ lumi, ond'ardon le celesti piagge.
Da sette spechi delle bocche spira
Lezzo crudel , che densa bava attosca :
Vibran quattordici occhi orribll ira
Dal fiero ciglio, che io sguardo imbosca :
Per le livide guance erra e s’ aggira
Un sdegnoso sembiante, un' aria fosca.
Che alberga in mezzo la Mestizia : egli cm-
Di serpentino erta Torride tempie, [pie
Sovra gli omeri poi di cento braccia.
Io non so come , escono vele cento.
Con le qua! svolazzando in alto caccia
Del gran corpo ogni grave a suo talento :
Nè mai si mosse per l' ondosa faccia
Del mar si fiero e tempestoso vento,
Che degno sia di pareggiarsi a quello,
Che movon l' ale di cotanto augello.
Subita notte, orribile procella,
Pragor, che senza pausa immenso geme,
Non pur passando ogni seren rappeila,
Ma si dal mezzo, e dalle parti estreme
L’asse, che il ciel sostien, scuote e flagella,
Che 11 mondo tutto una ruina teme,
Nè ben si può su le gravate piante,
E curvo il tergo sostenere Atlante.
Questi sorgendo altier di mezzo il campo,
Ch’eletto attende le divine risse.
Di due volte sette occhi il torvo lampo
Girando intorno, alto silenzio indisse :
Indi, o gagliardo stuol, che meco accampo
Di vostra voglia a tanta impresa, disse,
E col suon sparse dal profondo seno
L’ inclusa rabbia e l' immorta, veleno.
Stendete quinci gli occhi Intorno, e
quanto
Mirar si può, ehi cl si mira il tutto,
Pugnando nostro fia : l'onore, il vanto
Di si nobil vittoria e il prendo e il frutto
Sari non pur li Cleti, clic s’ alza tanto.
Ove s' è Dio per più poter ridutto.
Ma quanto dentro anco di lui si serra :
Il Mondo è fin della presente guerra.
Immaginate per l'etì future
Qual sarò questo mondo allor che tutte
Piene avrà le sue debile misure,
E fian tutte le forme in lui costrutte :
E dei gran regno il gran desir v’ indure
L’ alme, e v’ alletti a cosi degne latte :
Mirate quanto sorge, e quanto avanza
Il gran contrasto la maggior speranza.
Vincendo, della terra altri , e del mare
Altri, ed altri dell' aria avrà l' impero :
Scioglier contrari venti a nove gare,
E far di pianto l’ Oceano altero i
D’ oscure nebbie il chiaro di velare,
E turbar questo, e quell’ altro omispero
Sarò nostro potere, e con tempeste
Far le campagne sconsolate e meste :
Co' folgori ruine, e co' baleni
Portar al mondo spaventosi affanni :
Della Luna e del Sol regger i freni ,
Guidar a nostro grado 1 mesi e gli anni ,
Da’ pianeti influir ploggie e sereni.
Fame, mortali U, guerre, tiranni :
Sollevar nove leggi , c cangiar stati ,
E del nostro voler far sorte e fati, [voti,
Poco è quel, che io prometto ; 1 preghi, 1
Le statue, I tempj, e gli odorati incensi
De' supplicanti popoli devoti
Nostri saranno, e gli altri doni immensi :
A noi tcrran gli altari 1 sacerdoti
Di sacro foco eternamente acccnsi :
Godremo alfin da questa eccelsa sede
Gran parte dell' onor, che asè Dio chiede.
L’ordine volgi; se viltà, se poco
Ardir ne lascia rimaner pur vinti.
Da queste piagge, riguardcvol loco.
Nostra patria nalla, vcrrem sospinti,
Ove carceri ilan d’ eterno foco,
D' eterno gelo orribilmente cinti s
Cosi minaccia quell’ altier, che solo
Vuol imperai dall'uno all'altro polo.
Fermate i cori; e quando in voi non possa
Del grande acquisto la sorgente speme.
Possa il timor della vicina scossa.
Che da si alto ne rlvolvc c preme t
Convieo , che qui nostra prodezza mossa
Dall' una sia delle due parti estreme :
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19C . POEMI
Qui pari è la bilancia, e darci ardire
Tanto deve il timor, quanto 11 desire.
Ma sia lungi da me, che io mai paventi
Scorger di tema in toì segno, ned ombra :
Vostra natura, o valorose genti,
0 frati miei, d’ ogni bassezza è sgombra :
Nè perchè gran contrasto s' appresemi ,
Gran dubbio, gran periglio incespa od om-
Armati meco da principio sete, [bra :
Nè ceder, nè pentirvi unqua sapete.
Tentato abbiamo : li pentimento tetro,
Perchè fatto non sia, nulla ne giova :
Slam posti in campo, il ritornar addietro
Fora un dannoso sol perder la prova :
Ma nel seguir 11 cominciato metro
E speranza ed onor ampio si trova :
Ostinato voler, tenace sdegno
Ogni dur rompe, e questo è di voi degno.
Non conosce sè stessa, e non si stima
La schiera opposta a noi quanto ella vale :
Troppo pregia ella Dio, troppo il sublima,
A cui per poco potria farsi eguale :
Ma s* ella è avvezza di servire in prima.
Nè di sua dolce liberti le cale,
Qual prova mal si può sperar che faccia.
Quando ne vegga armati a faccia a faccia?
Tra lor s’avanza un, che lo scudo rota
Dipinto in mezzo di bilancia aurata :
Quasi conoscitor, cosi si nota,
Sovra noi tra le pene e le peccata :
La giovenlle e delicata gota
Di gemme porta per vaghezza armata :
Ma non sa quanto orror, non sa quanta ira
Dall' arme vlcn , che questa forza aggira.
Giovane molle, che si move, c piega
Del favor, che ’l suo Re gli face, al vento ;
Per contender con noi l' Insegne spiega,
Onde il furor si move c lo spavento :
Ma quei, che a sua devozione il lega,
E gli desta nel cor folle ardimento,
Volga a mirar lo nostre pugne il guardo,
E vegga, s’ha per sè campion gagliardo.
A mirare il duello in campo ci scenda,
Che tosto Sa tra' suoi seguaci e i mici :
0 se lassù riman, lassù comprenda,
Se noi siam degni esser chiamati Dei :
Disse, ed al fin della bestemmia orrenda,
Scotendo 11 crin di sette capi rei ,
Diede a Megera il temerario assunto
Di trar le schiere al bellicoso punto.
Mostro Infelice, c dell’ orribil seme
La più crudel del livido Acheronte;
Nel suo cor sempre la Mestizia geme,
SACRI.
Negli occhi suoi nascé del pianto il fonte :
L' ira dalla sua destra irata freme,
Il sacrilego Errar le spazia in fronte,
DI rei pensieri alla sinistra un tetro
Popolo, c poi mille ruine ha dietro.
Questa dal suo gran Re l’ordine tolto
Quel di di regger il certame insano,
Del serpentin capello il bosco folto,
Cile ’l lume le impcdla stender lontano,
Alzando si levò dal fiero volto,
Ed alle spalle il raggirò con mano ;
E rabbioso livor dal seno atroce
Versando sciolse l' indovina voce.
Tremendo Re, cui di ragion s'aspetta
Di quanto cape il cielo intero il regno;
E quando anco ragion ne sia disdetta ,
Daraltl nostra forza , e nostro sdegno,
Tua dignità da me non fia negletta ;
Io trarrò tosto i tuoi mandati a segno :
Nè potei tu di queste genti guida
Di me più pronta ritrovar, nè fida.
lomi sentoavvamparfin dentro il fondo
Del cor un implacabile desio
Di voltar tutto sotto sovra il mondo,
Nè lasciar orma in lui d’ allctto pio :
A te mi voto, e quando anco al gran pondo,
Che preso abbiam, sia frale il poter mio
(Cessi il sinistro augurio ’, io dico quando.
Io non t’ acquisti il cielo ora pugnando ;
Quando anco, che temer noi deggio, il
fine
Deli’ Impresa battaglia abbiamo avverso :
Quando dal ciclo al centro alte ruine
Tutto abbian questo popolo sommerso;
Non fia, nè vinta ancor, che alle divine
Leggi turbar non abbia il cor converso.
Tu m’avrai sempre e vincitrice e vinta,
Contra Dio, contra i suoi popoli accinta.
Non fia giammai , che questo sen ferace
Non sia di mille invenzioni, c modi
Atti a romper di Dio l’ eterna pace,
E il corso ritardar delle sue lodi :
Ove manca la forza, un cor vivace
S’ avanza con l’ ingegno, usa le frodi :
E l’arte ha la sua gloria : ingiuria e guerra
Puossi al Ciel fare ancor dall’ umil Terra.
Sorgerà ( e sorga pur ) t'uman legnaggio ,
Che Dio vuol far di queste stanze erede s
Io farò si, che a te renda l’ omaggio,
Che Dio solo ottener iman si crede :
L’ onor, che a lui farà, trarrò ad oltraggio
Con falsi riti , che opporrò alla fede :
E tra gl’ immoiui sacrifici avari
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ANGELEIDA.
Farò di sangue umano ergersi altari.
Saprò, saprò scdur gli uomini frali ,
Mentir sembiante, c seminar errori ,
Che possan far infin i bruti eguali
A Dio nei modo de' celesti onori :
L’arme a Marte, a Mercurio darò I1 ali,
L'arti a Minerva, a Venere gli amori,
Perchè li preghi il mondo, c stimi Dei;
E saran velo degl' inganni mici.
Saprò falsar scritture, e torcer sensi,
E menzogne ammantar, che scmbrin vero :
Distender tra il scren nuvoli densi ,
E il nuvoloso far pari al sincero :
Non pensi Dio da questa man, non pensi
Tranquillo mai del cielo aver l' impero :
Non pensi mai di là chinar la faccia,
E cosa non veder, che gli dispiaccia.
Vedrà per tutto errar genti superbe
D’ odio segnate, c di disdegno in fronte :
A far del clvil sangue immonde l'crbe
Voglie, e mani vedrà gagliarde e pronte :
Non esser chi la fè nascosa serbe
In sen dalle comuni ingiurie ed onte :
Scapigliata la misera c sollnga
Ogni loco temer, che altezza finga.
Il fratello al frate! nemico, al padre
Borente i propri figli esser molesti.
Vietali amori, e voglie oscene ed adrc,
Letti di stupri sordidi e d’ incesti ,
Notturni passi, e man rapaci e ladre ,
Finte parole, Insidiosi gesti,
Larghe promesse, e tribunali avari,
E d’ occulto venen conviti amari.
Fa ch’egli stesso colaggiù discenda,
E scorra, e vaghi per lo mondo, e prove
Se modo avrà da poter farne emenda ,
E tra gli uomini Indur sembianze nove :
Non fia ned el sccur si, che io non stenda
In lui stesso 11 comttn furor, c trovc
Possenti modi, invitti inganni, ed arte
Da ritener per noi la maggior parte.
Ogni forza, ogn’industria.ogni arte tenti,
Insegni, persuada, astringa, allctti:
Quand'anco, clic io noi credo, ei sol diventi
Pugnando or Re degli stellati tetti,
Non farà mai, che delle umane menti
Nostre l’opre non siati, nostri gli a (Tetti :
Noi le terre averem, s’egli arrà il cielo;
Fia nostro il sodo, c suo l'astratto, c il velo.
Ma clic divido (oh di me stessa indegno
Pensier • j se il tutto aver per forza deggio?
Del eie! , del cicl il principato e il regno
Combatter or si deve: a che patteggio?
19T
Fia tempo al rimanente : a questo segno,
0 mie possenti squadre, a questo seggio
Da noi s'aspiri : e chi fia, che cominci
Meco, e s’avanzi al primo incontro quinci ?
Disse, e d’ un suon di mille corna roco
Muggir della battaglia il segno fece :
E stridendo avventò l’asta, che foco
Acceso In cima avea di nera pece :
AlzossI il fumo, e per gran spazio il loco,
Dove venne a cader, tinse ed infece,
E ritardò con nuvoloso inciampo
Opposto in mezzo e l’ uno e l’altro campo.
Ma fra tanto il gran Re, che regge solo
Il mondo, e il fece, con pietoso zelo
A' suol fedeli dal superno polo
Rivolse il guardo, c il formidabil telo
Crollando disse : 0 mio diletto stuolo ,
Debiti sempre cittadini ai Cielo,
Ite , movete l’arme : ecco ornai quanto
Spera de’ fralei vostri il fiero vanto.
Ecco ornai quanto popolo,c quai forme
Han congiurato alle nostre onte insieme i
ite, movete l’arme, e non pur Torme
llestin quassù di sì malvagio seme:
Su su tosto s’emendl , e si riforme
li Ciel , che del ior lezzo infetto geme :
Io sarò vosco, e nelle sedie vote
Riporrò miglior alme a me devote.
1 ra il seme uman io sceglierò tante alme
Delle più pure ed innocenti e belle,
Che sciolte, e poi con le terrene salme,
Abbian di novo a popolar le stelle,
Quanti gli Angeli or son, che nelle palme
Levate han contra noi l’ armo ribelle.
Questa sentenza al perditori affisso ,
E Ior fia patria il tenebroso abisso.
Disse , ed al fin delle parole sante
T ulto il Ciel balenò , tutto si scosse :
E tutto a un tempo il popol , che costante
Era rimaso in fè , ratto si mosse :
Rimbombò il suol, si fc’ l'aria tremante
Di mille trombe al suon, che la percosse :
Seguirò i gridi, e poi di strali ingombra
S’accese di splendor, si tinse d’ombra.
F aceano T ombra delle turbe nere
L'aste, ch'cran di ruggine cosperse:
Lo splendor quelle delle sante schiere,
Ch'eran di foco lampeggianti e terse:
Quale allor quando il Sol di state fere
Le dense nebbie , che gli stanno avverse.
Tra notte e giorno in un misto barlume
S' accende il fosco, e vi s’ infosca II lume.
0 quale sovra noi vola la notte
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m POEMI
Cinta di spaventose aite tenèbre,
E le tenebre son spezzate e rotte
Da chiari lampi di Caccile crebre,
Quando sen va la plebe in lunghe erotte
Al tempio , che gran festa orni e celebre :
Tale (se fargli alcun pareggio lece)
il gran certame fu , che In del si fece.
Confusi e misti in un mille rumori [sa,
Fanno un rumor, che ogni gran tuono avan-
Lieti gridi e dogliosi alti fragori
D’aste spezzate nell’orribil danza,
E di trombe e di timpani sonori
Carmi , che l’arme han di guidare usanza ,
Fanno un bombo comune : ed impediti
Gli uni dagli altri ogoor son meno uditi.
Forse allor quando all' ultimo giudizio
Cbiameran Palme le celesti trombe,
Fia ebe senza mai far breve Interstizio,
Con almi! tuon la terra, e il mar rito bombe :
Usciranno altri al premio, altri al supplizio
I corpi fuor delle spezzate tombe t
Introneranno i lieti canti c 1 lutti
Dal ciclo ai cculro gli elementi tutti.
Ma miracolo par forse , che pure
Del elei sostanze e spiritali vite
Dal grave della terra, e dalle dure
Materie io tutto libere e spedite ,
Facciali conformi effetti alle nature.
Che ban le terrene membra a' sensi unite :
Facciali rumori , avventiu arme , e voci
Formili ora dolenti, ed or ferod:
Ma s’ è chi mira al rauco tuon di Giove ,
Al fiero Borea , allo spirante Noto :
S’è chi rimembra con qual forza move
Dalie chiuse caverne il terremoto.
Che lievi corpi , c senza denso prove
Immense fanno, e d’incredibil moto.
Pensi ancor, quanto avanzino le genti
Dei dei lutto il poter degli elementi.
Le quali anco eran tante e si ristrette
Cosi dall'un, come dall'altro stuolo,
Cho le faci e le pietre c le saette ,
Che per l’alto venian stridendo a volo,
Comunque spinte fossero e dirette.
Non avean loco da cader nel suolo;
Tutte o gemer faccaoo i corpi ignudi,
0 risonar i fini cimi e gli scudi.
Nessun più le migliala esalti e vante,
Che mal gii preser centra Grecia il corso,
Quando Serse , non pur tutto il Levante ,
Ma quasi il mondo potè trarsi al dorso ;
Che terra e mar coprì sotto le piante,
1 gran fiumi asciugò con lungo sorso ,
SACRI.
E con larga ombra di volanti dardi
Tolse il poter al Sol mandar gii sguardi.
Quanto piò del terreno, infima parte.
Che quasi punto in mezzo il cerchio giace.
Cape il sublime Ciel , che in ogni parte
Gira, e coperchio a tutto il mondo face;
Tanto maggior fu da ciascuna parte
Degli Angeli lassù io stilo! pugnace
Di quanti fama ne fingesse unquanco
Cintosi aver quaggiù d'usberghi il fianco.
Duro il principio, orribil ia procella
Dell’arme fu, die a ferir van sui venta:
Ma di Trombe e di dardi e di quadretta
Convlen che cessi ogni uso in un momento;
Chè II gran Duce degli Angeli rappclia
Già la battaglia a maggior prova intento,
E col suo maggior sforzo unito c stretta
Va neU’avvcrse squadre a dar di petto,
E grida : Ecco, o fratelli, eccov i al punto.
Che voi tanto bramaste : eccovi a fronte
L’ orgoglioso nemico : il tempo è giunto
D’aver gagliardo il cor.le destre pronte:
In voi sta di reprimere l’assunto
Di questi rei , uè più patir che monte :
Ite, rompete con feroce scontro
L'ostii furor, che già vi viene incontro.
Tempo è di rimembrar di cui voi sete
Nobil progenie, ed in qual patria nati.
A far di voi, del Ciel, del Padre avete
Opere degne , e per dò sete armati :
Si contende de’ deli, e se vincete
Vostri saran, per voi furon creati:
Gli arditi in man di Dio sono, e ventura
Infonde in ior; de' vili egli non cura.
Disse , c per la campagna a largo stese
Concgual passo il destro corno e il manco.
Che ncH'ardor deli' arme a far offese
Al fier nemico avessero per fianco;
E quel di mezzo , eh' egli a regger prese.
Tutto In un tempo fece mover anco,
E urtar per fronte nella turba oscura ,
Qual suol forte testuggine le mura.
Cosi ed in terra suol mandar avanti
Buon duce quei, die lian più lieve armatu-
Chc con veloce corso , e con volanti [ra.
Arme comincin la contesa dura :
Ed esso poi di cavalieri e fanti ,
Che grave usbergo adorna ed asseeura.
Ristringendo un squadron quasi in un
groppo
Correrà dar nell’avversario intoppo.
Quali alTentrar nel mar,che i Traci inoo-
Poteo forse mirar la nave d'Argo [da ,
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ANGELEIDA. ISO
Nemici scogli, c mobili sali’ onda
Franger corcando e l’uno e l'altro margo :
Spruzzava il mar dalla percossa sponda
Infin al cielo , ed Intronava a largo
D’Europa e d’Asia la paurosa riva
U fiero tuon, che ad or ad or n’ uscirà.
Qual rumor fora , se possibil fosse ,
Che andassero ad urtar fronte per fronte
Con le radici dalla terra smosse
L'un quinci, e l'altro quindi alpestre mon-
che a fatica da noi tengon rimosse [te ,
E dell' E1 veilo e del Tedesco Tonte,
Si come Adda e Tldn rider sorcnte
Brtar doppio furor della lor gente,
Tal esser debbe, anzi pur tanto eccede,
Quanto ognor dal divin l'umano è ritto,
Là nel gran campo dell’ eccelsa sede
Quel che uscio dall’ angelico conflitto.
Dall* un lato umiltà , ralor e lede ,
E dall'altro superbia , ira e despitto
Tra lor si gran pareggio un pezzo ferse ,
Che appena OTe il vantaggio ere si scerse.
Come dell’ aria per l'aperto regno,
Quando con Aqullon Noto contende ,
E con egual possanza ed cgual sdegno
L’un quinci d'altro quindi e s’alza e sten-
Cedcr non può, ma con egual ritegno [de,
Sospeso pende il mar, la nebbia pende ,
E di cui Ila >a palma in dubbio resta
La terra e 11 elei c la erudel tempesta :
Tale allor fu della celeste guerra
L’ostinato rigor, l’aspetto crudo :
L’un sovra T altro stuol folto si serra
Elmo ad elmo premendo, e scudo a scudo;
Cadono incise T armature a terra ,
E ne lascian lo spirto inerme e nudo :
Destano tronche Tale, e a mezzo 11 volo
Cadon le membra abbandonate al snolo.
Ma se ben da principio o parve , o forse
Fu del certame egual T Impeto duro ,
Mentre da tutti I lati si concorse
Con forze fresche ed animo secare;
Tosto l'egualità sparve, e si scorse
Gran disvantaggio tre lo stuolo impuro.
Poi che la miglior parte in tanta offesa
D’arme pur sempre offende, e resta illesa.
li danno è tutto dalla parte nera;
Ella sola riman piagata e stanca ,
E geme e ducisi , e pur come guerriera
Sosticn con l’ira la virtù, che manca:
Ecco e la gente, che distesa s'era
Dalla battaglia a man destra ed a manca ,
Tutta spedita ornai sovra le abbonda ,
E la preme e l’assedia e la circonda.
Veloce a volger come fiamma , senza
Lasciar , che prendan mai requie, nè fiato ,
Ora accostando II passo , ora partenza
Facendo, ed or da qnesto, or da quel lato
Diverse arme avventando , esperienza
Molta d’entrar fa il popolo beato :
Ed or con cenni , or con veraci effetti
Stringe I nemici , u’ mcn volgono i petti.
Si sospendono molti anco su Tale,
E stando in aria come augel che gira ,
Fan guerraaltr! conpietra, altri con strale,
Chè non ingannan mai T occhio, o la mira :
Altri avventano in giù sè stessi, quale
Falcon , che sotto T anitra rimira ,
E pcrcotcndo nel fratelli avverai
L'aste, molti ne fan cader riveraL
Ben contra questi ancor del negro stuolo
Sorgono molti, e per quell’ aria pura
Guizzar tentando, e sostener 11 volo
Fan d’ un alto torneo nova figura :
Gira, e dall'un per fin all’altro polo
Degli alali gucrrlcr la nebbia dura :
L’una tra l’altra gente entra e si mesce,
Ed alto suon lassù si spande e cresce.
Quale talor nella stagion novella
Allor che il verde alle campagne rende,
E solve il ghiaccio l’amorosa stella,
Doppio esercito d’api in aria ascende:
Stride d’intorno alla battaglia fella
L' aria , e tra T aie d’ or sfavilla e splende;
Aguzzano elle 1 rostri, e gran veleno
Versano , e grande ardir da picelo! seno.
Ma questi sfortunati , In cui non piove
Più come prima del favor sovrano :
Quasi palustri augelli, a cui non giovo
Le gravi membra mollo erger dai plano,
Stancansi tosto , c pigre all' alte prove
Quanto più monlan, fan Tale e la mano:
Sempre i destri fratelli ban sovra i dossi,
E caggion d’alto a piombo ognor percossi.
Caggtono spessi, qual grandine folta
Da folla nebbia in giù stride e ruina :
0 quai caggion le ghiande alcuna volta ,
Che scossa n'è la lor gran madre alpina:
Caggiono , e T aria ornai spedila e sciolta
Lasciano alla miglior parte divina :
Che lassù non avendo altra contesa
Volge*! , c face a quei di sotto offesa.
Cosi talor combatte a fronte a fronte
Forte città nel cominciar l’assalto
Con T inimico , che le scale monte ,
E si faccia veder armalo in alto :
500 POEMI
Ma poi che l’ha rispinto, ella face onte
A lui secure; e ferri e fochi d’alto,
E 1 merli interi anco gli avventa addosso :
Stride ripien di mille morti il fosso.
Ma tutto alfin lo stuol ,chc innanzi al volto
Sente un insulto del valor celeste ,
E due da' lati, c in aria un nuvol folto.
Che di mille arme fa dure tempeste ,
Comincia a non poter più star raccolto
Insieme, e non aver le man si preste:
Nè però mica dell’orgoglio spctra;
Ma nè resiste ben, nè ben s’arretra.
Qual torre antica , c gii d'altero aspetto
Gran tempo pria de’ suoi torrìerl vota ,
Fatta a vario furor di venti obbietto,
Che d' ogn' intorno la combatta e scuota ,
Resiste un pezzo , e poi dal piede al tetto
Comincia a non poter più stare Immota;
Cresce il tremor, ella più sempre inchina
A tutta rulnar quasi vicina.
Il vanto e l’ onta , e i dispettosi sdegni ,
Anzi la rabbia della turba Iniqua,
E la superbia più , che tutti i segni
Passa, e più s’alza quanto vicn più antiqua,
Puntelli quasi fur, furon sostegni,
Onde ancor che tremante, ancorché obli-
Pur si tenesse in piè sovra la possa : [qua
Ma chi le diede alfin l' ultima scossa ?
Avea Michel la sua battaglia stesa ,
E stesa a’ lati e l'una e l’altra torma
In guisa tal, che tutto il campo presa
D’una gran croce avea verace forma:
E comunque attendeva all’ alta impresa ,
Non uscia mai della prescritta norma :
Comunque si movoa larda o veloce,
La fronte , il tergo , i fianchi erano croce.
E s'occorrea dalla battaglia l'ale
Dividersi anco , avean pari sembiante :
Restava ogni ala ad una croce eguale,
Egual lo stuol di dietro c quel datante,
E per sè la battaglia era ancor tale
Con ogni parte delle genti sante:
Ristrette in un squadrone, o in più divise
Croci eran sempre alle medesme guise.
Ceda la greca pur falange c ceda
La legton del popolo di Marte,
Al cui valor fu quasi angusta preda
Del vinto mondo ogni remota parte :
Nessun gran mastro di milizia creda [arte,
Squadra formar per propria industria ed
Che alla sembianza della squadra arrivi ,
Ove pugnavan I celesti divi.
Da lor le stelle in cielo appreser forse
SACRI.
La positura lor far più possente, [se.
Quando in quadra figura e l’Austro e l’Or-
Ed ottengon del Sol l’Orto c’1 Ponente:
Quando vengono In retti angoli a porse ,
Onde una vera croce s'apprcsente,
Allor più forte esser l'Influsso pare,
Che da lor cade in aria , in terra , in mare.
Che più ? tanto il bell’ ordine che elesse
Michel dar alle schiere a Dio devote.
Fu caro al Cicl , che la sua forma impresse
Lì dove è il polo opposito a Boote :
Lì dove il polo antartico s'eresse,
Ritenncr quattro stelle al nostro ignote
Il grande esempio della croce ardente.
Onde schierassi l' Angelo vincente.
Quest'ordined’armar, questa sembianza
Dell’ angelico esercito, fu quella.
Che fé’ romper alfine ogni speranza
Della turba al gran Dio fatta ribella :
Cominciò fin allor l' empia arroganza
A perdere , a tremar solo a vedella :
Fu lor tutto l’ ardir fin da quel punto
Da un presago timor da’ cori emunto.
Ogn’ impeto, ogni sforzo, ogni tempesta.
Che sovra lor venia dal miglior campo ,
Sofferto meglio avrian , che dell’ infesta
Croce 11 continuo c spaventoso lampo:
Questa loro abbagliò le menti , questa
Ceder gli fece alfin la causa c ’l campo;
Come a’ di nostri ancor da questo segno
Fuggon perduti al tenebroso regno.
Ma l' empio duce , al cui feroce orgoglio
Tutti gli altri orgogliosi eran soggetti.
Agguagliando al gran sdegno il gran cordo-
l'rorompc in questi temerari detti : [gllo ,
Ite, cedete, o fiacchi animi; io voglio
Restar qui fermo, c quando il Ciel saetti
Tutto in me sol , nè v incitar, nè vinto,
Dal mio proposto mai verrò sospinto.
Ma voi , quasi vii turba , e che non cura
Pugnando mantener la patria sede.
Tinti di qual non so nova paura
Gii cominciate a ritirare il piede
Contrario mezzo al gran principio: oh aura
Megera! oli cruda Aletto! oh data fede
DI cacciar Dio dal suo sovrano albergo !
Quanto a volger ornai vi manca il tergo?
Oh vergogna ! oh dolor! e chi vi preme !
Questi , che vengon sovra noi si arditi ,
Vostri germaui son, tutti d’un seme
Con voi nel Cielo, ed in un punto usciti :
Che in lor cresca possanza, ed in voi sceme,
Da voi n’ è la cagion , che sbigottiti
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ANGELE1DA. 201
Non usate il comun valor natio ,
Ne por v’ increscc voi stessi in obblio.
Nè lieve è già vostra contesa : giace
Tra 1’ uno c l’altro esercito i! retaggio
Del Ciel per premio a cbi di voi più audace
Trarrà il lin della pugna a suo vantaggio.
Io per me , mai di noi lasciare in pace
A cbi meu priva.or fermo entro il coraggio:
Sarogli avverso ed ora e poscia e sempre,
N'è il mio volere ha dissolubil tempre.
Disse, e rotando cento braccia, scosse
Cinquanta scudi, ed altrettanti strali
Spinse per l’ aria c sventolando mosse
Le cento oscure tele anco deli’ ali :
Tal dopo il verno esce da cave fosse
fiero spinoso , e mille aspre e mortali
Saette vibra del selvoso tergo,
E si fa lande del suo proprio usbergo.
Il Demonio crudcl di novo rota
Le Gere braccia , e spande aste e quadretta
A mille a mille, e mai non lascia vota
La celeste aria di crudcl procella :
Per la rabbiosa faccia ondeggia e nota
Di rubicondo sdegno atra facoltà :
Sta nell'orrida fronte alto l'orgoglio.
Come in mar tempestoso alpestre scoglio.
Mail gran campion,che dell’eterno Padre
L'eccelso seggio a sostener si prese,
Poi eh' ebbe l’ arme delle sante squadre
DI qua , di là , dove eran d’ uopo , stese ,
All’ aite corna, all' empie prove, all'adre
Insegne, fuor tutti altri il guardo intese.
L'avversario di Dio conobbe, e sorse
Alto nell’arme immantcncnle , e corse.
Quanto il sostenitor del cielo Atlante,
Quanto della nostra Alpe il nudo monte ,
Quanto s’ al/a Appcnnln tra dure piante
Di corruscante gel cinto la fronte,
Tanto rapir fuor delle schiere sante
Giusta Ira , invitto ardir, e voglie pronte
Dell’ oltraggio dlvin l'ultor gagliardo:
Volsero tutti in lui l'immobil guardo.
Crollando l’ asta d’ oro eccelso ei passa,
E dangli larga strada ambe le genti:
Giunto poi tra’ nemici , altero lassa
La minor turba , c sdegna i men possenti :
A quella sola fòrmidabil massa ,
Che compone in un sol mille portenti,
Gli occhi c il passo distende, e voto pio,
Pregando, volge Intanto al sommo Dio.
La miglior causa e il mio giusto desirc
Ferir non lascin questa lancia invano :
E tu , Signor, clic giudice rimirc ,
Drizza e sostien la mia con la tua mano :
Fammi restar vincente, e delie dire
Spoglie d’ esto crudel, che furia insano,
Ti prometto Gnor con umll zelo
Nobil trofeo levarti in mezzo il cielo.
Disse , c cinquanta delle lande avverse ,
Che gli avventò in un tempo il mostro eru-
Sostcnne, rintuzzò, mandò disperse Ldo,
Con l'adamante del celeste scudo:
Indi ei la lancia d’ or spinse , e T immerse
Tra scudo e scudo a lui nel petto ignudo
Fin quasi a mezzo : alzò gemendo un suono
L'empio, a cui mal può pareggiare il tuono.
Ritira a sè l'asta e la man l'invitto
Camplon del Ciclo , e novo colpo segna,
E dove il segna il fa rimaner fitto ,
Nel petto pur, che adorar Dio non degna :
Rugge il fcllon di doppia piaga afflitto,
E mille prove in van tenta c disegna :
Cento man rota c le confonde insieme ,
E per troppo affrettar sè stesso preme.
L’asta, ebe il fere, orcon gli aduncliiarti-
Pcr rabbia prende, or col bavoso morso: [gli
E l’ unghie, e I denti vi rintuzza : i cigli
Travolge c i labbri, c lutto torce il dorso :
Immaginar possiam , che gli somigli
In atto tal leon ferito , od orso ,
Che non potendo al feritor gagliardo
L’ ultrice ira appressar, si rode il daruo.
Ma poi che per lo petto empio ed ingrate
Tre volte e quattro della belva vasta
L'Arcangelo gucrrier ebbe cacciato
Con forte man l'irreparabll asta,
Contra la qual , per non restar piagato ,
Semplice e nudo spirto esser non basta,
Seco a più stretta pugna anco Io strinse ,
E dall’aurea vagina il ferro spinse,
E gridò : Tradilor, mostro diverso,
Fatti di cento capi il petto onusto :
Fa , che le cento man per ogni verso
Dlvenlin mille al tuo talento ingiusto :
Di quante scelleraggini cosperso
Hai d’ ognintorno l’infelice busto,
Di tanti busti ti raddoppia e gira
Teco ogni forma di spavento c d’ira.
Tu sci giunto all' occaso ; c questa spada
Nel tuo giusto supplicio oggi s’ affina,
Perchè nell’alba tua vinto tu cada.
Non degno più della rnagion divina :
Questo albergo è di Dio , questa contrada
È di popol , che a lui serve e s’ Inchina :
Vattene tu co’ tuoi seguaci rei ,
Chè fattura esser sua non ti credei.
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SOI POEMI SACRI.
Tra quello dir la gran spada.che splende
Più che folgor non fa quando balena ,
Per l' ampio spaiio delle membra orrende
Senza iar posa mai d' intorno mena :
E quella ove percote affrappa e fende
L'ale e le braccia , e il nero corpo arena.
Che vena poi dall' alte aue ferule
1)1 sangue Invece spiritai virtute.
Qual può più schermo far lo spirto truce 1
Non sol la spada, che Indefessa gira,
A tal passo , a tal termine l' adduce ,
Che altro ornai per pugnar non ba che Tira:
Ma l’ abbaglia anco la continua luce ,
Che dall' arme nemiche avvampa e spira ,
Centra cui grave ha fatto il ciglio, e il giorno
Mal può soffrir, che se gli accende intorno.
Dannato a denso orror d'alte tenebre
Ha cominciato a paventar ornai
Ciò che più splende, e a far tremanti ed
Le luci incontro a’ più sottili rai : [ebre
Onde della mortai spada alle crebre
Rote , e fiammelle , che non cessan mai ,
Sformo è alfin, cbè ogni altra speme falle ,
Sdegnoso perdltor volger le spalle.
Volge le (palle, ed oh quale è l' aspetto
Della sua fuga! impallidisce U volto
Di tema , e nella tema arde il dispetto ,
E il terror, e l’ orror sta Insieme accollo :
Disperato furor dal fiero petto
Ausando con rovente alito e folto
Esala , ed egli sè mirando ha sdegno ;
Cbè In sè di sè più non conosce segno.
Le genti sue precipitose e rotte ,
Cheto veggton fuggir, gli canoa dietro :
Molti prece don anco : e sparse frotte
Non serbati nel fuggir tutte un sol metro ,
Ma tutti hanno un sol fin, là dove annoile
Sempre, e sia sempre aer perduto e tetro,
Celarsi, e liberar l'occhio nemico
Già fatto al di , d’ ogni celeste aprico.
Seguonli a tergo i vincitori snelli
Con continuo scoccar d’archi e di frombe :
E da tatti I loro ordini e drappelli
Fan lieto suono uscir dell’ auree trombe,
CANTO
Poi che fu spinto dal celeste impero
Nel bel mattin del suo giorno novello
Per non sorger mal più l'Angelo nero.
Che di tutti altri dianzi era il più bello ,
Girò d’ Intorno intorno U guardo fiero
Onde del mondo a’ più remoti ostelli
Della vittoria lor segno rimbombe :
Nè di ferir reslando essi fra tanto.
Dolce peana a Dio stendon nel cauto.
L'affiitto stuol già d' ogni speme casso.
Che temerariamente aveva presa ,
Giunto era ornai , dove scoscende il passo
Alla terra , che sta nel mezzo appesa.
Stupì lo sguardo rimirando a basso
Per lo gran volo deH’orriblI scesa:
E s'arrestar le frettolose piante
Al novo intoppo , che scoprir davante.
L'arretrarsi, clic subito improvviso
Fecero i primi dal fugace corso ,
Percosse quei , che venian dopo, in viso,
E ne fe’ molti al suol batter il dorso:
Gli ultimi poi , die del sentiero Inciso
Notizia non avean , con gran concorso
Vennero a far una indicibil calca
Su l' orlo , onde da tanto alto si valca.
L’immagine crude), clic ior s’ offerse
Innanzi I piè del precipizio orrendo ,
Forse quell' empie turbe avria converse
Novo slorzo a tentar l'arme volgendo:
Ma l'eterno Fatlor, poi che li scersc
Al punto , onde a perir avean cadendo ,
Allo s'eresse nel suo santo sdegno,
E diede al mondo il formidabil segno.
Tosto e '1 fragoso tuon mugghiando scos-
Da Imo a sommo e gli clementi c il cielo: .se
Indi con spesso lampeggiar mostrasse
Minaccioso il balen dal fosco velo :
E supremo terror, alfin si mosse
Dalla gran destra il fulminante telo,
E cadde ed arse c ruppe ogni dimora,
Cta' erari per far quei maledetti ancora.
Combattuto c dagli Angeli e da Dio
Da tutte parli con tremenda guerra
Precipitossi d' alto il Duca rio
Col popol suo , che d' ognintorno serra !
Restar in varie parti : a lui s’ aprio
Con largo speco la paurosa terra,
Mentre a perder a' andò perfin nel centro,
Tornossi indi ad unire , e il chiuse dentro.
TERZO.
A rimirar il suo perpetuo ostello,
E tra 1 martlrj non pentito ancora
Sospirò il bel della perduta Aurora.
Senza aria, sozzo silo, in Torme loco
Giace in mezzo il terrei! , cupo baràtro :
ANGELEIDA. 503
Lume alcuno non v’è , se non di foco
Ch' eternamente cocc ombroso ed atro :
Mormora un Tento spaventoso e roco
Per tutto il campo del morta) teatro.
Che l’ umido antro esala : umida suda
Tenace gelo la parete ignuda.
Nove volte con onde oscure e bige
Torce il profondo letto, e grave e pigra
Tutto l’ assedia e lo circonda Stigc ,
Onde chi scende, al giorno unqua non ml-
Quivi sé stessa la Mestizia affligge, [gra:
Deforme ninfa in lunga vesta e nlgra,
E di perpetue lagrime, che fonde,
Forma al gran fiume di Oocito l' onde.
E perche nulla manchi al tristo onore
Dell’orrenda magione, aspro torrente,
Flegetonte tra’ sassi onde sonore [te :
Volve, c queste onde son di fiamma arden-
Ció, die n’ è tocco incenerisce e more,
More ciò, che lontano il fumo sente ;
Fumo crudel,che perchè uscir non puote,
Torce in sè stesso le volubil rote.
Quivi 1' oste di Dio raccolse, e seco
Strinse di novo le reliquie spinte
Da tanto cicl in cosi ignnbil speco,
Per troppo ardir in un momento estinte :
Ed oli per entro il loro aspetto bieco
Quante varietali eran dipinte!
Timoroso pailor, vergogna e doglie,
Ira ed invidia e dispettose voglie.
Gnardavansi altri taciturni e fisi,
Ed altri all’ incontrar de' torvi sguardi
Chinavan sbigottiti al suolo i visi,
Più gravi poscia a sollevarli e tardi :
Diccvan altri : Oli nostri folli avvisi 1
Oh nostri vanti ignobili e buglardll
Ecco del Cicl lo scettro, ecco la sede,
Che noi ci demmo d' occupar la fede.
Molli levando il nequitoso ciglio
Alla nativa lor patria superna,
E disdegnando il lor novello esigilo,
Ne bestemmiavan la Giustizia eterna i
11 vario suono del comun bisbiglio
Tutta intronava l'Infemal caverna:
Quale talor il terremoto suole.
Quando uscir tenta incontra i ral del Sole.
Ma l’ Infelice Re, poi che si scorse
Privo del ben, che il cielo illustra ed empie,
A fondar novo regno II pensier torse
Tra quelle piagge d'ogni luce scempie :
E poi che sovra gli altri in alto sorse,
Cinto di folte tenebre le tempie ,
E gonfio d’ira le lanose gote,
Mugghiò da sette bocche In queste note t
Perduto abbiamo, o giù celesti genti
Nobili c belle, or basso vulgo oscuro;
Perduto abblam le vaglie stelle ardenti.
Che nostra patria da principio furo :
Ora qui ci convien non esser lenti
A fondar novo regno ampio e securo : [stro
Perdemmo il Cicl, faccia or lo sdegno no*
Tremendo a par del Ciel l’ internai chio-
Di poter racquistar l'alte contrade,! stro.
Ove nascemmo, ogni speranza è frale :
Chè se il varco all’ ingiù lubrico cade,
Mille intoppi ha tra via sempre chi sale :
Ma a trar ben queste basse in dignitate
Intender deve il nostro studio, e ’1 vale :
Riceve onor dalle persone il loco,
Ma ne dà il loco alle persone poco.
Cerbero, tu che d' esto mondo basso
La prima cura, il primo onor ti prendi ,
Vegghia alla porta , e custodisci 11 passo
Con occhi sci , con tre latrati orrendi :
Caron, e tu d' ogni pigrizia casso
A tragittar sui tristo fiume attendi :
Verraccl d’ alto ognor tributo grave ;
Tu lo raccogli , e ce lo reca In nave.
Voi pallide ombre, sfortunati aspetti
Di mille varie pesti infin a morte,
Statemi attorno, e dentro a questi tetti
Fatemi strana c formidabll corte :
Siatemi mezzi ed istromenti eletti
A sovente turbar l’ umana sorte :
Tosto empirà le terre il seme umano,
E serve allor non mi sarete invano.
Voi che crespo di serpi 11 crine avete.
Vergini spaventose, Erinni crude.
Mia speme, mio valor, ite, scorrete
Di qua, di là quanto il mio regno chiude :
L’ ore e I modi spartite, c disponete
Gli offici , ove ciascuno attenda c sude :
Loco non resti nel tartareo seno,
Che non sia da voi visto, e di voi pieno.
Ogni mia potestate, ogni balia,
Ogni onor, che quaggiù serbo e fruisco.
In vostra man ripongo, e delia mia
Persona in voi la guardia statuisco :
Caddi , ma pur della caduta ria
Ancor per voi sperar vendetta ardisco :
Ho da voi questo scettro, e vostrodono[no.
È tutto quel, che io posto, e quei che lo so-
Voi neri spirti, ovunque In selve oin fonti
In aria o In foco alcun si sta nascosto.
Od è qui meco, entrate arditi e pronti
A quel che vi verrà da loro Imposto :
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POEMI
E non si tema poi, che assai non monte
Il vostro nome, che or si basso è posto:
Gli di mille vittorie e mille spoglie
Vi veggio ornar queste mie nude soglie.
Iten v i dee rammentar, miei frati, quanto
Nel Ciel Megera si vantò pur dianzi :
Nè dovete temer, clic '1 nobil vanto
Con le più nobil opre non avanzi :
Ma nè voi state neghittosi Intanto,
Sia chi la segua almen, s'ella va Innanzi :
Al suo furor la vostra fraude unita
A voi presti ed a lei comune aita.
Cosi diss" egli ; e torbido tiranno
Col rugginoso scettro in man, si pose
In fiera maestà nel regai scanno.
Che tutte inchlnan le tartaree cose :
Ed alcun fu, clic ’l suo novello affanno
[tramando invan temprar, cosi rispose:
Fiero signor, non hai perchè li lagni
Se perdi il Ciel, poi che ’l terren guadagni.
Non è, non è grave il tuo caso, quando
Se perdi il Ciel , dov' cri tu secondo,
Sortisci nel confili del tuo gran bando
Esser primo signor d' un altro mondo :
E se si va con dritto occhio mirando.
Può col sommo garrir quasi il profondo :
Ma vinca 11 Ciel, tanto sci qui più degno.
Quanto Re in Cielo avesti, in terra hai
regno.
Tu se’ Re della terra : ella ha nel seno
Gemme, ferri, oricalchi, argenti ed ori,
Che faran v ago il mondo, e ’l Tarati pieno
Di varie dignità, varj lavori :
Ella avrà monti c valli, avrà l’ameno
Che le piagge empirà d’ erbe e di fiori :
Avrà il mare , il mar pesci , avrà le selve ,
E le selve areranno augelli e belve.
Queste cose saran modi possenti
Ad allcttar, ed a far vezzi al senso,
Ed a torcer da Dio 1' umane genti.
Che In nostra vece egli a criar s’è intenso :
Nostre forze saran, nostri istromenti.
E quanto miro più, quanto più penso
Al futuro terren, tanto più veggio
Stabile e grande il tuo futuro seggio.
Faparagon col Ciclo; egli ha le stelle,
I,a Luna, e’1 Sol : questi suoi lumi appena
Potranno opporsi a tante cose belle
Che nudrc in sè la region terrena ;
Più dico : mira in queste parti e in quelle,
Ciò che ’l Ciel sotto sè d’ intorno mena ,
Tutto avrà fine ; e a lui di tempo in tempo
Torrallo, e dono a te ne farà il Tempo.
SACRI.
E quello ancor, che s’appartiene al Gelo,
Di trarre a te nel sen sarà nostra arte :
E se può di menzogna astuto velo
Nulla lassù, tu n'averal gran parte.
Tu ne vedrai disposti al caldo , al gelo ,
Tra l’ ombre , e tra il sereno in ogni parte
Tender lacciuoli , av v iluppar promesse :
Misero chi n’attenda, o ne si apprcsse!
E perchè non s' indugi.ognun già attenda
Cornea qucsl'uom, che ha da venir al gior-
l'erchè del Ciel la region non prenda, ( no
Nè succeda egli a noi con nostro scorno).
S’ordisca rete, e se gli appiatti c tenda
Tra il verde, e ’l vago del suo bel soggiorno
Nascosa si , eh’ ci se ne allacci , c cada
D’ ogni ragion dell* immortai contrada.
Che se possi ani noi far,ch’ egli v’ Inciam-
Clii teme poi , clic la futura prole [ pi ,
Simile a sè di mano in man non stampi
Avvcrsaaquel,che Dio le imponeevuole ?
Chi teme poi , eh’ ella mai più ne scampi ,
0 mai più verso il Ciel sciolta risole 1
Nastra fia , nostra fia : nè gran fatica [ ca.
Con gli altri avrem, se il loro autors' inlri-
Nè di die il fia l' opra : ahblam con noi
L'Ambizione, un desiderio insano.
Clic non contento degli onori suoi
Anela anco agli altrui farsi sovrano :
L'Incontinenza abbiam, che pur elle ingoi.
Non discerne dal licito il profano :
Abbiam mille altre lor suore e compagne ,
E temerem carpir l’uom nelle ragne?
A questo dir dell' infcrnal malizia
Il crudo Impcrator l'animo estolle,
E pasce d' empia speme empia nequizia ,
Clic con derno cruccio al cor gli bolle :
Ma benché ragion finga in gran divizia ,
Non fa sua dura pena unqua più molle :
Ascolta il mal, che gli è promesso, e gode.
Ma il gaudio è tal, rhc più il tormenta e ro-
Eterna è la sua pena, il foco eterno, [de.
Che il coce, e per più duol mai non lo sface :
Del pianto eterna è la tempesta e 11 verno,
Che co’ sospiri suoi non ha mai pace: [no.
Ciò che appar, ciòchcchiudc il cor d’inler-
Ciòche fa, ciò che v noi, ciò che gli spiace ,
È rabbia eterna, che d’eterni guai
Si nudre e cresce , e non sen’ empie mai.
Ma mentre per le torbide contrade
D’Abisso attende il popolo caduto
A dispor la tartarea potestade.
Che lor compensi il ben del Ciel perduto.
Ed in sulfureo lago alta cittade,
ANGELEIDA. 20S
Inespugnabil rocca ergcsi a Pluto,
Che ha porte d’adamante, ed ha di duro
Ferro tre volle circondato il muro;
Gli Angeli santi, che con lungo volo
Tra gli elementi ancora avean seguito
I-a sparsa fuga del nemico stuolo,
E già tutto il certame era finito ;
Carchi di prede dal terrestre suolo ,
Avendo il suon della raccolta udito,
E stese in alto ornai tutte le squadre,
Tornavan vincitori al sommo Padre.
Oh quanto ornai più risplendenti in vista
Passan per l’aria, che non cran prima !
Tal grazia ottiene, tal mercede acquista
Chi combatte per Dio, chi Dio ben stima.
Qual per Io Ciel si stende Iride mista
Di mille bei color, clic il Sol le imprima ,
Tal si stende all’ insù I' eccelsa gente,
Ma di più chiaro Sol varia e lucente.
Dal dolce moto, che le sante piume
Con lungo volo fan poggiando al Ciclo ,
Nasce un’aura soave, un vivo lume ,
Che impregna l’aria di felice zelo:
L’aria, clic dianzi dal icrren barlume
Uscita ancor tenea dd fosco velo,
Nò tuttt vota ancor, tutta spedita
Del proprio leve suo s’era vestita.
Cosi veggiam, quando il celeste tauro
Alberga seco il bel retlor del giorno ,
Partirsi il verno , ed un sereno d’ auro
Cader tra noi dall’ infiammato corno:
Sentono gli elementi almo ristauro,
Ponsi la Terra il verde manto attorno :
Spirano i venti sol diletto e pace,
E senza orgoglio il mar tranquillo giace.
E già le liete e vincitrici schiere
Van superando l’ aria a poco a poco :
Battono i vanni , e vento esce che fere ,
E fende un’ampia strada ancor tra il foco :
E già son giunti dell’ eccelse sfere
A quella , che salendo ha il primo loco :
E veggion come la cornuta Luna
Or scemi or cresca, or sia candida or bruna.
Veggion coro’ ella nel suo volto prende
Dal suo chiaro fratei la vaga luce.
Onde poi fra le tenebre risplendc,
E il carro della Notte in giro adduce :
Svelato innanzi a lor tutto si stende
Quel , che noi spesso a meraviglia induce,
Onde sanguigna appar, onde 6 quell’ om-
bra, [bra.
Che ce l’ oscura, ond’ è di macchie ingom-
Qucsto Ciel d’ogni ciel più denso e grave
È quasi all’ altro Ciel quel , eh* è il terreno
A più puri elementi : ci gode , ed ave
Ciò che ricco il può far d’eterno ameno:
Ha selve, e dentro augei, che di soave
Canto fan risonar l'almo sereno:
Ha fonti , e i fonti han Ninfe, ma non quali
Nel denso stan quaggiù di noi mortali.
Ogni cosa è lassù candida e pura,
Ogni cosa è lassù perpetua e santa :
Non si seccan quei fonti , e il verde dura
D’ogni stagion sulla frondosa pianta:
Una sottile e spiritai natura
Quei corpi di lassù copre ed ammanta
D’ un si vivo splendor, che quinci invano
Occhio s’intende, od intelletto umano.
Quivi si sta celestlal Sirena,
Che con santa armonia di dolci note
Lodando il suo Fattor in giro mena
Di quel primo orbe l’argentate rote:
Onde stilla virtù, che alla terrena
Arida mole dar 1’ umido puotc :
Questa al passar delle vittrici genti
Il lor volo segui con tali accenti.
Salve , o del sommo Dio prole sincera ,
Indefesso valor, milizia invitta:
Salve , c poggiando alla sublime sfera ,
Che hai di tua mano a’ rei frali interdilla,
Godi il trionfo, e la mercede intera,
Che al tuo sublime merlo è stata ascritta :
E quivi di sua man d’eterni allori
Il tuo gran padre le tue tempie onori.
Ma già la schiera fortunata e bella
Acquistando del Ciel giunta era in parte,
Ove si copre la seconda stella
Tra 1 rai del Sol, onde di rado parte:
E vede come in lei s’accende quella
Virtù , che cauto oprare in noi comparte.
La qual frode quaggiù spesso diventa ,
Quasi in tristo terrea nobil sementa.
Quivi anco un’ altra cantatrice snoda
La dotta lingua, e mentre in alto vola
Il popolo divin , 1’ accoglie c loda
Con novo onor di più sottil carola :
Quei sale, e quiv i avviene anco, eh’ egli oda
Più dolce il suon, che il terzo ciel consola :
E più leggiadra la Sirena mira,
Che amorosa dolcezza in terra spira.
Già , come crede il vii mondo, non cade
Indegno amor da questa bella face :
Creolla la divina Potestadc
Vera ministra di concordia e pace :
Difetto è nostro , e nostra indegnitade ,
Che pel suo santo don mal ò capace :
;06 POEMI
Beato è ehi l’attende, e chi sei tiene
Qual dal benigno Ciel diffuso viene.
Ma gin la santa pompa si conduce
Al cerchio del più bel d’ogni pianeta:
E vede l'aureo carro, e il chiaro duce
Oh* 4 del giorno, c dell'anno ordine e mela,
E splende si , che della propria luce
Ogni stella può far splendida e lieta :
Ond’ esce ogni colore , ed onde nasce
Ciò, che nel mondo o vive, o I vivi pasce.
AI gran fulgor delle vittrici spoglie
Cresce il fulgor della solar magione:
Quivi anco a) suon d' un’aurea cetra selo-
La quarta Ninfa il musico sermone , [glie
E l'angelico stuol dentro le soglie,
Che splendon di crisotili, ripone:
Questo ò il maestro suon , le note queste ,
Che tempran tutta l’armonia celeste.
Però che altra le gravi , altra le corde
Acute tocca , e fa diverso suono ,
N' usciria forse strepito discorde,
E sarebbe ogni ciel da sò men buono ,
Stassi questa nel mezzo, c fa concorde
Tra quei di sovra, c quei di sotto il tuono :
Tiene a questi , ed a quei bordone, c forma
Di molti corpi un sol con bella norma.
Saliti al quinto giro, odon non meno
La quinta cetra, e il quinto almo concen lo:
E seggioli la sua Ninfa, clic dal seno
Giù non versa tra noi folle ardimento,
Nò moto d’ ira, nò di orgoglio pieno,
Ma magnanimo oprar, viri) talento
D’ onor seguace, e virtuoso sdegno.
Se non 4 torto dal suo proprio segno.
Tutta di fin argento ave la vesta,
Di fin argento la cornuta lira,
E con tanto piacer canta la sesta
Ninfa, clic a tutto il Ciel dolcezza spira :
Quindi passando la divina gesta
Scettri , corone c Potestati mira,
Che 11 sommo Creator a lei consente :
Ella l' infonde tra I' umana gente.
Tutte le Monarchie, tutti 1 sovrani
Regni, ch’ebbero poi Persi ed Assiri,
Greci e Latini, ed or gli arditi Ispani,
Che stcndon per gran mar vaghi desiri ,
Stavan riposti dall’ eterne mani
Fin da quel tempo in quel celesti girl ,
E I secoli n’ avean quindi a far dono.
Che del voler dlvin ministri sono, [to
Splcndca fra gli altri in riguardcvol van-
Del celeste favor la ricca soma
Della sacra corona e sacro manto,
SACRL
Clic arcano a cinger gli omeri e la chioma
Di Sisto Quinto : e fuor d’ antiquo pianto,
E d' antique miserie usciva Roma,
E si facca del Lazio ogni pendice
Sotto gli ausplcj lor lieta e felice.
Seguiva poscia nei secondo pregio
La bella effigie d' una gran reina.
Che intorno avra d'eroi nobil collegio
In una gran cittì sulla marina :
Tentano innanzi al suo cospetto egregio
La Terra a largo, c il Mar la faccia china :
E sovra 1’ alme Grazie apriano il seno,
E n' empian di piacer l’ acr ameno.
Sotto alle forti zampe avea soggetta
La cittì tutta un gran Icone alato.
Quasi si come guardia alla veletta
Da Dio modesmo a quel paese dato;
AI cui ruggir l’ ingorde belve in fretta
Spaventate fuggian da ciascun lato,
E l’ innocenti greggie ivano sgombre
D' ogni timor a' verdi paschi e all' ombre.
Compagna eterna seco era la Pace,
E v’ era la Pioti, v’ erano l' Arti :
E facean l' Arti senza alcuna pace
Sonar della cittì tutte le parti :
Nò la Pielì posava, nò la Pace,
Ma ben mille v' avean ministri sparti ,
Che vcggliiando facean col lor negozio
Un diletto comune, un comun ozio.
La cara Liberti stava in sublime
Seggio, e da tutti i termini del Sole
Vi concorrcan mille ricchezze opime,
E potevasi aver quanto si vuole :
Sedeva alto Saper infra le prime
Lodi , e v' avea mille famose scole :
E v' era tutto alfln quel che beato
Può far sovra le terre un regio Stato.
La bella immago, e il lucido sembiante.
Mentre passavan quindi, a splender venne
Incontro al volo delle schiere sante,
E tra via fece lor fermar ie penne;
Come a chi cosa non sperata avanle
Alia sprovvista di scoprire avvenne :
Tutti s’intescrcon le ciglia fisse.
Tutti gioirò, ed alcun fu che disse :
Volgete, o Cieli , i vostri corsi attorno,
Attendete, o Pianeti, al gran lavoro
Di condur alle terre il fausto giorno,
Onde cominci II vero secol d’oro :
Questo lo scettro fia, questo il soggiorno,
Che al riparo d' Italia eletti foro.
Fin quando Dio col suo saper profondo
Formò T esempio dei futuro mondo.
ANGELEIDA. »T
Goal dicendo, e pur poggiando sempre,
L’ ultima veggion delle stelle erranti ,
E Moia V è, clic suon dì dolci tempre
Per lo settimo del lor more atanti :
Lenta si more , ma non sì , che stempre
La sua lentezza 1 più veloci canti :
Anzi tanto maggior dolcezza n' esce.
Quanto più varia il suono e più si mesce.
Chi verri mai, che degnamente scriva
La nova forma degl’ immensi onori ,
Che al suo arrivar vide la squadra dira
All’ ottavo giron dentro c di fuori?
Parca latte il sentiero, e lo copriva
Lucida mostra di celesti Dori ,
Che sparsi d’ alto avean Virtù ben mille,
Che stanno a' più di Dio devote anelile.
Non s' agguaglino a quei rose, o viole,
Crochi , o giacinti , o narcisi , o ligustri ,
0 qua) più vago all’ apparir del Sole
Da ben culto giardino odori o lustri :
Perle, rublo, smeraldi, o qual più suolo
Pregiarsi in terra tra le gemme Illustri,
Foschi saran, riceveranno oltraggio,
Se co’ fior dì lassù si fa pareggio.
Levale in alto stan mille figure.
Dovunque passan, e colossi ed archi :
E questi c quei di scintillanti e pure
Stelle son tutti tempestati e carchi :
Dodici porte son, che poi misure [chi :
Persi deli' anno, onde il Sol v' entri e il var-
E tutte hanno alla guardia i lor portieri
IN varie forme e mansueti e fieri, [ue.
Due tralei nati a un parto, un gran Leo-
Due gran Delfini, ed un robusto Tauro :
Una Vergine bella, uno Scorpione,
Che hanno nel mezzo una Bilancia d’auro :
Un Granchio smisurato, un bel Montone,
Una candida Capra, un fier Centauro :
Un leggiadro Garzon, che ha per costume
Votar un' urna di perpetuo fiume.
Altrove s’ergon poi giganti armati,
Sibilan draghi e fremon orse, a volo
Aquile vanno, e van destrieri alati ,
Aurighi e carri e buoi premono il suolo.
Nuotano navi, ehnd' accenti grati
Canori cigni risonare 11 polo :
Splendo» regie corone e chiome regie,
Emilie e mille altre sembianze egregie.
Per l’ aurea porla, ove sedea custode
D' aurea lana coperto il ricco Agnello, [de
Nell'aureo ciclo entrando il guerrier pro-
Trassesl dietro il suo nobi. drappello :
E del sentler su d’ amneduc le prode
Assai più ricco 1’ apparato c bello
In onor suo steso la dentro scorse.
Che di fuor non l’ avea veduto forse.
Quante si veggion fiammeggiarle stelle,
Se T azzurro del elei nube non segna.
Tante disposte in varie forme e belle
Accompagnaran la vlurice insegna i
E soave armonia tra queste e quelle
Movea la Musa ancor, die quivi regna.
Presso al gran Duce, che salendo in alto
Già s' appressava al cristallino smallo.
La bella oste immortai passò nel Cielo,
Che seco ogni altro del rapisce e mena,
E senza freddo alcun ristretto in gelo
Gira al cantar dell' ultima Camena :
Questo Gel rota sul suo proprio stelo
Con tal rattezza, che si cape appena :
Va dall' Orto all’ Occaso, c cinge intorno
Terra, mar, aria, e del tutto in un giorno.
Stella non ha, ma sua belli natia
Splende, e traspar d' un sol candido vetro :
Gli altri, checorron per diversa via
Seco raccoglie, c li ritragge indietro :
E raccoglie anco 1 suoni e r armonìa.
Che spargo» l' altre Muse in vario metro,
E don fanne alla sua, che compie poi
L’ almo diletto cou gli acceuli suoi.
Questo è quel santo e concordcvol suono
DI nove suoni si perfetto e dolce,
Ch' esce fuor tutti 1 dell Infin al trono
Del sommo Padre, e le sue orecch le uioIcc,
E scende : e quelle cose anco, che sono
Dentro dd del, tutte mantiene e folce:
Queste le Muse son, cui dona albergo
Lo stesso Gel, non dì Parnaso il tergo.
Antiqua età mendace , a ebe vaneggi ,
Clic fingi a voto d' Elicona i monti ?
E 1 dolci rivi, e il lauro, ebe verdeggi
A nobil premio delle dotte fronti?
Lassù si stanno, e da quegli alti seggi
Sccndon l' ombre soavi e I cbiari fonti,
Ond' ù virtù, che a noi sovente inspiri
Alto c dir e saper, che il mondo ammiri
Ma se mai dolce fu, se mai perfetto
Deila musica lor l’ almo concerto.
Passò nel colmo allor d' ogni diletto,
Cbc ai mlrabll trionfo il del fu aperto,
E ricevè del suo costante adotto
Il buono Auge! lassù condegno merlo »
Allor fu ogni opra, ogni lor studio desto
Ad onorar quel punto altero e festo.
Da questa melodia soave c santa
Accompagnati 1 santi Angeli uscirò
POEMI SACRI.
508
Fuor (uno il ciel, diedi cristallo ammanta |
L' ardenti stelle, il lucido zaffiro.
Spirto, che quanti sono i cieli, e quanta
La mole dentro al lor continuo giro
Volvl e sostenti, or mi sovvieni, ed ale
Dona al mio dir, clic troppo in alto sale.
Forse vagar poteo felice ingegno
Per suo valor oltre al conlln dell’ acque
Fin al ciel di piropo, e il vasto regno
Del mondo circondar quanto a lui piacque:
Ma chi potè salir oltre a quel segno.
Sedi ciò il tuo favor non gli compiacque?
Lassù è di Dio l' incomprensibil loggia,
V di te privo anco il pensier mai poggia.
A mcconvion qual destro augel su' vanni
Girar, c tanto sovra il mondo alzarmi ,
Che io guidi infili a quei beati scanni,
Ove s' asside Dio, l’ angeliche armi :
Tu terzo nume in lui, se pur non danni
Il troppo ardir di cosi novi carmi ,
Tu tu, divino Amor, in me discendi,
E di tanto sperar degno mi rendi.
Clii si rimembra per l' antiche carte
Leggendo aver talora appreso, come
Il vincitor dopo le squadre sparte
Degli avversari, o le città lor dome,
Soleva entrar nella città di Marte
Mostrando al lieto popolo le some
Dell' arme ostili, c poi portarle, dove
Sen facea adorno il gran tempio di Giove.
Sovra un splendido carro alto ed ornato
Di vesta militar il duce altero
Seu giva al Campidoglio, e dietro armalo
Il campo arca del suo felice Impero :
La plebe desiosa, e il gran senato
Gli venia incontra, e sotto ardca il sentiero
Di nova pompa, e risonava intorno
La città tutta e il festeggiarne giorno;
Se si convien con le celesti forme
Sembiante pareggiar basso c mortale,
Immagini che lai furon le norme
Del gran trionfo, e lo speltacol tale,
Che conducean le gloriose torme
DI grado in grado per l’ eteree sale.
Fin che arrivar a quel sublime loco.
Che dal volto di Dio s'accende in foco.
Quattro matrone in abito diverse,
Ma non già differenti in esser belle.
Fin sulle porte loro incontro ferse,
E lunga schiera seco avean d' ancelle :
Le faccie lor di divln lume asperse,
Vibravano da si vive fiammelle :
Fiamme son queste, onde allumar si suole
Il nostro mondo assai più che dal Sole.
Ma se per tanto spazio, e splendon tanto
Dal lor principio allontanate e stanche.
Quali esser denno a quel gran lumea canto.
Onde discendon vigorose e franche?
Se son si chiare, ove terreno manto
Fa le lor forze spesso ombrose e manche,
Quali esser denno da veder nel Cielo,
Che aggiunge lor beltà fuor d'ogni velo?
Tre altre, delle quali era la prima
State dianzi con loro armata in schiera.
Ed avea di sua man la spoglia opima
Tolta di dosso all' infornai Megera,
Vi furono anco; e pur di molta stima
Una gran compagnia d' ancelle v* era
Dopo ciascuna, ed abiti sembianti
Arcano a quella, clic lor giva avanti.
I.'una a guisa di foco arde e rosseggia.
Che senza fumo sia puro c vermiglio :
Come smeraldo f,n 1' altra verdeggia,
E vince di candor la terza il giglio.
Con queste sette scorte alla gran reggia
Passar di lui, che move il ciel col ciglio :
E per gran segno d' allegria fu fatto
Dar fiato a tutti gli oricalchi a un tratto.
Il novo suoli di mille trombe uscito,
Che tutte fe' del ciel le piagge liete,
Del centro ancora alla sprovvista udito
Nelle più chiuse parti c più acerete,
L’ onde turbò del misero Codio,
Ed interruppe il mortai sonno a Lete :
Tremò Plutone, ed augurassi un mondo
Più perduto di quello c più profondo.
Fuor tutta questa macchina di ciclo,
E d' clementi unita in un sol regno,
l'n orbe v'è, che abbraccia ogni al tra ciclo,
Che abbia inteso finor 1’ umano ingegno;
Cielo non i, ma vien chiamato ciclo
Dal mondo, che non sa nome più degno :
Sovra luì non v’ ha mar, terra, aria, o foco,
Ni ciel, ni moto, ni tempo, ni loco.
Ben diffidi materia è veramente [do :
Quel nulla immaginar, eh' i fuor del mon
Ma seco volva pellegrina mente
Quel ch'era pria, che fosse fatto U mondo :
E chiaro attorie fia, che quel niente,
Ch’ era per tutto ailor , die' loco al mondo :
Die' loco a quel, che ne divenne il tutto.
Ni restò loco a lui, eh’ era per tutto.
Or questa opra mirabile ed immensa,
Che ove era nulla pria, tutto si fece,
E si ne piace, e che per tutto estensi
Conlien quattro clementi e dell diecc.
ANGELEIDA. 309
È da quel sommo Cicl tutta comprensa, Dalla chioma, che tien raccolta insieme :
Oltra il qual nulla imaginar più lece : Chioma, che saldo tien, quando è tranquil-
Ciel, che mai non fu fatto, e clic fu sempre, 1 1 mondo tutto, c scossa fa, ch’ei tremc: [la,
Ond’ han dell’ esser lor gli altri le, tempre. Dal seren del suo volto a largo stilla
In questo sempre eterno Cicl l’altero Pace, e tcrror se nube d’ ira il preme :
Palagio del gran Dio risplende e sorge : Cade dal ciglio suo, quale ei l’ inchina
Quivi egli al freno il suo infinito impero Tra le fatture or vita ed or ruina.
Governa, e vita gli ministra e porge. Quindi passò 1* angelica coorte
Il palagio è di tanto magistero, Col gran trionfo, e della nobil preda
Che nè fin, nè principio in lui si scorge : Affigge parte alle lucenti porte.
Non ha dopo o datanti, o tetto o fondo. Fa clic dal muro parte anco scn veda :
Ma (ulto è ad una guisa ampio ritondo. In colai guisa faticoso e forte
Tre volte immenso Dio nel mezzo siede, Cacciator i suoi tetti orna c correda,
E gode tutta la soggetta mole : E quinci e quindi le sue prove stende :
Gli sta I' ubbidienza umile al piede, Ringhia» estinte anror le leste orrende.
Raccogliendo le sue sante parole : In parte sta della divina loggia
L’ordine delle cose indi succede, Ricca colonna, e tanto In alto sale,
Oh' esser quasi catena al mondo suole ; E di color è si splendente e roggia,
E seco sta la Provvidenza eterna, Clic a tutto il cicl di sè fa vista eguale :
Che nulla sforza, perchè tutto scema. La grande asta e'I gran scudo a questa ap-
II manto suo si luminoso splende, [no: Quelvalorvero,actiidifendorcale[poggia
Che gli angeli anco abbaglia intorno inlor- La Giustizia interrotta c I patrj seggi,
Si qual materia sia nessuno intende. Gli stanchi Padri c le divine leggi.
E chi intender ne vuol riman con scorno : Nè gii solo il valor si spazia quivi ,
Direi, che fosse Sol; ma il Sol si prende L'Onor va seco, e isuol pensieri agguaglia:
Quindi la luce, onde n'alluma il giorno: Cura egli tien, che de’ mortali divi
Il lucido di lui nel Sol traspare, A’ chiari nomi obblio nessun prevaglia :
Quasi come il Sol fa talor nel mare. Dentro a quei marmi eternamente vivi
Gli piove ad or ad or dal ricco grembo, Le prove tutte c le vittorie Intaglia,
Che scuote l'aura del divino Amore, Onde dal sommo Dio, che largo dona,
Di varj semi incssiccahil nembo : Alcun di gloria merla alma corona, [ma,
Estendon sotto le Stagioni e l’ Ore Di mano in man con quell’ ordine c nor-
Dell’ ampie vesti loro il cavo lembo, Che nel mondo si fan prime o seconde,
Che un non ne lascian mai cader di fuorc : Le raccoglie 1’ Onor, c la lor forma
E n’hanno poi di seminarli cura Imprime si, che in tutto al ver risponde :
Ne' campi della gran madre Natura. GII sta presso la Fama, e se ne informa.
Quindi nascon le forme, ond' è si pieno, E poi scn vlcn per le terrene sponde
Onde è si vago I' universo lutto : Spargendo suon, che novi animi deste
Onde non mai si perde, o mai vien meno Al grande acquisto deli’ onor celeste.
Ciò clic fu da principio in lui costrutto : Ma non avea però scarpello, o lima
Quindi ha cotanti mostri il mar in seno, Inciso inlìn allor la santa cote :
Tanti angei l' aria, e di si vario frutto Le partì sue dal piè fin alla cima
Ricca è la terra ; fior, fronde, erbe, grani, Tutte eran liscio allor, tutte eran vote :
Greggi umili, aspre fere, aspetti umani. L’ angelica vittoria fu la prima,
Lo scettro ha nella destra ; c questo in- Che vi si invaginasse in sante note :
Con infallibil legge al Cielo i moti, [segna Questa la prima fu, che vi si sculsc.
Onde egli dall' Occaso all' Orto segna. Nè tempo mai, nè ruggine l' avulse.
E dati' Orto all' Occaso indietro roti : Da questa incominciò l’ eterno Onore
Dal Cicl poi nasce il tempo : il tempo segna La bella istoria de' divini Annali:
I punti e le misure, onde son noli E segui l’ altre poi, die a tutte l' ore
Gli anni, e per gli anni i lustri, e poi per Dagli Angeli si fanno, o da’ mortali ,
Ed anni e lustri i secoli rivolti, [molti 0 si faran degne di quel favore,
L’ Eternità gii è mitra e gii sfavilla Quanto il tempo avrà mai da stender 1 ali.
210 POEMI
Bealo chi l' avanza, e loco impetra
Per Io suo nome nella santa pietra.
Novi martiri, insoliti tormenti,
E strane invenzloo di morti crude
Da veder sonvi, e son mille argomenti
Tra lor incisi d* immortal virtude :
Tra i ferri acuti e tra le fiamme ardenti
Uomini afflitti, e verginelle ignude
Costanti sempre a Dio volgono 1* alma,
E n’ han morendo vincitrice palma.
Cadono vinti e sanguinosi in terra,
E risorgono in Ciel frane Ili ed illesi :
Novo fine e novo ordine di guerra.
Vincer perdendo e trionfare offesi :
Liberi farsi, dove altri ii serra,
Agli altri sormontare a basso scesi :
Dalle pcue ra\ar diletto c gioia,
E deità acquistar, dove si muoia.
Altri si veggio» poi soli c pensosi
Fuggir 1' alle cittadi c i gran palagi :
Le solitarie selve, gli antri ascosi
Men fallaci stimar, e men malvagi :
Le faticiic pregiar sovra i riposi.
Cangiar con le ricchezze ermi disagi :
E per vincer col mondo ancor sè stessi.
Sé stessi, e *1 mondo in non calca ver messi.
Non mancano ancor quei , che i forti petti
Di fino acciar s’ armarono a difesa
Della Fede di Dio, de* sacri tetti,
0 per la patria fcr giusta contesa :
Quel ebe la plebe trasse degli eletti
Fuor dell* Egitto per Io mare illesa :
Quel che ritenne 11 Sol per aver spazio
Da far degli osti suoi più lungo strazio.
V* è Gedeon che i suoi soldati al fiume
Per farne de’ miglior la scelta, imita :
E quei, che spense al gran Gigante il lume
Con cinque pietre, ed una fromba ardita :
Giuda, clic de’ suoi padri il pio costume
Stima via più, che la medesma vita :
Giudith, che tutta sanguinosa in mano
Porta il gran teschio dell* amante insano.
Soavi le prove chiare in mille canni
Del magnanimo He del popol franco,
Ma via più chiare in quei divini marmi,
La cui memoria mai non verri manco :
Dico di quel, che a sostener con l' armi
1 vicari di Dio nou Tu mai stanco :
Cile ’l fiero Longobardo in prima doma,
E’1 sollevato poi popol di Roma.
V ’è II buon Collredo, e si conduce a tergo
T ulto in un gran squadron rpiasi II Ponen-
Appcna resta di vestir 1' usbergo [te :
SACRI.
li sesso imbelle, e la canata gente :
Tanto desir di racquislar 1' albergo,
U’ Cristo giacque, arde in ciascuna mente:
Oh nostro obbrobrio ! e qual destin lo
spense ,
Che non è in questa eti chi pur vi penne ’
Evvi, principe eccelso, alto senato.
Onde Adria quasi 1' Ocean pareggia.
De' v ostri avoli ancora il campo armalo
Per lo pastor della cristiana greggia.
Che dal feroce impcrator cacciato
Lasciò del Yalican I’ usata reggia,
E mosse sconosciuto in vesta oscura
A ricercar tra voi stanza sccura.
Vedesi il clero, c veggonsi I primati
In lunga pompa risplendenti d’ ostro.
Il duce stesso, e tutti I magistrati
Che han seco cura dell’ imperio vostro,
Averne indizio, e girsene schierati
A riverirlo nell' angusto chiostro,
E rivestirgli il sacro abito intorno,
Cile rende il sommo sacerdozio adorno.
Vedesi doppio stuol d' armati legni,
E 1' aquila c 'I leon splendere in alto :
Poi quinci e quindi con eguali sdegni
mischiarsi crudo e spaventoso assalto :
Ecco; e gii tingon di Nettuno i regni
Le bianche spume di sanguigno smalto :
Ecco; e l'aquila cade a mezzo n volo,
E preso n' è l' imperiai figliuolo.
V' ò il padre, che per porlo In llbertade
Dopon l’ ira e il furor, ch’egli ebbe arante,
E nella vincitrice alta cittade
Bacia al sommo pontefice le piante.
Di queste istorie, che or si veggion rade
Farsi nel mondo traviato errante.
La gran colonna figurata splende :
Codone tutto il Ciel, che in lei s’intende.
Lassù sovra l’ eccelso apice ascese
Il lieto vlnritor pronto su l' ali
A sciorre il voto.c il gran trofeo v’appese;
Selle elmi fessi, c poi cento bracciali.
Che pendean giù dal lacerato arnese.
Cinquanta scudi, e più di mille strali :
Le penne, onde il cimier superbo apparse,
Slavan d’ Intorno dissipate c sparse.
Cosi talor di state ignobil resta
Sul gelido Appennln quercia ramosa,
Poi che le tolser folgori e tempesta
La folta chioma, onde sorgea pomposa.
Eterno Creator, gradisci or questa
Prima delle nostre arme opra famosa,
E degna di fermar tua grazia in noi
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ANGELEIDA.
A scherno ed onta de’ ribelli tuoi.
Si ti prometto e nell’ età future,
Cta’entrerein eontra lor sovente in campo,
Ed all’ Insidie lor mendaci oscure
Sarem continuo e vigilante inciampo.
211
Cosi disse Michele, e dalle pure
Ciglia di Dio refulsc un ciliare lampo.
Che gli diè segno del divino assenso,
E tutto il Ciel fu pien di gaudio immenso.
TANSILLO.
LAGRIME DI SAN PIETRO.
CANTO QUINTO.
San Pietro entra nel Tempio e vedevi dipinte molte storie pausate e future.
Taccian quei ciechi, scellerati ed etnpj
Cristiani, d’ error pari al Turco, al Moro,
Che vietan onorar ne’ nostri lempj
L’ Imagini c l’ istorie di coloro
Ch’ essendo asces'in Gelo, eterni cscmpj
Han lasciato qua giù del viver loro :
Degni, di’ abbiamo ed essi c’ lor gran fatti
Non pur ne’ muri, ma ne’ cuor ritratti.
Quanto sia giusto, che ne’ sacri tetti
Si veggan di color piote, o scolpite
L’ effigie, che di Dio son cari eletti,
E dell’ aime là su via più gradite;
Onde l’occhio si pasca, il cor s’ allctti,
E 1’ uom sovente a ben oprar invite,
Qualor più desto le bell’ opre note :
A pien conoscer da ciascun si puotc.
Chè se quando eran di divine istorio
1 secoli meli ricchi, ne’ sacrati
Tetti splcndcan ritratte le memorie
Dell’ opre sante e degli eroi ben nati;
Che farem’ oggi, eh’ a ritrar le glorie
DI tanti e tanti Martiri beati,
Cbc fer col mondo si felice guerra,
Plcciol foglio saria tutta la terrai
E se i Romani, per destare ardori
Nei fanciulli d’ onor mendace c frale,
Coliocavan le statue de’ maggiori
Sugli usci de’ cortili e delle saie ;
Quanto più noi, per infiammar i cori
De’ nostri a gloria vera ed immortale.
Con le sembianze sante, e con gli esempli
Dovemo armar i propri alberghi e templi ?
Non splende il Sol più di bei raggi cinto
Per gente d’ alto affar, che per ignota;
Nè men di tanti lumi il Ciel dipinto
Per la vii turba, clic per l’ alta, rota.
È carta scritta il muro sculto, o pinto
Del rustie’ uom, del vii, dell’ idiota :
Ne’ sassi impressi c ne’ dipinti legni
Fanno essi, qual ne’ libri i culti ingegni.
E qual donna gentil, che s’ apparecchi
A far di sè talor gioiosa mostra,
Fisa! begli ocelli nei lucenti specchi, [stra ;
S’abbella li volto e ’l sen s’imperia eino-
Cosl ’l fedel par che sì miri e specchi ,
Qualor ne’ sacri muri , ove si mostra
Cristiana istoria pinta, affisa 1 lumi.
Acciò s’ orni di vita e di costumi.
Tal parca dunque la scoltura vaga,
Ch’ lo poco anzi Picca nel Canto addietro,
Che quanto più la mira, più s’ appaga
li sopr’ oyn’ altro lagrimoso Pietro;
Onde con I’ occhio e col pensier sen vaga
Lungi essa, e vi si specchia, com’ io vetro ;
F, tanto refrigerio ivi ritrova,
Clie li par duro, eli’ indi ’l guardo mova.
E ’1 contemplarla certo a gran ragione
Parca, che ’I suo dolor fesse più leve :
Perchè qual meglio aver pon le persone,
Talor cadute in qualch’ eccesso greve,
Ch’ udir, eh’ agevolmente si perdone
Dal tribunal, che giudicar ne deve;
E l‘ usala clemenza verso altrui
Prender speranza, che s'adopri in nuli
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212 POEMI
V ('cicalisi dal Serpente dell’ Inferno
I nostri primi gcnltor sedimi ,
l'scirscn fuor del bel giardino eterno,
Onde assaggiare i già vietati fritti
K parean render grazie al Re superno,
< lite dovendo in quel punto morir tutti,
('.osi clemente verso lor si porte,
K dia l' esilio in cambio della morte.
Indi quel caro a Dio gran Patriarca,
Pallido ancora di timor la gota.
Con la sua famigliola uscir dell'arca,
Elie tanti di sovr’ alti monti nuota.
Parean dar lode a Dio, eli' a lor sol parca,
Quando la terra ha desolala c vota,
K voglia, poiché l' universo allaghi,
Elie 'I mondo di lor seme si propaghi.
Vcdcansi a coppia a coppia gli animali
Sgombrar fuora del legno, clic li serra,
E qual lieti per 1' aria spiegar l' ali,
E quai con quattro piè calcar la terra :
Quai gir ne' boschi, equai tra genti, equali
Su 'I petto andando, entrarsene sotterra,
V era pinto il serpire, il volo e I passi,
E quas’ il moto si vedea in que’ sassi.
Vcdcas' il mar Tardile montagne aprendo
D’acqua ne’ lati e'n mezzo asciutta valle;
E '1 popol lutto indi passar fuggendo
I.' esercito nemico alle sue spalle,
E quei di giungergli avidi, credendo
Correr sicuri per lo stesso calle,
Tutti dall' onde In un momento assorti,
Senza scamparne un, che la nova porti.
Parca veder, quando le curve altere
Onde su 'I letto lor subito volte,
Carra e destrieri ed arme c stolte schiere
Orribilmente avean nel mar sepolte;
E cete e foche ed orche ed altre fere
Marine a divorare ivi raccolte;
Ed oltrea quei, che ’l mar chiudea nel seno,
Di morti il lido d' ogn' intorno pieno.
Parli veder nel mar l' onda vermiglia,
Come se fusse porfido la pietra,
O d'altro tal, eh’ a porfido somiglia;
E come innanzi va, come s’ arretra;
Come s' ingrossa, c come s' assottiglia,
E dove l’acqua è chiara, c dov’è tetra.
0 quanto il mastro avventuroso parmi,
Dice, in trovar tanti color ne’ marmi.
Come stende in su 'I mar la nobil verga
II Duce ebreo due volte ivi si vede,
L'una, che 'I mar si fenda, e in argin s’erga;
I.’ altra che chiuda c cali alla sua sede, [ga,
E'I suo buon popol salvi, e '1 reo sommer-
SACRI.
Ch' affretta dietro il temerario piede :
Talché l' Egitto veda c T mondo intenda
Quanto Dio possa c come I suoi difenda.
Sparsa la gente in questa parte e in quella
Co' vasi in inan vedeasi ir tutta china,
Cogliendo a gara candide granella
Sparse sull' erbe, qual rugiada, o brina,
Ch' a pietà mossa della turba fella
Piovea dal Cielo la bontà divina,
Senza por mente al volgo ingrato c cieco,
Cile si sovente s’ adirava seco.
Parli veder del Re, che *1 tempio feo
Il troppo ardente, e d' amor cieco padre
Rubar la moglie al suo guerrier Eneo,
Che dello stesso fondator fu madre,
E farsi poi della sua morte reo :
Indi pentito in vesti Indegne ed adre.
Prostrato il regio corpo e’1 volto esangue
Pianger la sua lascivia e l’ altrui sangue.
Loda qui Pietro il nobile scultore,
11 qual compose i marmi con tant' arte,
Che veder fe’ le vesti di squallore,
E di pallor le reai guance sparte;
E nel sasso mostrò l’ altrui dolore
Più, clic pittormai fessein tele.oin carte,
E del buon Re del doppio error pentito
Non men, che 'I corpo, l'animo scolpito.
Pareano sculte nella reai fronte
La speranza, il timor, il duo), la fede.
Il marmo del Troian Laocoonte,
Eh' oggidì a Roma con stupor si vede,
A questo, di eli’ io parlo, messo a fronte
Dirò, elle d’ arte e di bellezza cede;
Se ben quel mostra ai corpi ed agli aspetti
Di tre persone cento varj affetti.
Indi mostrava il Re gioioso tutto
Sembianza aver diversa assai da quella;
E i tristi panni aver deposti e '1 lutto,
Coin' udisse dal del recar novella,
Clic gli error suoi li sien rimessi in tutto.
Di tutte l' altre istorie la più bella
Pareva questa a Pietro c la più dolce,
E più d’ ogn' altra il cor gli alletta e molcc.
Il regio fanciullin nell’ altrui seno
Vedeasi estinto, c molta gente intorno :
Parea eli’ ognun di meraviglia pieno
Mirasse il Re d’ abito allegro adorno,
Sedersi a mensa, e ’l viso si sereno
Da che ’1 caro figlluol chiuse il suo giorno.
Che pianto avea rnentr’ egroe vivo egli era,
Digiun su ’l ccner nero in veste nera.
Mentre vagheggia la scollura lieta,
E va del grave duol parte scemando
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LAGRIME DI
Pianger si sente il cor di nova piota.
Yiensi l' Apostol santo ricordando
Del grand' eccidio, di cui già profeta
Parlò il Signor, e lagrima pensando,
Cbc si raro edificio un di si veda
Andar dei ferri e delle fiamme in preda.
Dunque, dìcea, popolo ingrato ed om-
La tua cervice oltr'ogni pietra dura [pio,
Porta, die sien del glorioso tempio
Stese fra I’ erbe le fastose mura?
E dia l’ alla ruina eterno esempio
Che nulla sotto ’I del gran tempo dura?
Dunque vedrassi, qual uom morto in guer-
Del gran tempioil radavero perterra? [ra.
Poca favilla, clic nell’ umil suolo
Picciola selce or forse asconde e copre.
Divorar dunque deve in un dì solo
Di colanti anni le mirabil opre?
Ma questo è poco, a pardol pianto e duolo,
Gente mal nata, che ti stan di sopre.
Ch’andrai, la patria tua disfatta ed arsa,
Per gli altrui regni eternamente sparsa.
Mira in abito un Re di sacerdote.
Che ’n sull’ aitarla prieghi c voti solve ; [te,
Poscia com'uom, che più soffrir non puo-
Contr’un, che ’l riprendea fiero si voi ve.
Cala dal cielo un' Angelo e percote [ve :
Il ricco altare e ’l manda in schegge c pol-
E ’l Re stende la mano e irato paria :
Indi parche non possa a sé ritrarla.
Par che non possa a sè ritrar la mano,
Che nel color già sembra morta c secca :
Volto al sant' uom pentito il Re profano
Pregai, clic plachi Dio, contro a cui pecca.
Quel prega, e ’l pugnoil Re contrae già sa-
turnie ramo, che languc e quasi secca, [no;
Ailorch' ogn'arbor sua vaghezza perde.
Ed al buon tempo poi tutto rinverde.
Parca tanto artificio aver qui messo
Sculpendo il gran maestro e tanto avviso,
Che in diversi atti un personaggio stesso
( Se l’ istoria il chiedea ) più volte inciso
Si conoscea pur sempre esser quel desso
Alle membra, alla fronte, all'aria, al viso :
Si com’ uom vivo, che scontrar n’ accade
In un di stesso per diverse strade.
Rimira un’ altro Re giacer nel letto,
Ch' esalar l’ alma ad or ad or parca ;
E un vecchio entrar di venerando aspetto,
Là dov’ egli al suo fin presso giacca.
Parea come costui gli avesse detto,
Che la vita allungar si gli dovea.
E'1 Re, com' uom, cb’ olirà misura gode,
SAN PIETRO. 213
| Mostrava con man giunte a Dio dar lode.
Si vivamente a Pietro erano espresse
Dei cuor le passion, de’ corpi gli atti,
Glie con gli occhi parea, ch’egli intendesse
Mirando i finti marmi e' bei ritratti.
Quel che sentire e quel che dir dovesse
Ciascun di loro in casi cosi fatti ;
E ’t mal dei Re, la tema e la tristezza,
E la bontà del vecchio e l' allegrezza.
Da’ suoi nemici soggiogato e vinto
Un' altro Re su ’l carro vedea preso,
Le braccia e i piedi di catene avvinto,
Simil di volto a quel nel letto steso,
K di molti prigioni intorno cinto,
E stuol d' armati alla sua guardia inteso,
E carri dietro d’ alte prede carchi,
E trofei di corazze e d’ aste e d’ archi.
Quel medesimo Re mira egli poi terra,
Con gii occhi in Cielo e col ginocchio in
Chieder perdono a Dio de’ falli suoi.
Che orecchie a giusti prieghi unqua non
Ind'il rimira in mezzo a molti eroi, [serra.
Com' uom , eh' ha volto in pace ogni sua
guerra,
E del buon Dio placato il giusto sdegno.
Libero c lieto ritornar nel regno.
Di gran città gli appare altera imago
Nel sasso anco superba a riguardarla,
Ch’ avea al suo piede aperta ampia vorago,
La qual parea volesse divorarla;
E in aria un' Angel tra ’l Icone c ’l drago
Con spada in man pendente minacciarla,
E quii’ in riva al mar lunga balena
Vomitar vivo un' uom sopra l' arena.
Parsa che quello appena giunto ai lidi.
Ver la città prendesse il suo cammino.
Non già com' uom, clic sè medesmo guidi,
Ma come tratto da voler divino.
Già par al viso, che minacci e gridi
li termine tremendo esser vicino,
Che la città si scellerata ed orba
Vuol Dio, che T terrcn s’apra e se l’as sorba.
Prima eh’ egli entri la superba porta,
Annunzia il crudo esizio a quei, che scon-
La guancia a tutti di paura smorta [tra;
Del decreto dìvin, che lor vien contra,
Parli veder nel marmo, ove l’ accorta
Mano al disegno suo la pietra incontra :
E del timor, ch'egli ebbe in ventre al pesce,
Segni nel viso a chi di bocca gli esce.
Una giovane bella, che parca
Nel freddo marmo arder d’amor la gente.
Con la sua fante dietro si vedea
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2i* POEMI
Alluma insin al pii leggiadramente ;
Clic un capo umano per li crin tenea
Dal grave busto tronco di recente :
La barba avea cruenta c ’l volto esangue •,
Ancor parca piover dal volto il sangue.
Daila cittì, clic sla su '1 monte scende
Ad incontrar la gente senta fine :
Da giù nel piano padiglioni c tende.
Arnie, squadro e bandiere peregrine.
Qua c lì sparso il popol gratic rende
Al He del Cicl con le ginocchia Inchino;
Chi quando cran per tor più duri patti.
Gli abbia una donna di periglio tratti.
Posta in su ’l muro l’ csecrabil lesta
DcU’uom cnidcl,chc tanti ivi hacondutti.
Qual suol da monti subita tempesta,
Calano armati i paesani tutti,
E dan sopra la turba a Dio molesta,
Egli han repente consternatl e rutti;
E benché siati cotanti via più eli' essi,
Tutti morti, o cattivi, o in Tuga messi.
Si chiare cran l' istorie, clic scolpile
Ivi parcano a genti anco idiote
Di tante grazie, eh’ ebber le pentite
Alme da Dio sovente, e le devote.
Che seni’ noni, elio l’insegni e gliel’addite.
Al disccpol di Cristo elle son note ;
Le quai s’ io tutte raccontar pensassi,
D’ altr’ oggi converria, clic non trattassi.
Ma l focomelie Pietro lial’alma accesa.
Non soslien, che si taccia tanto tempo :
Vengliianio dunque ai marmi, ove distesa
Parca l’ istoria del futuro tempo,
L’ esser presente, c ’l nascer della Chiesa,
E color tutti, a cui di tempo in tempo
Fia data dal Signor, clic tutto regge,
La atra del suo ovile e dei suo gregge.
Parca nascer dal sasso una colonna,
Che ’l capo in ciclo ai ea, qua gi u so il piede,
Alla qual s’appoggiava un’alta donna.
Clic sopra lurbid’ onde invitta siede;
Sparsa di stelle c bianca avea la gonna.
Che macchia, o picelo! neo no» vi si vede;
Al uobìi capo un Sol co’ rat Tea benda,
Che su 1 candido marmo parche splenda.
Con la sinistra ia gran donna tiene
liu libro aurato, c con la destra un vaso
Si picn di sangue, eh’ a versar si viene,
F. n’ è di molle gocce fuor rimavo,
Che su ’i bianco rosseggiali; così bene
Sembrava )’ arte esser propizia ai caso ;
Parche 1 bel sangue ivi entro ferva ed arda
E gli occhi e '1 cor consoli di chi ’l guarda.
SACRI.
Vcdcansì all'alta donna, gii fanciulla.
Dodici intorno poverelli scalzi
Posti alla guardia sua fin dalla culla.
Intenti, eli’ ella cresca c clic s’ inalzi.
Par, clic senza costor passi ora nulla,
0 vada, o sieda, o si corchi ella, o s’ alzi ;
E che la guardili spesso arditamente
Da morsi or di Icone, or di serpente.
V' arcano oltre a costoro altri seguaci
Tulli a seguirla pronti ed in piè ritti.
E per difender lei da man rapaci.
Se ne vedean molti cader trafilli.
Eran le serve sue fide e veraci.
Clic i nomi loro avean ne' lembi scritti,
I.a Povcrtì, la Fé, la Cariladc,
Ed era la sua balia l’ l'miltade.
Nè perchè fosse or uno, or altro spento
Pareau perù le genti abbandonarla.
Ma per un, clic cadca, ne sorgean cento.
Vaghi con la lor morte d’ esaltarla.
Cosi più d' or in or prendendo aumento.
Ella in crescere, c ’i mondo in seguitarla,
Parca giunta alt' eli, che più si brama.
Clic ’l suo splendor spargesse c la sua fa-
Quattro animali di diverse forme [ma.
Ticn l’ alta donna allo suo falde sante,
Qic ì volli differenti e ’l cor conforme
Mostrano aver agli atti ed al sembiante.
Ognun li mira, o par clic leggi e norme
Prenda da loro il popol circostante :
L’ un di lcon, l’altro ha di bue le membra,
Il terzo uoni vero c ’1 quarto aquila scm-
Senibr'aquila, ch'ili aria se ne i ole, [br*.
Quasi sdegnando di giacer qua giuso.
Nè pur s’ appaghi di mirar nel Sole,
Ma la sua vista spieghi ancor più suso.
Lì dove occhio mortai giunger non suole.
Se non gli è quel vigor dal Cicl infuno.
Ha l' aie ognuii di lor d’ allo levarse,
E son quell' ale di molti occhi sparse.
La bocca aperta ciascun d’ casi tiene,
E in man la penna, quasi parli c scriva.
Dalle lor quattro bocche quattro vene
Spargono d’ acqua trasparente e viva :
E da quei quattro rivi a farsi viene.
Fiume sì grande, elio no ’l cape riva;
Ma tosto si dilaga, e si diffonde,
E ’1 mondo tutto irrigali le bell’ onde.
A remo, a vela, a nuoto andar le genti
Si veggon per quel fiume, qual su ’l mare,
E quanto piu van dentro, più conienti
Par clic sieno, c più vagiti del solcare.
Altri od lido a diversi aui intenti,
LAGRIME DI
Chi bec,chi pon le man sull'aegue chiare;
Echi v’ attutagli occhi, e chi gli orecchi,
E chi si fa di quei cristalli specchi.
Lungo il bel rio d* amb’ I suoi lati ranno
L’ un dopo l'altro stuol di mano in mano,
Duo numerosi eserciti, che fanno
Splender P arene c fiammeggiar lontano:
Quei da man destra stole candide hanno,
E lauri intorno ai crini e palme in mano.
Van d'altra foggia quei del lito avverso,
E Pun dall* altro è d’abito diverso.
Nessun di lor sta senza occupazione,
La bella schiera è tutta in opre involta.
CM tiene un uom dinanzi inginocchione ;
Ed egli assiso in maestà I* ascolta ;
E chi sugli altrui capi le man pone,
Kpar ch'indi abbia ogni gravezza tolta :
Chi ciba altrui, chi ’l veste, chi ’l consola ;
E chi contempla e sulle stelle vola.
Altri varj strumenti in man tenendo,
Par che s'aflTannin per gravare a molti.
Altri sopra le cattedre sedendo,
Han mille orecchi intorno a loro accolti.
Altri le genti e le città fuggendo
Si stan tra fere e via più ch’esse incolti.
Per ermi luoghi e per deserte bande,
E quai si pasce d'erbe c qual di ghiande.
A guisa di reine incoronate
Si vede un altro esercito di donne,
Ch’ assalite da mille schiere annate.
Mostrano star più salde che colonne :
Son varie di color» varie d'ctalc,
E varie di capei, varie di gonne.
Una fra tutte, qual maggior, splendca,
Che vist’ altrove a Pietro aver parca.
Drappci di donne e d'uomini infiniti
D* età, di volto e d'abito diversi
Parca ch'egli vedesse ivi scolpiti.
Cui d'acqua i capi d'altrui mani aspersi
Erano a mille a mille per quei liti ;
E gli occhi tutti aveano al del conversi :
11 più di lor parean genti pagane,
E di parti vicine e di lontane.
Con cento squadre d* Angeli d* intorno
Vedeasi un sommo c glorioso Duce
Le mani, 11 capo e i piè di piaghe adorno.
Onde par, ch* escan rai di viva luce,
Ch’ ove la nobil donna fea soggiorno,
Si come di lei vago si conduce;
E *n vista dira misura dislosa
Per man la prende e giurala per sposa.
Del santo sponsali zio tra I due fatto
Par che s’ allegri il dd, la terra e ’I mare ;
SAN PIETRO. 215
E gli angelici cori un lungo tratto
Facrian dell'aria bella risonare
Di voci e di stromenti, il cui ritratto
D’artificio mirabil quivi appare;
Ed allegrezza , ch* altra non pareggia.
Negli uomini e negli Angeli si reggia.
Vedeasi poscia quel Signor si grande
In abito di vago pellegrino.
Com’andar voglia a più lontane bande,
E sia per porsi allor nel suo cammino :
Par che sua cara moglie raccomandc
A un vecchiarei, che gli sta innanzi chino;
E che due ricche chiavi In man li ponga.
Clic guardi i suoi tesori e ne disponga.
E in porgli in man le due possenti chiavi
Per quel ch'ambi mostravano ai scmbian-
Par che dica a colui cose alte c gravi, [ti)
Di che stupiscon tutti i circostanti.
Fatto ciò, come peso, che l'aggravi
Non abbia, a vista di quei tanti e tanti
Par che con tutto il suo corporeo velo
Si levi in aria e se nc vada in Ciclo.
Sta il vccchiarello, che le chiavi prende
Col suo timone in man dentr’ una barca ,
Ove la bella donna anch* ella scende ,
Esenz’alcun timor, di molti carca
Già si ved* ivi come solca e fende
Le marin’ onde e lieta se nc varca:
E come il vecchio adopra arte c consiglio
Per guardarla nel mar d’ogni periglio.
Mira Pietro il nocchier nel marmo im-
presso ,
E par che veda il proprio suo ritratto :
Quanto il contempla più , più li par desso,
E più sempre ne resta stupefatto;
Cliè li par di mirar vivo sè stesso.
Non pur uom finto a sua sembianza fatto:
Ed oltre che di ciò si meraviglie,
Par che conforto al suo gran duol nc pigile.
Avrà l’alto Nocchier del Paradiso
(Quantunque grave il piè, bianchi i capcgli)
Più a mente la sembianza del suo viso ,
Che donna mai su ’l fior degli anni begli.
Non per mirar cristallo, o vetro fisso.
Ma pcrclf essendo uom d’acqua, s’avev'egli.
Pria che passasse dalle reti a Cristo,
E ne’ laghi c ne' fiumi ogni di visto.
Onde in aver V iinaginc davamo ,
Ch’avea sì vivamente figurato
Il celeste scultor tanti anni Innante,
Che l’uom, che rappresenta fosse nato,
Non è gran fatto, se del suo sembiante
! Ratto s’accorge il Pescator beato;
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216 POEMI
E se veder sè stesso li parca ,
Come veder nell' acqua si solca. [to,
Sembra Pietro ed è Pietro il vecchio san-
cite tlen del Ciclo e runa e l’ altra chiave ;
E fu primo a vestirsi quel gran manto,
Del qual andò tanti c tanti anni grave ;
E corse il mondo c s'affannò cotanto
In governar sua pargoletta nave ;
E cadde a Bontà sotto il reo tiranno,
Dopo il suo Cristo il trenta settimo anno.
Cadde sotto Neron,qucl mostro atroce,
Nell’ alla Boma, ove piantò sua sede ;
E col sangue non mcn, clic con la voce
Insegnò al mondo la verace Fede :
E dannato, qual Cristo, aneli’ egli in croce,
Star volse il capo in giuso e in alto il piede,
Dicendo, che vii servo è troppo Indegno,
Ch’ a paro del Signor penda i n su' 1 legno.
Ma che come 'I Signor ch’è Dio superno,
Morendo tenne verso ’1 Cicl la testa ; [no
E '1 suo gran Begno, c '1 suo bel seggio eter-
Mirò, quantunque avvolto in mortai vesta :
Cosi egli uom terreno, uom dell’ Inferno
(S1 a trarnel fuor non era sua ntan presta)
Convien, che tenga il capo a terra fisso,
E sia nel legno d' altro modo affìsso.
Slan migliaia e migliaia di persone
Intorno a Pier da reglon diverse.
Ch’egli ha col puro c semplice sermone
AH* alte insegne del suo Be converse.
Or sull’ infermo ed or su ’l morto pone
Le mani, e questi c quel par ria verse :
Or quei d’ un morbo, ed or quegli altri
sgombra.
Sol, che li tocchi del suocorpo l'ombra.
Si vede un uomo irsen per l’ aria a volo,
E ’l popol tutto a riguardarlo intento :
Quell’ uom medesmo poi cader nel suolo
Fiaccato i membri , e poco mcn che spento,
E’1 vecchiarello inginocchiato, solo
Co’ prieghisuoi disfar l’incantamento,
E troncar l’ ale al fiero mago c i vanni.
Perché l’incauta plebe non inganni.
In altra parte or questi, or quel si vede
Venir col grembo pien d'argento c d’oro,
E gittar del buon vecchio innanzi al piede
Liberalmente tutto il suo tesoro.
Ed ei, che nulla per sè stesso chiede,
Riceve lieto le ricchezze loro,
E tra poveri ignudi le comparte.
Dando a ciascun sua convenevol parte.
Vedeasl un gran Camp ioti, qual uom da
guerra
SACRI.
Vibrar con la sua destra un nudo stocco;
E un giovanetto, il quale assai’ e atterra
Con grandine di sassi il volgo sciocco.
Mostra il Campion cader repente a terra.
Come folgor del cielo abbia lui tocco ;
E dal baleno fallo cieco in tutto
Gir d’altrui mano alla città condulto.
Della cittade uscendo per sè stesso,
E ricovrala la perduta vista,
Mostra dovunque '.a, tirarsi appresso
Gente infinita, ch’ei vince e conquista;
Nè men dell* uno, che dell’ altro sesso
£ la gran turba numerosa vista,
Che lieti dalla man manca e dalla destra,
E col suo dir gl* insegna c gli ammaestra.
Era il Campion già detto quel gran Pau-
Cui.pria clic’l vel dagli occhi si dilegui, [lo.
Gridò voce dal Cielo, Saulo Saulo,
I Perchè cosi ostinatomi persegui?
E volto l’S in P, rhiamossi Paulo,
Acciocché ’l nome al suo valor s’adegui,
E da nemico sì crudcl di Cristo,
Campion della sua Fé poscia fu visto.
Fu capitan di Cristo e corse il mondo
Or per terra, or j>er mar molti e ntol ti anni ;
E ’n terra e’n mare e fin giù nel profondo,
Passò tanti perigli c tant’ affanni.
Egli a Boma depose il mortai pondo
Sotto ’l più reo di tutti i rei tiranni ;
E fu di Pietro compagno c consorte
Nell’ opre e nella vita e nella morte, [suoi
Pria che’l buon Pietro chiuda gli anni
Par clic le chiavi, che ’l Signor gentile
Avea commesse e date in mano a lui,
Ei le porga ad un altro, e quello umile
Nieghi di torlo celie le dia ad altrui ;
Mostra pregarlo, inabil troppo e vile
Riputando sè stesso al nobil peso.
Nè però resta il santo vecchio offeso.
Si vede un altro, c par d'abito strano,
Come chi cosa tol, che non desic,
Tener le belle chiav i nella mano
Intento lutto all’ opre sante e pie.
Quel medesmo non guari indi lontano
Si vede ir preso da brigate rie,
E da grave sceme alfin percosso
Far col tronco suo capo il terrcn rosso.
Succede a questo un altro, e par ch’ap-
Pertor ledale chiavi la man stenda, i pena
| Ch’ armato stuolo prigioniero il mena,
j Com’uom, ch’ad or ad or la morte attenda :
Ed cl con fronte libera e serena
| Par che di sua cattura grazie renda :
LAGRIME DI SAN PIETRO. 217
E in mezzo a popol dispieiato e rio
Fa di sò stesso sacrificio a Dio. [Piero
Quel primo è il buon Clemente, clic da
Sondo egli eletto succcssor suo degno,
Perchè sia esempio al successivo clero,
Ch’avran le chiavi del celeste Regno,
Ch’allettar non si de’ quel grande Impero,
Del qual ogn’ uom de’ riputare’ indegno,
Il grave incarco procurò non torre.
Ma con forza di prieghi indi si sciorre. [to,
Son gli altri duo, l'un Lino,cl'altro Clc-
L’ un nato in riva all’ Arno, e l’altro al Te-
Che poi che Pietro del suo fin già lieto^ro;
Fe’ del suo sangue il terren rosso ed ebro,
Regnar, forzati dal comun decreto
E fur con molli, eh’ io qui non celebro,
Imitator di Pietro nel stipplicio
Non men che successor nell’ alto officio.
Lascia l’Uscier celeste di mirare
Distintamente la finta scoltura,
Forse clic ’l tempo non li par bastare,
0 invaghito dalle nobil mura;
E comincia con gli occhi a trapassare
Correndo or questa ed or quella figura :
Qual ape in lieta piaggia, poi eh’ è sazia,
Che d’uno in altro fior sen* vota e spazia.
E stupisce, che vede da’ diserti,
E da poveri alberghi e da caverne
Gli uomini uscir d’abito vii coperti.
Onde l’ umil lor grado si discerne ;
Come chiamali sieno per lor merli
A tor le belle chiavi e cura averne :
E regi poscia c imperadori vede
Gitlarsi a terra e baciar loro il piede.
Vede quei rozzi e poveri eremiti,
Che poco innanzi uscir dalle foreste,
D’ altri panni e d’ altri abiti vestiti
Tor le corone e porle all' altrui teste :
Come quei premiati, o sian puniti
D* opre buone da loro, c di sedeste :
E par che le lor mani sian possenti
D'alzar al cielo e d’atterrar le genti.
Si meraviglia Pietro e tenerezza
Quasi ne sente, che quei tali veda
In taut’onor locali e in tant' altezza,
Che ’i mondo tutto a lor s’ inchini c ceda :
E poi li vegga dell’ altrui fierezza
Senza rispetto alcuno andar in preda;
E’I più di loro o decollali, o spenti
Con mille strane fogge di tormenti.
Parli veder, che’l fin delle lor glorie
Qua giù sia solo tormentosa morte,
E clic ciascun di lor s’ allegri, e glorie,
Che sua ventura a si bel fine il porte;’
E che tanto maggior sian le vittorie.
Quanto pene più rie ciascun sopporte.
Ma non sapeva il Nocchier santo, ch’era
Egli il capo e’1 prìmier di quella schiera.
E che in quel vaso, che la donna invitta
Appoggiala in su ’l sasso si tenea
(.Com’io già dissi) nella man diritta
Col sangue, ch’ivi ferver si vedea, [ditta
Posto anche '1 suo saria, quando più af-
La giovinetta Chiesa esser dovea,
E di molti e molti altri suoi seguaci.
Ch’or son di nostra Fede ardenti faci.
Eche’lbdsanguc.di che’l vaso è pieno,
Altro non era clic ’l sangue di Cristo,
E di tutti coloro, clic ’l terreno
Ragnar del sangue loro il mondo ha visto,
Per far di Cristo testimonio a pieno.
Acciocché l' uno, e l’altro insieme misto
Usasse in vece d’acqua il popol pio
In fabbricar l’alta magion di Dio.
E quantunque col sangue del Signore
Indegno sia, che sangue altrui s’unisca,
Vuol sua bontà, ch’egli abbia quest’onore,
Perchè dal Padr’ eterno si gradisca :
E come vaso, ov’ acqua sia, ch’odore,
Ogn’ acqua odorar fa, che vi si misca,
Cosi’l sangue di Cristo in Ciel gradito.
Empie di grazia il sangue seco unito.
Mostr’anco il libro sparso a fregj d’oro,
Ch’ ha nella manca man la donna bella.
Le vite, i gesti e i nomi di coloro,
Che Confessor di Cristo il mondo appella ;
Che con gli esempi e con gli scritti loro
S’affannar tanto in questa parte e ’n quella;
E con studio c con opra più distesa
Servirò a Cristo cd esaltar la Chiesa.
Vedeasi tra quei tanti, che le chiavi
Tcngon in inan,cirhan l’alta e gran potestà,
Un uom con arche aperte e d’oro gravi,
Che tra mendici di largir non resta :
Or vivi, or morti par, che spogli e lavi,
E di candide stole li rivesta :
Or mostra in uno, ed or in altro loco
L* alme ignude cavar da mezzo il foco.
Or nelle carte par che scriva c note
Coso alice grandi, oiul’ altri s’ instruisca:
Or vestito il sant’ uom da sacerdote
Par clic sacre ostie al Re del Cielo offrisca;
E che mostri al sembiante, ed alle gote,
Che ’l corpo suo di grave duol languisca ;
E clic col mal, che sempre parche ’l segua,
Mentre sta sull’altar, faccia egli tregua.
10
POEMI SACRI.
218
Ermi questi quel .santo e buon Romano
Gregorio primo, che fu raro in terra,
Il qual si dice, che saltò Traiano
Co’ prieghi suoi, dannato già sotterra.
Nè tenne noni dopo lui quelle gran chiavi.
Con dic’l rcgnodclCiel s'apre c si serra,
Che con più amor, con più pietà 1* usasse ;
E che a' vivi ed a* morti più giovasse.
Vedeasi un altro, e parca fosse assunto
A qucU'onor tra spade e risse c insulti,
E poi ch'egli era al sommo grado giunto,
Con sua bontà quotasse quei Immilli ; [lo,
E un vecchio mezzo ignudo a lui congitm-
Ch' appeso un cappcl rosso in sui virgulti,
E col leone a’ piedi c'n inali la penna,
Scriver gran così* a sua richiesta accenna.
Era quegli il buon Daniaso Spagnuolo,
Che primo del gran Tcbro in su la riva
Instimi, eh' al Padre, cd al Figlinolo,
E al Santo Spirito, clic da lor deriva
Gloria si desse dal cristiano stuolo.
Sempre di' al fui dei sacro salmo arriva ;
E nella Chiesa fu invenlor di tanti
Ordini belli e riti illustri e santi.
E ben potrebbe Ispagna per costui
Non nidi clic per Traiano andar allora;
Se ben fu tal, che iiupcrador qual lui
Non vide il mondo, uè veder più spera :
E gloriarsi d'aver dato dui
L'avventurosa nazione Ibcra
De' migliori clic Tur ne’ tempi addietro.
Alla sede di Cesaree di Pietro.
Era il vecchio quel dotto ed elegante
Suo caiiccllicr Girolamo, che scrisse
Per sè di nuovo, c traslatò cotante
Cose, che’l Greco e che l’ Ebreo già disse ;
Ond’ ha il coro fcdel, che legga, o caute ;
E lunghi tempi ne* deserti visse.
Macerò il corpo, c travagliò l’ ingegno,
E fu dot Liei dopo la morte degno.
Nel tempio intanto, ad or ad or, veniva
Or uno, or altro, di che Pietro avvisto, [va
Non per tenia, ch'egli ha, che o mora, o vi-
LÌ sembra cgtial, da clic negò'! suo Cristo,
Ma perchè abborre il doloroso, e schiva
Parimente il vedere c l’ esser visto,
C.onvicn, che fuorcontra sua voglia vada.
Quando la v islon v ia più gli aggrada.
CANTO TREDICESIMO.
Il Signore scende nel Limbo.
Angosciosi sospir, lagrime triste.
Clic siete ora al mio stil caro subbietto ;
Pensicr funebri, clic di duol vestiste
Le nude voci, che piangend’ io detto ;
Se mai dattorno a lieto cor fuggiste, [lo :
Sgombrate da quesl'occhi e dal mio pet-
State in disparte, e date loco alquanto,
Mentre del sommo Re legione io canto.
Vera allegrezza, che su’l Cielo alberghi,
Onde passo uscir fuora unqua non puoi ;
Mentre Tannilo Pier per varj alberghi
Cerca alcun, che rinnovi i dolor suoi;
Acciocché liete note io canti o verghi,
Manda qua giuso un de’ bel raggi tuoi.
Che ni' allumi T ingegno c'i cor mi gouli
A dir del gran Signor gii alti trioni!.
Io diceva, che *1 Sol mai più bel giorno
Non fu visto arrecar dall’ Oriente,
Nè mai di si bei raggi egli usci adorno.
Nè si superbo sopra il carro ardente ;
Chc’l del, la terra c l’aria d'ogn’intorno,
E ciò di’ è sotto’ 1 del parca ridente :
Promisi farne la cagione espressa,
Or vengo ad adempir l’alta promessa.
S’a gloria cd a splendor d’ un re terreno.
Vinto il nemico cd espugnati i lochi.
Suol lutto ’1 popol d'allegrezza pieno
Trar balli c erger archi c bandir giodil ;
Ed aggiornar le notti, c'1 bel sereno
Unger dell’ aria coi gran bombi e fochi ;
K strade c case e templi, c dentro c fuori
Velar di fi ondi c sparger d’ erbe c fiori ;
Quel glorioso di , die ’l Re celeste
Vinse ia Morte e debellò l’Inferno,
E sprigionò le sante anime meste.
Per traile liete al bel Regno superno;
Non debbon far tulli allegrezze c feste
1 Cicli, c gli elementi, orni’ ha il governo?
E rider più festoso c più giocondo, [do?
Che non fé* mai d'allor, die uacquc il rnon-
NV lagninosi regui di sotterra,
Ove mai Sol non disfacc ombra ogclo,
l.a Fama, al cui gran volo non si serra
Nè l’ uscio dell’ Inferno, uè del Cielo ;
Già buduava, come in sulla terra
Sen’ giva il Re del faci soli’ uman velo,
E dell'alto opre, eh’ el Tacca qua suso
Sparso il grido c T odore era là giuso.
LAGRIME DI
Sparso era , dico, tra quei padri saliti
Ne* tenebrosi carceri rinchiusi;
E i rei ministri degli eterni pianti
Pcndcan via più clic mai dubbj e confusi:
Chè ’l vecchio Sinico» gran tempo innanti
Poi eh’ ebbe gli occhi avventurosi chiusi ;
Che videro quel dì tanti anni atteso,
Era già lieto alle meste ombre sceso.
Ed a quell' alme sante e venerande
Detto avea, come qui bambino ii tenne,
Tra le sue braccia, c che sotterra il mande
In pace, poscia ch’egli il vide, ottenne.
E come poi Paltò Signor uom grande
Nel bel Giordano a battezzar scn’ venne
Per le sue man, fatti gli avea già certi
Il Cittadin beato de’ deserti.
Ed oltre a ciò nel doloroso fondo,
Ov’uscio a prego uman non suole aprirsi,
Anime sgombre del terrestre pondo
Vedute avean quei giorni dispartirsi,
E da sotterra ritornar nel mondo,
Per le lasciate spoglie rivestirsi :
EM re infornai conir* ogni usata legge
Vide scemar ilei suo penoso gregge.
E com’avviene all'uoni naturalmente,
Che quanto più s'appressa la speranza
Al frutto, più M desir diviene ardente,
E più par lungo il tempo, che gli avanza :
Cosi là giù quella ben nata gente
Chiusa tanti anni in tenebrosa stanza,
Guardan bramosi e credati d’ ora in ora
Veder spuntar la destata aurora.
E già quei casti ili vita sacerdoti,
E quei padri e quei regi e quei profeti,
A cui qua sù vivendo furon noli
De! consiglio divin gli altri segreti,
S’udian sovente supplici c devoti
Dar fretta al Re, che li dovea far lieti ;
E desiosi di veder il Sole
Sciogliean le sante lingue in tal parole:
Ricordati, Signor, l’alta promessa,
Che per bocca di noi l’uman legnaggio
Ebbe talor da te : mira l’oppressa
Turba de’ tuoi ; vendica il lungo oltraggio
Nel gran nemico : c poiché ’l dì s’appressa
Del tuo splendor, deh spunta tosto il rag-
Sian l’ombre nostre dileguate c rotte, [gio:
Tempo è, eh* aggiorni così lunga notte.
Mille e mill* anni c mille c più son volti
(Se senza il Sol contar si ponno i tempi)
Che noi privi d’onorqua giù sepolti
Piangcmo i nostri falli c gli altrui scempi.
E quanti mai da mortai nodo sciolti
SAN PIETRO. 219
Spirti umani si sono c buoni ed empj
D’ogni parte del mondo in un riduttl,
Preda del tuo nemico son qui tutti.
Per quelle di pietà viscere sante,
Onde deriva a noi l’alta mercede.
Non consentir, che più si glorie c vanta
11 reo di tante c così ricche prede :
Aprine T dì, sciogli le tante e tante
Schiere, clie’n loco, ove mai Sol non riede.
Ma sempiterno orrore il tutto Ingombra,
Siedon penosi della morte all’ombra.
Quando facean più calde, umil preghiere
L’animc illustri in quel d’orror sì pieno
Carcere cotanti anni prigioniere,
E forse in punto, che l’attendon meno;
Ecco che gli occhi lor repente fere
Un novo lume, a guisa di baleno,
Ed odon d’alte voci correr suono,
Qual suol per 1* aria rimbombar il tuono.
Aprite gli usci, principi infernali,
Suonan le voci ; aprite, alme mal nate,
Le porte inesorabili eternali,
E v* entrerà del Clel la Molestate:
11 Re dell’ alte glorie ed immortali.
Chi è questo gran Re, cui potestate
Si dà sì nova e tante e si gran lodi ?
Gridan degli usci orribili I custodi, [forte,
Quel gran Signor, quel Re possente e
Si risponde, più ch’altri sulla terra,
Che viene a vincer voi, vinta la morte;
Signor più ch’altro poderoso in guerra.
Due volte c più, che s’apra n Tempie porte,
Rimbomba il grido : indi gittar per terra
Rotte dal divin piè s’odon di botto,
E I negro suol tremar si scnton sotto.
Quei ciechi, orrendi e tormentati lochi,
Ove luce, che sia mai non alluma,
Se non quel tanto, clic gli eterni fochi
Fan de’ dalmati, ove ’l lerren men fuma,
Sulrito T ombre con lamenti rochi
Vr-ggon fuggir, si come avesser piuma;
E far T aer, già fosco e tenebroso
Via più clic l’antro, chiaro c luminoso.
Or qua! sì chiara c sì sonora tromba
Dirà le spoglie al re dell’ ombre tolte;
E M rumor grande, che là giù rimbomba
Delle schiere infernali in fuga volte.
Poscia eli* intorno alla tartarea tomba,
Ove 1* anime vive eran sepolte,
Il Re del Clel vittorioso scese,
ÌE T altre belle c gloriose Imprese?
Raggio divin, ch’ogni fosc’alma allume,
E dei don di là suso orni la terra,
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2?0
POEMI SACRI.
Siami Iodio, allato dal tuo Ninno,
Narrar le coso, che si for sotterra, [ino.
Quando a quei regni, che non lian mai lu-
tili eserciti del Cielo indusscr guerra : [mi
Dammi, elio possali (quai si siali) miei car-
Dir del gran Re l' alle vittorie c l’ armi.
Entra di Cristo T anima beata.
Con mille squadre d’ Angioli d'intorno,
E la luce tanti anni desiata
Là dove mai non si conobbe giorno.
E 'I nostro primo padre c la sua amata
Sposa e* figli e’ nipoti d'ogn’ intorno
Assorgon lieti, e si gli fanno incontro,
Stupidi d’allegrezza al primo scontro.
Torma fedel cinta di ferro il piede
Molli anni al remo sotto Moro, o Scita ;
Che conto 'olle il dì la morte chiedo.
Che ponga line a sì penosa 'ila;
Non giubila si forte, s* ella vede
Schiera de' suoi saltar su ’l legno ardila ;
E’n prora buon guerrlerla strada aprirsi.
Del legno, e della gente insignorirsi ; stri,
Come quel santo stuol, quei padri illu-
Chc per quegli antri latebrosi e neri,
Avean tanti anni pianto e tanti lustri.
Ratto si fero oltre ogni modo allegri :
Quando, qual Sol, ch’ili Oriente lustri,
E terra c mar col suo splendor rallegri,
Yidcr T arme c la luce, eh’ ivi splende
Del Re del Ciel, eh’ a scarcerargli scende.
E come avvezze a ciò fosscr sovente
Quelle indi te alme, quel buon popol santo;
S' unirò in nobil coro ed egualmente
Sciolser l’ ardenti voci in nobil Canto.
Benedetto il Signor, che si clemente
Ne 'iene a consolar giù nel gran pianto ;
E dai Hero tiranno, clic 1* opprime,
Sua cara plebe il buon Signor redime.
Queste sante, gioiose, alme parole
Già preparate dal divin profeta,
Ch’ orecchia di quel regno udir non suole,
Cantòla turba avventurosa e lieta,
Ed altre, ed altre simili, clic ’l Sole
( Se per là giù corresse il gran pianeta )
A'rian fallo fermare ad ascoltarle,
Nò lingua uniaua basta a raccontarle.
A* piedi del Signor quei santi croi
Gittansi lieti, c somm’onor li fanno,
E bcncir empire i propri desir suoi
Ciascun desii, pur cedon tutti, c danno
Loco al gran Padre ed a quei regi poi,
Cli’ ad adorar di mano in mano il vanno.
E insieme c ognun persòdan grazie e lode
All’ alto Re, eh’ tinnì gli accoglie ed ode.
Città superba ed a regnar sempr* usa,
Presa repente d'improvviso assalto.
Non restò mai sì attonita e confusa
Da poi che vide le bandiere in alto
Piantar sti'l muro, ond'ellaò cinta echiusa,
E ’l rigid'nste scender giù d’ un salto :
Clic per fuggir da’ troculenti ed emp],
Chi fugge nelle Torri, c chi ne’ tempj.
Come quel regno tenebroso c tristo
Turbar tutto si vide insino al centro.
Quandi* l’ insegne folgorar di Cristo,
E l' angeliche squadre vider dentro :
E quella Croce, ove morir l’han viste
Con Uni* opprobrio alzala, irsen per entro
L* Inferno gloriosa, c i crudi mostri
Fuggirle innanzi per quei negri chiostri.
E 1’ Eumcnidi rie, dov’è’l più fosco,
Giltati i serpi lor dietro le spalle,
(’.lie per cotante bocche versan tosco.
Correr smarrite per l'angusta valle;
E (piai fere cacciate fuor del bosco.
Cercar fuggendo il più intricalo calle;
E non sicure sull' arsicce sponde
Lanciarsi d’ Acheronte in mezzo all’ onde.
E f idre e le ceraste c le chimere.
Clic sputai! fuor di bocca eterni incendj.
Le gorgoni, l’ arpie, le sfinge nere,
E mille forme d’ uccellarci orrendi;
Che non potendo il lume sostenere
De’ santi raggi agli occhi lor tremendi.
Tra P ulve ascosi della nera Sligc
Cercati schi'ar la luce, che gli aflligc.
Sibili di serpenti, urli di lupi,
E ruggiti di tigri c di leoni,
Empion l’ oscure valli e I’ aspre rupi,
E strida di corbacci e di buboni.
Corron per gli antri cavernosi c cupi
Profondi bombi e spaventosi tuoni.
Come s’ odon talora, e ben lontano
Rimbombar Etna, Slrongoli e Vulcano.
Qual fu a veder sotterra incatenato
Plutone e gli altri principi infernali ,
E ’l can trifauce, che tanti anni è stalo
Divorator de’ miseri mortali?
E la Morte già figlia del Peccalo,
E la Calli' ità vita de’ mali,
E la Dispcrazion con ir' a sò volta,
Dì mille e mille aspri legami involta?
E la Discordia in sè stessa discorde,
E la Guerra assetata d’ untati sangue,
L’ Odio, I’ I ra c ’l Furor, che lat ra e morde,
E deli’ Invidia il freddo e li' ido auguc;
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LAGRIME DI
La Frode e l’ Avarizia e I* empie ingorde i
Cure e quei Morbi, ond* uom si more e lan-
E quanti Yizj e Mali albergano ivi, [guc; |
Tulli fuggir veloci, o gir cattivi?
E Flegelonte e Lete e gli altri fiumi,
Elie corron là ’ve’l Sol mai non aggiorna,
Velali il capo di più densi fumi,
Spezzale 1* urne lor, rolle le corna,
Pianger d’ intorno a quei tartarei Numi
La tolta signoria, che piu non torna;
E con mormorii tristi oltra misura
Rammaricarsi della lor giallura.
Quel che l' anima santa del Signore,
E la Divinità, eh’ è sempre seco,
Adoprasse là giù quelle tante ore,
Eh’ella il terreo caliginoso e cieco
Illuminò coi rai del suo splendore.
Se raggio alcun della sua grazia hai teco,
Tu, eh’ ascoili, contemplai per tc stesso,
Non sperar eh’ altri , od io le ’l faccia
espresso.
Crederò ben, per quanto far palese
Il lume della Fede egli è bastante.
Che ’l tempo tutto, che ’l gran Re vi spese,
Fu solo in consolar quell' alme sante.
Da cui tanti anni il suo venir s' attese,
E ’n trar dell* altre a sé lo stuolo errante,
E ’u dar ai tribunali di là giuso
Nove leggi, novi ordini c nov’ uso.
Nè pur quei campi, che girando avvolge
Nove fiate la tremenda Stigc;
E ’l tristo rio, eh’ in vece d’ acqua volge
Fiamme e le ripe sue squallide e bige;
Ma de’ negri antri c dell’ oscure bolge,
(he ’l dannato popol più s’afilige,
Non restò parte, ove ’l Signor non entro,
Poiché ’ngombrò della gran madre il ven-
E dove non andò la bella integra [tre.
Alma felice, vi mandò i suoi rai;
Così la reglon penosa e negra,
Luce vide quel di non vista mai;
La qual , se b ben rischiara, non rallegra
Tutti egualmente, o scema d’altrui guai :
Anzi quanto agli eletti apporta gioia,
Tanto a’ mal nati apporta pianto e noia.
Poiché ’l Sol di bontà venti ore c venti
( Numero spesso dal Signor gradito)
Stette ove il lumec'l di son sempre spenti,
Lasciò le meste rive di Cocilo;
E da quelle ben nate e liete genti,
Che fan si bello esercito, seguito,
Sen* va verso quel loco fortunato,
Onde fu Adamo con disonor cacciato.
SAN PIETRO. 52,
Se fosse stalo ad uom mortai concesso
D’incontrar quel trionfo glorioso,
Ren si potrebbe riputar quel desso
Sopr’ogn’ umana sorte avventuroso.
Giva in mezzo il Re grande, c’ntornoeap-
Dc’ santi croi l' esercito rìoìoso, [presso
E mille schiere, oltr’ a quell’ ombre pie
Di tutte le celesti ierarchic.
E come quei gran padri a Dio si amici,
E quei, eh’ ebber qua giù scettri c corone.
Così i celesti spirti han varj offici
Nel bel trionfo eguali alle persone.
Portan l’arme, che furon vincitrici
Della Morte, e del regno di Plutone,
Parte gli Angeli, e parte i vecchi santi,
Clic profetate I han gran tempo binanti.
Chi la colonna arreca e chi *1 flagello,
Chi la ghirlanda di pungenti ruschi,
Chi la canna e la spogna c chi ’l vasello
Pieno di quei liquori amari c fuselli ;
Chi della Croce il segno invitto e bello,
Clic par ch’ili aria a par del Sol corruschi ;
Chi la man, ch’oltraggiò la nobil guancia,
Chi I chiodi, chi’l martello e chi la lancia.
Solcan Romani in quei trionfi loro
Innanzi al carro di catene avvinti [ Moro,
Menarsi or Gallo or Cimbro or Parto or
Popoli e regi debellati e vinti;
E de’ fiumi c de’ regni di coloro
Sculti d’intorno i simulacri, o pinti;
E con le spoglie e con la gente doma
Entrar superbi la città di Roma.
Il bel trionfo, onde qua su sen’ poggia
Vinci lor dell’ Inferno il Signor nostro,
Convien, clic vada di contraria foggia,
Pcrciiè’l tartareo re, l'infernal mostro,
E le sue vinte schiere el non alloggia
Per trarlc fuor del nero orribil chiostro ;
Ma ne* regni lor stessi, ove li vince
D’eterni nodi l’alto Re gli avvince.
Acciocché mai più fare aperto oltraggio
La turba al Cicl nemica non presume,
All’ uom riscosso e all’ uman legnaggio,
Come da che fu ’l mondo avea costume;
Nè convolila, eh’ a lungo ir presso al raggio
Dovcsser del solar celeste lume
I ministri de’ regni ombrosi c bui,
Dannati ivialduol proprio ed all’altrui.
Un ampio stuol di fanciulli']! avanti
Al Principe del Ciclo s*- nc giva,
Avvolti tutti in bei candidi manti,
Chi con la palma innian,chi con l’oliva;
Dalle cui fresche piaghe oh quali e quanti
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PORMI SACRI.
Raggi di Rloria e quant' odore usciva!
Atcano in mano alcuni I ferri e i sassi,
Con che di vita fur spogliali c cassi.
Era lor guida giovcnelta donna
A maini oltre modo alla presenzia ;
l’arca di quelli imperatrice e donna,
Cotanto le fean tutti rirerenzia.
Avca scritto alle falde della gonna
Il suo bel nome, ed era l’Innocenzia:
Candida il volto c candida la vesta,
Lieta al sembiante ed alla fronte onesta.
Mostra più cli'altra onesta irsen pervia.
Per ritornar nel loco a lei si raro ,
Là dov’ ella abitò tanti anni pria,
Quand' era il mondo pargoletto ignaro ;
E dov’ ella ebbe scettro c signoria,
Mentre gli muniti da lei non si seoslaro,
Ma sotto l’ale sue visser contenti.
[Sun men' uberi c lieti, clic innocenti.
Menava seco compagnia seguace
La gentil donna, che tanto s'onora.
Coronala di spiche iva la Pace,
E la Tranquillità, che 'I crin s’ infiora;
La Purità, cb’ a Dio cotanto piace,
E la Securità vi giva ancora,
Con la Piacevolezza c la Quiete ,
E la Severità più che mai liete.
Fra tante belle schiere, che ghirlanda
D’ in torno a Cristo fean si lieta c spessa.
Giva il buon ladro, ch’alia destra banda
Meritò di veder sua croce messa ;
Al qual, mentre cli’a lui si raccomanda.
Fece il Signor si bella alta promessa.
Con la sua croce in spalla ei scn’ cammina,
E spesso a lui più, eh’ altri s’ avv icina.
Gran meraviglia a tutti il ladro pone.
Che par scn’ vada con maggior baldanza,
E che pretenda cl sol con più ragione
Entrar quel di nella beata stanza ,
Che ’1 resto lutto di quell’ alme buone ,
Ch’arscr d’amor, di fede c di speranza
Tanti anni, mentre elle nel mondo furo,
E poi nel regno lagrimoso c scuro.
Fortunato ladron, più eh’ allr’ uom mai.
Clic ’l suo donasse , clic di pochi giorni
Dal bosco uscito, ove tanti anni fai
Or a questi, or a quegli oltraggi c scorni :
Poscia in un di, tocco da’ santi rai
De’ suoi begli occhi, a Dio repente torni ;
E tra si lieta pompa c si felice
Entrar nel Ciel con tant’onor li lice.
Ed all’ entrar sei de’ primieri forse
Dietro al gran Re, clic seco ivi ti mena,
SI come allor, ch’egli a morir scn’ corse
Fusti seco ed a parte della pena. [se.
Deh per quell’ occhio ardente, che ti scor-
Quando fu l’alma tua si di fè piena.
Come per te P oprasti in sulla croce ,
Opra per me su ’l Ciclo or la tua voce, [gio.
Prega il gran Re, eh’ è sull’ empireo seg-
Chc del bel guardo suo mi faccia degno :
Mirimi, prego, altra mercè non clieggio,
Come si volse a te dal duro legno,
Cosi pria clf io cada di male in peggio.
Volgasi a me da quel beato regno :
Mirimi solo, ed altro più non voglio.
Perchè si rompa del mio cor lo scoglio.
Opra per me lassù le tue parole,
Chè fo di te forse più grave eccesso.
Tu cose frali altrui rubi ed involo.
Io d’eterni tcsor spoglio me stesso.
Tu, come neve esposta ai rai del Sole,
Ti liquefai, sondo al mio Cristo appresso :
Ed io, qual ghiaccio d’ Aquilone al (iato.
Ho sempre il cor più freddo ed indurato.
Ladro possente, clic rapisti il Ciclo ,
Dio sa, qualor vi penso, se mi spiaccia.
Clic dalle quattro trombe del Vangelo
Qual fosse al mondo il nome tuo si taccia.
Per desio di mostrar l'alto mi' zelo
Qual volta con la penna onor ti faccia;
Che [qual si siano) le mie indegne carte
Foran sovente del tuo nome sparle.
Givan dinanzi all'alto Re due donne,
Le qual son sue ministre io ciascun loco.
Si care a lui, che star Iontau non pouno,
Ove che sia già mai molto, nè poco.
Che di color contrario hanno le gonne,
L' una di neve par, l’altra di foco :
E come nel vestir, cosi nel volto
L'una dall'altra differente molto.
Ha questa bella del color vermiglio
Sempre accese d' amor le luci sauté :
Ha quell' altra severo c grave il ciglio
In bel pudico verginei sembiante.
Ambe son prime nel divin consiglio,
Scbbcn or questa, or quella siede avauto :
L'una ha la spada in mano c ’l libro in seno.
D'odor soave ha l’altra mi vascl pieno.
Tre altre poscia, clic parcan sorelle
All'alta Donna, eh’ è vestila a bianco,
L’ una all' altra si simile , e si belle , [co.
Che d’un parto parean, nou pur d’un lian-
Le loro insegne in mano arcano anch'cUe,
E qual dal destro lato, e qual dal mancu
Givan del gran trionfator celeste,
«>■
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LAGRIME DI
Adorne anch* elio di leggiadre veste.
Chiaro elmo ha P una sulla nobil testa.
À qtirsla man lo scudo, a quella l'asta,
Non meno a sofferir, chea vincer presta,
Se col mrndo si pugna e si contrasta;
E ia corazza sulla vaga vesta.
Nè par però men beila, nè meli casta.
Tien l’altra un Lei liuto, e par elic i tempre,
L* altra una sfera, che si gira sempre.
Ycngon tre altre, c par eli* ognun le in-
E più clic l altrc le gradisca estimo, [chine,
E con ragion , però che soli divino
Quest* ultime, ed umane quelle prime ;
Ed al bei regno, che non ha mai fine,
Per la strada del Cicl bella c sublime
Par eh* elle sian le guide c le lumiere,
Ch’ han da cotidur ciucile beate schiere.
Eran Palle donzelle, di ch’io scrivo,
Una vestita a bianco, un’ altra a verde,
Simile a puro»e trasparente rivo.
Ed a bel mirto, quando più rinverde :
La terza a rosso , c d’ un color sì vivo ,
Ch'aliato a quello ogni gran fiamma perde:
Mostra la Diva dalla gonna rossa ,
CIP ella d’ assai v ia più che Paltre possa.
E ne dan segno ancor le nobil alme
Tolte da Cristo di si lunga noia.
Le quai co’ lauri in mano e con le palme
A lei via più, ch'ali' altre mostran gioia;
E mentr’cllc portar terrene salme
Di seguir lei nulla si stanca c annoia :
E san , che solo del suo foco acceso
fi Dio dal cielo in sulla terra sceso.
Queste, ed altre dal Ciel donne gradite
Ivan al bel trionfo, e fu ben degno,
Perchè quante virtù mai furo udite
Ornar terreno, nè celeste ingegno.
Tutte nella sua morte insieme unite
Fur col Signor su ’l glorioso legno :
Onde convelle han parte alla vittoria,
Così convicu, che 1’ abbiano alla gloria.
Il carro, ti* siede Paltò Impcradorc
D’orocdl gemme c di bei fregj adorno,
Era una nube sparsa U’un fulgore,
Clic al puro Sole a mezzo ’l cicl fca scorno :
L’abito illustre c ’isuo proprio splendore,
1 lauri, clic ’l bel crin cingon d’ Intorno ,
Sono l suoi propri mi, eh’ un tanto Duce
Non si può d'allr* ornar, che di sua luce.
Suonan per Paria angelici concenti,
Ovunque l’alta c nobil pompa passi;
Canore voci c placidi strumenti
Si tramai: dietro c Ceree piante osassi.
SAN PIETRO. 233
In mezzo alle beate alme splendenti,
Quel Re sì caro a Dio cheto non stassi.
Ma canta versi con la sacra lira,
CkieT nume usato ad or ad or gl’ inspira.
Cantale al gran Signor, cantate nove
Lodi, dicea ver le bell* alme volto,
Poi ch’egli Ita fatto sì mirahit prove:
Il caro popol di catena ha sciolto,
E con la destra, che ’l Ciel regge e move
Il ricco scettro al re dell' ombre ha tolto;
Ed agli occhi del mondo ed a noi mostra
La sua clemenza e la salute nostra.
Ricordato del grande, ardente zelo,
Onde ab eterno sua pietà P accese;
Per liberar il mondo aperse ii Cielo ,
E l’alta sua giustizia fé’ palese:
E ’l divin Verbo avvolto d’ uman velo
A soddisfar per noi qua giù discese;
E i termini del mare c della terra
Vider sua luce, e i regni di sotterra.
La terra c *1 mare e* lidi più lontani
Faccian festa al dator della salute ;
Cembali e cetre c tube e voci e man!
A dir Palle sue lodi non sian mute.
Oggi è quel di, di' è tolto ai colli umani
Il giogo dell’ eterna serri tute,
Con questo ed altro, quel divin poeta
invitava a cantar la gente lieta.
Continovando il canto il re giocondo.
Dell’ altre opere mirabili non tacque;
Sì come, pria che fabbricasse il mondo.
Lo Spirto del Signor scn* già sull' acque;
E come 'I cicl, la terra c'I inar profondo»
Ed ogni cosa senza seme nacque,
E dalla sua parola fu produtto
Con dir, facciasi solo , il mondo tutto.
E come, pria ch’ergesse l’alta mole.
Il vago lume l’alto Dio produce;
E quale il buon dal reo sceglier si suole.
Divise dalle tenebre la luce.
Come fece la Luna e come il Sole;
E la notte, eli' adombra c ’l dì che luce ;
E fc’ le stelle stabili c P erranti,
E gli altri del ciel lumi, clic son tanti.
Cantò come la terra e l’acqua e Parla
Empi di tante guise d’animali,
E tutti In foggia gli adornò sì varia,
A quai diede le squame, ed a quai Pali;
A quai la lana , eli* in color si varia
Oggi colanti, a quali il pelo; c quali
Armati il corpo, c quali Inermi ha fatti;
E i più di loro agli altrui comodi atti.
Come la terra, eh’ era vota c nudi,
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224 POEMI
Vuol che d'erbe e di piante l'empia od orni ,
E nel suo grembo 1 bei metalli chiuda ,
Onde crescendo il mondo poi s’ adorni :
E come tutto il bel lavor conchiuda
Il gran Fattor nel corso di sei giorni,
E’I settimo, clic poi celebre Tuo,
S’accheti c cessi dall' alte opre sue.
Cantò con note quel divin cantore.
Che par da mezzo l’alma si gli svelta.
Come avendo Dio fatto in si poche ore
Questa del mondo macchina si bella ,
Creò poi l’uom, per farnel possessore;
E benché ’l tutto fé’ con la favella,
L’uom solo formar tolse di sua mano,
Per farlo a sé più caro c più sovrano.
E prima che M buon He più in là proceda,
Umil si volse al suo gran padre Adamo,
Quasi perdon, per dir di lui, gli chieda.
E quel, cui nulla allor polca far gramo, [da,
Non pur con gli occhi par, che glicl conce-
Ma dica, di pur figlio, perché ’l bramo :
Diam lode a Dio, posciaché ’l mìo peccato
Cagion di tanta gloria al mondo é stato.
Né li bastò, che di sua mano il faccia ,
Ma il fa, diceva, all’alta sua sembianza;
E dove ogn’animal convien, che giaccia
Col volto a terra privo di baldanza,
L' uom solo ir fece eretto al Ciel la faccia,
Che miri la sua patria e la sua stanza ;
E fere e augelli e pesci ed altre cose,
Cb'ei fc’, sotto a’ suol piè tutte le pose.
E poich’ all’ uom si altamente fatto
Egli ebbe ogn’ alta cosa sottoposta,
D'alto stupor gl'ingombrò gli occhi adatto,
E datato gli svelse un’ampia costa,
Di che formò la donna, e la fe' ratto
Dcll’uom compagna;c lor fu legge imposta,
Che l'un dall’altra mai non sia diviso,
Ed ebber per albergo il Paradiso.
E posti in lor balia gli alberi tutti
Del giardin fortunato, che son tanti,
D’ un arbor sol loro interdisse I frutti
Sotto tremenda pena : gl'incostanti
Dal Serpe astuto ad ingordigia indulti,
Dispregiando di Dio gli ordini santi,
Quel pomo in vista amabile assaggiaro,
Ch’ a lor fu poscia, ed a noi tutti amaro.
Onde sbanditi dal tcrron felice,
E dalle rive di letizia piene,
Fer vita altrove afllitiacd infelice,
Ambcduo condennali a varie pene.
E com’ arbor, ch’ha infetta la radice
Ogni suo ramo ad infettar poi viene,
SACRI.
Cosi lor macchia venne a dilatarsc,
E sopra tutti 1 successor si sparse.
E dove il sommo Dio fatto avea l’ uomo.
Per dargli il Cielo, e per empir le sedi.
Che l’ Angel suo ribello vinto c domo,
E i suoi vacue lasciar, quando co’ piedi
In alto e’I capo in giù, l’orribil tomo
Fer nel gran fondo; e perchè degni credi #
Quel regno glorioso avesse avuto.
Poscia che gli empj se Caveau perduto.
Vedea ’l gran Dio quest’ uom medesmo
Che fe’ Signor del mare e della terra, [poi,
E li diè tanti de* tesori suoi;
Precipitar morendo aneli’ ei sotterra :
Nè giovar punto a’ valorosi eroi
Il far co’ vizj mentre vìsser guerra;
E quel, ch’ai del porse dolore interno.
Ir tulli preda del nemico eterno.
Deliberò d’ usar la sua pleiade ,
Senza clic alla giustizia si defrodi;
E non avendo l'uom possibiltadc
Mandò ’l suo Figlio, e ne’ terreni nodi,
Fati’ uom, s’avvolse la Divinilade :
Perchè su’l legno affisso d'aspri chiodi
Possa guarir l’ altrui con le sue piaghe.
Ed un uom sol per tutto ’l mondo paglie.
0 di nostra salute opra stupenda,
Esclama il cantor santo , ed alto intona ,
Acciocché la giustizia non s* offenda.
Al suo proprio Figliuol Dio non perdona :
E perchè l'alta sua clomenzia splenda
Il proprio Figlio in sacrificio dona.
Così le due virtù, che fan contesa
Han di pari l'onor nell’alta impresa.
Così le porte apre il Signor, che chiuse
Eran del Cielo, e le tartaree spezza.
In questo bel soggetto si diffuse
Tra via cantando il saggio Re gran pezza ;
E pien di somma gioia al fin concluse.
Che non minor di Dio fu la grandezza
(Se ben com’opra sua doveva amarlo)
In rlcovrarc il mondo, chc’n formarlo.
E la Vittoria e la Letizia intanto
Spiegando per quell’ aria le bell’ale,
Applaudcvan gioiose al nobil canto.
Coronale di fronda trionfale.
La vaga Fama or d’ uno, or d' altro canto
Scn’ vola anche ella, c spesso il suo im-
mortale
Spirto pon dentro alla sonora tromba.
Onda la terra e ’l Ciel lieto rimbomlia.
Il Tcmpo,ancorchè vecchio, lieto spiega
L’ale sue, l’una bianca c l’altra negra.
LAGRIME DI
Ed or dinanzi al suo Pattar si piega,
E di trar si bell’ ore si rallegra :
Or, che dia fine a sue fatiche il prega,
K cimi la U corso suo con fin sì allegra;
Poiché non spera di recare al mondo
Mai più giorno si fausto c sì giocondo.
E gl' innocenti pargoletti Amori,
SAN PIETRO. 225
Che dì santi desiri acrendon Palme,
Pinti le penne a mille bei colori,
E’nghirl.mdaU di pittrici palme;
Versa;: piogge amenissime di fiori
Sui crin di quelle schiere illustri cd alme.
Orni’ io fermando a tanta gioia il Canto,
Posar farò la stanca cetra alquanto.
DALL’ UVA.
IL MARTIRIO DI SANTA CATERINA.
Nato a Massimiano un figlio innanzi
Brad’ Eutropia donna di Sorla,
E desiando clic in virtù s' avanzi
E del prode esser suo buon saggio dia,
Con somma auloritadc a\ea pur dianzi
Posto il fren dell’ Egitto in sua balia;
EH giovine reggea del padre in vice
li bel paese c la città felice.
A Massenzio spietato il fero editto
Poi chcarrivò, chèqucsto il suo nome era,
E conobbe il voler del padre invitta,
E il nolo segno nell’ estrema cera;
Quasi in un batter d’ occhio in tuli’ Egitto
Palese fc’ 1* aspra sentenza c fera,
Per cui, senza guardar ordini o stali,
J seguaci di Cristo crai! dannati.
Se accusati nc fur, se uè fur morti,
Questo mi lacerò come già nolo.
Straziolli il nemico a mille morti ;
Né scoccò l’arco questa volta a volo.
Fredda la carità, scarsi ì conforti,
Ed ogni aiuto fu da lor remoto.
Però eli* egual castigo era egli imposto
A chiunque avesse il padre anco nascosto.
Ei comandò di più ( chè questo ancora
Scritto gli avea rimpcraior protervo)
Clic eli iunque alberga in Alessandria o fuo-
Strauiero o cittadii), libero o servo, [ra,
T rovar si debba ( e pone il giorno c l’ ora )
Nella regia città senza riservo,
tk>n l’ ostia eli’ al suo stato si confaccia,
E tal clic a Giove sacrifizio faccia.
Altri per riverenza, altri per tema,
S’ accinse in tempo debita al viaggio;
Le negre genti insin da quella estrema
Contrada eh* arde sotto il caldo raggio,
Non mai di fere c di serpenti scema, !gio;
Vennero a Giove Aminoli rendere omag-
E chi dell* Eritreo vagheggia il lido,
Zoppo non fu, poi clic n* intese il grido.
Mcnfl su nel passar barchette mille
Veloci al chino, ancor ch'aura non spire,
Perle larghe del Nilo onde tranquille
Al canopico son vide venire.
Il superbo Label con Se sue ville
Il comando rcalinostrò gradire,
E da quell* ampie sue piagge c riviere
Dell' Eufrate, mandò diverse schiere.
Tclic, ancor tu, de’ tuoi mandasti molti ;
Tebe già fu di cento porle ornala ;
E voi, eli* arale di Cirene I colli
Campi, v* andaste; e voi di Dannata;
Or questi insieme si trovar raccolti
Tutti, nella da lui fissa giornata,
In Alessandria ; c la città fu piena
Sì clic le genti v i capirò appena.
In veder tanice tante turbe sparlo
E per vichi e per piazze, entro e di fuori.
Credulo avresti che, guastando Marte
1 dolci campi, i timidi cultori
Fosscr fuggiti in più sicura parte
Seco portando le cose migliori;
0 fosser di lontan venuti in fretta
A solenne mercato c merce eletta.
Menate avea chi capre o pecorelle
Della sua greggia, chi la vacca o il toro;
Altri damme, altri cerve alle mammelle
Che già fur tolte delie madri loro,
E della nobil figlia e delle ancelle,
Avvezzate a scherzar, delizie foro.
Molli le avean di fior cinte e coperte,
Per far più vaghe e singolari offerte.
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226 POEMI
Augei di rossi? e verdi e gialle o perse
Piume vestiti c in bel modo fregiati.
Oli' bau nomi e cauli c regimi diverse,
dii peregrini e dii Mostrai chiamati,
Con gran diletto suo 1' occhio qui scorse
E restò in dubbio dei migliori ornati ;
Ostie eran di color che vita bau bruna,
Senza ricchezza c senza invidia alcuna.
Era bello a veder varie corone
di' ornar dovean le vittime c gli altari
Di fiori, che portò quella stagione.
Di color e d'odor fra sé dispari.
Misti con fronde ad onorarne buone
Osiri ed Isi, Idoli lor piò cari ;
E slmili ne fur d' oro e d’ argento
A fior c foglia clic si muoi a al vento.
Tutti in ordine son; s' attende solo
L’ imperador eli’ entro il palagio tarda.
L* aspetta in sulla porta armato stuolo,
Ed or le scale, or le finestre guarda;
Un feroce destrier clic batte il suolo,
E morde il fren spumoso, a lui si guarda,
Dicco di fiocchi d' oro, ornato d' ostro;
Non fu visto giammai piò nobil mostro.
Alfin Massenzio, il crin cinto d'oliva,
Fuor dell'uscio reai splendido apparse.
Lunga veste purpurea il ricopriva.
Che molte d'oro avea stelle consparse :
Dietro e dinanzi a lui gran turnia giva ;
Beo rari al lato suo ponno appressarsi' ;
E per mostrar dove la strada ha dritta
Un suo scudiero il sai porta e la vlua.
Cento candidi tori in sacrifizio
Olire egli a Marte riverente e chino;
E chiamandolo al padre c a sè propizio,
Di sua man sparge tra le corna il vino.
Come intento veder gode aH'oOlcio
li popol d' Alessandria e 'I peregrino ;
Tutto seco il senato, e nessun fiacco
In onorar Pluton , Venero e Bacco 1
Nel foco, sol da sacerdoti accenso,
Di cedro e d'aloè legni odorati.
Arsa gran copia fu ili quell' incenso
Onde sono i Salici tanto lodali;
Tutto di fumi fu l'aer condenso
Si ch’i raggi del Soi ne fur ombrali.
Zefiro per lo ciel leve spirando
Ebbe sommo piacer di gir vagando.
Avea frattanto Caterina intoso
Il gran tumulto con suo grave affanno;
E perchè v'ora il suo Signor offeso,
Comun lo scorno, universale il danno.
Di giusto sdogno. qnei bel core acceso,
SACRI.
L'armi che sempre altrui vittoria danno,
Usar dispone ; e qual di Fede ha zelo
Mostrare al mondo, coni’ è chiaro al Ciclo.
Pensa, ch'errore è il suo grande, se tace;
E si riprende con agra rampogna,
lo dunque avrò, die' ella, onor c pace.
Mentre è fatta al Signor guerra e vergogna?
Eia mai clic abbandonando il Dio verace
Tanto popolo adori una menzogna?
E che 'I timor di morte e l'altrui forze
Foco celeste c cosi vivo ammorzo !
Qual piò felice occaslon di questa.
Se dritto guardo, aver potrò giammai?
Forse mosse il Signor tanta tempesta
Per prova far, se in vcrili l' amai ?
10 ne morrò; ma qual piò morte onesta
Esser potria? qual altra io piò bramai?
Cile spei ’ io pivi dal iuondo?o che mi giov a
11 sovrastar dove ogni mal si trova?
Cosi dicendo a' servi suoi commette
Che vadati seco ove pietà la mena ;
Non usa vesti di broccato elette.
Non di perle e rubiti gonna ripiena;
Schietta porpora in desso ella si mette.
Solo un vcl bianco alla fronte serena;
Non orna il crine, anzi il rinchiudein seggi
Stretti, ch'ali' aura non lascivo ondeggi.
Come In sereno ciel splende la luce,
Che 'I nostro polo assai tarda circonda
Le lunghe notti, o l’alba, clic riluce
Il uovo di con la sua chioma bionda;
O come il Sol, eli’ in oriente luce
Allorché senza raggi esce dall'onda;
Tal era ella a veder, forse piò bella.
Quanto all’alma di lei cede ogni stella.
Poi che fu giunta al maggior tempio,
L’ imperador sacrificando stava, [dove
Aver le luci per mirar altrove
Intente, ch’ai suo volto, a ciascun grava;
Chè con l’ oneste sue bellezze nove
A sè gli occhi di tutti e il cor tirava;
Mov’ ella nella calca innanzi il piede,
Cli’ ognun per riverenza il loco cede.
E lì dov'era in reai sede assiso
Massenzio, alfin la vergine è rondutta;
Per udir lei, per mirar si bel viso
Cessò dall'opra quella turba tutta.
Di cerimonie usar non le fu avviso
AH'alma saggia, cli’è dal Ciclo distrutta;
Ma con voce parlò libera e franca.
Alzando alquanto la man bella e bianca.
E disse : Era ben giusto da te stesso
Scoprir, Cosar, i’ inganno in che voi sete ;
IL MARTIRIO DI
Chè quel che a un vivo Dìo sol A concesso,
A mille sorde immagini rendete
D’un uom puro mortai con quelle espresso;
Ma poi tal velo innanzi agli occhi avete;
Alraen fede prestar dovreste certo
A più d’un saggio che vel dice aperto.
Non avete dei Greci chi fur questi
Idoli e quanti, e V opre e i nascimenti ?
E come fur dappoi fatti celesti ,
Per benefizio che n’ebber le genti?
Che domar mostri orribili ed infesti,
0 pur fur inventor d’arti eccellenti?
Chi noi sa dall’ immagine di Belo,
Come ad empirsi incominciasse il cielo?
Quel famoso, ond’ Argira anco si gloria,
Ed A pur vostro e pur da voi lodalo,
Tanto noi vi racconta in quella storia
Che andò tessendo dal primiero stato?
E via più altri, clic lasciar memoria
Verace c certa del tempo passato?
Ma chi di quel d' Arpin dipinse meglio
Vostri Dei mal intesi e i’error veglio?
Io vo* tacer di Menfi e della terra ,
Che per si lunga \ia divide il Nilo,
Stolta ch’adora il bue, che pasce e serra,
E rende onor al cane, ai cocodrilo ;
Ma come Roma ancor si perde ed erra,
K basino alla Febbre alzato asilo?
Alla Mala Fortuna? a lei che sempre
K temeraria, e voler cangia e tempre?
E supcrslizion fallace e folle,
Che dal volgo introdotta abbracciò l’uso;
E così la rilicn ch’or ve ne lolle
Veder il veroc tutto il Ciei v’ Ila chiuso.
Ma sia cosi , poiché così si volle ;
Voglio averne pietade c ve ne scuso :
Perchè conira pietà l’armi romane
Di giuste fatte son tanto inumane.
Pietosa gente, schiera umile, inerme.
Clic Dio ben cole ed ama anco i nemici ;
Che costante ha il voler, le forze inerme,
Si cerca morte per monti e pendici ;
E tu se’ quel che l’ abitate e l’enne
Contrade e ’l foco a’ miseri interdici?
Non è in Egitto ornai palude o fossa
Che di lor non conservi il sangue o l’ ossa.
Ond’A, Massenzio, ond’A che tu persegui
Animi belli ed innocenti c casti ;
E brami che si spenga e si dilegui
Il buon costume, ed a virtù contrasti?
Qual delitto, qual colpa che s’adegui
In essi a tanta cnidcltà trovasti?
Che fan questi d’iniquo e di profano,
SANTA CATERINA. 2:T
| Che ti debban provar tanto inumano?
Forse hai per male, e parti gran peccato.
Ch’ai Re celeste testimonio fanno,
E riverenti , pria che *1 di sia nato ,
Con inni di pietà gloria gli danno ;
Ch'amano un puro ed innocente stato.
Nè san tessere altrui frode, nè inganno?
Questo ti spiace In lor, questo riprendi,
E non vedi clic Dio troppo n’ offendi?
Questa morte crudel, che lor tu dal,
E morte a tempo, e mille affanni acqueta ;
Ma quella che a te stesso ordendo vai
Non avrà fin, per volger di pianeta;
Là nè fuggir, nè contrastar potrai;
E se ben morir vuoi, ciò ti si vieta :
Ciò clie a molli tu fai, soffrirai solo;
E fia tardi il pentirsi, eterno il duolo.
Meglio fia dunque, a penitenza volto.
Fuggire il mal delle future pene ;
E, da’ tuoi lumi il fosco vel ritolto.
Conoscere un sol Dio, qual si conviene;
Un Dìo da cui, quantunque offeso molto.
La vita pure c il dominar ti viene;
Un Dio, che n’atnò tanto, e per salvarne
Prender non disdegnossi umana carne.
Nè ti turbi l’udir come morisse
In croce. Alto mìsterio ivi si vela.
Egli il fece, egli ’l volle, e si predisse,
E sofferse gran duol senza quercia.
Perchè volesse ciò, perchè patisse,
A chi brama saperlo, c’ non si cela.
Pur che non finga, ed umile e sincero
intender arai a sua salute il \ero. ['corre,
Com’uoizi, cui cosa all’Improvviso oc*
Ch’ esser prima impossibil gli fu avviso,
Resta Massenzio attonito, e gii corre
li sangue tutto per ie vene al viso;
Indi al cor entra, e sì l’infiamma a torre
Tanta vergogna; poi mirando fiso
Quella somma beltà, quel dolce soie.
Sente un nuovo desio, ned Ita parole.
Pur si riscosse c disse : Donna, aspetta
Che questo io compia, c t* udirò dappoi.
E dato fine al sacrifizio, in fretta
Torna al palagio, ed in tornando, a’ suol
Che conducano a lui la giovinetta
Comanda. Intanto fra quegli altri eroi
Parlò del caso e d’una audacia tale;
E saper volle chi fusa* ella c quale.
Da Tola Alessandri gli fu risposto.
Che Caterina la fanciulla ha nome.
Figlia costei fu d’ Alessandra c Costo,
E fu di Costo gcnitor Lisoinc.
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J28 POEMI
Di questo abbiamo elle fu padre Icoslo,
Cui fu madre Seleuce; e disse come
Kussc di Tolomeo Seleuce l'Elia,
E eli’ era in somma di rcal famiglia, [padre
Soggiunse a questo ancor, che ( osto il
Sili da primi anni esercitar l'ingegno •
Fatto le arca nell’ arti più leggiadre,
Ed in ogni scienza e studio degno.
E che già morto lui, morta la madre,
Viver libera a sè Tacca disegno :
Noia Sibilla, di virtute amica,
Poiché non meno dotta era e pudica.
Da donna intanto, in abito negletto,
Clic la facca parer più bella, arriva ;
E qui spinta a ridir quel ch’avea detto,
E perchè cosi mal ile' Dei sentiva,
A Massenzio ridisse il bel concetto,
Audace no, ma di temenza priva;
E cosi ’l vero in sua ragion coucliiusc,
Cli'a chiunque l'udì la bocca chiuse.
Senza gli occhi girar pur una volta
Dalla bella sembianza umile c piana,
Gelido c muto il giovine l'ascolta,
E veder pargli o Venere o Diana,
Chè nè mortai tanta bellezza accolta,
Nè la voce gentil l'accusa umana.
E dice fra suo cuor : Dea è costei,
Dea certa, ma non già de’ Tolomei.
E dicca vero in ciò, chè cosi bella
Nè Cleopatra fu, nè Berenice :
Benché di queste il mondo assai favella,
E tante cose ogni scritlor ne dice.
Crea ogni moto suo beltà novella,
E grazia, clic può fare altrui felice.
Ma quando paria poi, gli animi invola;
Tanta porge dolcezza ogni parola.
Vera onestà, ch’ogni bcltade accresce,
Tante bellezze sue iacea più rare; [cresce
Mentre le asconde c in Ilei modo le in-
E dimostrarle altrui noia le pare :
Chè l' umano desio più monta c cresce
Sovente In quel che ne reggiani vietare :
E più care le fa , mentre di fuore
Tralucer fa quanto sia bello il core.
Poi ch'ella tacque, a lei Cesar rispose
Più mansueto, e non perù meli fello;
Prima lodolla, e poi le disse cose
E le fece atti che il lacere è bello.
!.a donna rossa diventando oppose
A quel desire li voler suo ribello;
E ruppe vergognosa In questa voce
Verso lui, elle benigno anco le noce ;
Clic fai, csar, che pensi 7 ove ti volvc
SACRI.
Qualsisia de’ vostri infcrnal drago?
E di cosa clic al vento si risolve
Con tuo sommo disnor li rende vago?
lo, qualunque mi sia, son ombra c polve.
Ornala ben da Dio di questa iinmago.
Qual se bella ti par, leco ripensa [mensa.
Quanl’ abbia, ei clic la fc’, bellezza ini-
Creder si può quanta beltà divina
Risplcnda in lui, se tanta altrui ne porge ;
Quanta eccellenza sia, quanta dottrina.
Se l'opra di sua mau si bella sorge
In Trai materia, che in un di declina.
In subbietto, che vii tanto si scorge.
Questi produca in te sol maraviglia,
E d’amar questo teco ti consiglia, [laudo
Clic dovrà dunque far ? Se argomcn-
Con lei combatte, d' esser vinto’ teme.
E del disprezzo degli Del pensando
Va fra sé stesso, e del suo scorno insieme.
S’usa la spada e l’ira, e mette in bando
Pietà, di goder lei perde la speme;
Nè farle forza può senza periglio ,
Che non muova Alessandria alto bisbiglio.
Guerra gli fan contrari alTctti ; avanti
Spingendo ognun sua desiosa schiera.
L'un si vuol vendicar d'orgogli tanti;
L’altro goder della nemica intera.
Tal fra due agni egualmente distanti
Potria trovarsi ingorda lupa c fera.
Clic non sa onde pria sazi sua fame.
Vinto un desio da due diverse brame.
Alfin consiglio a lui parve opportuno
Clic ragion da ragion vinta fosse anco.
E dice a lei clic troverà più d' uno
Oratore o filosofo si franco.
Che ben tosto potrà vìncerla, e bruno[co :
Scoprirle quel ch'agli occhi suoi par biau-
E in guardia, in questo mezzo, al vecchio
Dièquclla santa clic a'suoi di fu sola. [Tota
Ciò fatto, scrisse alle città più chiare,
Ovunque aver credette uomini saggi ;
Nè gli bastò di Persia a sè chiamare
0 dell' Egitto i sacerdoti e I maggi ;
Ch'a più navigli fe' solcare il inare,
A Cipro, a «odi ; c chi drizzò i viaggi
Atene, alle tue scuole, e qual più fosse
Di chiaro nome al suo signor condusse.
Pria che ’l pianeta, che non ha mai stato,
Avesse pieno e poi scemato il volto,
Con plcciol intervallo il fortunato
Drappello in Alessandria fu raccolto;
Nobile schiera, a cui dal Cici fu dato
Veder quel che non vede il volgo stolto,
Digitassi:
IL MARTIRIO DI SANTA CATERINA. 229
Ter la dura corteccia, clic I* ammanta ;
K di numero Tur tulli cinquanta.
Con passi lenti ed ocelli tardi e gravi,
Di grand'autorità ne' lor sembianti,
Venner dinanzi a Cesare que’ savi
A queslion far con Caterina eletti;
E mostrar tutti in viso alti soavi;
Ma nullo aperse le sue labbra ai detti,
Chè vulcano inferir nel lor silenzio
Coni’ era n pronti ad obbedir Massenzio.
Quegli lor breve assai la rosa aperse,
Per la qual di sì (unge a se chiamolii ;
K portando in suo dir ragion diverse,
In somma a ben armarsi conforlolli.
E trofei e corone e premj offerse ,
Se a lei cangiar facean suoi pensier folli,
Del cui saver dir volle a ({nella schiera
Più di quel, eh’ ci credca, non di quel
E risposto gli fu che tal impresa [ch’era*
Sol in tanto parca lor di gravezza
Che discomiensi, molii aver contesa,
E filosofi poi , con una trezza.
Ma se pur questa a lui non sembra offesa,
Ed a cosi voler propria vaghezza
Il tira, ecco son presti, e sp me han certa,
Che quella o si confonda o si converta.
Molti e molli fra questi erano, ì quali
(Cosi disposto avendo il Re superno)
La lunga turba di Dei tanti e tali
Con maturo consiglio aveano a scherno.
Ch'altro inlcndcan dì que'Numi immorta-
E delle sfere, e di quel fabbro eterno, [li,
Ma senza carità, fede e speranza
Citali pur dietro alla comune usanza.
La notte ch’andò innanzi a quell'aurora,
Che fu segnata alla question da farse,
Non posò Caterina una sol ora.
Ma sempre a Dio lagrime e prieghi sparse ;
E voce udì, che vincitrice fora,
E vedrebbe il suo nome al cielo alzarse.
Questa nel petto ogni timor l’cstinse;
SI clic franca a pugnar la spada cinse.
Venne il di destinalo, e ’l Sol si vide
Avanti all’ usat’ora uscir dell’ acque :
Coni* è qualvolta più s'allegra c ride
Là verso il maggio ; chè veder gli piacque
La nobil pugna in cui l’error s’ancide.
Quando la donna, che per gloria nacque.
Al campo giunse, overan giunti in prima
I cinquanta oralor di tanta stima.
Muse, voi cheli foste, voi ch’onore
Allor lingua di lei deste cotanto.
Se mai cura del Ciel vi toccò ’l core,
Se di vergini amate il nome santo.
Or ch’io son giunto a dir del suo valore,
Del suo chiaro contrasto, alzale il Canto;
Date aita allo stil ; nobile e novo
Lator mi nasce; maggior opra lo movo.
Il contrasto durò tre giorni intieri :
Il primiero annullò dei Dei la turba.
Chè Caterina da principi veri
Trac altro stame, c l’ordine perturba.
E gli riduce a lochi alpestri e Aeri,
Ove per dimorar ragion si turba.
Cli’a quel, che non cont icn qui nei si piega,
Se I concessi principj altri non niega.
Ella dimostrò lor coinè fur questi
Uomini fatti Dei dal volgo ignaro;
0 così pur con favolose vesti
Da principio que’ saggi il ver cclaro.
E del fuoco e dell'acqua c de’ celesti
Corpi gli effetti e la virtù seguaro,
In cui riluce Dio sì come in quadro
Di pittura gentil fabbro leggiadro.
Ma non però son Dei: cont icn che sia
Un sol, un sol ; nè più ragion nc animelle.
Perchè o distrugger l'un l'altro poiria,
0 forati d’ amilo le virtù ristrette :
E s’ha Dio somma libertà, che Ha,
S’ un vuoi usar pietà, l’altro vendette?
Se tu dici due Dei, vicn clic I’ un d’essi
Sia bealo nell'altro, ambo in sè stessi.
Ma s’egli è Dio quel sommo, eterno bene,
Che in sè chiude ogni bene, ogni perfetto,
E quanto può bear tutto contiene;
Contesser può bealo in altro obbictlo?
Chi riceve d’altrui, mostrando viene
(E ben creder si può) ch'egli ha difetto;
Dunque o l’un togli o di* clic l’altro è sco
E meco adora un Dio solo e supremo [ino;
Questi è quei, che ili voler, d' alluso
oscuro
Trasse la luce e formò ’l Sole c ’l giorno ;
E sopra il foco e l'acr dolce c puro
Distese il ciel, che ne si volve intorno;
E quel suo vago cristallino azzurro
Fe’ di sì belli e chiari lumi adorno;
Lumi, che dietro a favoloso esemplo,
Cinse il Greco c Roman d' altare e tempio.
Ma se per Giove voi meglio intendete
Questa prima caglon che regge il cielo.
Dal volto ornai d* un tanto Dio Loglicie
Pien di favole e d’ombre il lungo velo.
E concordi con me , di lui credete
Quel, eh' io, per bocca sua, ve nc rivelo.
Credete, che da lui solo dipende
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POEMI SACRI.
510
Natura, li mondo ed ogni ben discende.
Credetelo invisibile. Immortale,
E che di nulla cosa egli ò sembiante;
Ma se riguardi a quel eh’ ci face c vale, (
Puoi stimar che ti stia sempre davante;
Ch’ egli empie il mondo c il rende bello e
tale;
Da Ini bau frutti c fior l’erbe e le piante,
Stelle il cicl, onde il mar co’ pesci suoi,
Il sentir gli animai, la ragion noi.
Credete, che intendendo egli si1 stesso,
Genera il verbo e generato l'anta;
Dal verbo amalo il generante aneli’ esso
È di naturi sua con egual brama.
Questo divino amor si dolce espresso.
Spirto santo c divin da noi si chiama :
Un solo Dio, che intende e vuole espira;
E in sò medesmo si rivolte e gira.
Comune a tre persone una è l’essenza,
Una la Deità, l'oprc indivise.
Cosi l'anima nostra ha conoscenza.
Memoria c volontà Tra lor divise
Indivisibilmente; osta semenza
Egli nel terren nostro, immortai mise;
E non per altro che per tal figura,
Dell' à simile a lui nostra natura.
Mirate lui, che ne riporta il giorno.
Com’ha tic varj effetti, essendo un solo;
Infiamma c vola, e col bel viso adorno
Rischiara insieme l'uno c l'altro polo.
Indivisibilmente In un soggiorno
Son tre cose il calor, la luce c il volo :
Con tre ofiizi in un giro ed in un tempo
Empie la rota che misura il tempo.
Non oso assimigliar, che me ti’ accuso.
Ciò clic al mondo ò creato, al Re celeste ;
Ma noi mortali, a cui mirar più in suso
Non cosi son le luci abili c preste,
Agguagliar alle grandi abbiamo in uso
Delle cose minori or quelle, or queste.
E ritrovare il ver che ne si cela
Per quel tanto eli’ a noi s’apre c rivela.
Questi argomenti ed altri che la penna
Lascia ornai stanca, e parte stringe insieme
SI frettolosa, che non ben gli accenna,
Ebbe la donna, eh’ in suo dir non teme.
E come Dio lo cor puro Io impenna,
Snoda ,spargc,disperde, annulla e preme
Quanti son contra ’l ver detti sofismi,
Vibrando intorno acuti sillogismi.
Più ch’altri non pensò. Tur torli e scarsi
De' filosofi I detti c le ragioni,
E di lacciuoli c di tenebre sitarsi,
E qual opra da ragno i lor sermoni,
l’armi vederli ancor seco adirarsi,
Fin eh’ a partir le liti e le questioni
Espero usci dalla stellata soglia,
E corse il Sole al mar contra sua voglia.
Il di secondo a questionar si riede,
E d' una in altra cosa argomentando.
Dell' umana natura a lei si chiede
Se fusse eterna, o cominciasse c quando.
Ella eh’ occasion porger si vede
Ch’Ita sin dal principio era bramando,
D' alto il parlar comincia e dice cose
Agli angelici spirti ancor nascose.
Perche de’ giorni sci l'opra perfetta
Lor raccontando, iti tanto il ver somiglia,
j Che veder parti l’onda clic s’ affretta;
1 E il mar per letto suo s' elegge e piglia.
La terra farsi dura, si soletta
I Scorgere il nuovo Sol con meraviglia,
Che primier in un subito lampeggia;
Onde in monte ed in pian selva verdeggi.
Forma gli augelli c gli animali c l’uomo
Clt' esser signor e re deve del tutto;
Purché non gusti del vietalo pomo.
Godasi a voglia sua d’ogni altro frutto.
Ma dalle rie lusinghe eccolo domo
Della credula moglie, cccol sedutto;
E per gradire i dolci prieghi suoi
Offese Iddio, sò stesso ancisc c noi.
Allora il rampo malignò primiero,
E tristi logli e lappole ebbe spesse.
E la sterile avena acquistò imiterò
Fra ’l grano e l' orzo e violò la messe.
Allor la tigre irata e il leon fero
L’ innocente vitella ingordo oppresse.
E del sangue del bue, chea! giogo il collo
Avrà messo, imparò farsi satollo.
Tacito al fosco della notte apprese
Romper la mandra il lupo c furar gii agni ;
E il pesce l’ amo dentro all' esca prese.
Nò sicuri trovò fiumi, nò stagni:
Il tordo edace nelle reti tese
Udì pianger prigioni i suoi compagni,
Ed egli, die campò da si gran risco.
Provò ben tosto tra le fronde il visco.
beiteli' alto muro il vago orto raccoglia,
E cinga siepe le vigne fiorite,
0 rode il verme la tenera foglia,
0 l' uva è dagli augei lolla alla vile.
Del giovamento suo 1’ erba si spoglia,
E nutre umor, che abbrevia altrui le vite,
Fondendo rio letifero veleno,
E sugo amaro, clic di morte 6 pieno.
IL MARTIRIO DI SANTA CATERINA. 231
Miseri noi, che prima avea Natura
Le vipere prodotte anco innocenti.
E il nappcllo e I* aconito pastura
Soave fur dei greggi c degli armenti :
Ma poi che 1* uoni perdeo pietosa cura,
Nacque il veleno, nacquero 1 serpenti;
E gli elementi, d’ amicizia il uodo
Rotto, più non serbar l’ usato modo.
Stride Aquilone e frange pini c faggi,
Sì che M tenero bosco a terra cade.
Soverchia il fiume i soliti viaggi,
E spesso affonda le mature biade ;
Fa anco il fuoco ai duri marmi oltraggi,
E nulla il ciel sereno ha sccurtadc.
E s’arma in somma il mondo conira a lui
Che non conobbe i pregj c gli onor sui.
Nè sol la terra e l'acqua, il foco e T cielo,
Dopo il gran fallo, a sè vide rubcllo;
Ma trovò *1 proprio suo corporeo velo
Alla parte miglior nemico c fello.
Dal caldo lo ripara egli c dal gelo,
E pasce e posa sulla piuma c ’l vello;
Ma quanto esso il lusinga e gli fa vezzi.
Tanto c più molto quei vien che lo sprezzi.
D’ acuti morbi c febbri ardenti nuova
Schiera repente assediò la terra.
Trovò la fraudo e la malizia a prova
Tutto il mal che quaggiù si chiude e serra.
Furti, oltraggi, adullcrj, onde si muova
A grandi imperj sanguinosa guerra.
E morte, che dovea non venir, venne;
E sopra la sua vita imperio ottenne.
Narra com’ erari buoni a rilevarlo
Due modi; 1’ un di noi, 1’ altro di Dio.
0 foss’ ci mosso a di sua mano alzarlo
Onde giacea, come cortese e pio,
0 pur di tant’ offesa a soddisfarlo
Avesse spinto noi nobil desio.
Ma come potea questo uom puro e greve
Sendoil fallo infinito, egli sì breve?
Dunque restava a Dio sì stretto invoglio
A sviluppare, e due modi altri avea.
L’un dir: così mi piace, così voglio;
Chi contraddetto avria, se ciò volea?
L' altro, pien di fatiche e di cordoglio,
In guisa oprar che non sen doglia Astrea ;
E nosco ci soddisfar del suo tesoro
Quel che l’Indo dovea, l’Italo e il Moro.
Ma perchè l’opra è tanto più gradita
Dell* operante, quanto più appresenta
Della bontà del core, ond’ ella è uscita,
E par che più in altrui dolce si senta :
L’ alta Bontà ineffabile, infinita,
Vuol che giustizia ancor resti contenta;
E eh’ intravvenga a tanta pace, e sia
Quella di’ al fallitor speranza dia. '
A costei far contenta, c liberarne,
Era, gli altri remoti, un modo solo,
Ch’ a vestirsi quaggiù d’umana carne,
Dai suo regno di Dio scenda il Figliuolo.
Corse quasi gigante egli a sah arile,
E di si lunga via non sentì ’l duolo.
E fe’ sè atto a sofferire In ntii ;
Noi alti al Padre soddisfar in lui.
Del nascer suo gli alti prodigi e il corso
Del viver segue iusin eh’ a fine il guida,
Sì coinè agnello, che tra lupi è corso
Libero, nè dà fuor voci, nè strida.
Lieta a lui corre Morte a dar di morso,
Ma trova chi l’ offenda e chi l’ aucida;
Chè rimau presa come all* amo il pesce,
E d’ antica balìa giustamente esce.
A questo aggiunge come il terzo giorno,
Vinta lei clic I’ ancise iniquamente,
Risuscitò di ricche spoglie adorno,
E visibile apparve a molta gente :
Fin che s’ alzasse al suo primo soggiorno ;
Nè chi questo narrò, simula o mente.
Ch'ama onor e virtù; nè mentir puote
Chi fugge i preraj e le bugie percuote.
Che voglio dir di quel lucido foco
Che discese dal ciel, quel che narrasse?
Coinè tal, ch’era dianzi e freddo e roco,
Tutto in voce ed in fiamma si cangiasse?
0 come francamente in ogni loco
Sparso il buon sangue pio si fecondasse?
Qual pena non soffrir, quaistrazjc frode?
Nè di tanti pur uno, oimè, dir s’ode!
Chi ini ricorderà quel, eli’ ella poi
Di fede c carità disse c speranza?
Come con que’ felici delti suoi
Scopre le gioie dell’ eterna stanza?
Gir presso, Musa, al suo saper non puoi ;
Ella col peso il breve dir avanza
Delle parole, e vince il tempo, e rende
Un'armonia, eh’ è foco, c foco accende.
Di marino diventar quanti 1* udirò
Maravigliando, ed obbllar sè stessi ;
Nè s’ intese d’ alcun pur un sospiro;
Tanta dolcezza aveva i cori oppressi.
L* aura raccolta in quel felice giro
Non fu chi mover mal punto vedessi,
Mente* ella disse ; e passò ’l tempo e corse,
Chè chi stette ad udir non se n’accorse.
Era 1* opra dì Dio ; Dìo d’ eloquenza
A lei dìè largo impetuoso fiume:
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J32 POEMI
E sete tale ai cor, eh’ all’ influì' tua
I argani avidi I campi oltre il costume;
E ricevuta poi nobil semenza
In virtù del calor del maggior lume,
In picciol tempo al buon cultor renderò
Erutto, che di di in dì si serba intero.
Era molti, gli oralor l’ occulta forza
Sentir del vero ilei Nume div ino,
Cb’ a lei la lingua e l’ intelletto inforza ;
E inen rende pregialo Atene c Arpino;
E vider un, che gli tirava a forza.
Ma dolcemente, al verace cammino.
Parlando dentro al cor. Questa è la strada
l)a gir al Ciel ; chè più da voi sf bada ?
L’un l’ altro rimirò stupido in vista;
Poi disser come Dio lor delta, uniti,
(di’ avrian risposto alla famosa lista
Dì sue questioni c falli altri quesiti,
li dì seguente; poi clic forza acquista
L’ umida notte c d’ Alessandria i liti
Lascia ornai Eeiio, e rapido nasconde
Meli’ Atlantico mar le chiome bionde.
Tornati a casa, lor l’acqua alle mani
1 servi dicro c gli locar a mensa,
Clic ricca fu di cibi pochi e sani,
E breve c parca e sol col dir cstcnsa.
In lodar Caterina c que’ sovrani
Discorsi suoi gran parte si dispensa.
Ammira chi l'ardir, chi ’l saper grande,
Poste in obblio le tazze e le vivande.
Ciascun del ver udito arde c sfavilla;
Ma miglior tempo a palesarlo attende,
Citò non sa, come il suo, s’ una favilla
I cori altrui soavemente incende.
Solo a colei di Dea o di Sibilla,
Egualmente da tutti onor si rende.
E in lei, da tutti, si conferma, e dice
Abitar Dio, cui contrastar non lice.
Poi ch’l vasi d’argento e d’oro fino
Tolti alla mensa fur da’ servi accorti,
E dai pinti tappeti il bianco lino,
Nè cosa più rimati ch’oltre si porti;
Dato congedo a quei con lieto Inchino;
E principio agli usati lor conforti ;
Cosi sciolse la lingua Artemidoro,
Ch’era il’ essi il più vecchio, e disse loro :
Che farem noi, compagni ? vogliam noi
Esser o pur al volgo parer dotti?
Mirar nel Sole, o pur de’ raggi suol
Far al nostro veder tenebre e notti?
Udito ho io due giorni, udito voi
Di Caterina gli argomenti dotti;
Quel che avvenga di voi non saprei dirne,
SACRI.
Ma l’ intelletto mio sente gioirne.
Della quistion primiera io fo gran stima,
Come ben dispiegata e come degna;
Pur chi non sa, cli'independenlc,eprima
L'alta cagion del lutto esser consegua;
E come in ogni gente, in ogni clima
Uiiivcrsal consenso a ciò s' attegna?
Ma questa d' oggi tranquillando acqueta
Le menti, c ch'altro sia, pensar ior vieta.
se dicesse alcun : vo' che mi mostri
Con veraci ragion quel ch'ella adduce:
Risponderò (coincch’a me de' vostri
Peusicr giovi sperar più chiara luce) :
Ch’alle rose del Ciel son gli occhi nostri
Qual di notturno augello alla gran luce;
Ma miracolo è ben, clic tali essendo,
Pur ne vada costei tanto scoprendo.
Dunque per me così discorro c dico.
0 questo è vero, o non 6 vero in terra ;
0 lo Ciel è fallace, o m'é nemico ;
Ei ni' inganna, ri mi vince, cimi fa guerra;
Ch’io trovo rientro me, con sforzo amico
Un, chcdulcc il mio core apre e disserra,
Ei vi scrive Gesù ; nò so ’n che modo,
Ma sento farlo ; c ne gioisco c godo.
Credoa Dio, non a lei : nò perch’io ceda.
Vinto però , ma vincilor rimango.
Chi potria dir, ch'altrui noccia, nò leda
Di tenebre spogliarsi , uscir di fango ?
Se per ombra c per Sol cerco far preda
Solo d’ un vero , e ne sospiro c piango ;
Giunto lui , che più debbo, o che poss' io
Altro far , clic quclaruc ogni desio ?
Dite ii vostro parer, dite, fratelli,
Ed , o meco sentite , o me vincete.
Qui fine impose al suo parlar ; ma quelli
Clic gii negli occhi , c nelle fronti liete
Le parole avean scritte , al ver ribelli
Nè mica furo ; e dimostrar più sete
Ardente della sua di far acquisto
Della verace santa E’è di Cristo.
Cosi lalor aride legna eli’ hanno
Da vicino calor , gran caldo preso ,
S’ arriva un plccol lampo, ov’etle stanno,
Soglion repente aver gran foco acceso ;
Corrono in sulle fiamme e rumor fanno
Con l' affrettarsi , eli' è da lungo Inteso ;
Ardono i letti e ciò clic loro incontra ;
Nò trovan cosa che resista incontra.
Concliiuser dunque di contun consiglio
Tutti insieme sentir con Cateriua,
Senza temer di danno o di periglio ,
Se il Ciel si onesta morte lor destina.
233
IL MARTIRIO DI SANTA CATERINA.
E s’abbracciar con si pietoso ciglio,
Che ben mostrar aver mente indovina
Di dover l’altro di partir da questa
Vita si dura , ed al fuggirsi presta.
Poi eh’ ad aprirai dì l'aurata porla
Con la candida man venne I’ Aurora ;
E la quadriga , che lo Sol ne porta ,
Fu del mar Ocean gran spazio fuora ;
Al campo ritornò la donna accorta ,
E quella schiera avventurosa ancora.
E più che '1 di passato, e 1’ altro avanti ,
11 teatro ripieno ebbe ascoltanti.
Tacquero tutti , e con inuiiobil viso
Mostrar desio d’intender l’altra parte.
Allor un d’essi, ch’avea nome Eliso,
Cui per lutti parlar cesso era in parte,
In piè lei alo , onde prilli’ era assiso ,
Cesai guardò con l’ altre genti sparte,
E disse poi : Signor cui diede ii Cielo
Imperio grande c di pietà gran zelo ;
Nè d’infamia timor ne spinge a dire
Quel , eli 'udrete da noi , nè d'onor voglia.
Giacché spregiato il mondo e il suo gioire,
Siamo contenti appiencii' egli n’accoglia.
Quel vero , onde abbiati! noi solo desire.
Semplice e schietto a palesar ne invoglia ;
Chè dopo averlo cerco in ogni lato,
Dove nien credevam , 1* ahbiam trovato.
Quivi l’ abbiam trovato, c come ingordi
Di lui , già ricevuto a grande onore ;
E ben potremmo noi lutti concordi
Tenerlo ascoso e non mostrarlo fuore;
Ma perdi’ egli non vuol clic mai discordi
Dalle parole o dalla fronte il core.
Siamo forzali a dir , coni’ è sincera
La pura fè di Caterina e vera.
Nè riputate noi sì vili e stolti
Che levemcntc a ciò creder veniamo ,
Come spica clic al vento si rivolti ,
O come fronda clic si muova in ramo.
Si va per noi , noi anco al ben siain volti
E , come voi , felicità cerchiamo ;
Di cui tanto è la mente e cassa e priva ,
Quanto il ver non comprende onde deriva.
Oltre seguir 1* ordito suo discorso
Voleva Eliso per condurlo a fine :
Ma da Massenzio , più feroce eh' orso,
Le ragioni efficaci c peregrine
Fur interrotte al cominciar del corso.
Così s’ avvien che il monte allo ruine ,
Le gclid’ acque sue fontana perde ,
Nè più nodrica le viole e il verde.
Con dubbio ed ansio cor stalo aspettando
Era egli assai questa risposta loro.
E talor fra sè stesso ito sognando
Cose maggior di quel famoso coro ;
Ma quando vide sè deluso , quando
Vide, ch’a lei cedea si belio alloro.
Arse d’ira e di rabbia , e quasi insano,
Due volle al ferro suo pose la mano;
Pur puotc ai gran furor tanto dar luogo
Che spiò s’era ciò parer degli altri ;
E risposto di si , fc’ fare un rogo
In un rivolger d’occhi a’ servi scaltri ,
E i cinquanta orator morir di fuogo ;
Egli presente sta perchè si scaltri
Ciascun all’ opra ; e non si parte un punto
Finché '1 numero bel non sia consunto.
Oh fortunali che’n sì pura e bella
Fiamma di caritade al Cicl salirò ,
Ov’ or luce ciascun si come stella
Qual aver suol più luminoso giro !
In vece d’un bel rio questa facella,
Se nulla avean di macchia o di deliro,
Purgoili si , clie levi fatti e mondi ,
Corscr sì lunga via presti e giocondi.
Ciò fatto, il Pier tiranno ebbe In pensiero
Trafigger lei che tanta briga mosse;
Pur amor combalteo 1* animo fiero,
E dalla cruda voglia lo rimosse.
Si volge dunque al lusingar primiero,
E fa tutto Testremo di sue posse ;
E promette giurando alla sua chioma
La corona d’ Italia anco e di Roma.
La trova a’ prieghi sua rigida, ed aspra
Qual dura selce , o qual Marpcsia cote ,
Che nè per lunga pioggia si disaspra,
Nè per gran vento mai si move e scuole.
11 superbo e sprezzato re s' iunaspra ,
Turbato gli occhi c pallide le gole.
11 desio, la pietà cede alla rabbia
E dell' ostinaziou mercè vuol eh’ abbia.
Nuda le membra , con piombate cuoia
Batter la fe’, di' a terra il sangue corse;
E sol le ne lasciò quanto non muoia,
Benché restasse della vita in forse ;
Per poi gittarla d’ una in altra noia
D’aspra catena a lei le braccia attorse :
E con schiera malvagia, innanzi c indietro,
Lacera fc’ condurla in career tetro.
Pcntrsl non 1’ aver subito uccisa,
Quand’cra mcn lo scorno, e meno il danno;
Ma se noi fe’, l’indugio suo divisa
Ricompensar con raddoppiarle affanno.
E si consiglia in qual più strana guisa
Aspri tormenti nel morir si danno ;
POEMI SACRI.
E corcando trovò novo Perdio ,
Clic di quel che volea tosto sorvìllo.
Quattro ruote d’uncini e serre spesse,
Clic pur la (ista orror genera e tema ,
L’ ingenloso , accorto fabbro inlesse ,
E in mezzo una colonna erge suprema :
La qual ciascuna delle ruote appressa
Quanto bisogna con la parte estrema.
Le reni ha da tener quella colonna
Esposto ai ferri il resto della donna.
Le quattro ruote orribilmente rie
Di fino acciar sol una molla tende ,
Che quando alle rivolle apre le vie,
Stridori infausti c formidali rende.
Sol nell' inferno creder vo’ che sic
Macchina ullricc, che i dannati offende,
Di questa più terribile ed acerba.
Ila il mondo tal nò vide inai , nò serba.
Mentre si fabbricò quel crudo ordigno,
Di cui per tutto il Nil vagò la fama,
Non stelle a riposar l’oste maligno,
Che il nostro bene c la virtù disama;
Si trasfigura in spirito benigno,
E trova Arsinoe la nutrice grama
Di Caterina, che s’aflliggc ed auge;
E dell’amata figlia il caso piange.
Clic fai , le dice , Arsinoe , si soletta ,
E spargi al vento laute voci insane?
S’ aitar brami Caterina, in fretta
Corri oggia lei, chò tardi Ila dimane.
Dille che lasci la cristiana setta ,
E le sue leggi favolose e vane ;
0 finga almeno , e viva e Insieme goda ;
Perchè del maggio suo sò stessa froda ?
Va, non oltre indugiar, chò chi la guarda
Di gir a lei li mostrerò le scale.
Arsinoe, eh’ ode ciò dirsi , non tarda
Ricevendo da Dio consiglio tale.
Parve all' andata sua tremula e tarda ,
Chi le fu consiglicr giugnessc l’ ale :
Arriva alla prlgion misera, c trova
Nel custode crudel cortesia nova.
Citò d' Introdurla a lei prende fatica
Avvegna ciò gli vieti espresso editto.
Come la vede la nutrice antica,
A terra gitta il corpiceiuolo afflitto,
Il crin si straccia, e prima ch’altro dica,
Maledice quel di, che vide Egitto,
Per lei nodrir suo prezioso bene,
Se portar ne dovrà si amare pene.
Poi eh' asriugato c serenato ha ’1 volto:
Figlia, le dice, c perchè perder vuoi
(Quclch’lo dlrcc biasmarda tutti ascolto}
Il dolce fior de’ teneri anni tuoi?
Non vedi tu che Dio n'ofiendi molto.
Ch'egli ti dona il Irene, e tu tei tol;
Che strano umore ò ’l tuo, che frenesia,
Poich’a te stessa sei crudele e ria?
Or non è questo al rapido torrente.
Perchè le spiche aunieglii aprir la strada?
Non è questo alla man fera e possenlo
Dell'inimico tuo porger la spada?
Deh per quel latte, che si dolcemente
Ciò buon tempo ti diedi, oltre non vada
Questa tua pertinacia, questa voglia, [giia.
Chò in perdor te, tuli' Alessandria addo-
Con non sano pensier da te si sprezza
Di quella luce la soave usura;
Serba questa tua dolce giovinezza
Ch'ora incomincia, e lunga assai ti dura.
È sciocca opinione c leggerezza
Creder eli' un' altra sia vita futura;
0 mutar contro i patrj antichi Numi,
Per un vano romor, leggi c costumi.
Poich'è la mente a qualche rosa addltta.
Che per buona e per santa si propone,
S’interna in quella, c dal desire è villa,
E della voglia sua si fa ragione
Tanto, eli' a richiamarla alla via dritta
Non vai, perchè si gridi alle persone.
E letargo a curar uop'ò si strano
Usar il ferro, e molte volte in vano.
Se quell' onor, ch’agli alti Dei rendemo
Fosse sol una vana rimembranza ;
Più: da noi non dovrebbe essere scemo.
Per riverenza dell'antica usanza.
Come nate, nudrilcc visse semo,
Cosi debbiali! finir quel clic n’avanza ;
L'ormc lasciar de' padri venerande
Ardir è temerario, error è grande, [cedo ;
Che sia santo il tuo dogma, io tl con-
Non voglio teco aver question di questo.
Che cosa è dire all'antico uso io riedo?
Ad onorar gli Dei mio cor è presto?
Se per disprezzo tu noi fai, non vedo
Perchè al tuo Dio ciò debba esser molesto;
Fingi soltanto, e poi credi a tuo modo;
Ciiò li vo' seguitar, non pur tei lodo.
Dell'avversario suo le insidie ascose
Tosto senti la prigioniera fianca;
Chò ben vede, eh' a dir cotante cose
Della nutrice sua l' ingegno manca.
Con sagace pensier però rispose
Al detti suoi, come persona stanca;
E disse brevemente : Arsinoe, oscuro [ro.
Non m' è il mio meglio ; c si da me il procu-
IL MARTIRIO DI i
Nè più parlò, ma nel profondo speco
Tacita per Innanzi si ritenne.
Lamentossi col Cielo, Arsinoe, e seco;
E più volte pregò, ma nulla ottenne.
Quand'cccoa trarla da quell’antro cieco
Del roman sacro imperio un duce venne.
Ella lieta s’invia dov’è chiamata,
Del disprezzo di morte il petto armala.
Giunta alla piazza apparecchiato mira
Il gran tormento che somiglia un monte;
Ma non per questo indietro si ritira;
E sta qual pria dell’inimico a fronte;
Anzi com’olia alCiel gli ocelli suoi gira,
E mercè chiede di pleiade al fonte,
Forse a conforto del popol fedele.
Si speziò quella mole empia c crudele.
Come qualor più Giove irato tuona
Da dense e negre nubi II baleno esce,
E fende il piede, ed arde la corona,
E 1 rami al pino, che tant’alto cresce.
ANTA CATERINA. 535
Corre a mirarlo, c ’l gregge n' abbandona,
E con la maraviglia il timor mesce
Il pastor sopra il monte, c sta sospeso;
Tal a quel caso ognun si vede inteso.
E ben sorti felici e degni effetti
Il mirato! concesso alla sua prece;
Chè converse a Gesù foschi intelletti,
E fc’ candido il cocchio c la pece;
E si percosser mille donne I petti
Pallide e triste; sol Massenzio in vece
Di farsi molle, più s'indura e grida,
Che quella nobil agna, ahimè, s’ uccida!
E cosi per voler di quel fero angue
Le vien recisa I* onorata testa ;
Onde si vide uscir latte per sangue,
Tal a' meriti suoi merci Dio presta.
Cade pallido a terra il tronco esangue,
Ma non però gran tempo iti si resta,
Che ’l seppellirò, c fu chi uditine i canti,
Sul monte Sinai gli Angeli santi.
MARINO.
LÀ STRAGE DEGL* INNOCENTI.
IL LIMBO.
LIBRO QUARTO.
ARGOMENTO.
Spinto da Erode il ficr Malecche loglio
A rio più d’un barabin Tal ma e la vita.
Quegl* intanto su T figlio, e stilla moglie
Piange e sente nel cor Palma smarrita.
I! gran poeta ebreo la lingua scioglie,
E i vecchi padri a rallegrarsi invila.
Mentre lo sluol degl’ Innocenti ci mira,
CU’ unito verso il Limbo il volo gira.
Carca di nembi, e sovra T uso in tanto
Mesta la notte ai mesto dì successe,
Onde de’ pargoletti in bruno manto
Parve T ossequio accompagnar volesse;
Pioggia versando già, quasi di pianto
Dall’ ombre sue caliginose e spesse,
E da' confusi suoi muli lamenti
Eran gemiti i tuon, sospiri i venti.
Contento si, ma non a picn contento
In palagio a ritrarsi il re ne viene,
E qual fucina, che dal dianzi spento
Foco il calore ancor vivo ritiene.
Contro i miseri pur Tempio talento
Fresco nel cor nodrisce c nelle vene;
Temendo non ne sten per T altrui case
Non picciole reliquie ancor rimase.
33C PORMI
Malcccho a se chiamò. Tra più felloni,
(.'olii più fellone il inondo nmpia non ebbe,
Ni-, se gli Antropofagi c i Listrigoni
Risorgessero ancor, forse l'avrebbe :
Mali erbe, il Gebuseo, clic Ira ladroni
Nacque, c tra fere visse c fero crebbe.
Difforme sì, clic le sembianze islessc
Avrìa credo, il Tcrror, se corpo avesse.
Oltre il melilo pelalo c T capo raso,
Oltre le tempie anguste c ’l ciglio irsuto,
Tre denti ha meno, ed ha schiacciato il ria—
Elicgli occhi ineguali il guardoacuto; [so
Rencbò T miglior de’ duo rigato a caso
D’un gran fregio a traverso abbia perduto;
Nella fronte c nel volto ha per trofeo,
Il carattere greco c ’l conio ebreo.
Va, spia (dice), per tutto, c leco mena
Squadron d'armati, c se nascosto c chiuso
Trovi alcun vivo infante, uccidi c svena,
Segui in ciò del tuo stile il solit'uso;
Farò (risponde'. Ilo ben dispetto, e pena
D' esser steri! di figli; 'I Ciel n'accuso:
Per altro no, se non perdi’ io vorrei ,
Sol per piacerti, incominciar da’ miei.
Mentre de' suoi furori infra sè stesso
Lasciar dispone Erode eterno esempio,
Malccchr, a cui dal perfido commesso
L'ordine fu dello spietato scempio,
1 satelliti guida al fiero eccesso,
Non di re crudo esecutor men empio,
Ma di signor si rigido c protervo
Non dovea più pietoso esser il servo.
Siccome allor, che dopo i tempi adusti
A librar l'anno, o bell'Astrea, ritorni;
E T Sol con raggi temperati e giusti,
Matura I pomi, e intiepidisce i giorni,
Vanno schierati a depredar gii arbusti
A fila a fila turbini di storni.
Onde, mentre calar lungo gli mira,
L'uve sperate, il villancl sospira;
Tal dopo sè lasciando ovunque avvisa
Esser riposto alcun germoglio ebreo,
Traccia crudel ili quella turba uccisa,
I.o stuol si sparge insidioso e reo.
I palagi c le rocche in quella guisa.
Clic suol dagli Austri il combattuto Egeo,
S’odon sonar gli fanciulleschi accenti,
Di donneschi ululati c di lamenti.
Non altrimenti, che se prese ed arse,
L'altc mura vedesse c Calte porte,
E le schiere nemiche intorno sparse
Scalare i tetti, c gridar sangue e morte:
Parve l'afililta Bclclcm laguarsc,
SACRI.
E percuotersi il petto c pianger forte,
E si alte mandò le voci a Dio,
Che da' colli di Ramina il suon s’udio.
Sotto la falce le tremanti biade,
Sotto l’aratro i tcncrelli gigli
Cader snglion talor, si come cade
Presso la madre il numero ile' figli.
Spargendo vali l' ingiuriose spade
Di sangue ciltadiu fiumi vermigli.
E la misera plebe a inai si grave.
Altro, salvo il morir, scampo non ave.
Fra gli altri alberghi, in picciola casetta
L' oltraggioso Malecche a forza entrando:
Vede due figli a vaga giovinetta,
L' uno a piè, l'altro in scn, starsi posando.
All'un con liete nenie il sonno alletta,
E col piè leggermente il va cullando.
L'altro da fonti candidi c vivaci
Le sugge latte, e più che '1 latte i baci.
In cambio dì saluto, ecco veloce
A quel che dorme, Il traditor s'avventa ;
Alza la fiera c formidabìl voce,
E lo sveglia dal sonno e lo spaventa;
Cala la spada orribile c feroce,
E 'il perpetuo letargo l'addormenta;
E gl' insegna a saper, come vicini
Hanno il Sonno c la Morte I loi confini.
Poiché nell' un le prime prove ha fatte.
Nel poppator fanciullo il brando rota,
E dalla nuca, ov' egli Cede e batte.
Glie 'I fa per bocca uscir tra gola e gota ;
Quei sputa il cibo, e dentro il saugue c ’l
latte
L'anima pargoletta ondeggia e nuota;
Scorre la punta ingiuriosa c fella,
E conficca la lingua alla mammella.
Misera ! avea colei di non perfetto
Altro parto immaturo II ventre pieno;
Passa il giù nato c giunge ove al concetto
Era sitai sepolcro il cavo sero. [stretto
L’un chiuso in grembo, c l'altroin braccio
More, ed ella la unpuntoanco vlen meno.
Chi mai casosi strano intese o vide?
L'n colpo, un colpo sol tre vite uccide.
Quindi in altra magion s'apre l'entrata
E incontro a nobil giovine si spinge,
Cli ■ la fresca ferita c non saldata
D' un circonciso suo ristagna e stringe.
Ed ecco alzando allor la mano armata.
Nel sangue, che ella asciuga ’l ferro tinge.
Ed a piaga di legge II braccio forte
Accoppia a quel ineschili plaga di morte.
Allor colei, per ravvivarlo alquanto.
LA STRAGE DEGL’ INNOCENTI. 237
Porge la poppa al miserei, che iangue;
Versa in grembo alla madre il figlio intanto
Della madre medesma il latte in sangue;
Versa del figlio stesso il sangue in pianto,
Su ’l sanguigno figliuol la madre esangue ;
Lava il candido umor, mentre il vermiglio
Macchia il seno alia madre, il voltoal figlio.
L'abbandona ciò fatto, e passa audace
Di stanza in stanza a più secreti ostelli,
Cerca i recessi, e con lo stuol seguace
Lini e lane rivolge, e coltre e pelli ;
In cavo lctticiuol trova, che giace
Coppia di similissimi gemelli ;
E l’ un all’ altro in guKa era congiunto.
Che i Gemelli del ciel pareano appunto.
La forma è pari, e differente il sesso
Della mal nata e mal guardata coppia ;
Mve in due corpi varj un spirto stesso,
Una vita in due cor gemina c doppia;
Natura ha in loro egual sembiante cspres-
E pueril semplicità gli accoppia ; [so,
E qual Giano novello in duo diviso
Hanno il letto comun, com’ hanno il viso.
Quella cara unlon ruppe, e distinse
Malecche, e disse : O fortunata sorte.
Ecco pur quell' amor ch'ambo vi strinse
Sì dolce in vita, ancor v’ unisce in morte.
Se somiglianti il Ciel sì vi dipinse.
Non vo', che 1’ un all* altro invidia porte,
Ma questo e quel, come di par >’ entraro,
Vo*, che del mondo ancora escan di paro.
Ciò dice, c nel primier prima si cala,
E con la forte incontrastabil destra,
L* arrandeila colà , d* onde alla sala
L'aria, e’1 lume introduce alta finestra;
Precipita col piò giù per la scala
L* altro, e la scala ò d’ una selce alpestra,
Si ch'ei viene a pagar rotto c battuto
Di sangue a ciascun grado ampio tributo.
Parca ciascun con gli ultimi singulti.
Gemendo accompagnar l’ essequic altrui;
Quasi innesto reciso in duo virgulti,
Egli per lei languiva , ella per lui.
Cosi non rei sentirò, e non adulti
La pena degli adulteri ambidui ;
Ebber nelle prime ore, c nell* estreme
Un ventre, un letto ed un sepolcro insieme.
Vieni! dove modesta umil fanciulla
Custode a duo bambin siede c compagna,
L* uno in conca dimora c l'altro in culla,
L'uno in lavacro tepido si bagna,
L’ altro fra bianchi lini si trastulla ,
Ride per vezzo l’ un, 1* altro si lagna,
Nati già di duo ventri c d'un sol padre
Ond'aU’uno ò madrigna, aU’altro è madre.
Quando la miscreda entrato scorge
L'assalitor, che d'improvviso arriva,
Lascia il figliastro entro la cuna e porge
Soccorso al figlio, onde si salvi e viva.
Prendelo in braccio incontanente, c sorge
Stupefatta, smarrita e fuggitiva;
Pur ver l’altro fanciul riticnla a freno
Pietà se non materna, umana almeno.
Corre con quel , che partorì dall’ alvo
Verso colui , che di campar desia ,
Ahi folle, c le convlen, che quel che salvo
Tolse pur dianzi all’ acque, al ferro dia.
Malecche il fier con Barabasso il calvo.
Punì la pietosissima follia ,
E fece ad ambo avante al suo cospetto
Sepolcro il vaso c cataletto il letto.
Vinta colei dalla soverchia ambascia
Gela e trema nel cor, nel volto imbianca ,
Piombar nel suol si lascia , c già la lascia
A vista sì crudel l’ anima stanca ;
Quei strangolato dalia propria fascia
Si contorce e dibatte e more e manca;
Questi , tra’l latte c’1 pianto c'I sangue e
Svenato cade c soffocato affonda, [l’onda,
Giunse , ove poi di cittadine inermi
Povera famigliola era raccolta.
Una fra lor negli anni suoi men fermi
Imeneo stretta appena, avea disciolta :
Ma di ben quattro assai leggiadri germi
Fecondata la prima in una volta;
Or in un anno sol fatta si vede
Sposa, vedova, madre c senza erede.
Duo di lor per il collo ha tosto preso
Malecche, un per le gambo, unperlebrac-
Un Io lancia col calcio al foco acceso, [ eia,
Un battuto nei suol col piè ne schiaccia »
Un ne tracolla ad una trave appeso ,
Un nel pozzo domestico ne caccia.
Così con vario universal tormento
Ebbe ciascuna morte un elemento.
Chi contar poiria mai le varie spoglie ,
Onde Morte sen’ già superba e ricca?
Quel dal tenero busto il capo scioglie,
Quel dall* omero molle il braccio spicca ,
Quel del fiato alla gola il varco toglie ,
Quel nel fianco tremante il ferro ficca ,
E fra rabbia c terror, fra doglia c lutto
Il Furor con le Furie erra per tutto.
Braccia da’ busti lor tronche c recise,
Seminate hanno il suol , gole strozzate,
Teste , qual da sccurc aspra divise ,
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238 POEMI SACRI.
Qual con man rollo o qual con piècalcalc.
Trescar morte leggendo In tante guise ,
Sè metlcsma abborrl la Crudellate,
Ni lasciava però (Tesser crudele ,
Ma il dispetto al suo tosco accrescoa fole.
Ed ecco gii, eli’ ornai si leva ed esce
L’Alba dall’Indo e’I Sol non molto (Munge j
E ’l ciel T ombre co’ rai confonde e mesce,
E marito alia notte il di eongiungc.
Si rode Erode c T aspettar gl’ Ricresce ,
Tale stimolo ardente il cor gli punge,
Sorge e riveste 1 regj arnesi e toglie
L' aurata verga c le purpuree spoglie.
Intanto il gran palagio ode repente
D' aiti strepiti c fiochi ulular tutto ;
E di servi e di ancelle intorno sente
Suoni di palme, e gemiti di lutto;
Ed ecco arriva un messaggier dolente,
Pallido in vista, c d’atro sangue brutto,
Clf anelando c sudando, in apparire
Al re s' inchina c poi cominria : 0 Sire,
Un son io di color ministro indegno,
Cui della lìera uccislon commesso
Fu iersera T incarco, ed or ne vegno
Poco a te lieto e fortunato messo;
Lungo a narrar del tuo sublime sdegno
Fora distintamente ogni successo.
Istoria memorabile , di cui ,
( Vagliami leco il ver) gran parte io fui.
Sotto il vessillo tu' (si come imposto
Da le stesso ne fu ) partimmo noi ,
Duce c capo Malccclic, c gimmo tosto
Veloci ad eseguir gli ordini tuoi.
Vera tal ch’era padre, c pur disposto
Ne venia per gradirli ai danni suoi ;
Piani dunque n'andamnto c taciturni.
Chiusi dall’ ombre c dagli orror notturni.
Presa fu la gran piazza, e tutti 1 lati.
Quinci c quindi sbarrando ambe le porte.
Chiusi Tur d’ ogni intorno, e circondati
Da custodi fedeli c guardie accorte ,
Acciò che altrui fra vigilanti armati
Non potesse la fuga aprir la sorte ,
Fece per tutto il capitano allora
Squillar la tromba garrula c canora.
E In virtù comandò del regio editto ,
A ciascun , che per uso armi vestisse ,
Che dell' albergo c del conlin proscritto
In guardia fuor della citiate uscisse;
N'è, mentre un reo di capitai delitto
Cercando el giva , altro impedirlo ardisse ;
Un reo, che quivi occulto In grande im-
Avea del re la macslate offesa. [presa
Alcun non fu de' cittadin nè lento
Ad eseguir , nè ad ubbidir ritroso ;
Quindi di borgo -in borgo in un momento
Si spiò de’ bambln per l'aere ombroso ;
Fi sappi , die del numero giù spento
Trovammo assai maggior l'avanzo ascoso;
Onde fu con diverse aspre ferite
Rotto il tenero stame a mille vite.
Fuorché strida esospir, pianti e sin-
A Uro non si sentia per ogni parte; [ghiozzi,
Vcdcansl entro gli alberghi immondlc soz-
Trlonfar Morte orribilmente e Marte, [ai
Coli fascio squarciate e membri mozzi.
Qui nel sangue notar viscere sparte;
Se ciò ch’alior fec’ io silenzio or copre ,
lidio è il tacer, li dove parlan l'opre.
Sta mane poscia in su’ I ritorno, quando
Gii l’eccidio notturno era fornito.
Impensato accidente c miserando
Ne si fe’ incontro, o caso empio inaudito!
Deh stato fosse il tuo reai comando
Da' tuoi servi, signor, meno ubbidito.
Ma che sapea semplice turba, e quale
Colpa aver può d'involontario male?
T roppo la nostra man fu presta c pronta ,
Troppo la voglia a soddisfarti Intensa ;
Ebri di sangue 1 cori e d' ira c d'onta
Ciechi cran gli occhi e cieca l'aria e densa;
Fu scusabile crror. Cosi racconta,
K qui lega la lingua , c tace c pensa ;
Ma lo stimola Erode; e quei rasciolta
La voce , il parlar segue , c T re T ascolta.
Mentre , eseguilo a picn T alto statuto
(Si come io dissi) U nostro stuol venia.
Ne v enne ad incontrar scudiero astuto ,
Secreta di Malecchc e fida spia :
E ne scorse culi , dove veduto ,
Disse , furtivamente aver tra via
Con duo bambini avvolti entro la gonna.
Fuggirsi in chiusa parte ignota donna.
Non lungo dunque da quest' aita reggia
Verso quel lato, onde'l reai giardino.
Di sovra ’1 fiume il Libano vagheggia
Presso un uscio ne trasse empio destino;
Vago pur di saper ciò , eh’ esser deggia ,
11 nostro condotticrsl fc' vicino
Li 've tra legni perforati e scissi ,
Luce per noi si vide c voce udissi.
Femmina v’ era dentro , e parve in vista
Lo spavento portar dipinto c ’l duolo ;
E di due fanciullin timida e trista ,
L' un si tenea nel scn , l' altro nel suolo s
Voce tremante c di sospir commista
LA STIUGE DEGL* INNOCENTI.
Dal cuor traendo, ali’ un dicea : Figliuolo,
Figliuol, come ti scampo ? ove t’ ascondo?
E chi m* apre l'abisso, o ’I mar profondo?
Donne un tempo Samaria ebbe sì felle,
(Fama è tra noi) che dalla faine astrette
Riseppellir nelle materne celle
Gami, cli’eran di lor nate e concetto.
Lassa, c perche dò die per rabbia a quelle,
Or a me per pietà non si permette,
E celar voi da queste ingorde arpie
Nelle viscere mie, viscere mie ?
Ma coni' esempio già di tanti eccessi,
Figlio, ben mi vedresti il seno aprire.
Quando in tal guisa poi speranza avessi
La ina vita campar col mio morire:
Cosi l'aniuia aprirmi anco potessi,
E il corpo iuu con l'anima coprire,
Ch'io non sarei di ricettarli avara
Dentro l’anima stessa, anima cara.
E così ragionando, il pargoletto, „
Ch’ha in braccio eutr' una veggiaempiae
Che del licer di llarco era ricetto, [capace,
Non di tutto ancor vota, asconde c tace,
Poi sospira e soggiunge : A te commetto
A aso fedele, ogni mia gioia e pace.
Tu ’1 mio tesor fra lami ficiiorgogli.
Cortese alinen depositario accogli.
Olire seguir volea, ma si rivolse
Del nostro duca all'impeto, alla voce,
di' urtò la porta, e poiché ruppe e sciolse
1 serrami c le sbarre, entrò feroce.
I.' un nell'urna appiattò, l’altro s’accolse
Colei nel grembo, indi fuggi veloce,
Ove di quell’albergo era nascosta
La camera più interna c più riposta.
Quivi l’ascose, e ben sottrarlo all'ora
Rotea volendo al sovrastante male;
S’aperto avesse altrui senza dimora,
Di cui si fusse il fanciullino, c quale:
Ma sperò forse il suo più caro ancora
Prima salvar dal rischio aspro e mortale,
0 con inganno almen spielato e scaltro,
Far l’uno alibi vendicator dell’altro.
Maraviglia fu Inni, di' a noi non fosse
Nota costei ; ma tra per l’ acre bruno ,
E per l’alto lerror che la percosse ,
Non valse allora a ravvisarla alcuno ,
Oltre, che dal furor, che ne commosse,
Fatto cieco e baccante era ciascuno,
E ’i vederla poi fuor del regio tetto
Ne tolse dal gran caso ogni sospetto.
Malecchc dunque ancorché espresso in
Sapesse illocoov’erall furto ascoso, [tanto
Per riportar d’ogni fierezza il vanto,
Si come aspro che egli era c dispettoso,
Volse gioco di lei prendendo alquanto
Spaventevole in alto e minaccioso,
Schernir, pria che uccidesse I cari pegni.
Coll astuzia crudele i suoi disegni.
Ed ecco il braccio c'i piè contro le move,
E le straccia le vesti c straccia i crini :
Dimmi, dice, malvagia, or dimmi dove
Dove dianzi celasti I duo bambini?
E tu, dalla cui destra il sangue piove,
DI, dice ella, ove son tanti meschini.
Tanti di tante madri occhi c pupille?
Tu cerchi di duo soli, cd iodi mille.
Fusse in grado alle stelle, o cari figli,
Che a mio talento in mia balia vi avessi,
o qual nido vi accoglie c quali artigli
Dal mio sen vi rapirò almen sapessi,
Che fra ceppi e catene, armi e perigli ,
Se flagellata ili vive fiamme ardessi,
Ma questo cor, che luce altra non vede,
Non spoglierei della materna fede.
Figli, deli qual fortuna, o pur qual loco
M possiede infelici c vi nasconde;
VI Im forse, lassa, Inceneriti il foco;
o sepolcro vi dier Tacque profonde?
Cibo ai cani , agli augelli, o fatti gioco
Siete dei venti instabili, delle onde?
0 col sangue innocente estinta avete
Delle spade barbariche la sete.
Esiinta?alii no ; de! barbaro inumano
Son t ire ancor , per quel eh' io veggio,
ardenti.
Qui T incalza Malecchc c dice: Invano
Ciò che negar non puoi, negar mi tenti ;
Stolta fé, pietà fotte, amore insano,
Occulta quel che palesar convienti ;
Violenza di ferro a viva forza
Pietoso afTelto in cor materno ammorza.
Tu, qual madre magnanima ed ardita,
Quel che è pur noto, appalesar non vuoi,
E sprezzar morte c non curar la vita,
Ti fa forte lo amor dei figli tuoi.
Ma questo stesso amor move ed invita
Erode ancora a provvedere ai suoi.
Gosl le dice, la minaccia, ed ella
Cani audacia v Irli freme c favella :
Ponimi tra ’1 foco c ’l ferro, ardi, se sai ,
Uccidi pur, morir mi fia gran aorte.
Se spaventarmi v uoi più clic non fai.
Minacciami la vita c non la morte?
Mentre parla cosi, vie più die mai
Ostinata in suo cor la donna forte ,
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POEMI SACRI.
Ecco il primo fanciul dell' urna chiusa
Con voce pueril sè stesso accusa.
Rise Malccche, e preso il doglio, il trasse
Per lo palco rotando e ne fc' gioco;
Ma però che di ferro ha i cerchi e l'asse,
Danneggiar non si può molto nè poco;
Vuol egli alfin provar, s' almen bastasse
Ciò clic ’l braccio non valse, a fare il foco;
Nel foco il caccia, e fa , che versi c stilli
Misto il sangue col vin per cento spilli.
Udito avrai del tauro d' Agrigento,
Quando dal rame suo concavo c pregno,
Ne’ muggiti non suoi sparse il lamento
Del llero suo fabbricator ingegno;
Cosi nell'apprensibile elemento
Alimento Infondendo il cavo legno
Impinguava la fiamma e fore intanto
N" uscia fra duo liquor confuso il pianto.
E presente a tal vista, e tanta rabbia
Nel petto allor la genitrice aduna,
Che sembra orrida tigre a cui tolt' abbia
Il cacciatord' Armenia I parli in cuna;
Quando con lieve piò l' ìrcana sabbia
Trascorre in vista minacciosa e bruna,
E fa, sospinta da crudel pil late,
Tu'to d' urli sonar l’alto N'Ifatc.
Tosto a tor I’ altro infante il passo gira,
E 'I conduce da noi quella infelice.
Oh-' dell'orrenda c dispietata pira.
Onde T primo è fati’ esca, è spettatrice;
In pari Incendio di pictale e d’ira ,
Tra sdegnosa c dolente avvampa, c dice:
l*cr farlo, ah crudi, incenerito a pieno,
Vi bastava riporlo In questo seno;
LA dove quasi In immortai fornace
Sue faville ognor vìve Amor mantiene.
Ma se lo strazio altrui tanto vi piace,
E perduta una parte ho del mio bene.
Riliuto l'altro, a voi lo dono in pace,
Ben nell’ avanzo incrudelir conviene,
Prende lei dunque, ond’ io d'entrambi pri-
Restl,e se morto è l'un, l'altro non vìva, [va
Apatia , a quel dir, di sangue ancor fu-
mante
Da chi non so, non mcn crudel che forte,
Vibrare io vidi, e '1 rivelato infante
Mandar con cento c cento punte a morte.
Onde dubbiosa l’ anima fra tante
Piaghe ch’alia sua fuga aprian le porte,
Non sapendo per qual prender l'uscita
Su 'I morir lungo spazio il tenne in vita.
E la perfida allora : Avrò pur io,
E della patria mia dolce c diletta
Fatta In un punto sol, disse, e del mio
Sventurato figlio! degna vendetta;
0 servi del tiranno iniquo e rio.
Or a voi sol di vendicar s’aspetta
Nel sangue reo della fallace Albina
Della casa reai l' alta ruìna.
M'uccidesti il mio cor ; ma non andrete
Troppo lieti però di mia sventura:
L’ ultimo, che nel scn morto m’ avete ,
Figlio nt'era d'amor, non di natura.
Riconoscere Albina ornai dovete.
Ch'ebbe Alessandro 11 regio pegno in cura,
Quegli ch'or lì nel suol palpila o more,
Quegli è del nostro re l’unico amore.
Cosi diss'ella, c pien di mal talento
Per oltraggiarla il capitan si mosse;
Ma 'I pugnai [nè so donde) in un momento
Tratto o come da lei trattalo fosse ,
Nella man feminil senza spavento
Strinse con valor maschio e lui percosse,
10 lo viti' io d"l proprio sangue tinto
(Ed appena il credei) cadere estinto.
Se al gran caso restò di nostra schiera
Attonita ogni mente c sbigottita,
Pensil ciascun , di' aspra novella e Aera
Inaspettatamente abbia sentita.
Presa è l'iniqua balla , e prigioniera
Gii da' nostri si guarda c serba in vita ,
Però di' una sol morte a tanto danno
Parve picciola pena e breve affanno.
Il fui non aspettò di questi accenti
11 tiranno superbo e furibondo,
E parve in atto II regnator de' venti
Quand’apre l'uscio al career suo profondo,
E sferra a liallaglia.- con gli clementi
I guerrieri del mar, furie del mondo;
Corre egli in sala, ed ecco appena giunto
Doride la rrina arriva a punto.
A punto allor della secreta soglia
Della camera uscia la sventurata,
Da lacrimoso coro c pien di doglia
Di donzelle c di donne accompagnata,
Che del fanciul la sanguinosa spoglia .
Sulle braccia pur dianzi avean portata.
Singhiozzando c gridando ella venia :
Dove, dov'ò II mio ben, lavila mia?
Qual dappoi che perduta aver s’accorse
La bella figlia in sulla spiaggia etnea,
Accese 1 pini infuriala e corse
Già delle spiche l'inventrice Dea,
E con rapidi draghi il elei tracorse
Stimolala dal duol clic la traea ,
Gercaudo pur la vergine smarrita,
LA STRAGE DEGL’ INNOCENTI. 2tl
Che fu In un punto sol vista e rapita.
Tal ne venia l' addolorata , e poscia
Che vide il caro busto , al cor le nacque
Tanta pietà che da soverchia angoscia
Impedita fermossi , afflitta tacque.
Forato il ventre e l’ una e l’ altra coscia,
Sdruscito il piccioi corpo a piè le giacque
Tempestato di piaghe, era a vedello
Con cent’ occhi sanguigni Argo novello.
0 come allor de' duo vivi zaffiri
Videsi oscuro il tremulo sereno;
Come torcendo i languidetti giri
DI sciolse ai pianti, ai dolci accenti il freno !
0 Dio di che dolcissimi sospiri
Feri le stelle c si percosse il seno,
E svelse l’oro e lacerò le rose
Onde i crini e le guance Amor compose !
Al contraffatto volto il volto appressa.
Lo stringe , il bacia e sovra lui si gitta:
Chi t’ ha, dicea , si concia, o di me stessa
Sembianza estinta , imagine trafitta? [sa
Qual si gran colpa ho contro'l Ciei commes-
Ch’ io deggiain colai guisa esserne afflitta?
Cosi cosi ti dà d’ oro e d’ elettro
Il tuo buon genitor corona c scettro?
O fera delle fere assai piò fera;
Amano i figli ancor le tigri ircane,
E ’n quest’unico tuo qual ria Megera
Ti mosse a inerti deli r?qual rabbia immane?
Sfogasti pur la ferità severa
Delle rigide tue voglie inumane.
Godi, e sieno il suo sangue e i pianti mìci ,
Vincitor trionfante, i tuoi trofei.
Dimmi , spirto di serpe, anima d'orso.
Dimmi , cor di diaspro e di metallo ,
In clic potè con pueril discorso
Fallir giammai chi non conobbe il fallo?
Com’ esser può che dell’ età precorso
Abbia l’ arbitrio II debito intervallo ,
SI che dovesse in sua stagion non piena
I.' error futuro anticipar la pena?
Uom te non già nè di uman seme nato
Creder vogF io. Te la crudele e sorda
Sirie produsse o l’ Ellesponto irato
0 la Sfinge di sangue immonda e lorda;
L’empia Chimera o Cerbero spietato
O la infame Cariddi o Scilla ingorda ;
E ti nodri là fra lo stuol vorace
Ve' dragon di Cirene Arpia rapace.
E tu te ’l vedi , e tu tc'l soffri, o Ciclo?
Figlio , ed io vivo ? e con la destra ardita
Pur indugio a squarciar di questa il velo ,
Che sol per te mi piacque afflitta vita?
No no, chèse di morte orrido gelo
Preme ia guancia tua fresca c fiorita.
Non convien, che la mia languidae priva
D'ornamento e splendor rimanga viva.
E se teco troncando ogni mia speme
Chi già 1’ esser ti diè , l’ esser t’ ha tolto ,
Non mi torrà , eh' almen nell' ore estreme
Con lo spirto io tisegua errante e sciolto,
l.a spoglia ntla col tuo feretro insieme,
N' andrà , nè senza II ramo il fior fia colto;
Cosi Io struggi lor de’ miei conforti
Autor fia d' una strage e di più morti.
Deh quanto era il miglior, su’l di ch’apri-
0 pargoletta mia tenera prole , [sti ,
Al pianto i lumi dolorosi e tristi ,
Chiusi gli avessi eternamente al Sole!
Deh quanto era miglior, se quando uscisti
A trar vagiti in cambio di parole ,
Dato pria che I' umor di questo seno,
T’avessi di mia man mortai veneno.
Ma questo sen di me medcsnio avaro
Troppo a torto li fu, stflta, eh’ io fui,
Cbè darti non dovea , se già si caro
Gii era 11 tuo peso, ad allattar altrui.
Ora al tuo vel, non mcn che amato amaro,
Scarso non fia de’ ministeri sui ,
Vo’ , che con larga usura al figlio esangue
Quanto negò di latte , or dia di sangue.
A queste note intenerissi alquanto
Di quel rigido cor l' asprezza alpina.
Pietate il punse, e se ne trasse il pianto,
Affetto nuovo all' anima ferina.
Snodato ella un colte! che sotto il manto
Vestiva al cinto appesa aurea guaina,
Feri sè stessa, c cadde in su la porta
Smorta in un punto e tramortita e morta.
Non ebbe allor la feminil famiglia
Tempo da ritener l’ irata mano;
Erode stesso con bagnate ciglia
Ratto vi corse, c la soccorse in vano.
Di dolor, di stupor, di meraviglia
Tremò, gelò, quasi insensato, insano.
Al v igore , al pallor statua r assembra, [bra.
Già di sasso ebbe il core, or n’ha le metn-
Barbaro re, re folle , or che diresti,
Vedi quanto è fallace uman consiglio ,
Trovi a punto colà , dove credesti
Trovar lo scampo il tuo mortai perìglio.
Il figlio e ’l regno assicurar volesti ,
Ecco perdi in un punto il regno o’I figlio;
Tua sentenza in te cade, c da te stesso
Fu punito l’ error, pria che commesso.
Come membro talor tronco repente ,
II
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242 POEMI
0 da ferro crudcl irafilto al vivo.
Non gii subito fuor manda corrente
Il sangue ancor smarrito e fuggitivo j
Ma tosto poi che si risente e sente
I,' offesa e ’l duo), versa vermiglio un rivo,
E quasi onda da fonte, apre la vena
Fuor per la piaga alla sanguigna piena;
dosi lardi riscosso il rio tiranno ,
Cui l’improvviso duo! la lingua strinse,
Poiché die loco al dilatato alTanno,
Ruppe i silenzi e i gemiti distinse,
E dagli occhi rivolli al proprio danno
Quasi sangue dell' alma, il pianto spinse,
E cadde la dove la moglie e '1 figlio
Parean scogli di marmo in mar vermiglio.
Ecco a che fiera vista , ocelli dolenti ,
(Chè più state a serrarvi?) il Càci vi serba.
Per dare il varco ai tepidi torrenti ,
Forse aperti vi lien la doglia acerba.
Alessandro, Alessandro, oitnè non senti?
Fior dell' anima, uimò , reciso in erba,
Dori , Dori , non odi e non rispondi ? [di.
Deh perchè de' begli occhi , il Sol tu' ascon-
Misera, quale ili prima, e qual dappoi
Pianger degg' io? le figlio, ole consorte?
Te spenta in su '1 fcrvor degli anni tuoi ?
0 te morto al natal, nato alla morte?
Piangerò (lasso me) me stesso in voi.
Piangerò 'I proprio mal nell’ alimi sorte ,
Dunque del mio diadema il lucid’ ostro
Sarò , figlio e consorte , il sangue vostro.
0 di quanto crudcl, misero e mesto
Padre, mal nato figlio csotlo avara
Stella coucetlo, è questo 11 trono, è questo
Lo scettro imperlai, di’ cl li prepara?
0 clic apparecchio tragico e funesto.
Il letto maritai cangialo in bara,
I.C faci orni’ onorar dopo quatdi anno
Le tue nozze sperai , l' esequie avranno.
Forsennato mio senno, e qual ciò volse,
0 tuo fallo, o mio fatto? e come avvenne ?
Sconsiglialo consiglio; e chi mi tolse.
La melile, e come cieca ella divenne.
Sì che te sol quando l' editto sdolsc.
Al gran rischio sottrae non li sov venne :
Ma fu vostro tenor, luci rubcllc,
Fiamme inique del cicl, perfide stelle.
Anzi fu per voslr’opra, empie infernali
Furie stimulalrici; anzi commisi
Sol io l' allo misfatto , io de’ mici mali
Fui sol fabbro cocente, ed io l' uccisi;
Da me I' onor de' Iregj mici reali ,
La mia vita di vita, ohimè, divisi,
SACRI.
Che dovea meco , e dopo me del regno
E della regia stirpe esser sostegno.
Or qual vendetta, e qual, figlio infelice.
Figlia infelice d' infelice madre,
Elie basti ad appagar sua rabbia ultricc ,
Ti pagherò lo sventurato padre?
Non la maligna e perfida nodrice.
Non de' mici danni le ministre squadre ,
Non s’ anco all'ombra tua mi sia concesso
Col regno mio sacrificar me stesso.
Ile piò dirmi non vo', padre non deggio.
Padre e re (se non fui ) tu' appello a torlo.
Fui mostro infame, infcrnal furia e peggio ;
Indegno er’ io di le , poiché t' ho morto.
A hi quanto orche del maliardi m'avveggio
Agli uccisi fanciulli invidia porto!
E ben oggi dovrebbe in me fornita.
Esser come la gioia, anco la vita.
Potessi alnien quell' animeltc tgnude.
Ch’io spogliai dianzi, or rivestir di velo
Per di nuovo spogliarle : ed alle crude
Fere espor le lor membra al vento, al gelo:
E se pietoso il Ciel l' accoglie o chiude
Per sempre esiliarle anco dal Cielo;
Che poco fora al mio dolor profondo
E chiamasseml poi crudele il mondo.
Ahi chi mi reca in mali la fiera spada
Che troncò le mie gioie, acciocché sotto
L' arme onde cadde il figlio, il padre cada.
Nè resti intero un fil se l'altro è rotto?
Cosi dolcasi, e in tanto ogni contrada
Piange l'alto cslcrmiiiio al fin condotto.
Ma giù i felici spiriti immortali
Ver l’elisia inaglon spiegavan i’ali.
Siccome 111 per entro i folti orrori
De' boschi ombrosi in sui sereni estivi
Vacillando con tremoli splendori
Volanti animateli! e fuggitivi.
Sembrano a' peregrini ed a' pastori
Animale faville, atomi vivi ,
Onde dal lume mobile e mentito
Il seguace fonciul spesso è schernito ;
0 com'api sollecite ed industri
Per l'odorate d' Ibla aure novelle.
Nel vago aprii fra rose e fra ligustri
Vanno a libar queste dolcezze e quelle.
Onde fan poscia architcttrici illustri
Nobil lavoro di ben poste celle
Moli ingegnose e fabbriche soavi
Di bianche cere e di odorati favi ;
Cosi da' veli lor tutte coutente
Scn gian quelle beate anime sciolte:
E fu chi le mirò visibilmente
LA STRAGE DEGL’ INNOCENTI. 213
In un bel nembo d! fiammelle avvolte,
Ir coronate di diadema ardente
In lieto gruppo, in vaga schiera accolte,
Fatto di sé mcdesme un cerchio grande,
Agitar balli ed intrecciar ghirlande.
Parver turbini e nubi , e il elei sereno
Con chiare stelle al lor trionfi arrise ,
Austro e seco Aquilon con l’ ali a freno
SI vaghe danze a vagheggiar s’ assise,
Con festevoli plausi all’aria in seno
Scherzar 1’ aure e gli augelli in mille guise,
Colse l'Aurora le sanguigne brine
E ne fe’ gemme ai seno e rose al crine.
Riser gii abissi e la prigion di Morte
Che degli antichi croi l’ ombre chludea,
Le tenebrose e ben serrate porte
Indorate a quei lampi intanto avea.
Quivi il reai poeta, il pastor forte,
Che fanclul rintuzzò l'Ira Getea
Posata alior di Lete in su la sponda.
Con la cetra e lo scettro avea la fionda.
E i negri prati dell' aperta riva
Ne' coi sterili rami I mesti augelli
Ammutiscon mai sempre, impoveriva
Per trecciarsene il crin di fior novelli.
Quando per l’aria d'ogni lume priva
Gli ferir gii occhi lucidi drappelli.
Prese egli il plettro Indi 'I furor concetto
Con si fatta canzon versò dal petto :
Liete liete novelle; ecco i messaggi
Della celeste a noi luce promessa.
Vedete i puri, vermigliettl raggi
Precursori del di, di' a noi s’ appressa.
Tosto termine avran gli antichi oltraggi,
Tosto ne fia la libertà concessa, [ra,
Già spunta il Sol, che le nostr' om bre indo-
Chiniamci tutti a salutar l' aurora, [ste,
Pace a voi, gloria a voi, voi pur giunge-
Della sperata alfin cara salute,
Sospirati corrler. Ma che son queste ?
Queste che son si strane aspre ferule ?
E chi segò le gole, c chi le teste
Oimè trafisse dì punture acute?
E qual petto e qual cor fu duro ai pianto;
E qual mano e qual ferro ardi cotanto?
E voi, che tennervoi dentro voi stesse
Rovinose procelle alior ristrette?
Venti chi v’atTrenò? chi vi ripresse
Dall' usato rigor nembi e saette?
Si che l’ impunità oprar dovesse
Dal giustissimo Dio delle vendette?
L’ opra, da far tra l’ ira e l’ odio eterno,
Stupir le Furie e vergognar l’ inferno.
0 sacri, o santi, o cari, o benedetti
Martiri trionfanti, invitti eroi,
Invitti eroi del sommo Duce eletti
A morir pria per lui, eh’ egli per voi,
Colti da dura man pomi acerbettl,
Intempestivi fior degli orti suoi,
Del proprio sangue rugiadose o nate
Tra le spine del duol, rose odorate ;
Teneri gigli, e gelsomini intatti,
E di purpureo nettare conditi ;
Ai giardini di Dio serbati e fatti.
Per arricchir gli eterni alti conviti.
Rami a forza schiantati, a forza tratti
Dal bel tronco gentil, che v’ ha nodriti;
Piccioli e rotti sassi, ove la santa
Chiesa novella 1 fondamenti pianta;
Verginelli, che ’n fronte a noi dolenti
Il nome Redenlor scritto portate,
Semplid pecorelle ed innocenti
Candidette colombe immacolate.
Olocausti purgati, ostie lucenti,
Nei proprio sangue, e dell’ Agnel laudate
Vittime prime e da rio ferro aperte,
Al Re de' Santi in sacrificio offerte ;
Venite, Illustri spirti, anime belle,
Venite, felicissimi bambini,
Fresche a recarne ornai certe novelle,
Degli aspettati giubili vicini,
0 stille, o sangue, o stille no, ma stelle ;
0 sangue no, ma porpore e rubini,
Gemme degne di far ricca e pomposa
La corona di Cristo e della Sposa.
Piaghe felici, anzi suggelli e segni
Del sofferto martir, vivi e veraci,
E di gloria e d’ onor securi pegni,
E di grazia e d'amor lingue loquaci.
Or chi sarà, che voi ricusi e sdegni
Lavar co’ pianti ed asciugar co’ baci?
E chi fia che non bea si dolci umori
In coppa dì pietà smembrali Amori?
Degli spruzzi desia del sangue vostro
In vece de' suoi lumi, il Ciel fregiarsi ;
Vorrebbe volentler di si fin ostro
La Luna li volto candido macchiarsi ;
In si chiaro rusccl nel sommo cldostro
Bramati le stelle, e gli Angeli specchiarsi ;
In si bel mare ambizioso sole
Imporporarsi ed attuffarsi il Sole.
0 carissimi gemiti e sospiri,
I.acrimette soavi e lusinghiere,
Dal cui stridor de’ lor canori girl
L’ alto concento Imparano le sfere,
0 dolcissimo duol, da cui martiri
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2U POEMI
Tutte le gioie sue traggo il piacere :
O bellissima morte e ben gradita.
Cui di pregio o d’onor cede la sita.
Deh quanti In Cicl , v’ han preparali e
Spiritelli d’ amor alme leggiadre, [quali,
Nel Campi dogi io empireo archi immortali,
Chiare palme e corone il sommo Padre?
E quai gloria maggior? forze infernali
Domar, v incer Re forte, e armate squadre,
Disarmali campion, nudi guerrieri,
Fatti del figlio in un scudi e scudieri.
Tosto colà nella stellata corte,
Dove chi v i mandò trionfa c regna,
Ciascun di voi degii Angeli consorte.
Spoglia di sua vittoria avrà ben degna ;
Quivi dell’ innocenza c della morte
Spiegar la bianca c la purpurea insegna
Vedervi, e per trofeo fra quelle schiere
Far delle rotte fascio alte bandiere.
0 ne' tormenti ancor felice stuolo,
Che più che sangue assai latte spargesti,
Ti fu principio e fine un giorno solo,
SACRI.
Nel primo di l’ ultima notte avesti.
Ti convenne provar la morte c ’l duolo.
Quando la morte c’i duol non conoscesti ;
E con lacere vele il legno assorto
Appena entralo in martoriasti in porto.
Noi noi (dir poi potrete) Atleti inermi
Caduti in tutta, in grembo a Dio n'alzain-
Noi della lattea via, lattanti germi [mo ;
D’ orme sanguigne il bel candor segnato*
Noi co’ piedi beati anzi che fermi [mo;
Anzi le sfere, che ’l terren calcammo;
Noi dal tenero sciolto e picciol velo
Abbiam prima, che ’l Sol veduto il Ciclo.
Così cantava, e dalle candide alme
Furie suevoci e l’ombreaun puntorotte;
Lcvaro i vecchi padri al Ciel le palme
Sperando il fin dì così lunga notte;
E de’ cari bambin le lievi salme
Gian pcrl’orror di quell’ ombrose grotte,
Portando in braccio, e ne' lor volli santi
Iteravano a prova i baci c ì pianti.
U
U* A
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POEMI ROMANZESCHI
LUIGI PULCI.
MORGANTE MAGGIORE.
CANTO PRIMO.
Inprincipio erail Verbo appresso a Dio,
E<i era Iddio il Verbo, e ’l Verbo lui :
Questo era nel principio al parer ndo;
E nulla si può far san za costui :
Però, giusto Signor benigno e pio,
Mandami solo un degli angeli tui,
Cile m' accompagni, c rechimi a memoria
lina famosa antica e degna storia.
E tu Vergine figlia e madre e sposa
Di quel Signor che ti dette le chiave
Del Ciclo e dell’abisso c d’ogni cosa.
Quel di che Gabriel tuo ti disse Are :
Perchè tu se’ de’ tuo’ servì pietosa,
Con dolce rime e stil grato e soave,
Aiuta i versi miei benignamente,
E 'tifino al fine illumina la mente.
Era nel tempo quando Filomena
Con la sorella si lamenta e plora,
Che si ricorda di sua antica pena,
E pc’ boschetti le ninfe innamora,
E Febo il carro temperato mena,
Chè ’l suo Fetonte l' ammaestra ancora;
Ed appariva appunto all’ orizzonte,
Tal che Tilon si graffiava la fronte.
Quand’ io varai la mia barchetta, prima
Per ubbidir citi sempre ubbidir debbe
La mente, e faticarsi in prosa e in rima,
E del mio Carlo imperador m’ increbbe;
Chè so quanti la penna ha posto in cima,
Che tutti la sua gloria prevarrebbe :
È stata quella istoria, a quel eh’ i' veggio,
Di Carlo, male intesa e scritta peggio.
Diceva già Llonardo Aretino,
Che s'egll avesse avuto scrittor degno,
Com' egli ebbe un Ormanno il suo Pipino,
Ch' avesse dillgenzia avuto e ingegno ;
Sarebbe Carlo Magno un uom divino ;
Però ch’egli ebbe gran vittoria e regno,
E fece per la Chiesa e per la Fede,
Certo assai più che non si dice o crede.
Guardisi ancora a San Liberatore,
Quella badia là presso a Manoppello,
Giù negli Abbruzzi fatta per suo onore.
Dove fu la battaglia e ’l gran flagello
D’un re pagan, che Carlo imperadore
Uccise, e tanto del suo popol fello;
E vedesi tante ossa, c tanti il sanno.
Clic tutte in Giu saffi poi si vedranno.
Ma il mondo cieco c ignorante non
Le sue virtù com’io vorrei vedere : [prezza
E tu, Fiorenza, della sua grandezza
Possiedi, e sempre potrai possedere
Ogni costume ed ogni gentilezza
Che si potesse acquistare o avere
Col senno, col tesoro o con la lancia
Dal nobil sangue e venuto di Francia.
Dodici paladini aveva in corte
Carlo;c’l più savio e famoso era Orlando:
Gran traditor lo condusse alla morte
In Roncisvalle un trattato ordinando ;
Li dove 11 corno sonò tanto forte
Dopo la dolorosa rotta, quando
Nella sua Commedia Dante qui dice,
E mettelo con Carlo in Ciel felice.
Era per Pasqua, quella di Natale :
Carlo la corte avea tutta in Parigi :
Orlando, com’ lo dico, Il principale
Ewl, Il Danese, Astolfo e Ansuigi :
Fannosl feste e cose trionfale,
E molto cclebravan San Dionigi ;
Angìolin di Balona, ed Ulivleri
Vera venuto, e’1 gentil Berlingbieri.
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240 POEMI ROMANZESCHI.
Eravi Avallo ad Avino ed Ottone,
Di Normandia, Riccardo paladino,
E i savio Namo, e '1 vecchio Salamoile,
Gualticr da Monlionc, c Baldovino
Ch’era figliuol del tristo Ganellone.
Troppo lieto era il (igliuol di Pipino;
Paulo che spesso d’allegrezza geme
Veggcndo tutti i paladini insieme.
Ma la Fortuna attenta sta nascosa,
Per guastar sempre ciascun nostroeflelto ;
Mentre clic Carlo cosi si riposa.
Orlando governava in fatto e in detto
La corte e Carlo Magno ed ogni cosa :
Gan per invidia scoppia il maladctto,
E cominciava un di con Carlo a dire :
Abbiali! sempre noi Orlando ad ubbidire?
Io ho creduto mille volte dirti :
Orlando ha In sè troppa presunzione i
Noi siam qui conti, re, ducili a servirti,
E Namo, Ottone, Uggieri c Salamoile,
Per onorarti ognun, per ubbidirti :
Clic costui abbi ogni reputazione
Noi soOerrcm ; ma siam deliberali
Da un fanciullo non esser governati.
Tu cominciasti Disino in Aspromonte
A dargli a intender che fussc gagliardo,
E facesse gran cose a quella fonte ;
Ma se non fusse stato il buon Gherardo,
10 so che la vittoria era d' Almonte : [do :
Ma egli ebbe sempre l'occhio allo sleudar-
Cbò si voleva quel di coronarlo :
Questo e colui ch'ha meritato, Carlo.
Se ti ricorda gii sendo in Guascogna,
Quando c’ vi venne la gente di Spagna,
11 popol de’ Cristiani avea vergogna.
Se non mostrav a la sua forza magna.
Il ver convlcn pur dir, quando e’ bisogna :
Sappi eli' ognuno imperador si lagna:
Quant' io per me, ripasserò que’ monti
Ch'io passai ’n qua con sessanladuo conti.
La tua grandezza dispensar si vuole,
E far che ciascun abbi la sua parte :
La corte tutta quanta se ne duole :
Tu credi che costui sia forse Marte?
Orlando un giorno udì queste parole,
Che si sedeva soletto in disparte :
Dispi acquagli di Gan quel che dicev a |
E molto più che Carlo gli credeva.
E volle con la spada uccider Gauo ;
Ma Ullivlcrì In quel mezzo si mise,
E Durindana gli trasse di mano,
E cosi il me' che seppe gli divise.
Orlando si sdegnò con Carlo Mano,
E poco men che quivi non l’ uccise ;
E dipartissi di Parigi solo,
E scoppia e 'tnpazza di sdegno c di duolo.
Ad Erniellina moglie del Danese
Tolse Cortana, c poi tolse Rondello;
E ’n verso Brava il suo cammin poi prese.
Alda la bella conte vide quello,
Per abbracciarlo le braccia distese.
Orlando, che ismarrilo avea il cervello.
Coni’ ella disse : Ben venga il mio Orlando :
Gli Volle in su la testa dar col brando.
Come colui clic la furia consiglia,
E' gli pareva a Gan dar veramente :
Alda la bella si fé’ maraviglia :
Orlando si ravvide prestamente :
E la sua sposa pigliava la briglia,
E scese dal cavai subitamente :
Ed ogni cosa narrava a costei,
E riposossi alcun giorno con lei.
Poi si parti portato dal furore,
E terminò passare In Pagania;
E mentre die cavalca. Il traditore
Di Gan sempre ricorda per la via :
E cavalcando d'uno ili altro errore.
In un deserto truova una badia
In luoghi oscuri e paesi lontani,
Ch' era a' contili tra Cristiani e Pagani.
L’ abate si chiamava Chiaramente,
Era del sangue disceso d' Angrante :
Di sopra alla badia v'era un gran monte,
Dove abitava alcun fiero gigante.
De' quali uno avea nome Passamonte,
L’ altro Alabastro, e ’1 terzo era Morgante i
Con certe frombe giltavan da alto.
Ed ogni di facevan qualche assalto.
I monachetti non potieno uscire
Del monislcro o per legne o per acque :
Orlando picchia, e non volieno aprire.
Fin che all'abate alla fine pur piacque;
Entrato drento cominciava a dire.
Come colui, che di Maria già nacque.
Adora, ed era Cristian battezzato,
E com' egli era alla badia arrivato.
Disse l'abate : Il ben venuto sia t
Di quel di' io ho volcnlier ti daremo.
Poi che tu credi al Figliuol di Maria ;
E la cagion, cavai ier, ti diremo,
Acdò che non l' imputi a villania.
Perche all' entrar resistenza taccino,
E non ti volle aprir quel monachetto :
Cosi intcrvien chi vive con sospetto.
Quando d venni al prindpio abitare
Queste montagne, benché Siene oscure
MORGANTE
Come (u vedi ; pur si potei stare
Sana sospetto, eh' eli’ eran sicure :
Sol dalle fiere t’ avevi a guardare ;
Feritoci spesso di brutte paure ;
Or ci bisogna, se vogliamo starci.
Dalle bestie dimestiche guardarci.
Questi ci fan piuttosto stare a segno :
Sonci appariti tre fieri giganti,
Non so di qual paese o di qual regno.
Ha molto soli feroci tutti quanti :
La fora e ’l malvoler giunt’allo ’ngegno
Sai che può ’l tutto; e noi non siam bastan-
Questi perturbati sì l’orazion nostra, [ti;
Che non so più che far, s'altri noi mostra.
Gli antichi padri nostri nel deserto,
Se le lor opre sante erano e giuste.
Del ben servirdaDion’avean buon nierto ;
Nè creder sol vivessin di locuste :
Piovra dal ciel la manna, questo è certo ;
Ma qui convien che spesso assaggi c gusle
Sassi che piovon di sopra quel monte,
Cile gettano Alabastro e Passamente.
E ’l terzo ch’è Mnrganle, assai più fiero,
Isveglle e pini e faggi e certi e gli oppi,
E gettagli infin qui : questo è pur vero;
Non posso far che d’ira non iscoppi.
Mentre clic parlan così in cimitero ,
Un sasso par che Rondel quasi sgroppi;
Che da' giganti giù venne da alto
Tanto , eh' e' prese sotto 11 tetto un salto.
Tirati drcnto , cavalier , per Dio ,
Disse l'abate, clic la manna casca.
Risponde Orlando : Caro abate mio.
Costui non vuol che ’l mio cavai più pasca;
Veggo che lo guarrebbe del restio:
Quel sasso par che di buon braccio nasca.
Rispose il santo padre : lo non t' inganno ,
Credo elici monte un giorno gitteranno.
Orlando governar fece Rondello ,
E ordinar per sè la colezione :
Poi disse: Abate, io voglio andare aqueilo
Cile dette al mio cavai con quel cantone.
Disse l’ abate : Come car’ fratello
Consiglierò! tj sanza passione?
Io ti sconforto , baron , di tal gita ;
Ch'io so che tu vi lascerai la vita.
Quel Passamente porta in man tre dardi:
Chi Trombe , chi haston , chi mazzafrusti;
Sai che giganti più di noi gagliardi
Son per ragion, che son anco più giusti :
E pur se vuoi andar fa che ti guardi ,
Chè questi son villan mollo e robusti.
Rispose Orlando : Io lo vedrò per certo;
MAGGIORE.
Ed avvlossi a piè su pel deserto.
Disse l’abate col segnarlo in fronte :
Va , che da Dio e me sia benedetto.
Orlando , poi che salito ebbe il monte.
Si dirizzò, come l'abate detto
Gli aveva , dove sta quel Passamonte ;
11 quale Orlando reggendo soletto ,
Molto lo squadra di dietro e davante ;
Poi domandò , se star solca per fante.
E’ prometteva di farlo godere.
Orlando disse : Pazzo Saracino ,
10 vengo a te , com' è di Dio volere ,
Per darti morte e non per ragazzino ;
A’ monaci suoi fatto hai dispiacere ;
Non può più comportarti, can mastino.
Questo gigante armar si corse a furia.
Quando senti eh’ e’ gli diceva ingiuria.
E ritornato ove aspettava Orlando ,
11 qual non s’ era partito da bomba;
Subito venne la corda girando ,
E lascia un sasso andar fuor della Tromba ;
Cile in su la testa gingnea rotolando
Al conte Orlando, e l’elmetto rimbomba;
E’ cadde per la pena tramortito ;
Ma più die morto par , tanto è stordito.
Passamonte pensò che fusse morto,
E disse : Io voglio andarmi a disarmare :
Questo pollron per chi ni’ aveva scorto?
Ma Cristo i suol non suole abbandonare.
Massime Orlando, ch’egli arebbell torto.
Mentre il gigante l’ arme va a spogliare ,
Orlando in questo tempo sì risente,
E rivocava e la forza e la mente.
E gridò forte ; Gigante, ove vai?
Den ti pensasti d' avermi ammazzato!
Volgiti a driclo , chè, s'ale non bai ,
Non puoi da me fuggir , cali rinnegato :
A tradimento ingiuriato tu' hai.
Donde il gigante allor maral igliato
Si volse a drieto c riteneva il passo ;
Poi si chinò per tor di terra un sasso.
Orlando avea Cortana ignuda in mano ;
Trasse alia testa; c Cortana tagliava:
Per mezzo il teschio parti del pagano,
E Passamonte morto rovinava :
E nel cadere il superbo e villano
Divutamentc Macon bestemmiava ; [bo.
Ma mentre che bestemmia il crudo c acer-
Orlando ringraziava 11 Padre e T Verbo,
Dicendo: Quanta grazia oggi m' ha datai
Sempre tl sono , o Signor mio, tenuto ;
Perle conosco la vita salvata:
Però che dal gigante era abbattuto :
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248 POEMI ROMANZESCHI.
Ogni cosa a ragion fai misurala ;
Non sai nostro poter sanza il tuo aiuto.
Priegoti . sopra me tenga la mano.
Tanto che ancor ritorni a Carlo Mano.
Poi eli' ebbe questo detto s’ andoc ,
Tanto clic trova Alabastro più basso
Che si sforzava, quando e’ lo trovoe,
DI steglier d' una ripa fuori un masso.
Orlando , coni' e' giunse a quel , gridoc :
Che pensi lu,ghiotton, gittar quel sasso?
Quando Alabastro questo grido intende,
Subitamente la sua fromba prende.
E’ trasse d'una pietra mollo grossa,
Tanto eh’ Orlando bisognò schermisse ;
Chè se l'avesse giunto la percossa ,
Non bisognava il medico venisse.
Orlando adoperò poi la sua possa ;
Nel pcttignon tutta la spada misse:
E morto cadde questo badalone,
E non dimenticò però Macone.
Morgantc aveva al suo modo un palagio
l'atto di frasche e di schegge e di terra :
Quivi, secondo lui, si posa ad agio;
Quivi la notte si rinchiude c serra.
Orlando picchia, e daragli disagio,
Perchè il gigante dal sonno si sferra :
Velinogli aprir come una cosa malta;
Ch'un’ aspra visione aveva fatta.
E' gli parca eh' un feroce serpente
L'avca assalito, e chiamar Macomcllo;
Ma Macometto non valea niente ;
Ond' c'chiamava Gesù benedetto;
E liberato Cavea finalmente.
Venne alla porta ed ebbe cosi detto :
Chi bussa qua? pur sempre borbottando.
Tu il saprai tosto, gli rispose Orlando.
Vengo per farti come a' tuo’ fratelli,
Far de' peccati tuoi la penitenzia.
Da' monaci mandato cattivelli
Come stalo 6 dii ina provldcnzia;
Pel mal ch'avete fatto a torto a quelli
£dato in Cicl cosi questa sentenzia:
Sappi che freddo giù piu ch’un pilastro
Lascialo ho Passamontee'l tuo Alabastro.
Disse Morgante : 0 gentil cavaliere ,
Per lo tuo Dio non mi dir villania:
Di grazia il nome tuo vorrei sapere ;
Se se' Cristian, deh dillo In cortesia.
Rispose Orlando : Di colai mestiere
Contcntcrotli per la fede mia :
Adoro Cristo, eh’ è Signor verace;
E puoi tu adorarlo se ti piace.
Rispose il Saracin con umil voce:
10 ho fatto una strana visione
Che ni' assaliva un serpente feroce:
Non mi valeva per chiamar Macone ;
Onde al tuo Dio che fu condito in croce
Rivolsi presto la mia Intenzione:
E' mi soccorse e fui libero e sano ,
E son disposto al tutto esser Cristiano.
Rispose Orlando : Baroli giusto c pio ,
Se questo buon voler terrai nel core
L’anima tua arò quel vero Dio
Clic ci può sol gradir d'eterno onore :
E stu vorrai , sarai compagno mio
E amerotti con perfetto amore :
Gl'idoli vostri son bugiardi c vani:
11 vero Dio è lo Dio de’ Cristiani.
Venne questo Signor sanza peccato
Nella sua madre vergine pulzella :
Se conoscessi quel Signor beato,
Sanza ’l qual non risplende Sole o stella.
Aresti giù Macon tuo rinnegato
E la sua fede iniqua ingiusta c fella :
Rat terza ti al mio Dio di buon talento.
Morgante gli rispose: lo son contento.
E corse Orlando subito abbracciare :
Orlando gran carezze gli facca,
E disse: Alla badia ti vo' menare.
Morgantc : Andianci presto, rispondea :
Co’ monaci la pace si vuol fare.
Della qual cosa Orlando in sè godea
Dicendo : Frate! mio divoto e buono ,
lo vo’ che chiegga all’ abate perdono.
Da poi che Dio ralluminato t'ha
Ed accettalo per la sua uiniltadc;
Vuoisi che tu ancor usi umiltà.
Disse Morgante: Per la tua boutade.
Poi clic il tuo Dio mio sempre ornai sarà.
Dimmi del nome tuo la vcritade.
Poi di me dispor puoi al tuo comando:
Ond’ e’ gli disse com’egli era Orlando.
Disse il gigante: Gesù benedetto
Per mille volte ringraziato sia;
Sentito t’ ho nomar, baron perfetto,
Per tutti i tempi della vita mia:
E, coni' io dissi, sempremai suggello
Esser U vo’ per la tua gagliardia.
Insieme molte cose ragionare
E ’n verso la badia poi s’ inviare.
E’ fcr la via da que’ giganti morti:
Orlando con Morgante si ragiona:
Della lor morte vo' che ti conforti;
E poi che piace a Dio a me perdona ;
A’ monaci avoan fatto mille torli;
E la nostra Scrittura aperto suona
MORGANTE MAGGIORE. 549
Il ben remunerato e ’l mal punito;
E mai non ha questo Signor fallito.
Però ch'egli ama la giustizia tanto
Che vuol che sempre il suo giudlcio morda
Ognun eh’ abbi peccato tanto o quanto ;
E cosi il ben ristorar si ricorda;
E non saria sanza giustizia santo ;
Adunque al suo voler presto t’accorda:
Chè debbe ognun voler quel che vuol que-
Ed accordarsi volentieri e presto, [sto
E smisi 1 nostri dottori accordati
Pigliando tutti una conclusione.
Che que' clic son nel Ciel glorificati
S' avessi» nel pensicr compassione
De’ miseri parenti, che dannati
Son nello inferno in gran confusione,
La lor felicità nulla sarebbe;
E vedi che qui ingiusto Iddio parrebbe.
Ma egli hanno posto in Gesù ferma spene:
E tanto pare a lor quanto a lui pare;
Afferma» ciò eli* e’ fa, che facci bene ,
E che non possi in nessun modo errare:
Se padre o madre è nell’ eterne pene
Di questo non si posson conturbare :
Chè quel clic piace a Dio, sol piace a loro :
Questo s’osserva nell’ eterno coro.
Al savio suol bastar poche parole,
Disse Morgante; tu il potrai vedere
De’ mici fratelli , Orlando , se mi duole
E s’io m’ accorderò di Dio al volere.
Come tu di' che in del servar si suole :
Morti co’ morti ; or pensiam di godere;
lo vo’ tagliar le mani a tutti quanti
E porterolle a que' monaci santi.
Acciò eh’ ognun sia più sicuro e certo
Com’ e’ son morti c non abbin paura
Andar soletti per questo deserto;
E perchè voggan la mia mente pura
A quel Signor che m'ha il suo regno aperto
E tratto fuor di tenebre si oscura.
E poi tagliò le mani a’ due fratelli
E lasciagli alle fiere ed agli uccelli.
Alla badia insieme se ne vanno
Ove l'abate assai dubbioso aspetta:
1 monaci clic ’l fatto ancor non sanno,
Correvano all' abate tutti in fretta
Dicendo paurosi e pien d’ affanno :
Voiete voi costui drento si metta?
Quando l’ abate vedeva il gigante
Si turbò tutto nel primo sembiante.
Orlando che turbato cosi il vede
GII disse presto: Abate, datti pace,
Questo è Cristiano, e tu Cristo nostro crede
E rinnegato ha II suo Macon fallace.
Morgante i moneberin mostrò per fede
Come I giganti ciascun morto giace;
Donde l’abate ringraziava Iddio,
Dicendo : Or m’ hai contento, Signor mìo.
E riguardava c squadrava Morgante
La sua grandezza e una volta e due ,
E poi gli disse : 0 famoso gigante ,
Sappi ch'io non mi maraviglio piue
Che tu svegliessi e gitlassi le piante,
Quand’io riguardo or le fattezze tue:
Tu sarai or perfetto e vero amico
A Cristo quanto tu gli eri nimico.
Un nostro apostol , Saul già chiamalo,
Persegui molto la Fede di Cristo:
Un giorno poi dallo spirto infiammato,
Perchè pur mi persegui ? disse Cristo :
E’ si ravvide allor del suo peccalo:
Andò poi predicando sempre Cristo;
E fatto è or della Fede una tromba
La qual per tutto risuona e rimbomba.
Cosi farai tu ancor, Morgante mio:
E chi s’ emenda, è scritto nel Vangelo,
Chè maggior festa fa d'un solo Iddio
Che di novantanove altri su in Gelo:
Io ti conforto ch’ogni tuo disio
Rivolga a quel Signor con giusto zelo:
Chè tu sarai felice In sempiterno,
Ch’ eri perduto e dannato all’ inferno.
E grande onore a Morgante faceva
L’abate e molti di si son posati :
Un giorno , come ad Orlando piaceva ,
A spasso in qua c in là si sono andati :
L' abate in una camera sua aveva
Molte armadure e certi archi appiccali :
Morgante gliene piacque un che ne vede;
Onde c’ sei cinse bench'oprar noi crede.
Avea quel luogo d’ acqua carestia :
Orlando disse come buon fratello :
Morgante, vo’ che di piacer ti sia
Andar per l' acqua ,ond'c’ rispose a quello:
Comanda ciò che vuoi che fatto sia ;
E posesi in ispalla un gran tinello
Ed avvìossl là verso una fonte
Dove solca ber sempre appiè del monte.
Giunto alla fonte, sente un gran fracasso
Di subito venir per la foresta:
Una saetta cavò del turcasso
Poscia all'arco ed alzava la testa:
Ecco apparire un gran gregge al passo
Di porci, e vanno con molta tempesta ;
E arrivomo alla fontana appunto
Donde il g1 gante è da lor sopraggiunlo.
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POEMI ROMANZESCHI.
Morgantc alla ventura a un saetta ;
Appunto nell' orcccnìo lo ’ncarnava:
Dall' altro lato passò la verretta ;
Onde il cinghiai giù morto gambettava;
Un altro, quasi per farne vendetta ,
Addosso al gran gigante irato andava;
E perché e’ giunse troppo tosto al varco.
Non fu Morgantc a tempo a trarcon l’arco.
Vedendosi venuto il porco addosso ,
Gli dette in su la testa un gran punzone
Per modo che gl* infranse insino all’ osso,
E morto allato a quell’ altro lo pone:
Gli altri porci reggendo quel percosso
Si misson tutti in fuga pel vallone ;
Morgantc si levò il tinello in collo [lo.
Ch’era picn d'acqua, e non si move un crol-
Dall' una spalla il tinello avea posto
Dall’ altra i porci e spacciava 11 terreno;
E torna alla badia, eh’ è pur discosto,
Ch’ una gocciola d’ acqua non va in seno.
Orlando che '1 vedea tornarsi tosto
Co' porci morti e con quel vaso pieno ,
Maravigliossi clic sia tanto forte ;
Cosi l' abate ; e spalancan le porte.
I monaci reggendo l'acqua fresca
Si rallegrarmi, uia più de' cinghiali;
Ch’ogni animai si rallegra dell’esca;
E posano a dormire 1 brevlall :
Ognun s’ a [Tanna e non parche gl’ incrcsca,
Acciò che questa carne non s’ insali,
E clic poi secca sapesse di vieto :
E le digiune si restorno a dricto.
E forno a scoppia corpo per un tratto,
E scuffiali che parlcn dell'acqua usciti ;
Tanto che '1 cane sen doleva e T gatto
Che gli ossi rimancan troppo puliti.
L’abate, poi che mollo onore ha fatto
A tutti , un di dopo questi conviti
Dette a Morgantc un deslricr molto bello,
Che lungo tempo tenuto area quello.
Morgantc in su ’n prato il cavai mena,
E vuol che corra e che facci ogni pruova,
E pensa che di ferro abbi la schiena
0 forse non credeva schiacciar l' nova :
Questo cavai s’ accoscia per la pena
E scoppia , e ’n su la terra si rilruova.
Dicea Morgante: Lleva su, reuoat;
E va pur punzecchiando con lo sprone.
Ma finalmente coovlen eh’ egli smonte,
E disse : lo son pur leggier come penna,
Ed è scoppiato ; die ne di’ tu, conte!
Rispose Orlando : Un arbore d’antenna
Mi par piuttosto e la gaggia la fronte :
Lascialo andar, chè la Fortuna accenna
Che meco appiedo ne venga, Morgante.
Ed lo cosi verrò, disse il gigante.
Quaudo sarò meslier tu mi vedrai
Com' io mi proverò nella battaglia.
Orlando disse : lo credo tu farai
Come buon cavaticr, se Dio mi vaglia;
Ed anco me dormir non mirerai :
Di questo tuo cavai non te ne caglia:
Vorrebbesi portarlo in qualche bosco;
Ma il modo nè la via non ci conosco.
Disse il gigante: lo il porterò ben io.
Da poi che portar me non ha voluto.
Per render ben per mal, come fa Dio;
Ma vo’ che a porlo addosso mi dia aiuto.
Orlando gli dicea: Morgante mio,
S’al mio consiglio li sarai attenuto,
Questo cavai tu non ve ’l porteresti,
Chè li farò come tu a lui facesti.
Guarda che non facesse la vendetta,
Come fece giù Nesso cosi morto:
Non so se la sua istoria bai Inteso o letta ;
E' li farà scoppiar : Datti conforto.
Disse Morgante , aiuta ch’io me ’l metta
Addosso, e poi vedrai s'io ve lo porto:
lo porterei . Urlando mio gentile ,
Con le campane là quel campanile.
Disse l’ abate : D campani! v’è bene ;
Ma le campane voi l’ avete rotte.
Dicea Morgantc : E ne porlan le pene
Color che morti son là in quelle grotte;
E levassi il cavallo in su le schiene
E disse: Guarda s'io sento di gotte.
Orlando , nelle gambe c s’ io lo posso;
E fe’ duo salti col cavallo addosso.
Era Morgante come una montagna:
Se facea questo , non è meraviglia :
Ma pure Orlando con seco si lagna;
Perchè pur era ornai di sua famiglia.
Temenza avea non pigliasse magagna.
Un'altra volta costui riconsiglia:
Posalo ancor, noi portare al deserto.
Disse Morgantc : 11 porterò per certo.
E portello c giltollo in luogo strano,
E tornò alla badia subitamente.
Diceva Orlando: Or chè più dima riano 7
Morgante , qui non faedam noi niente ;
E prese un giorno l’ abate per mano ,
E disse a quei mollo discretamente ,
Che vuol partir dalla sua revcrenzia,
E domandava c perdono c licenzia.
E degli onor ricevuti da questi.
Qualche volta polendo, arà buon merito ;
MORO ANTE MAGGIORE. 251
E dice t Io Intendo ristorare e presto E sconsolali restiam tutti quanti;
1 persi giorni del tempo preterito : Nè ritener possiamti i mesi e gli anni ;
E'son più di che licenzia arei chiesto, Chè tu non se' da vestir questi panni ,
Benigno padre , se non eh’ io mi perito ; Ma da portar la lancia e l'armadura :
Non so mostrarv i quel che drente sento ; E puossi meritar con essa , come
Tanto vi veggo del mio star contento. Con questa cappa ; e leggi la scrittura :
lo me uc porto per sempre nel core Questo gigante al Ciel drizzò le some
L’abate, la badia , questo deserto; Ber tua virtù; va in pace a tua ventnra
Tanto v' ho posto in piccini tempo amore : Chi tu ti sia ; eh’ io non ricerco il nome :
Rendavi su nel Ciel per me buon merlo Ma dirò sempre, s' io son domandato.
Quel vero Dio, quello eterno Signore Ch’ un angiol qui da Dio lussi mandata.
Che vi serba il suo regno alfine aperto : Se c’ è armadura o cosa che tu voglia .
Noi aspettiam vostra benedizione, Vattene in zatubra e pigliane tu stessi,
Raccomaadiamci alle vostre orazione. E cuopri a questo gigante la scoglia.
Quando l' abate llconte Orlando Intese, Rispose Orlando : Se armadura avessi ,
Riti teneri nel cor per la dolcezza. Prima che noi uscissim della soglia.
Tanto fervor nel petto se gli accese ; Clic questo mio compagno difendessi :
E disse : Cavalier , se a tua prodezza Questo accetto io , e sarammi piacere.
Non sono stato benigno e cortese , Disse l' abate : Venite a vedere.
Come convintisi alla gran gentilezza; E in certa cameretta entrati sono ,
Chè so che ciò cb’ l' ho fatto è stato poco , Che d’ armadurc vecchie era copiosa ;
Incolpa la Ignoranzia nostra e 11 loco. Dice 1’ abate : Tutte ve le dono
Noi ti potremo dì messe onorare, Morgantc va rovistando ogni cosa;
Di prediche, di laude e paternostri. Ma solo un certo usbergo gli fu buono ,
Piuttosto che da cena o desinare, Ch' avea tutta ia maglia rugginosa :
O d’ altri coiivcnevol clic da chiostri : Maravigliossi che lo cuopra appunto :
Tu m’hai di te si fatto innamorare Che mai più gnun forse glicn'era aggiunto.
Per mille alte orcellcnzie che tu mostri ; Questo fu d’ un gigante smisurato ,
Ch’ io me ne vengo ove tu andrai con teco, Ch’ alla badia fn morto per antico
E d’ altra parte tu resti qui meco. Dal gran Milon d’ Angrante, eh' arrivato
Tanto eh’ a questo par contraddizione ; V era, s’ appunto questa istoria dico ;
Ma so che tu se’ savio, c 'mondi e gusti. Ed era nelle mura istoriato,
E intendi il mio parlar |>cr discrizione; Come e’ fu morto questo gran nimico
De’beiii'ficj tuoi pietosi c giusti Che fece alla badia giù lunga guerra :
Renda il Signore atc numerazione, EMilonv'ècom' e' l’abbatteio terra, do,
Da cui mandato in queste selve fusti ; I Vcggendo questa istoria il conte Orlan-
Per le virtù dei qual Uberi siamo , Fra suo cor disse : 0 Dio, che sai sol lutto,
E grazie a lui e a te noi nc rendiamo. Come venne Milon qui capitando.
Tu ci hai salvato 1’ anima e la vita: Che ha questo gigante qui distrutto?
Tanta pcrturbazion giù que’ giganti E lesse certe lettre lacrimando ,
Cl detton, che la strada era smarrita Che non potè tener più 11 viso asciutto ,
Da ritrovar Gesù con gii altri Santi : Coni’ io dirò nella seguente istoria.
Però troppo ci duol la tua partita, Di mal vi guardi il Re dell’alta gloria.
CANTO VENTESIMOQU INTO.
TI diavolo Astarotte e sua scienza teologica.
Malgigi scongiurò quello una notte.
Uno spirto chiamato è Astamtte, E disse : Dimmi di Rinaldo il vero.
Mollo savio, tcrribil, molto fero : Poi tl dirò quel che mi par tu faccia :
Questo si sta giù nell’ infornai grotte : Ma non guardar con sì tcrribil faccia ;
Non è spirto folletto; egli è più nero : Se questo tu farai io U prometto
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i:,7 POEMI ROMANZESCHI.
Ch'a forza mai piùnonfi cliiamoo invoco,
K d’artiere alia morie un mio libretto
Clic ti può sol costringer d'ogni loco;
SI clic poi tu non sarai piti costretto :
Perchè lo spirto braveggiato un poco,
Istava pure a vedere alla dura,
Se far potesse al maestro paura.
Ma poi che vide Malgigi turbato.
Clic voleva mostrar l’ancl dell'arte,
K in qualche tomba farebbe cacciato;
Volentier sotto si mlssc le carte,
E disse : Ancor tu non hai comandato.
E Maligigi rispose : In qual parte
Si ritruovi Rinaldo e Ricciardetto
Fa che tu dica, c d’ogni loro effetto.
Rinaldo le piramide a vedere
£ andato di Egitto, gli rispose
Questo demone ; e se tu vuoi sapere
Tutti I suoi fatti io t' ho a dir tante cose.
Che ’1 sonno so non potresti tenere.
Disse Malgigi : Delle più famose
Notizia voglio; c però non rincresca;
Ma di più forte, acciò elle ’l sonno m’esca.
Rinaldo Fuligatto aveva seco,
Disse Astarottc, Insino a quel t' ho detto.
Quando altra volta ne parlai già tcco;
Gufi-dardo suo, Alardo c Ricciardetto
Vollon veder tutto il paese greco,
K poi passar d' Ellesponto lo stretto;
Perdi’ c’ sapevan per antica fama
Del monte eccelso che Olimpo si chiama.
E poi clic e' furon tre giorni montati,
Perchè pure a salir si suda e spasima,
Sendo in alto una notte addormentati,
Ucdse Fuligatto la fantasima ;
Credo di' egli eran tanto affaticati,
Chè per 1’alfanno venisse quest' asitna :
Clic II sangue al cor per le vene s'accolse;
E cosi mal della impresa gli colse.
Rinaldo il seppellì come e' potea,
E terminò pur di veder la cima :
Vide che sotto le nugole avea,
E lettere gran tempo scritte prima
In su la terra scolpite leggea, [ma :
Che vento o pioggia non par che l'opprl-
Ma poi trovò nello scendere II monte
Vita strana Chimera a una fonte.
Uccise questa, clic fu maraviglia :
Che mai nessun più non v’era arrivato;
Ch'aOlsar sol questo mostro le ciglia,
Col guardo suo non l'avesse ammazzato;
Poi verso il Caie rivolse la briglia,
Poi ver Damasco; e al Gialfo arrivato,
Volle vedere il sepolcro di Cristo,
Benché il diavol non dicesse Cristo;
Disse il sepulcro del monte Calvario.
Poi lasciar quivi ciascuno il destriere,
E tolson chi cammei, chi dromedario,
E ’l monte Sinai vollon vedere ;
E perchè il vento si misse contrario,
Fumo a perieoi di non rimanere
Tutti annegati in quel mar della rena,
E con fatica lo passorno appena.
E sopra a Sinai saliti e scesi
Da quella parte ove il gran fiume corre,
Vollon vedere anche molti paesi,
E dove fu di Nembrottc la torre :
Poi ritornati e I lor destrier ripresi.
Saliti prima al bel monte Taborre,
Trascorson sino in India al prete Janni,
E coni bai loron là molti e inoli' anni.
Tanto clic sol v'era un signor rimaso
Il qual non si voleva battezzare,
E ridurre alla Fede di Tommaso :
Ma perchè più non vollon soggiornare,
Rinaldo se n'andò verso l' Occaso,
E volle il grande Atlante superare,
Sansa curarsi o di fatica o gielo.
Forse per torgli dalle spalle il cielo.
Poi vide i segni che Ereol già pose,
Acciò clic I navicanti sleno accorti
Di non passar più oltre, e molte cose
Andò reggendo per tutti que' porti;
E quanto eli' eran più maravigliose;
Tanto pareva più che si conforti;
E soprattutto commendava Ulisse,
Clic per veder nell'altro mondo gisse.
Or finalmente ritornò in Egitto,
E ha molte provincic battezzate :
Credo che egli abbi l' animo diritto
Di non tornar mal più in CrisUanltate,
E so che molte volle v'ha qua scritto.
Ma non ci son le lettere arrivate,
Chè s’cgli avesse seco avuto Orlando,
Sarebbe mezzo il mondo a suo comando.
Già era Malagigi stato attento
Tre orco più che quel demone ha detto;
E disse: Non dirplù.chT m'addormento;
Chiamato t’ho sol per questo rispetto.
Che tu vadl a Rinaldo in un momento,
E che tu porti lui con Ricciardetto
In Roncisvalle, dove aspetta Orlando;
E so che intendi : lo te gli raccomando.
Disse Astarottc : E’ non si fideranno.
Rispose Malagigi : Entra In Baiardo.
Rinaldo c Ricciardetto vi saranno :
MORGANTE
Gulcciardo non importa, c cosi Alardo j
E inverso Montalban si torneranno :
Ma fa che a questo tu abbi riguardo,
Che non rincresca a Rinaldo la via,
E che in tre giorni in Roncisvalle sia.
Un’altra cosa ti bisogna dire,
Ch’ io sono da un pensier tutto smarrito,
E non posso la mente mia chiarire : (
Tu sai che Carlo di Francia è partito :
Di questa andata che dehbe seguire;
Se Orlando In Roncisvalle fia tradito;
E quel che fece il traditor di Gano
A Siragozza col gran re Pagano.
Disse Astarotle: A giudicare è scuro,
S’io non pensassi tutta questa notte :
E non sarebbe il giudicio sicuro,
Chi le strade del Ciel son per noi rotte ;
Noi reggiani come astrologa il futuro,
Come tra voi molte persone dotte :
Che non camperebbe uoin nè animale;
Se non che corte abhiam tarpate l'ale.
Dir ti potrei del Testamento Vecchio,
E ciò eh’ è stalo per lo antecedente ;
Ma non viene ogni cosaal nostro orecchio;
Perch'Egli è solo un primo onnipotente,
Dove sempre ogni cosa in uno specchio
Il futuro c ’l preterito è presente :
Colui che tutto fc', fa il tutto solo:
E non sa ogni cosa il suo Figliuolo.
Però dir non lì posso, s’ io non penso,
Quel che debbe seguir di Carlo Mano :
Sappi che tutto questo aere è denso
Di spirti, ognun con l'astrolabio in mano,
E 'I calcol lutto e ’i tamii» remenso :
Minaccia il elei di qualche caso strano,
E sangue, tradimento, guerra e storpio :
Però che Marte angularc è in Scorplo.
E perchè meglio intenda. In ascendente
Si ritrova congiunto con Saturno
Nella revoluzion tanto potente,
Che non fu tanto alle guerre di Turno;
Questo dimostra occiston di gente,
E quanti casi terribil mai fumo,
E mutazion di stati c di gran regni,
E non soglion mentir mai questi segni.
Non so se a questi di tu hai ben notate
Quelle comete che sono apparite,
Veru c Domlnus, Ascone appellate,
Cbe mostran tradimenti e guerre e lite,
E morte di gran principi e magnate.
E anche queste mai non son mentile.
Si che a me par, per quel cb' io intendo e
veggio,
MAGGIORE. «3
Che s'apparecchi quel eh' io dico e peggio.
Quei che Gan con Marsilio abbi trattato.
Non so, eh’ io non v’ avea la mente volta :
Credo che sia quel eh’ egli è sempre stato :
Però questa fatica mi sia tolta ;
E so che un seggio è per lui preparato :
E s' io ho la sua vita ben raccolta.
Piangeri le sue colpe in sempiterno
Tosto l'anima trista nello inferno.
Diceva Malagigi : Tu in' hai detto
Un punto che mi tien tutto confuso;
Clic il Figliuol tutto non sappi in effetto:
lo non intendo il tuo parlar qui chiuso.
Disse Astarotte : Tu non hai ben letto
La Bibbia, e parmi con essa poco uso:
Citò interrogato del gran dì il Figliuolo,
Disse che il Padre lo sapeva solo.
Or nota, Malagigi, se tu vuoi
Ch'io dica pur la mia diffinlzione,
E domanda i teologi tuoi poi :
Voi dite in una cssonzia tre persone,
Ovvero una suslanzla; e cosi noi;
Uno atto puro sanza ammistionc,
Però che questo è di necessitate,
Convien che sia quel che tutti adorate.
Un motor donde ogni moto deriva;
Un ordin donde ogni ordin sia costrutto ;
Una causa a tutte primitiva;
Un poter donde ogni poter vien tutto;
Un foco donde ogni splendor s’avviva;
Un principioondcognì principio è Indut-
Un saper donde ogni sapere è dato ; [to ;
Un bene donde ogni bene è causato.
Questo è quel Padre c quel Monarca an-
Ch' ha fatto tutto e può tuttosapcre-, [tico
E non può preterir 1’ ordin eh’ io dico.
Chè '1 cielo e '1 mondo vedresti cadere :
Or s’ io non son com’ lo solca già amico,
Non posso In quello specchio più vedere,
Dove apparisce or forse i nostri guai.
Benché il futuro io noi sapessi mai.
E se Lucifcr 1’ avesse saputo,
E’ non avea tanta presunzione,
E non sarebbe net centro caduto
Per voler la sua sede in Aquilone :
Ma non aveva ogni cosa veduto;
Onde e’ segui la nostra dannazione :
E perchè il primo lui fu in questa pecca,
Caduto è il primo lui nella Gludecca.
E non aremmo invan tentati tanti,
Che tutti son felicitati In Cielo ;
Se non che come io dico tutti quanti,
Agii occhi della mente abbiamo un velo ;
POEMI ROMANZESCHI.
E non arebbe il gran Santo de’ Santi
Sa un, come voi dite nei Vangelo,
Tentato, e poi portato in sul pinacolo,
Infin che pur cognobbe il suo miracolo.
E perchè tutto fa perfettamente,
E tutto ha circonscritlo e terminato,
E ciò che fece gli è sempre presente,
Perch’ e’ fu con giustizia esaminato;
Nota, che mai questo Signor si pente :
E se alcun dice che e’ a’ è rimutato,
Dico che il falso qui pel ver si stima :
Che cosi era nell’ ordine prima.
Dimmi, rispose Malagigi, ancora,
Chè tu mi pari qualche auge! discreto.
Se quel primo Motor eh’ ognuno adora,
Cognosccva il mal vostro in suo segreto,
E vedeva presente il punto c l’ ora ;
E’ par che e’ sia qui ingiusto il suo decreto:
E la sua cariti qui non sarebbe;
Perchè creati e dannati v’ arebbe,
E presciti imperfetti e con peccati :
E tu di’ ch’egli è giusto e tanto pio;
E non ci è spazio a esservi emendali ;
E par die partigian si mostri Dio
Degli Angeli che son li su restati.
Che cognobbon il ver dal falso e ’l rio,
E se il line era o tristo o salutifero,
E non seguiron, come voi, Lucifero.
Crucciossi rom’ un diavolo Astarotlc;
Poi disse : E’ non amò più Micaellc,
Che Lucifer, quel giusto Sabaotte;
E non creò Cain peggior che Abelle:
Se l’un superbo è poi più che Ncmbrotle,
L’altro è tutto difforme a Gabrielle,
E non si pente, e non esclama Osanna;
Libero arbitrio I’ uno e l’ altro danna.
Questo fu quel che ci ha dannati tutti ;
E lungo tempo per la sua clemenzia
Ci comportò, per non ci far sì brutti,
Inaino al tcrmin della pcnitenzia :
E non possiam più in grazia esser redutti,
Chè giusta è data la nostra sentenzia;
E non ci tolse il provveder suo i! tempo;
Chè la grazia al ben far fu semprea tempo.
Giusto è il Padre, c ’l Figliuolo, e giusto il
E fu con gran pietà la sua giustizia^ Verbo,
E non fu men d’ ingrato che superbo
li peccato di tutti e la malizia;
E non si pente II nostro animo acerbo;
Però che ciò che dal volere inizia.
Conosciuto il ver prima per sé stesso.
Non tentato d’ alcun, mai fu dimesso, [to;
Non cognobbe Adam vostro il suo pecca-
Pcrò dimessa fu questa fallcnzia.
Perché il serpente l’ aveva tentato :
Dispiacque sol la sua disobbedienzia;
Però di paradiso fu cacciato,
E riservato deila penltenzia
La grazia, e pace della sua discordia,
E l’ olio ancor della misericordia.
Ma la natura angelica corrotta
Non può più ritornar perfetta e intera.
La qual peccò come natura dotta;
E per questa cagion poi si dispera :
Chè se quel savio non rispose allotta.
Quando Pilato domandò quel eh’ era
La verità, fu che l’ aveva appresso;
Si che questo ignorar gli fu dimesso.
Se non che nel ben far perseveralo
Non Ita costui, quando le man s’ imbianca.
E non sarebbe anche Giuda dannalo,
Che si pentì ; ma la speranza manca,
Sanza la qual nessun mai lia salvato :
E’1 detto d’ Origen non lo rinfranca:
Nè sia dii T altra opinion concluda.
In dir bus illis salrabilur Judo, tese.
Dunque un primoènclCicl che tutto in-
Da cui tutte le cose son create,
E creando e dannando non ci offese.
Ma fc’ tutte in iuslizia c in reritalc :
Il futuro c ’l preterito ha palese;
Chè, come io dissi, è di necessitale
Che tutto appaia a quel Signor davaute,
Da cui procede ogni virtù informante.
E poi clic del mio mal pur la cagione.
Come maestro, m’ hai costretto io dica;
Tu vorresti sapere or la ragione.
Perché e’ durasse invan questa fatica.
Poi elle vedea la nostra dannazione :
Sappi che segnata è questa rubrica,
E riservata a quel Signor giocondo;
Si di’ io noi so, però non ti rispondo.
Nèdetto l’ho per metterli alcun dubbio;
Ma perch’ io veggo che l’ umana gente
Di molti errori avvolge a questo subbio,
E vuol saper, sanza saper niente.
Onde esca il NU, non pur solo il Danubbio :
Basta che tutto ha fatto giustamente ;
E giusto c vero è quel Signor di sopra.
Come dice il Salmista, in ciascun’ opra.
E poeti e filosofi c morali
Queste cose eli' io dico anche non sanno :
Ma la prcstmzion vuol de’ mortali
Saper le gerarchie come elle stanno ;
Io ero scrafin de' principali,
E non sapea quel che qua giù detto hanno
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MORGANTE
Dionisio e Gregorio ; eh’ ognuno erra
A voler giudicare il Ciel di terra.
E soprattutto a questo ti bisogna :
Non ti fidar di spiriti folletti,
Che non ti dicon mai se non menzogna,
E metton nella mente assai sospetti,
E farebbon più danno ebe vergogna ;
E perché intenda, e’ non vengon costretti
Neli'acquaonellospecchio; c inaria stan-
Mostrando sempre falsila te e inganno, [no
Vannosi l' un con l' altro poi vantando
D’ aver fatto parer quel che non sia ;
Chi si diletta ir gli uomini gabbando.
Chi si diletta di filosofia,
Chi Tenire i tesori rivelando,
Cbi del futuro dir qualche bugia;
Slch’io t’ ho letto un gentil mio quaderno ;
Che gentilezza é bene anche in inferno.
Orbasti, disse Malagigi, questo:
Dimmi al presente quel clic fa Marsilio.
Disse Astarolte : lo tei dirò, e presto :
A Siragozza ha chiamato a concilio
li popol tutto: e veggo manifesto
Gran gente d'arme, c di molto navilio
Apparecchiarsi; e lui nel volto lieto;
Ma non dice a persona il suo segreto.
Potresti tu ritrar qualche parola
Di Falserone, o del re Bianciardino?
Disse Astarolte : E’ basta questa sola ,
Che qualche tradimento m' indovino.
Or non più, disse Malagigi : vola,
E piglia inverso Rinaldo il cammino;
E porta in Roncistalie, ot’io t’ho detto.
Quanto più presto lui con Ricciardetto.
Rispose il diavol : Ricciardetto ha seco,
Per quel ch’io veggo, un leggiadro cavallo,
Che glicl donoc io imperadorU Greco,
E non vorrebbe a gnun modo lasciallo :
Perù se in groppa a Baiardo lui reco.
Questo deslrier non polrc’ seguitano ;
Tanto che troppo ci terrebbe a tedio;
Ma per servirti ho pensalo un rimedio.
Io dirò per tua parte a (tubi canto ,
Che porti Ricciardetto , o a Farfarello ,
Che tentano un signor 11 di Levante,
Perchè e' voleva battezzarsi quello :
Tu se' tanto famoso nigromante ,
Che sanza mostrar libro o altro anello ,
Per compiacerti, dello iufcrnal chiostro
Verrebbe Belzebù principe nostro.
Disse Malgigi : Se non vicn costretto,
Potrebbe questo spirilo ingannarmi,
E gittarc in un fiume Ricciardetto :
MAGGIORE. US
Dimmi , Astarotte , s’ io posso fidarmi.
Disse Astarolte : Non aver sospetto :
Non ti bisogna adoperare altr’ anni ;
E nota una parola : che ignun saggio
Non fa mai cosa a suo disavvantaggio.
Tu potresti cacciarlo in qualche tomba ;
Ma non bisogna; chè ti stima ed ama.
Tanto il tuo nome giù fra noi rimbomba;
E vuoisi in ogni loco amici c fama.
Poi si parti , clic parve d' una fromba
Quando il sasso esce che per l’ aria esclama;
Anzi folgore proprio par che fosse;
E la terra tremò quando e' si mosse.
Or lasciamo Astarolte andar per l' aria ,
Che questa notte troverl Rinaldo.
La nostra istoria è si fiorita c varia ,
Clt’ i’ non posso in un I uogo star mai saldo :
E non sia altra opinion contraria ,
Che troppo belle cose dice Arnaldo ;
E ciò che dice, il ver con man si tocca :
Clt’ Ulta bugia mai non gli esce di bocca.
E ne ringrazio il mio car angioiiuo,
Sanza il qual molto laboravo invano;
Fida scorta m' è stato al mio cammino,
Onore e gloria di Montepulciano,
Che mi dette d' Arnaldo c d’ Alcuino
Notizia , e lume del mio Carlo Mano ;
Ch’io ero entrato in uno oscuro bosco;
Or la strada e ’l sentler del ver conosco.
Or mi convien lasciar Marsilio il quale
Inverso Roncisvallc s’è diritto;
Perchè Astarulte anco avea seco l' ale ,
E giù Rinaldo ha trovato In Egitto,
Ch’ ancor bisogno non avea d'occhiale;
E lesse ciò che Malagigi ha scritto :
Poi dimandò quel messaggier chi sia ,
Che cosi tosto ha spacciata la via.
E poi che I’ ebbe da presso veduto.
Perchè gli fece molto fiero sguardo.
Sorrise, c disse : Tu sia il ben venuto :
E poi chiamava Guicciardo ed Alardo .
E domandò se 1' avean conosciuto :
Ma Farferel che non v’ebbe riguardo,
Appari loro in una forma oscura ,
Tanto che a tutti faceva paura.
Ricciardetto era a contemplar rimaso
Una certa piramida eh’ avea
Un cerchio d’ oro , e noi fe’ Cliemi a caso,
Che tutto il corso del ciel vi vedea :
L' altra di Mucerin di Armeo Damasi)
Non cosi beila o degna gli parca :
Forse la prima gli pareva brutta.
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I
POEMI ROMANZESCHI.
356
Da que' dodici satrapi costrutta.
Ma poi clic tutto da Rinaldo intese,
Dargli mìll* anni di (edere Orlando;
E cosi tosto il partito si prese ,
Guicciardo, Alardo ne vadin trottando
A Montalban per qualche altro paese :
E poi Rinaldo venia domandando :
Sarebbe, dimmi. Astarotte, possibile.
Clic pel cammin tu cl porti invisibile?
Disse Astarottc : E’lia perccrto : aspetta
Tanto ch'io mandi inslno in Etiopia,
E porteratli uno spirto un’ erbetta
Che può far questo , e non pure eutropia :
E basta sol eh’ addosso te la metta ,
Chi- cosi è la sua natura propria :
Che dove manca ragione o scioltala,
Pasta al savio veder la sperienaia.
E poi si volse ad un certo scudiere ,
E disse : Va per questa erba, Milusse.
Rinaldo guarda , e non seppe vedere
Con chi quel parli, c paura gl' indusse.
Disse Aslarotte : lo intendo il tuo tacere:
Non chiamerei, se qualcun non ci fusse,
Sappi eh' io ho mille demon qui intorno
Che m' accotnpagnan di notte e di giorno.
Disse Rinaldo: Adunque io son nel gagno
De' diavoli ! or su , qui siam , che Ila?
Disse Astarottc: Ognun Da buon compagno
0 buon briccon , tu il vedrai per la via;
Ed ogni di qualche convito magno
Vedrai sempre, c parata l'osterìa ;
E chiederai tu stesso le vivande ;
Ch'io ti darò mangiare altro che ghiande.
Noi abbiam come voi principe e duce
Giù nell' inferno ; c ’l primo 6 Itelzcbue :
Chi una cosa, c chi altra conduce ;
Ognuno attende alle faccende sue ;
Ma tutto a Belzebù poi si riduce :
Perchè Lucifer rcligaio fue
Ultimo a tutti, c nel centro più imo.
Poi eh’ egli intese esser nel Ciel su primo.
E se vuoi pur che il ver presto U dica,
Non ti fidar di noi se non col pegno ;
Perchè alla vostra natura è nimica
l.a nostra per Invidia e per isdegno :
Tu mi dai di portar questa fatica:
lo fui giù scrafin più di te degno;
Or per piacere al nostro Malagigi ,
Vedi eh’ io fo di bastagio i servigi.
Ma percb’ io so che tu farai macello
In Roncisvalle , volenticr ti porto;
E cosi Ricciardetto , Farfercllo :
Ch’io vedrò certo molto popol morto.
E correrà di sangue ogni ruscello:
Chèsai eli’ egli è de’ miseri conforto
Di veder come lor qualche altro afflitto ;
Però ti traggo volontier d’ Egitto.
Venne Milusse , e portò 1' erba seco ,
E dettela a Rinaldo in un sacchetto ,
E disse : Dagli Antipodi la reco.
Disse Astarotle : Dalla a Ricciardetto.
Rinaldo guarda , c rimase alfin cieco,
E disse: Il vero. Astarotte, m'hai detto:
Per tanto andianne ; c saltò in su Baiardo,
Cile questa volta gli parrà gagliardo.
Quando Baiardo il diavolo sentiva.
Pereti’ altra volta di questi alloggioe :
Intese ben come la cosa giva,
E come un drago a soffiar comìncioe :
E così l’altro cavallo anitriva;
E raspa e salta c'I cammin suo pigline
Con tanta furia, e così Astarottc,
Chè l’ uno e l’ altro non sente di gotte.
Lasciate le piramide, accadca
Di Miride passar la gran palude.
Perchè Astarottc a Rinaldo dicca :
Che vuoi eh’ io facci? e Rinaldo conclude;
Darmi tu salti; e cosisi facea:
Ma Ricciardetto pur gli occhisi chiude
Per non veder quanto II cavai vadi alto :
Tanto che questo si spaccia in un salto.
Poi cavalcando , e già per Libia entrato.
Trovalo ha il fiumeower palude o lago,
Il qualTriton da Tritolila è chiamato;
E poi più oltre lasciata Cartago ,
A destra il fiume Bagradc ha trovato.
Dove uccise il serpente Attilio o ’l drago.
Onde e’ si dice ancor tante novelle ,
E come a Roma quel mandò la pelle.
Ma vogllam noi che Rinaldo cavalchi ,
E non si farci però colezione ,
Benché la fretta del cammin c' incalchl ?
Ben sai clic no ; chè non sare' ragione.
Disse Astarottc : Or su, qua tutti i scalchi,
Apparecchiate la nostra magione.
Disse Rinaldo, cheli becco s' immolli,
E poi cantando ce n' androni satolli.
In questo in su ’n prato è apparito
Unpadigllon che parea tutto d'oro,
K ordinato subito un convito :
Dunque da beffe non fanno costoro :
Le mense acconci e chi abbi servito,
E tanti camerieri intorno loro
Con reverenzia , c abiti sì destri ,
Che parcan tutti di nozze maestri.
Chi butta alla lombarda il pannicello ,
I
MORGANTE
E acqua lanfa è trovata alle mani ;
Posti a sedere ; ecco giunto un piattello
Di bcccafìch i e dì grassi ortolani :
Vedi che anticamente questo uccello
Era , e non pur ne’ paesi toscani ;
E perchè qui non se ne crede altrove,
Ambrosia o nettar non s’ invidia a Giove.
E come un dice gli orlolan , di bollo
Par che si lievi in tanta boria Prato ,
Che però disse già il piovano Arlotto,
Ch’avea più volte in su questo pensato,
Perchè e* sapeva e’ v* è misterio sotto :
E Analmente or l’avea ritrovato :
Cioè che Cristo a Maddalena apparve
In ortolan, che buon sozio gli parve.
Vennon tante vivande in un baleno ,
Che mai convito si fé’ più solenne ;
E d’ ogni cosa si missono in seno *,
E vi fu insino a' pavon con le penne :
I cavalli hanno dell’ orzo e del fìeno.
Rinaldo quasi per le risa svenne ,
E disse : Questi mi paion miracoli;
Facciam qui sei , non clic tre tabernacoli.
E Ricciardetto diceva : Fratello,
A me par che noi siam bène alloggiati ,
Da poi che c'è buon oste e buon piattello
E vernacce e razzesi delicati ;
E Astarottc è intorno e Farferello
Coi grembiul come l’oste apparecchiati,
E dicean pur cosi piacevolmente :
Mcsscr , che dite, mancavi niente?
Disse Rinaldo : Qui sta buono ostiere:
Venghin poi le vivande dell’ inferno ,
Ch'io avea voglia di mangiare c bere ;
E so che per un tratto io mio governo ,
Ch'io potrò cavalcare a mio piacere.
E finalmente buono scotto forno :
Poi domandomo onde 1* oste abbia avute
Queste vivande che son lor venute.
Rispose il diavol : Questa colczione ,
E le vivande che mangiato avete,
Apparecchiava il re Marsillone ;
E giunto in Roncisvalle lo saprete ,
Che i seni insieme ne fecìon quistionc :
E se del vostro impcredor volete
Ch’ io facci qui venir lesso o arrosto ,
Comanda pur, che ci sarà tantosto.
Andiam via presto pel nostro cammino,
Dicca Rinaldo , chè il desio mi sprona
Di rivedere il mio gentil cugino :
Ogni cosa, Astarottc , è stata buona.
E mentre questo dice il paladino,
il padiglion non veggon nè persona :
MAGGIORE. 257
Per la qual cosa a cavai rimontorno,
Ch’ era passalo più che mezzo il giorno.
E perchè il fiume Ragrade è purgrande,
E per la pioggia sette rami avea
Fatti , e per tutto il paese si spande;
Con Ricciardetto Rinaldo dicea :
Noi smaltirem qui forse le vivande ?
Però che il mar questo fiume parca :
E ci convien saltar , questo è I* effetto ;
Saltiam pur tosto , dicea Ricciardetto.
Disse Rinaldo : 0 mio gentil Baiardo,
Tu non avesti ancor già mai vergogna :
Or ti conosco se sarai gagliardo :
0 Astarotte , andar qui ci bisogna
Di salto in salto come il leopardo;
Che forse ancor fia scritto per menzogna.
Disse Astarottc : Non temer , Rinaldo ,
Attienti in su la sella , c sta pur saldo.
Era Baiardo fier di sua natura ;
E se non fussc anco Astarotte in quello,
Saltalo arebbe , c non are’ paura
A trattar l’aria come lieve uccello,
E cominciò quanto la terra è dura ,
Come gru per levarsi o altro uccello,
A trottar; poi si chiudea di gualoppo:
Poi si levò , clic non pareva zoppo.
Vcdestu mai, lettor, di salto in salto
R pesce in mar per (schifare il gurro?
Cosi questo cavai; ma va su alto.
Da dir : Fetonte più basso ebbe il curro :
Da creder prima che tomi allo smalto,
Che tocchi l’aer dove e’ pare azzurro :
Credo che Giuno ebbe paura c sdegno,
E dubitasse del suo scettro o regno.
Passato il fiume Bagradc ch’io dico.
Presso allo stretto son di Giubiltcrra,
Dove pose i suoi segni il Greco antico
Abila e Calpc, a dimostrar ch’egli erra
Non per iscogli o per vento nimico.
Ma perchè il globo cala della terra
Chi va più oltre, e non truova poi fondo,
Tanto che cade giù nel basso mondo.
Rinaldo allor riconosciuto il loco,
Perchè altra volta l'aveva veduto;
Dicea con Astarotte : Dimmi un poco,
A quel che questo segno ha provveduto?
Disse Astarottc : Un error lungo e fioco
Per molti secol non ben conosciuto.
Fa che si dice d’ Ercoi le colonne,
E che più là molti periti sonne.
Sappi che questa opinione è vana;
Perchè più oltre navicar si puote.
Però ebe l’acqua in ogni parte è piana,
n.ni ■ ! h / ^vnolr
568 POEMI ROMANZESCHI.
Benché la terra abbi forma di ruote :
Era più grossa allor la gente umana;
Tal che potrebbe arrossirne le gole
Ercuic ancor d' aver posti que’ segni.
Perchè più oltre passeranno i legni.
E puossi andar giù nell’altro emispcrio,
Però ch’ai centro ogni cosa reprime;
Si che la terra per divln mislerio
Sospesa sta fra le stelle sublime,
E là giù son città, castella e imperio :
Ma noi cognoblton quelle genti prime :
Vedi che il Sol di camminar s’ affretta,
Dove io li dico che là giù s'aspetta.
E conte un segno surge in Oriente,
Un altro cade con mirabil arte.
Comesi vede qua nell'occidente.
Però che il cicl giustamente comparte :
Antipodi appellata è quella gente;
Adora il Sole e luppitcrre c Marte,
E piante e animai come voi hanno,
E spesso insieme gran battaglie fanno.
Disse Rinaldo : Poi che a questo siamo,
Dimmi, Astarottc, un’altra cosa ancora:
Se questi son della stirpe d'Adamo,
E perchè varie cose vi s’adora.
Se si posson salvar qual noi possiamo.
Disse Astarottc : Non tentar più ora,
Perchè più oltre dichiarar non posso;
E par che tu domandi come uom grosso,
Dunque sarebbe partigiano stato
In questa parte il vostro Redentore,
Che Adam per voi qua su fosse formato,
E crocifisso Lui per vostro amore :
Sappi eh’ ognun per la croce è salvato :
Forse che ’1 vero dopo lungo errore
Adorerete tutti di concordia,
E troverete ognun misericordia.
Basta che sol la vostra Fede 6 certa,
E la Vergine in Cicl glorificata :
Ma nota che la porta è sempre aperta,
E inslno a quel gran di non Ila serrata ;
E chi farà col cor giusta l' offerta,
Sarà questa olocausta accettata;
Cbè molto piace al Clel la obbedienaia,
E timore, osservanza c reverenzia.
Mentre lor ceremonie e divozione
Con timore osservarono I Romani,
Benché Marte adorassino e Junone
E Giuppiterre e gli altri idoli vani :
Piaceva al Ciel questa religione
Che disceme le bestie dagli umani :
Tanto che sempre alcun tempo Innalcorno,
E cosi pel contrario rov inorno.
Dico così, che quella gente crede,
Adorando pianeti, adorar tiene;
E la giustizia sai cosi concede
Al buon remunerano, al tristo pene :
S) che non debbe disperar mercede
Chi rettamente la sua legge tiene :
La mente è quella che vi salva e danna ;
Se la troppa ignoranzia non v'inganna.
Nota eh’ egli è certa ignoranzia ottusa,
0 crassa o pigra, accidiosa e trista.
Clic la porta al veder tenendo chiusa.
Ricevette Invan l'anima e la vista;
Però questa nel Ciel non truoTa scusa :
Koluil inlclligere, il Salmista
Dice d' alcun tanto ignorante e folle,
Che per bene operar saper non voile.
Tanto è, chi serverà ben la sua legge,
Potrebbe ancora aver redenzione.
Come de’ padri del limbo si legge;
E che nulla non fé' sanza cagione
Quel primo padre ch’ogni cosa regge ;
Si che il mondo non fe’ sanza persone.
Dove tu vedi andar là giù le stelle,
Pianeti, segni c tante cose belle.
Non fu quello emispcrio fatto a caso.
Nè il Sol tanta fatica indarno dura
La notte il di dall'uno all'altro occaso
Che il sommo Giove non arebbe cura.
Se fussc colà giù voto rimavo :
E nota che l’angelica natura,
Poi di' a te piace di saper più a dentro
Da quella parte rovinò nel centro.
Vera è la Fede sol de’ Cristiani,
E giusta legge e ben fondata e santa :
Tutti vostri dottor son giusti e piani,
E ciò che appunto la Scrittura canta :
E tutti 1 Giudei perfidi e I Pagani,
Se la grazia dei Ciel qui non rammanta.
Dannati sono ; e le lor leggi tutte
Dell’ Atcoran de’ matti e del Talmutte.
Vedi quanto gridato hanno i profeti
Della Vergiti, dell'alto Emanucllo;
E da quel tempo in qua son tutti ebeti,
Chè il Verbo santo si congiunse a quello :
Tante Sibille, Insin vostri poeti
Disson che il secol si dovrà far bello :
Leggi Eritrea, del Signor Nazzareno
Che dice infin eh' e' giacerà nel fieno.
E se la prava opinion de' matti
Aspetta altro Messia che ’l vostro ancora,
E confessa i miraeoi ch'egli ba fatti,
E come e’ disse Lazzer : Veni fora :
E muti e ciechi sanava ed attratti,
MORGAXTE
Chè negar non si può; certo ella ignora
Che liberasse gii uomini e le donne
Per la virtù del Tetragramatonne.
K altro argomentar non vi bisogna
Conira a’ Giudei d' Eliseo o d’ Elia :
Chi s' egli avesse detto in ciò menzogna,
Coni' egli era mandato il ver Messia
Dal Padre il qual sol veritate agogna,
Perch’egli è vita e venti e via;
Potesti non arebbe in quella vece
Di far lo cose mirabil eh’ e’ fece,
lo ho queste parole ritrattate
Cb' io dissi ; e forse Malagigi tu' appunta ;
Chè molte cose non son rivelate
Al Flgliuoi quanto alla natura assunta :
SI eh' io parlavo della umanitate :
Ma la natura divina congiunta,
Perch’ella è sol la somma saplenzia.
Ogni cosa abinitio ha in sua presenzia.
Disse Rinaldo : Orsù troviamo Orlando ;
Poi, perchè di coli giu si fa guerra.
Io voglio andar que’ paesi cercando ;
E passar questo mar, duv’ Ercul erra,
Chè Tivero e morir vuoisi apparando;
Ma or passar ci convien Giubilterra :
Lasciami un poco smontar dell' arcione :
Poi scese, e fc' questa breve orazione : .
Se tu se’, Signor mio, deliberato,
Ch’ io vadi in Roncisvalle, abbi mercè
Di me che son da’ nimici portato
Per soccorrere Orlando e la tua Fè :
Ricordati che il mar fu allargato
Per salvar la tua gente a Moisè :
Spira in me quel ch’io per me non intendo,
/n munta luai me valde commendo.
Come Boiardo alla riva fu presso,
Parve che tutta di fuoco sfavilli.
Poi prese un salto c in aer si fu messo;
Ma cosi alto non saltano 1 grilli :
E non è tempo di segnarsi adesso,
Chè non piace al demon nostri sigilli ;
0 potenzia del Ciel, poi eh' a te piacque.
Maraviglia non sia saltar quest' acque.
Ricciardetto ebbe paura e riprezzo,
Perchè tanto alto si vide di botto.
Che si trovò con Farferello al rezzo,
E dubitò, chè si vide il Sol sotto.
Come se fusse tra ’I cielo c lui in mezzo;
E ricordossi d’ Icaro del botto
Per confidarsi alle incerate penne :
E con fatica alia sella s’ attenne.
Rinaldo arebbe voluto in quel salto
Potere al Sole aggiugnere alla chioma ;
MAGGIORE. 2SD
Ma non potea, chè si truova più alto;
Perchè quel giù sotto l’ acque giù toma :
Boiardo, quando e' cascò in su lo smalto,
Anche non parve la sua forza doma;
E poco cura li salto eh’ egli ha fatto :
E cadde in terra lieve come un gatto.
Dicea Ricciardetto a Farferello,
Come e' giunse alla riva : lo ti confesse,
Clic questa volta io non son buono uccello,
Però che il Sol non mi parca più desso,
Quand'io mi vidi volar sopra quello :
Credo eli’ io ero al Zodiaco appresso :
Troppo gran salto a questa volta fue :
lo non mi vanterei di farne piue.
Il cavai sì senti di Ricciardetto
In un modo anìtrir, che par che rida ;
Perchè quel diavol ne prese diletto
Delle parole che colui si sfida :
E poi diceva ; Non aver sospetto,
0 Ricciardetto : tu hai buona guida.
Dicea Rinaldo : Faccialo questo patto.
Che in Roncisvalle si salti in un tratto.
Rispose Ricciardetto : Adagio un poco.
Volgi pur largo, Farferello, a’ canti :
Tu non ti curi come vadi il giuoco,
0 drcnto o fuor, poi te ne ridi e vanti :
Io sono ancor per la paura fioco,
E sento i sensi tremar tutti quanti ;
E panni i panni in capo aver rovesci,
E cader giù nell’acqua in bocca a' pesci.
Era la notte appunto cominciata.
Quando costoro hanno passato Colpe,
E poi ia Spagna Betica trovata ;
E vanno attraversando i piani e l'alpe :
E cosi costeggiando la Granata
Si ritrovano al buio come talpe ;
E di dormir per certo avean bisogno ;
Ma non è tempo a camminare in sogno.
E capimmo al fiume detto Beti
Presso a Cordelia antica in un momento.
Ove, dicon gli storici e I poeti,
Nacque Avicenna, quel che II sentimento
Intese di Aristotile e i segreti,
Averrois che fece il gran Contento :
Ma questo ali’ uno ed all' altro cavallo,
Credo che fusse un saltellili da ballo.
Egli avevan disposto di saltare :
Orsù noi salteremo anche Guadiana,
Un altro fiume che s’ avea a passare ,
Che dagli antichi appellalo fu Ani;
Là dove Castulon posson mirare ,
Città famosa in quel tempo pagana :
E anche il Tago piùoltra saltorno
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2C0 POEMI ROMANZESCHI.
Presso a Tollclo al cominciar ilei giorno.
Che dirai tu , lettor, che un negromante,
Sendo in Toltelo, atea chiamato a caso
Quello spirto eli' io dissi , Ruhicante,
Il qual verso lo Egitto era rimase
A tentar quel signore o ammirante;
E sendo dal maestro persuaso
Di saper quel che Marsilio facea.
Molte cose di lui dette gli atra.
E mentre col maestro suo favella ,
Vede Rinaldo e vede Ricciardetto ,
Che fuor della cittì passano in quella :
E perchè e’ sa di costoro ogni elfelto ,
Disse : Marsilio ari trista novella ;
Tanto di' io ho del suo regno sospetto;
Chè di qua passa, mentre io ti rispondo,
Il miglior paladin ch’abbi oggi il mondo.
Ed ha con seco un suo gentil fratello
Che Ricciardetto per nome è chiamato,
E portagli Astarotte e Farferello;
Chè così Malagigì ha ordinato :
Rinaldo il paladin eh' io dico è quello
Che in Roncisvallc ne va difilato;
E farà de’ Pagan crudel governo ;
SI clic doman trionferà lo 'nferno.
Questa città di Tollcto solca
Tenere studio di negromanzia :
Quivi di magica arte si leggea
Pubblicamente c di piromanzia;
E molti geomanti sempre avea,
E sperimenti assai d’ idrumanzia,
E d' altre false opinion di sciocchi ,
Come è fatture o spesso batter gli occhi.
Dicea quel negromante : Sai tu chiaro,
Che questo sia II signor di Monta Ulano?
Se così fusse, c' non ci Ila riparo.
Disse lo spirto : Egli attraversa il piano :
Chè que' diavoli ne' cavalli entraro,
E van per bricche, c d' ogni luogo strano
Sempre a traverso, c folgor par che sieno,
E domattina in Roncisvallc sieno.
Disse il maestro : Sai tu Ignun rimedio,
Che si potesse Impedire il cammino
In qualche modo , e di tenergli a tedio ?
Rispose «ubicante : Io m' indovino
Che presto aranno dalla sete assedio
1 lor cavalli a un certo contino ,
Dove bisogna attraversare un monte ,
Sopra il qual nella cima è una fonte.
Credo che a questa si riposeranno.
Ed aran voglia di mangiare e bere ,
Però che molto affannati saranno :
Io posso adunque loro persuadere
Di far bere a' cavalli : e se beranno ,
Quasi a piè questi vedrai rimanere,
E non saranno in Roncisvalle a tempo.
Chèla battaglia fia doman per tempo.
Perchè quel Santo che Galizia onora ,
Arrivò una volta a quella fonte
Tutto affannato, come Gen questi ora
E riposossl e lavossi la fronte;
Onde un pastor che noi conosce e ignora.
Che guardava le capre in su quel monte ,
Gli disse : Percgrin, mal se' venuto
A questa fonte , se tu v’ hai bruto.
Seppi eli' ognun che v' ha bcuto mai ,
Subito par che spiritato sia ;
Però se tu lievcstl , in corpo I' hai.
Rispose II Santo : Per la fede mia ,
Che questa volta tu non t'apporrai;
Perch’ lo farò che pel contrario Ga :
Chè quanti Indemoniati qua beranno,
Gli spiriti d'adosso fuggiranno :
E però, bestia, ritorna nel gagno;
E cosi doppia grazia render volle.
10 manderò là presto un mio compagno,
Pria che sieno montati in su quel colle,
Squarclaferro , uno spirito mascagno;
Yedrcm , se ignun di lor Ga tanto folle ,
Gli' e’ creda a questo all' abito e la voce :
Tu sai il proverbio che il tentar non noce.
Rispose il nigromante :Orfermallpun-
Pcnsach' ognuno abbi la sua malizia; I to ;
Questo Astarotte sa la birba appunto
Della fonte c del Santo di Galizia :
Guarda clic qui tu non resti poi giunto.
Perchè e’ c’ è de' cattivi dovizia :
Grattugia con grattugia non guadagna ;
Altro cario bisogna a tal lasagna.
Non so quel che Astarotte o Farferello,
Rispose Rubicantc, facci o dica;
Ma spesso par serrato un chiavistello
11 qual tu non tentasti per fatica,
Chè non era chiavato il boncinello :
E cosi per non legger la rubrica ,
l.a poca diligenza paga il frodo ;
Perde II punto il sartor che non fa il nodo.
Solo una cosa contrappesa qui ;
Chè se Rinaldo in Roncisvalle va.
Molti Pagan per lui morranno il di ;
SI che lo ’nferno In gran festa sarà.
Però che verlsimil par cosi ;
Ed Astarotte il suo conto farà ,
Che Belzebù non lo possi riprendere :
E so eh’ egli ha del cattivo da vendere.
Or lo t' ho detto d' ogni cosa il vero :
MORGANTE
Lasciami andare alla faccenda mìa,
Ch' io non posso chiarirti il suo pensiero ;
Ma si o no tutto il suo arbitrio fia :
Ecco qui in punto un gentil messaggiero ;
Nota che il tempo fugge tuttavia :
In tanto Squarciaferro si dimostra.
Per non tediar tanto la storia nostra.
Or oltre , Squarciaferro , e’ tl bisogna
Adoperar qui tutte le tue arti ,
Disse il maestro, e dir qualche menzogna ;
Io posso in molti modi ristorarti :
So che tu sai quel che’l mio core agogna:
Non bisogna le cose replicarti ;
Se non che una parola sol li dico ,
Ch’ io ti sarò ancor forse buono antico.
Gii era al monte Rinaldo salito ,
E 1’ uno e I* altro cavallo alunnato :
E ’l messaggiero è a tempo apparilo
A lato all* acque ; ed aresti giuralo
Che fusse un santo e devoto eremìto ,
Con un baston, con un viso intagliato,
La barba , i paternostri , col mantello
Di frate lupo , ma parca d' agnello.
E’ stava a lato alla fonte a sedere ,
E facea bao bao , e pissi plssi ;
Che par che venga da un ntiserere,
O che dal vespro di poco partissi :
E poi dicea : Ben regnate , messere :
Per carità vi ricordo non gissi
Più oltre un passo a cavarvi la sete ,
Perchè più acqua oggi non troverete.
Questa è la m iglior acqua che sia al mon-
E non fa male a bestie nè persone : ( do ,
Questi cavalli ognun par sitibondo :
Pigliate alquanto di refezione ;
Ed accostossi frate Giulio Biondo
All’ acqua , che parca la devozione ;
E guazza quella conte uno anitrlno ;
E faceva a' cavalli il zufolino.
Or gusta qui, lettor, ben quel ch’io dico ;
Che sempre in ogni parte si vorrebbe
Aver, giusta sua possa, ognuno amico,
Chè nessun sa dove capitar debbe :
Parea questo eremito un uomo antico ,
Tal che Rinaldo creduto gli arebbe ;
E più eh’ io credo Rinaldo credesse ,
Che sol per santità colui il vedesse.
Pereti’ egli era lnvisibi! come è detto :
Pertanto, uditor mio, ti dico, nota
Che Astarotte non era costretto
Di scoprire a Rinaldo questa nota,
E non sia ignun che si fidi in effetto.
Quando egli è bene in colmo della ruota,
MAGGIORE. JCt
Di non condursi a ogni cosa estrema.
Ed ognun prezzi e d’ ogni cosa tenia.
Ognun sa quasi sempre dove e’ nasce,
Ma nessun sa dove e’ debbo morire :
Quanti son già felici morti in fasce
Pe’casl avversi che posson venire :
Quanti n’ uccide la speranza e pasce :
Quanti gran legni si vede perire ,
Disse il poeta, ali’ entrar della foce;
Benché fuoco nè ferro a virtù nuoce.
Talvolta a discrezion d' un zolfanello
Si ritruova in un bosco, e di poca esca ;
E spesso un uom mendico e poverello
Tl puù salvar, pur che di te gl' incresca :
Potea dunque Astarotte, come fello,
Lasciar Baiardo andar per l’ acqua fresca;
Ma perchè gli era Rinaldo piaciuto,
L’ ammaestrò che non abbi beuto.
E disse : Posa , posa , Squarciaferro:
Non li bisogna 1’ acque diguazzane.
Che le tue maliziette sai non erro :
E Malagìgi , perchè tutte salle ,
Ti metterà la coda in qualche cerro :
Ma se tu vuoi venire in Roncisvalle ,
Vienne con meco, c vedremo un bel fiocco;
0 tu ritorni al tuo maestro sciocco ,
E di eh’ io fui cattivo insin nel Cielo:
Pensi quel eh' io son fatto negli abissi;
E che m’ avea molto tondo di pelo
A creder che il suo inganno riuscissi ;
E tu credevi abbagliarmi col velo,
E che Baiardo al tuo fischio venissi :
Tra furbo e furbo sai non si camuffa :
Vienne tu , dico , a veder questa zufTa.
Rinaldo, quando intese il parlar, subito
Si fermò col cavai turbato e presto.
Ch’era presso alla fontea mend’un cubito;
E disse : Dimmi quel che vuol dir questo,
0 Astarotte ; a questa volta io dubito ;
E non intendo la chiosa nè’l testo :
E perdi’ lo so che I’ uno e l’ altro io erro,
Vorrei saper che cosa è Squarciaferro.
Disse Astarotte : Or vuoi tu confessarti?
Sappi che questo è un romito santo
Che veniva la sete a ricordarli ,
Come tu vedi ; e quel devoto ammanto
Non è fatto per man de’ vostri sarti.
Rinaldo lo squadrava tutto quanto ;
Poi disse: Frate, tu se' pur de’ nostri :
Chi non tl crederebbe a' paternostri ?
E poi eh' egli ebbe ogni cosa saputo,
Disse : Astarotte , tu se’ pure amico ;
Ed io ti son veramente tenuto ;
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POEMI ROMANZESCHI.
E tanto In Teriii t’ affermo e dico :
Se mai per grazia sarà conceduto
Che il Ciclriinuti il auo decreto antico.
Sua legge , sua sentenzia o suo giudizio ;
Ricorderomtni d* un tal benefìzio.
Altro certo offerir non ti posso ora !
L’ anima chi la diti credo sua fla ;
Il resto lutto sai, convion che mora :
O sommo amore, o nuova cortesia !
Vedi che forse ognun si crede ancora.
Che questo verso del Petrarca sia ;
Ed è già tanto, e' lo disse Rinaldo;
Ma dii non ruba 6 chiamalo rubaldo.
Disse Astarotte : li buon volere accetto :
Per noi fien sempre perdute le chiavi :
Maestà lesa infinito è il difetto :
0 felici Cristian , voi par che lavi
lina lacrima sol col pugno al petto,
E dir : Signor, tibi soli peccavi :
Noi peccammo una volta : e in sempiterno
Rcligati siam tutti nello ’nferno.
Che pur se dopo un milione c mille
Di secol noi spcrassim rivedere
Di quello amor le minime faville ;
Ancor sarebbe ogni peso leggiere :
Ma che bisogna far queste postille?
Se non si può , non si debbe volere :
Ond' io li priego che tu sia contento
Che noi mutiamo altro ragionamento.
Or oltre, padre santo, non bisogna,
Disse Rinaldo, arrossir però in volto.
Rispose Squarciaferro in la vergogna :
Non t’ accostar ; ma s’ io I’ avessi colto ?
Disse Aslarottc : 0 Malagigl in gogna
TI metterà prima che passi molto,
O tutti in Roncisvalle insieme andremo;
Poi nello ’nferno ci ritorneremo.
E so che vi sarà faccenda assai
Per la virtù di questi paladini ;
E come ghezzo stafìier ne verrai ;
E fa che allato a Rinaldo cammini.
Rispose Squarciaferro : Or lo vedrai ;
E poi in un tratto apparirono i crini
Neri arricciati e gli ocelli come foco,
E trasmutossi in ghezzo a poco a poco.
E poi rivolse a Rinaldo lo sguardo,
K disse : Andianne, eh’ io sono Indiano:
E non son più quel romito bugiardo ;
La pace 6 fatta ; e toccogli la mano.
Allor Rinaldo moveva Baiardo,
E monti e balzi ogni cosa era piano ;
Si che di poco si mostrava il giorno,
Che presso a Siragozza capitorno.
Rinaldo, quando vede Siragozaa
E ’l fiume Iber, pargli una cosa strana ,
Che così tosto la via fusse mozza ;
E ricordossi pur di Luciana t
Non so se questa volta parrà sozza
E come e’ giunse sopra alla fiumana ,
Disse : Astarotte, poi che presso siamo,
lo vo’ per mezzo la terra passiamo.
E squadrar le foltezze d’ ogni banda :
Però di questo mi contenterai;
E quel die facci la reina Blanda,
Dimmi, ti priego, eh’ ogni cosa sai.
Disse Aslarottc : In punto è la vivanda;
E se con essa desinar vorrai,
A piè della sua mensa ci porremo;
Non domandar se noi trionferemo, [cbio ,
Or m’ ha' tu il gorgozzul grattato e l’oc-
Disse Rinaldo : di’ io veggo la fame ;
E non è tempo a indugiarsi il finocchio;
Noi ci staremo un poco con le dame ,
E gratterem col piè loro il ginocchio ,
E udirem dir mille belle trame
Di Roncisvalle, e forse il tradimento.
Rispose il dlavol : Tu sarai contento.
E come e’ fumo in Siragozza entrati ,
Non vi si vede bestie nè persone :
Chè solo i morirmi eran restati ;
E non si truova uom per testimone,
Chè tutti alla battaglia sono andati
In Roncisvalle con Marsllione :
Dunque al palagio in corte dismontomo :
La prima cosa i deslrier govcrnorno.
E Farforello 11 famiglio facca ;
E orzo e fieno trabocca a’ cavalli :
Perchè il maestro di stalla dicea :
Chi è costui? a certi suoi vassalli ;
Ognun risponde che noi cognoseea ;
Ma Farfcrel due occhi rossi c gialli
Gli strabuzzò ; poi gli fece paura
Con un baston eli’ £ di lunga misura ;
E disse : L’ arcifanfan di Baldacco
£ venuto madonna a licitare :
Questo baston se addosso te 1’ attacco ,
Ti farà d’ altro linguaggio parlare :
E attendeva a dar dell’ orzo a macco ,
Si die faceva colui disperare :
E perchè ignun non uscisse del guscio -
E’ s’ arrecava col bastone all’ usdo.
Rinaldo e Ricciardetto in su la sala ,
E Astarotte intanto è comparito :
Vede ebe quivi si fa buona gala;
E non è nè veduto nè sentito ,
Perchè la turba d’ intorno cicala ,
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MORGANTE MAGGIORE. 2G3
K cominciava a bollire il convito : E cosi tutta avviluppata è quella.
E Luciana ancor parca pur bella » E Squarclaferro per piacevolezza
Però che allato alla rcina è quella. Tra le gambe per sala s’ attraversa
Posonsi a piò della mensa a sedere : A questo e quello; onde c'cadeva e spezza
Ecco un piattello : Astarotte lo ciuffa ; 0 vetro o vaso, c qualche cosa versa :
Onde e’ si volge ad un altro scudiere E tutto la reina raccapezza
Colui che il porta, e con esso s* azzuffa : E dubitava d’ ogni cosa avversa :
Intanto la reina volea bere , • E così tutti I barati suol d’ intorno
Mentre che sono in su questa baruffa; Di questi casi si maravìgliorno.
E Ricciardetto s' accosta pian piano , Rinaldo un pomo che si chiama musa ,
E poi gli beva la tazza di inauo. A un buffon che gli pareva sciocco,
Rinaldo intanto attende a pettinarsi ; Trasse , c con esso la bocca gli ha chiusa ;
E d* ogni cosa che lo scalco manda , Onde e’ si volge d’ intorno lo ignocco ,
E' taceva la parte sua recarsi : E la rcina c Luciana accusa ;
1 servi a chi tolta era la vivanda, Ma Ricciardetto gli dette un barnocco
Comlnciavan tralor tutti azzuffarsi; Nel capo, e come una pera è caduto;
E intanto grida la rcina filanda : Ma ogni cosa guastò lo starnuto.
Elie cosa ò questa? dove è la mia tazza? Chè mentre scompigliato era il convito.
Voi mi parete qualche ciurma pazza. Non si potè Ricciardetto tenere,
Ognun con la reina Tacca scusa, Ch* un tratto due e tre ha starnutito;
Tanto che in line ella si maraviglia : E non potendo chi fussc vedere,
Rinaldo star non voleva alla musa , Comunque questo romor fu sentito ,
E del taglier di Luciana piglia : A furia ognun sì beva da sedere;
E Luciana pareva confusa , Si che in un punto si vota la sala ;
E in qua c in là rivolgea le ciglia, E beato è chi ritruova la scala.
E non sapeva fra sò che si dire , Rinaldo tempo gli parve accostarsi
Chè la vivanda vedeva sparire. A Luciana clic volea fuggire.
Egli era il di dinanzi un lupo entrato E fu tentato a costei palesarsi ;
Nella città per mezzo della turba; Ma dubitò di non farla stupire :
E fu per male augurio interpretalo; Ella gridava e voleva levarsi,
Chè non sanza cagion lupo s' inurba : Ma non potè tanto destro partire,
E la rcina la notte ha sognato Che gli appiccò due baci alla franciosa,
Che un gran lion la sua casa conturba; Ed ogni volta rimanea la rosa.
E non sapea che ’1 bone era presso; Già erano 1 cavalli apparecchiati;
Cioè che quel di Rinaldo era desso. E lo staffiere è ritornato gliczio :
Sì eh' ella aveva questo sogno detto; Rinaldo e Ricciardetto rimontati ,
E poi veggendo questi effetti strani. Si dipartiron trastullati un pezzo.
Conturbati gii avicn la mente e’1 petto, E lascian color tutti spaventati :
Dicendo : Egli è mal segno pe’ Pagani : Chè per fuggir non s* aspettava il sezzo :
E certo qualche spìrito folletto, E tutti quanti d’ accordo dicieno.
Da poi che son con Orlando alle mani. Come il palagio di spiriti è pieno.
Annunziar ci fico trista novella :
CANTO YENTES1M0SETT1M0.
Morte d’ Orlando.
A una fonte, e va cercando questa :
Orlando per lo affanno ricevuto E ritrovata appiè della montagna.
Non polca sostener più l'elmo in testa, Quivi soletto si riposa e lagna.
Tanto aveva quel giorno combattuto : Vegliantin come Orlando in terra scese,
E perchè mollo la sete il molesta, A piè del suo signor caduto è morto.
Si ricordoc dov’egli avea bevuto E inginoccbiossi e licenzia gii chlete,
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POEMI ROMANZESCHI.
Qual dicesse : Io t'ho condotto a porto;
Orlando presto le braccia distese
All’ acqua, e cerca di dargli conforto;
Ma poi che pure il cavai non si sente.
Si condolea mollo pietosamente :
0 Vegliantin, tu m’hai servilo tanto;
0 Vegliantin, dov’è la tua prodezza?
0 Vegliantin, nessun si dia più vanto;
0 Vegliantin, venuta è l’ora serra;
Vegliantin, tu m'hai cresciuto il pianto;
0 Vegliantin, tu non vuoi più cavezza :
0 Vegliantin, s’Io ti feci mai torlo,
Perdonami, ti prlego, cosi morto.
Dice Turpin, che mi par maraviglia,
Che come Orlando perdonami disse,
Quel cavai parve ch’aprisse le ciglia,
E col capo e co’ gesti acconsentisse;
Tanto che Orlando riprese la briglia,
Forse pensando che si risentisse :
Dunque Diramo e Tisbc al gelso fonte
A questa volta 6 Vegliantino e ’l conte.
Ma poi che Orlando si vide soletto.
Si volse e guarda inverso la pianura,
E non vede Rinaldo o Ricciardetto,
Tanto che i morti gli fanno paura,
Che il sangue aveva trovato ricetto,
E Roncisvalle era una cosa oscura :
E pensi ognun quanto dolor quel porta,
Quando c’ vedeva tanta gente morta.
E disse : 0 frrgue o guatergue beoti.
Come disse 11 Troian famoso ancora,
E miseri color che son restati,
Come son io inflno all'ultima ora!
Chè benché i corpi sien per terra armati,
L' anime son dove Gesù s' onora :
0 felice Elivier, voi siete in vita :
Pregate or tutti per la mia partita.
Or sarà ricordato Malagigi ;
Or sarà tutta Francia in bruna vesta :
Or sarà in pianto e lacrime Parigi ;
Or sarà la mia sposa alllilta c mesta;
Or sarà quasi Incubo san Dionigi ;
Or sarà spenta la cristiana gesta;
Or sarà Carlo e il suo regno distrutto ;
Or sarà Gancllon contento in tutto.
Intanto vede Terigl apparito.
Che come il tordo pur s’era spaniato,
E tanto 11 suo signor cercando i Ito,
Che finalmente Cavea ritrovato:
E domandò quel clic fussc seguito,
E dove sia Rinaldo capitato :
Disse Terigi : lo non v’ ho posto cura ;
E raccontò poi ben la sua sciagura.
Dice la storia che Orlando percosse
In su ’n un sasso Durllndana bella
Più e più volte con tutte sue posse.
Nè romper nè piegar non potè quella,
E ’1 sasso apri come una scheggia fosse:
E tutti i peregrin questa novella
Rlportan di Galizia ancora espresso
D’ aver veduto il sasso e '1 corno fesso.
Orlando disse : 0 Durlindana forte,
Se io t’ avessi conosciuta prima,
Come io l' ho conosciuta ora alla morte.
Di tutto il mondo facca poca stima,
E non sarei condotto a questa sorte
Io t’ho più volte operando ogni scrima.
Per non saper quanta virtù in te regna.
Riguardata, o mia spada tanto degna.
Or ritorniamo a Rinaldo che caccia
1 Saracini, e non truova più intoppo.
Clic si ritorna finita la caccia
Come il cali richiamato di gualoppo,
Ovver seguito indrieto per la traccia.
Talvolta stanco, faticato c zoppo.
Per la fatica e pel sudore ansando :
Tantoché truova a quella fonte Orlando.
Gran festa Orlando al suo cugin facea ;
E domandò come la cosa è ita :
Rinaldo tutto affannato dicea
Come la gente pagana è fuggita :
E Ricciardetto e Turpin poi giugnea :
E per far piu la nostra storia trita,
Dice Turpin che il di di San Michele
Di maggio fu la battaglia crudele.
1,' anno correva ottocentesmo sesto.
Dominante 11 pianeta che vuol guerra;
E bisognò che sia mezzo bisesto.
Perchè un di naturai sopra la terra
Istette il Sole ; ond’ io non so per questo.
Se forse ancor lo astrolago qui erra,
Cioè la terra lo cmispcrio nostro;[chiostro.
Ch’ i' non iscrìv a anch’ io con bianco in-
Non so chi leggerà, come consente,
Clio tanta gente però morta sia :
Ma perdi’ io ho quella parola a mente,
E Micael vi farà compagnia,
Io non credo che Orlando veramente
Avesse simulata la bugia;
Ma eh’ e’ vi fussc il campion benedetto;
E poi eh’ e’ fu di maggio sia ridetto.
Sai che e’ si dice: Noi non siam di maggio;
E non si fa così degli altri mesi,
Perch' c’canta ogni uccel nel suo linguag-
E l’ asin fa que’ suoi ragghi aislesi : [gio ;
SI che la cosa ridire t vantaggio ;
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MORGANTE
Ma non son tutti i provcrbj compresi;
Come a dir che alla mensa non s'invecchia,
Chè poco vive chi molto sparecchia.
£ per tornare alla materia mia,
O vero o no, con pace si comporli :
Se Michel venne, il ben venuto sia ;
Se non vi venne, e’ basta che son morti ;
Colui che scrive istoria o commedia,
Convien che alla scrittura si rapporti
O grido, o fama, o quel che truova dica
In ogni cosa moderna o antica.
Or qui comincian le pietose note :
Orlando essendo in terra ginocchione,
Bagnate tutte di pianto le gote,
Domandava a Turpin remissione;
E cominciò con parole devote
A dirgli in atto di confessione
Tutte sue colpe, e chieder pcnitenzia :
Chè farea di tre cose conscienzia.
Disse Turpin : Qual è la prima cosa?
Rispose Orlando : Majeslatis kcsx,
Idest in Carlo verba injuriosa :
E l'altra è la sorella del marchese
Menata non aver come mia sposa :
Queste son verso Iddio le prime offese :
L'altra un peccato che mi costa amaro,
Come ognun sa : ch’io uccisi Donchiaro.
Disse Turpino : E’ ti fu comandato,
E piace tanto a Dio l’ obbedienzia,
Clic li fìa facilmente perdonato :
Di Carlo o della poca reverenzia,
10 so che lui se l’ha sempre cercato;
D’ Alda la bella se in tua conscienzia
Sono state tue opre c penai*'»’ rasti.
Credo che questo appresso a uio ti basti.
Hami tu altro a dir che ti ricordi?
Rispose Orlando : Noi siam tutti umani,
Superbi, invidiosi, irosi, ingordi.
Accidiosi , golosi c in pcnsicr vani,
ÀI peccar pronti, al ben far ciechi e sordi :
E così ho de' peccali mondani,
Non aver per pigrizia o mia socordia
L’ opere usate di misericordia.
Altro non so che sicn peccati gravi.
Disse Turpino : E' basta un paternostro,
£ dir sol miserere, o vuoi peccavi :
Ed io t’assolvo per l'officio nostro
Del gran Cefas che apparecchia le chiavi
Per collocarci nello eterno chiostro,
E poi gli dotte la benedizione :
Allora Orlando fe' questa orazione:
0 Redentor de' miseri mortali,
11 qual tanto per noi l'umiliasti,
MAGGIORE. 2Cb
Che non guardando a tanti nostri mali
In quella unica Vergine incarnasti
Quel dì che Gabrielle aperse l’ali,
E la umana natura rilevasti :
Dimetti il servo tuo come a te piace,
Lasciami a te, Signor, venire in pace.
Io dico pace dopo lunga guerra;
Ch’ioson per gli anni pur defesso e stanco:
Rendi il misero corpo a questa terra.
Il qual tu vedi già canuto c bianco.
Mentre che la ragion meco non erra :
La carne è inferma, c l'animo ancor franco;
Sì che al tempo accettabil tu m'accetti,
Chè molti son chiamati e pochi eletti.
Io ho per la tua Fede combattuto,
Come tu sai, Signor, sanza ch’io il dica.
Mentre eh' al mondo son qua giù vissuto :
Io non posso oramai questa fatica ;
Però l’arme ti rendo, eli’ è dovuto,
E tu perdona a questa chioma antica :
Ch' a contemplare ornai suo ufficio parml,
La gloria tua c porre in posa Tarmi.
Porgi, Signore, al tuo servo la mano :
T ramini di questo laberinto fori;
Perchè tu se’ quel nostro pellicano
Che pregasti pc’ tuoi crucifìssori :
Perch’ io conosco il nostro viver vano,
Vanitas vanitatum pien d’errori :
Chè quanto io ho nel mondo adoperato,
Non nc riporto al fin se non peccato.
Salvo se mai fu nella tua concordia
Di dover col tuo seguo militare.
Per questo io spero pur misericordia;
Bench'io non possi Donchiaro scusare,
Clic forse or prega per la mia discordia :
Ma perchè tu sol mi puoi perdonare,
Benché a Turpino il dissi genuflesso,
Di nuovo a tc, Signor, mi riconfesso.
Quando tu ci creasti, Signor, prima,
Perchè tu se’ magnalmo c molto pio,
Credo che tu facesti questa stima,
Che noi fussim figliuol tutti di Dio :
Se quel serpente con sua sorda lima
Adam tentò, tu hai pagato il ilo,
Come magno Signor non obbligato ;
Poi clic pure era di tua man plasmato.
E perdonasti a tutta la natura.
Quando tu perdonasti al primo padre,
E poi degnasti farti sua fattura.
Quando tu assumesti in terra madre :
Non so s' io entro in valle troppo oscura;
Dunque proprio i Cristian son le tue squa-
lo ho sempre difese quelle al mondo [dre :
12
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IGc POEMI ROMANZESCHI.
Aiuta or ine tu, mio Signor giocondo.
Le leggi che in sul monte Sinai
Tu desti anticamente a Moisè,
lo l' ho tutte obbedite disino a qui.
Ed osservata la tua vera Fi;
Perù, giusto Signor, s’egii è cosi,
Giustizia fa pur con la tua uierzè :
Perchè a giusto Signor cosi contiensi ;
Che le sue peluion giuste ognun pensi.
Non entrare in iudicio. Signor, meco :
Chè nel cospetto tuo giustificalo
Non sari alcun, se tu non vuoi gii teco ;
Perchè tutti nasccnio con peccalo :
E ciò che nasce al mondo nasce cicco ;
Se non sol tu nascesti alluminato :
Abbi pioti della mia scneltutc :
Non mi negare il porto di salute.
Alda la bella mia ti raccomaudo;
La qual presto per me lia in veste bruna ;
Chè s’ altro sposo mai torri che Orlando,
Eia maritata con miglior fortuna :
E poi clic molte cose ti domando,
Signor, se vuoi eli Y ne rhiegga ancor lina ;
Ricordati del tuo buon Carlo vecchio,
Edi questi tuoi serri in ch'io mi specchio.
Poi die Orlando ebbe dette le parole
Con molte amare lacrime c sospiri.
Parve tre corde o tre linee dal Sole
Vonlssin giù come mosse da IrL
Rinaldo e gli altri slavan come suole
Chi padre o madre ragguarda die spiri ;
E ognun tanta contrizione arca.
Che Francesco alle slimite parca.
Intanto giù per quel lampo apparilo
Un certo dolce mormorio soave ,
Come vento talvolta fu sentilo
Venire in giù, non qual materia grave :
Orlando stava attonito c contrito:
Ecco quell’angrl che a Maria disse Are,
Che vico per grazia de' superni Iddel ,
E disse un tratto : Viri Galilai.
Poi prese umana forma e in aria stette;
E innanzi al conte Orlando iuginocdiiato.
Disse queste parole benedette :
Messaggio sono a le da Dio mandato ,
E son colui che venni In Nauarette,
Quando il vostro Gesù fu incarnato
Ndla Virgine santa che dimostra | slra.
Quanl' ella è in Ciel sempre avvocata vo-
E perdi’ io amo assai l' umana prole ,
Come piace a chi fece quel pianeta,
Ti porterò 11 su sopra quel Sole ;
Dove l'anima tua sia sempre lieta ;
E sentirai cantar nostre carole ,
Perchè tu se' di Dio nel mondo atleta
Vero campion, perfetto archimandrita
Della sua gregge, sanza te smarrita.
Sappi clic in Ciel fu bene esaminata
La tua giusta, devota orazion latria ,
Ch' a tutti i santi e gli angeli fu grata ,
Sento tu cltladin di quella patria :
E perchè la sua insegna hai onorata ,
E spento quasi In terra ogni idolatria,
Dio f esaudirò po’ tuoi gran meriti ;
Chè scritti soli tutti i tempi preteriti.
Perù che t’ ba veduto giovinetto
A Sidri , ove più volte perturbasti
lai corte dd tuo Carlo a tuo diletto ,
E ciò che in Aspramonlc adoperasti ,
E in Francia , e poi in lspagua ; e Sanso-
E tanti uella Mecche battezzasti ; [nello
E riducesti al Figliuol di Maria
Gerusalemme c Persia e la Soria.
E poi che Carlo intorno a Panipalona
Più tempo s’era indarno affaticato.
Venisti ; c bisognoe la tua persona :
Chè cosi era giù pronosticato ,
Come a Troia di Achille si ragiuna :
E poi che fu da Macario ingannato.
In Francia andò, come fu tuo disegno,
E racqmsto la sposa insieme c'I regno.
E Pantalisse il superbo Troiauo,
E ciò clic tu facesti per aulico.
Ferrati Scrpcutin di mano in mano.
Notato è tutto, Adrasto U gran nimico:
E ciò clic giù nel corno egiziano
Facesti , come a Dio perfetto amico ,
Mentre di' egli era il tuo Morganlc teco ,
Forse lo spirto del quale è qui meco.
il qual nel Ciel U farò compagnia.
Come soleva un tempo fare al mondo ;
Perchè tu il dirizzasti per la via
Che lo condusse al suo stato giocondo :
E per ch’io intendo la tua fautasia,
Poi eh' io dissi Morgante , io li rispondo :
Tu vuoi saper di MarguUe il ribaldo:
Sappi eh' egli è di belzebù giù araldo.
E ride ancora c riderò in eterno ,
Come solca ; ma tu doI cognoscesti :
Ed è quanto sotazzo è nello iuferao :
Or perchè a Dio la morte tu chiedesti ,
Come que' santi martiri giù ferno.
Non so se onestamente li dolesti ;
Chè per provarti ndla pazhmzia ,
Ha di te fatta ultima esperienza.
Vuoisi a Dio indinar le spalle gobbe ,
M0RGANTÉ
E dir : Signor , fammi costante e forte
A patire ogni pena come Jobbe,
SI ch’io sia obbediente insino a morte ;
li qual poi che ’l voler di Dio eognobbe ,
Contento fu d’ogni sua afflitta sorte :
Ni cosa alcuna più gli era riniasa,
Quando e’gli fece rovinar la casa,
E perchè pur la moglie si dolca ,
E' disse : Donna mia , ora m’ascolta ;
Dominus Ardii, Ini data l’avea,
Dominus abituiti , lui l’ ha ritolta ,
Sicvt Domino placuil, in ea
Factum est; cosi fatto è questa voto :
E poi : SU nomai Domini, ebbe detto,
li nome del Signor sia benedetto.
Ma se tn viiogli ancor nel mondostare,
Iddio ti darà ben di nuovo gente,
E tremerà di te la terra e ’1 mare :
Ma perchè il nostro Signor non si pente,
Que’ che son morti non posson tornare :
Chi tutti son mescolati al presente
Tra gli angeli e tra’ santi benedetti ,
E nel numero assunti degli eletti.
Non creder che color cheson nel Ciclo,
Volcssin ritornar più qua giù in terra ,
E rlpor le lor membra al caldo e ’l gielo ,
Però che quivi è pace sansa guerra;
E non si muta più con gli anni li pelo :
Ma quel Signor che’l tuo voler non erra,
Ti manderà , poi che tu vuoi , la morte ,
Com' lo su torno nella eccelsa corte.
Aida la bella che hai raccomandata,
Tu la vedrai nel Ciel felice ancora,
Appresso a quella sponsa collocata
Che il monte santo Sinaì onora,
E di gigli c di rose coronata ,
Che non creò vostro Ariete o Flora ;
E serverà la veste oscura c ’l velo ,
Infin che a te si rimariti in Cielo.
Carlo pe’ mcrtt suoi devoti e giusti
Confìrmato è nel corno della croce ,
Con Josuè , con tutti i suoi robusti ,
D’ accordo tutti in Ciclo a una voce ;
E tu sarai con lui qual sempre fusti :
Vedi quel Sol che parca si veloce ,
Che non si cala ail’Ocean giù In fretta,
E già venti ore il tuo signore aspetta.
E perchè Cario sarà qui di corto ,
li popoi tuo Ha tutto seppellito ;
Che si partì da San Gianni di Porto,
Come il suon tanto rubesto ha sentito ;
Al traditor cito la tua gente ha morto.
Perdona pi», ehè sarà ben punito:
MAGGIORE. 267
E perchè Iddio nel Ciel tl benedica ,
Pigila la terra, la tua madre antica ;
Pcrùchelddlo Adam plasmoc di questa.
Si eli' e' ti basta per comunione ;
Itinaldo dopo te nel mondo resta
Per difender di Cristo il gonfalone :
E tosto faran sugli angeli festa
Di Turpln vostro pien d' affezione ;
E Ricciardetto anche al Signor mio piace:
Rimanetevi , o servi di Dio , in pace.
Cosi posto in silenzio le parole,
Si diparti questo messaggio santo;
Ognun piangeva e d’ Orlando gli duole;
Orlando si levò su con gran pianto ,
Ed abbracciò Rinaldo quanto c' vuole ,
Turpinoe gli altri-, e adorato alquanto
Parca proprio Geronimo quel fosse ,
Tante volte nel petto si percosse.
Era a vedere una venerazione ,
A'unc dfmtfh'a mormorando seco ,
Come disse nel tempio il buon vecchione,
0 Signor mio , quando sarò io teco ?
L'animo è in career di confusione :
Libera me da questo mondo cieco :
Non per merito già , per grazia intendo;
Nelle tue man lo spirto mio commendo.
Rinaldo T avea molto combattuto ,
E Turpino c Tcrigi e Ricciardetto,
Dicendo : lo son dello Egitto venuto ;
Dove mi lasci , o cugin mio soletto;
Ma poi che tempo era tutto perduto,
Inteso quel che Gabriello ha detto ,
Per reicrenzla alla fine ognun tacque;
Clièquel che piace a Dio sempre a' buon
piacque.
Orlando ficcò In terra Durlindana
Poi l'abbracciò, c dicea : Fammi degno,
Signor, ch’io riconoscala 'la piana:
Questa sia in luogo di quel sauto legno ,
Dove pati la giusta carne umana ;
Si che il Cielo e la terra ne fe’ segno ;
E non sanza altro mistero gridasti:
Eli , Eli -. tanto martir portasti.
Cosi tutto serafico al Ciel fisso ,
Una cosa parca trasfigurata ,
E che parlasse col suo crocifisso :
t) dolce fine , o anima ben nata!
0 santo vecchio , o ben nel mondo risso !
E finalmente la lesta Inclinata ,
Prese la terra , come gli fn detto:
E 1’ anima Ispirò del casto petto.
Ma prima il corpo compose alla spada.
Le braccia in croce, e’I petto al pome fitto :
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POEMI ROMANZESCHI.
SOR
Poi si senti un luon, clip par che cada
Il Ciel clic certo allor s'aperse al gitto;
E come nuvoletta che in su vada ,
In trita Israel , cantar, de AZgypto ,
Sentilo fu dagli angeli solenne.
Che si rognobbe al tremolar le penne.
Poi appari molte altre cose belle.
Porcili- quel santo nimbo a poco a poco
Tanti lumi scopri, tante flammcllc;
Che tutto l' aer pareva di foco ,
E sempre raggi cadean dalle stelle :
Poi si senti con un suon dolce e roco
Certa armonia con si soavi accenti ,
Che ben parea d’ angelici lustramenti.
Turpino c gli altri accesi d' un fervore
Eran , die ignim già non parea più desso;
Porcili1 quel foco dello eterno amore.
Quando per grazia ci si fa si presso ,
Conforta c scalda si I' anima e ’l core.
Che ci dà forza d’ obbliar s4 stesso :
E pensi ognun quanto fussc il lor zelo ,
Veder portarne quell’ anima in Ciclo.
E dopo lunga c dolce salmodia ,
Ad alta voce udir cantar Tedeo ,
Salve, Regina Virgo, alma U aria ;
E guardavano in su conte Eliseo,
Quando il carro innalzar vide di Elia ;
O come tutto stupido si feo
Mois4 , quando il gran rubo gli apparse ,
Insili che alfine ogni cosa disparse.
Si che di nuovo un altro tuon rimbomba,
Che fu proprio la porla in sul serralla ;
Poi si senti coinè un rombar di fromba,
E pareva di lungi una farfalla:
Ecco apparire una bianca colomba,
E posossi a Turpino in su la spalla ,
A Rinaldo, a Terigi, a Ricciardetto:
Or qui di gaudio ben traboccoe il petto.
Donde Turpino opinion qui tenne.
Che questa fusse I' anima d' Orlando ;
E che la vide con tutte le penne
In bocca entrargli veramente, quando
Carlo quel di poi in Roncisvallc venne,
E eh’ e' richiese l' onorato brando;
E bisognoe clic Orlando vivo fossi ;
Che innanzi a lui ridendo inginocchiossi.
E poi che son cosi soli rimasi
Rinaldo e gli altri, dopo lungo pianto,
E s' accordorno i dolorosi casi ,
Carlo sentissi ben eli' e' venga intanto ;
Ma Terigi era come morto quasi
Per gran dolor : pur riposato alquanto ,
A tutti parve che montasse in scila,
E che portasse la trista novella.
BERNI.
ORLANDO INNAMORATO.
CANTO DUODECIMO.
All’ aspro verno ed alla notte oscura
Succede il giorno c la stagion migliore.
Quella battaglia piena di paura
M'ha tutto travagliato il petto c 'I core.
Or poi eli’ ella 4 cessata c più non dura,
Soavemente canterò d' amore,
III su la mia promessa stando saldo
Di dir di quella donna c di Rinaldo.
La quale In terra scndo dismontala,
Il cani che cavalca gli vuol dare.
Rinaldo strettamente l' ha pregata
Che non gli voglia quella ingiuria fare.
Fra tutti dui lunga contesa è stata :
L'un vuol di cortesia l’altro avanzare.
Rinaldo accetta alfin con patto di’ ella
Gli monti in groppa ed c' monterà in sella.
Stava la giovanctta vergognosa,
Chè pur dell'onor suo temenza aveva ;
Ma poi eli' a lungo andare alcuna cosa
Il freddo ravalier non le diceva.
Disse : Signor, la strada 4 fastidiosa;
E perch4 del fastidio molto leva
Sentir qualche piacevo! cosa dire ,
lo la dirò, s' a voi piace d'udire.
Rinaldo lietamente le rispose,
Clic glie ne vuol aver obbligazione.
Cosi la donna a raccontar si pose ;
Dicendo prima della regione
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ORLANDO INNAMORATO. 2G9
E della terra dove fur le cose
Fatte, l'istoria tutta ben dispone ;
E che nella città di Babilona
Ancor la fama fresca ne risona.
l}n cavalicr, Iroldo nominato,
Ebbe una donna sua, Tisbina detta.
Della quale era lauto forte armato,
Quanto egli amata quella giovanetta,
Che le portata amore smisurato :
Nè altro vuol, nè d'altro si diletta.
Che del pensar di lei la notte c ’l giorno,
E goderla c sortirla e starle intorno.
Vicino ad essi un gentiluomo stava
Di Babilona stimato il maggiore ;
E senza dubbio alcun lo meritava,
Ch’era cortese e di molto valore :
Molla ricchezza di ch’egli abbondata
Spendeva tutta quanta in farsi onore :
Placet ol sulle feste, in arme fiero,
Leggiadro amante c franco cavaliero.
Prasildo il dritto nome suo si chiama.
Un giorno fu invitato ad un giardino ,
Dove con altre quella bella dama
Faceva un gioco strano c peregrino :
Ed era un gioco d’ una certa trama,
Ch’ un le teneva in grembo il capo chino ,
E sulle spalle una man rivoltava.
Chi quella gli batteva, indovinava.
Slava Prasildo a guardar questo gioco :
Tisbina alle percosse l’ ha invitato ;
Ed in conduslon prese quel loco ,
Perchè fu prestamente indovinato.
Standole in grembo, si sentiva un foco
Nel cor, che dolcemente l’ ha infiammato.
Per non indovinar mette ogni cura ;
Chè di levarsi quindi avea paura.
Dipoi che ’l giorno è partito e la festa,
La fiamma a lui del cor già non si parte;
Ma fieramente il tormenta c molesta,
E lo consuma dentro a parte a parte.
Della pallida faccia afllilla c mesta
Or si scusa con questa, or con quell’ arte;
Ma quel eli’ anche a fatica agli altri cela,
A suo malgrado a sè stesso rivela.
Non dorme piti : la piuma gli par dura
Assai più clic la terra o un sasso vivo ;
Cresce nel petto la vivace cura
Che d* ogni altro pcnsier 1’ ha tutto privo;
Nè per crescer finisce o si matura,
Chè non ha grado amor superlativo ,
Ed infinito è quel che fin ci pare :
Non è principio ancor dei cominciare.
I feroci corsieri e i cani arditi
DI che molto piacer soleva avere.
Gii souo al lutto del pensier fuggiti :
Pur si mette compagni a intrattenere.
Ordina feste , fa far de’ conviti ,
Fa versi, e della musica ha piacere, [menti
Spendeva in giostre, in giochi, in tornia-
Con gran destrieri e ricchi paramenti.
Era cortese e liberale assai
Prima ; ed ora è per mille raddoppialo :
Chè la virtù suol crescer sempremai ,
Quando si trova in uomo innamorato :
E nella vita mia mai non trovai
Un ben che per amor sia mai tornato.
Così Prasildo, poi ch’amore il prese,
Sopr’ ogni opinion si fé’ cortese.
Tro\ò una scaltrita messaggera
Ch’ avea grand’ amicizia con Tisbina ;
E con spesse imbasciate attorno l’ era ;
Di c notte la strigne e 1’ assassina ;
Ma quell’ anima casta, saggia , altiera ,
A prieghi, a pianti, a don mai non s’ incili-
Aveva ogni suo ben posto c finito [na.
Solo in amare il suo caro marito.
Poiché Prasildo con fatti c parole
Vede Tisbina combattuta invano;
Qual pallide si fanno le viole
Tagliate con l’ aratro dal villano;
Come il lucido ghiaccio al vivo Sole;
Tal si consuma, e dall’ ardore insano
Spesso è distrutto U mìsero amatore ;
Nè può uscir di pena , se non muore.
Più non festeggia, siccom’cra usato :
Ha in odio ogni diletto, odia sè stesso :
Pallido in volto e magro è diventato :
A chi con lui s’ avvien , non par più esso.
Un passatempo sol gli era restato,
Chè fuor di Babilona usciva spesso,
E sol soleva in un boschetto andare,
E l’ ardor suo piagnendo ivi sfogare.
Tra 1’ altre volte avvenne una mattina,
Che in quel boschetto Iroldo a spasso anda-
E seco aveva la bella Tisbina. [va ,
Cosi andando, In disparte ascoltava
Pianto dirotto con voce meschina ;
Si dolcemente colui si lagnava.
In sì bel modo, iu sì suavi accenti ,
Che fermi a udirlo stanno fiumi e venti.
Udite voi, dicca, la doglia mia,
Poiché quella crudel più non ni’ ascolta :
Tu, Sol, che per distorta e lunga 'ia
Venendo, or hai del elei la notte tolta :
Voi , chiare Stelle, e Luna che vai via,
Udite il dolor mio sol una volta :
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POEMI ROMANZESCHI.
Cliè in questa voce estrema to’ finire
Con cruda morte il mio crudo martire.
Cosi farò quella crude! contenta
A cui la vita mia tanto dispiace :
Quel cor, dove pietatc al tutto è spenta.
Avversaria crudel della mia pace ,
Che m' arde il petto e 1' anima tormenta.
Polche la morte mia tanto le piace.
Morendo arò da lei pur questa grazia.
Che si terrò di me contenta e sazia.
Ma sia la morte mia per Dio nascosa
Fra queste selve e non si sappia mai ,
Siccom'io fuor non ho mai detto cosa,
Che possa altrui far fede de' miei guai :
6hò quell' anima bella e graziosa
Poiria di crudeli! colparsi assai ;
Ed io non vo' che infamia mai le sia
Per tempo alcun l’ acerba morte mia.
Più pietose parole fuor mandava
Il cavalier che di morir desliua,
E dal fianco la spada fuor cavava ,
Pallido gi.V per la morte vicina.
Il suo caro diletto pur chiamava:
Morir volea nel nome di Tisbina :
Cli' a chiamarla rosi pigliava avviso
D’andar con quel bel nome in paradiso.
Ella col suo marito ha lien inteso
Di quel Praslldo II gran pianto focoso,
Iroldo di pielate ò tanto acceso,
Ch’ aveva tutto il viso lagrimoso :
E con la donna partito ha già preso
DI riparare al caso doloroso.
Essendo addietro nascoso rimavo,
Mostra Tisbina giugner quivi a caso;
Nò mostra aver uditi i suoi richiami.
Nè che di crudeltà l’ abbia incolpata;
Ma vcdcndol giacer fra’ verdi rami.
Come smarrita, alquanto s' i fermata :
Poi disse a lui : Prasildo, se tu in' ami ,
Coni' Ito ben visto più d' una fiata ,
Al mio bisogno non tu' abbandonare ;
Perdi’ altrimenti non posso campare.
E se non fussi all’ estremo partito.
Insieme della vita e dell'onore.
Certo non tl farci si strano invito;
Chò non è al mondo vergogna maggiore,
Che richieder colui eh' hai disserrilo.
Tu m' hai portato smisurato amore.
Ed lo sempre ver te son dura stata;
Ma ben sarotti ancor cortese e grata.
Io tei prometto sulla fede mia ;
E già deli’ amor mio li fo sicuro.
Pur die quel che ti diicggo fatto sia.
Or odi e non li paia il fatto duro :
Oltre alla selva della Barberia
È un giardino il qual di ferro ha’l muro.
In esso entrar si può per quattro porle:
L’ una la Vita tien , 1' altra la Morte,
L’altra Ileo Povertà, l'altra Ricchezza.
Convico, chi entra, all’opposita uscire.
In mezzo è un Ironcon di tanta altezze.
Quanto uno strai può verso il del salire.
Mirabilmente quell1 arbor s' apprezza,
Chò sempre perle getta nel fiorire.
Ed è chiamato il tronco del Tesoro:
I pomi ba di smeraldo e i rami d' oro.
Di questo uii ramo mi convlen avara
Per Importami miei bisogni c gravi;
E voglio a questa volta ben vedere.
Se lauto m' ami , quanto mi mostravi.
E s’ impetro da te questo piacere.
Più l’ amerò, che tu me non amavi :
E la persona mia li do per merlo :
Di nuovo tei prometto e te n’ accerto.
Quando Prasildo intende la speranza
Che data gli t di colai alto amore ;
D' ardire e di desio sè stesso avanza;
Tutto promette con sicuro core :
E promesso anche aria con più baldanza
Le stelle e 'I ciclo e 'I Sole suo splendore,
E T aria tutta e terra e fuoco e mare,
E ciò che non si può nè dir nò fare.
Sena’ altro indugio si mette in cammino,
Partendo dalla donna che tanto ama :
In abito ne va di peregrino.
Dovete or voi saper che quella dama
Mandava quel Prasildo al bel giardino
Che l' orlo di Medusa ancor si chiama.
Acciò che il molto tempo a lungo andare
Gli abbia Tisbina d'animo a cavare.
Ed oltre a ciò, quando pur giunto sia.
Era quella Medusa una donzella
Che sotto al tronco stava tuttavia.
Chi prima vede la sua faccia beila,
Si scorda la cagion della sua via:
Chiunque lei saluta o le favella,
E chi la tocca e chi le siede appresso.
Si scorda d' ogni cosa c di sè stesso.
Con l'anima ne va di spente carca
Soletto, anzi d' amore accompagnato:
II braccio dei mar Rosso in nave varca,
E già tutto I' Egitto ha trapassato,
E già è giunto ne' monti di Barca,
Dove un vecchio canuto ha riscontrato;
E seco a ragionar posto, gli espone
Della sua via qual fusse la cagione.
ORLANDO INNAMORATO.
Il vecchio a lui diceva: Gran ventura
T* ha condotto con meco a ragionare.
Or sta di buona voglia e t* assicura ,
Ch’io ti farò quel ramo guadagnare.
Tu sol d* entrar nel bel giardin procura;
Ma quivi poi sarà molto da fare :
DI Vita e Morte la porta non s* usa,
E sol per Povertà vassi a Medusa;
Della qual tu non sai forse ristoria;
Chè ragionato non me n’hai niente.
Questa è quella donzella che si gloria
Di far la guardia al bel tronco lucente.
Chi essa vede, perde la memoria,
E resta sbalordito e fuor di mente ;
Ma s* ella stessa vede la sua faccia.
Lascia la guardia ed a fuggir si caccia.
Uno specchio convicnli aver per scudo,
Dove la donna vegga sua beliate.
Sena’ arme andrai con tutto il corpo nudo,
Perchè convicn entrar per Po' ertale.
Di quella porta è P aspetto più crudo,
Che tutte r altre cose spaventate.
Tutto il mal si ritrova da quel lato;
E quel eh* è anche peggio, è P uom beffato.
Quivi sta la Miseria e la Vergogna,
La F amo, il Freddo c la Malinconia,
La Beffe, il Scorno, il Scherno e la Rampo-
In terra giace la Furfanteria [gna :
Ch’Ita sempre mai gli stinchi pien di rogna:
Evvi l’Industria e la Poltroneria:
Da una banda è la Compassione,
E da un’altra la Disperazione.
Al’opposita porta ond* Ita’ uscire,
Troverai che sì siede la Ricchezza
Odiala assai; ma non se l'osa dire.
Ella non cura cd ogni cosa sprezza.
Quivi del ramo bisogna offerire.
Perchè la porta t’apra con prestezza
Avarizia eh’ allato a lei si siede.
Quanto più se le dà, sempre più chiede.
Tu vedrai quivi la Pompa e l’Onore,
L’Adulazione e l’ Intrattenimento,
L’AmbizIon, la Grandezza e T Favore,
E poi l’ Inquietudine e ’1 Tormento,
La Gelosia , il Sospetto e *1 Timore,
E la Sollecitudine e ’l Spavento :
Dietro alla porta poi l'Odio e l’ Invidia,
E con un arco leso sta l'Insidia.
Poich'a Prasildo il vecchio ha ben aperto
Quel bel giardino c fattolo prudente,
Indi si parte, c passato il deserto,
In trenta giorni arriva finalmente :
E sondo (Fogni cosa ben esperto,
ITI
Per Povertà passò via facilmente.
A nessun mai si chiude quella porta;
Anzi v’è sempre chi d’entrar conforta.
Pareva quel giardino un paradiso
Pien d’arhuscei fioriti c di verdura.
Lo specchio aveva Prasildo in sul viso
Per non veder di colei la figura :
E prese nell’ andar sì fatto avviso,
Ch’ all’ arbor d’oro giunse; c per ventura
La donna ch’appoggiata al tronco stava.
Alzando il capo, lo specchio guardava.
Come si vede, fa gran maraviglia :
Ch’ esser le parve quel che già non era ;
La bella faccia sua bianca c vermiglili.
Parve di serpe terribile c fiera :
Laonde per fuggir la strada piglia,
E per l'aria ne va sciolta c leggiera.
Prasildo che fuggir così la sente,
A sè scoperse gli occhi incontanente,
Ed andò al tronco, dappoiché fuggita
Vide quella malvagia incantatrice,
Che dalla propria forma sbigottita
Avca lasciata la ricca radice.
Da quella un ramo con la mano ardita
Spicca c dismonta c ben si tien felice :
Viene alla porta ove Ricchezza siede,
E tutte quelle genti intorno vede.
Tutta di calamita era murata :
Senza strepito mai non s’usa aprire :
Il più del tempo quasi sta serrata :
Fraude e Fatica a lei fa l'uom venire:
Trovasi aperta pure qualche fiata;
Ma con molta ventura e molto ardire,
Prasildo la trovò quel giorno aperta;
Onde di mezzo il ramo fece offerta.
Indi partito, senza più indugiare
Ne vien, pensate voi quanto contento :
Chè mai non vede l’ora d'arrivare
In Babilonia ; e pargli un giorno cento.
Passa per Nubia, per tempo avanzare,
E varca il mar d’Arabia con buon vento.
E dì c notte, c notte e dì cammina,
Tanto eh’ a casa giunse una mattina.
Ed alia donna tosto fc* sapere
Ch’aveva la sua voglia a buon fin messa ;
E quando voglia il bel ramo vedere,
Elegga il luogo e ’I tempo per sè stessa
Ma ben ricorda a lei, com’ è dovere,
Ch’attenuta gli sia la sua promessa;
E quando ella si fusse per disdire,
Rendasi certa dì farlo morire.
Come la donna questa cosa intende,
Un ghiado proprio al cor venirci sente
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272 POEMI ROMANZESCHI.
Sopra ’l letto si getta c si distende
Piagnendo c singhiozzando amaramente.
Ed or si maraviglia , or si riprende.
Ch'ho io voluto far, dicea, dolente?
Misera me! che mi son fatto un male
A cui per rimediar morte non vale.
Chi s' io in’ uccido, c manco della fede,
Non si cuopre per questo il mio fallire.
Oh quanto è pazzo colui che si crede
Amor con grandi imprese sbigottirci
Chi la sua forza ogni altra forza eccede,
Ed ogni cosa può fare e soffrire.
E da Medusa Prasildo tornato :
Orchi arehbe questo mai pensato?
Iroldo sventurato, or che farai,
Poiché la tua Tisbina arai perduta?
Benché tu la cagion data te n’ hai.
Donna infelice, a die se' tu venuta?
Oh sfortunata me! perchè parlai.
Perchè inquel punto non fui sorda e muta,
Quando a Prasildo feci la promessa
Pazza, Aera, bestiai ch'or m’ha qui messa?
Aveva Iroldo il lamento sentito
Che facea la fanciulla sopra ’l letto;
Che d’ improvviso giunse, e sbigottito
Intese tutto quel ch'cU'avea detto.
Senza poter parlare a lei n'è gito.
Pigliala in braccio, e se la slrigne al petto.
Nè può pur ella una parola dire;
Ma cosi stretti si crcdon morire.
Proprio paionduc ghiacci posti al Sole,
Tanto il pianto dagli occhi ognun versata:
La voce venia meno alle parole ;
Ma pur Iroldo alibi cosi parlava :
Sopr’ogni altro dolor, cor mio, mi duole,
Che del mio dispiacer tanto ti grava ;
Il qual non posso mai per mal avere
Cosa eh' a te sia diletto c piacere.
É ben vero, e tu ’l sai, speranza mia,
Ch'hai tanto senno e tanta discrezione,
Che come amore è giunto a gelosia,
Non è nel mondo maggior passione.
Ma poiché la Fortuna vuol che sia
lo stesso del mio mal stato cagione,
(lo quel sol fui che ti feci obbligare)
Lascia a me sol la penitenzia fare.
lo sol debbo portar tutta la pena,
Pcrch' a fallir son quel che l’ ho sforzalo :
E vo’ pregarti, luce mia serena.
Sol pcrquel lungo amor ch'io l'ho portato,
Che la promessa tua sincera e piena
Osservi a lui : chè l'ha ben meritato
Con la fatica c col perieoi grande
A che s' è messo per le tue domande.
Ma piacciati indugiar fin ch’io sia morto,
Chè sarà solamente questo giorno.
Facciami quanto vuol Fortuna torlo.
Che non arò mai vivo tanto scorno;
E nell' inferno arò questo conforto
D'aver goduto solo il viso adorno:
Ma quando ancor saprò che mi sia tolta,
Morrò, se morir puossi un' altra volta.
Più lungo aria ’ncor fatto il suo lamento;
Ma la voce è impedita dal dolore.
Stava smarrito e senza sentimento.
Come del petto avesse tratto il core :
Nè di lui ha la donna men tormento.
Pallida, albina come l' uom che muore;
Pure avendo la faccia a lui voltata.
Cosi rispose con voce affannala :
Dunque tu credi, ingrato a tante prove.
Ch'io senza te potessi mai restare?
Dov’è l'amor che mi portavi, c dove
E quel che lauto solevi giurare,
Ch'avendo un cicl non sol, ma tutti nove,
Non vi potresti senza me abitare?
Adesso pensi d' andare all'Inferno,
E me lasciare in terra in pianto eterno?
lo fui, e ancor son tua, mentre son viva;
E sarò anche tua, poich'io sia morta :
E se morte d'amor l'alma non priva.
Se la memoria da sè non è torta,
Non vo’ che mai si dica o mai si scriva :
Tisbina senza Iroldo esser comporta :
E della morte tua manco mi doglio,
Perch'in vita ancor io star più non voglio.
Tanto quella coniicnnii differire.
Clic di Prasildo adempia la promessa,
Quella promessa che mi fa morire ;
Poi mi darò la morte da me stessa.
Tcco nell'altro mondo vo' venire,
E tcco in un sepolcro sarò messa :
E ti prego c scongiuro c strìngo forte.
Che sogli morir meco d' una morte.
E questa sia d’ un piacevol veleno
Con (al industria ed arte temperato, ino;
Che ’l spirto nostro a un punto venga me-
li sia cinque ore il tempo terminato;
Che intanto appunto ha compito e pieno
Quel eh' a Prasildo fu per me giurato;
Poi con morte quieta estinto fia
Il mal che fatto n’ ha nostra follia.
Cosi alla lor morte ordine danno
Quc' due leali amanti sventurati ;
E col viso appoggiato insieme stanno
Or più che prima nel pianto infocati :
ORLANDO INNAMORATO.
Nè l’un dall’ altro dipartir si sanno ;
Ma così stretti insieme ed abbracciati,
A tur prima il velen mandò Tisbina
Ad un secchio dottor di medicina.
Il (piai dette una coppa temperata,
Sena’ altro replicare alla richiesta.
Iroldo, poielf assai l’cbbc guardata, [sta
Disse: Orsù, di' altra via non c’è clic que-
A consolar l* anima addolorala.
Non mi sarà Fortuna più molesta :
K dando fine ai gravi affanni miei,
Più potente sarà Morte di lei.
E cosi detto, e per metà sorbito
Sicuramente il sugo velenoso,
A Tisbina lo porse sbigottito :
Nè già della sua morte pauroso,
Ma non ardisce a lei far quell’ invito.
Però, torcendo il viso Iagrimoso,
Con gli occhi bassi la coppa le porse,
E di morir ben stette allora in forse.
Nè mica del velen, ma di dolore ;
Cbè ’1 velen terminato esser doveva.
La beila donna con afflitto core
K con la man tremante la prendeva.
Di Fortuna dolendosi e d’ Amore,
fili* a liti tanto crudel tratti gli aveva :
E bevve il sugo che v’era ri ma so
I usino al fondo del lucente vaso.
Iroldo si coperse il capo c *1 volto.
Perchè con gli occhi non polca vedere
Che ’1 suo caro tesor gli fusse tolto.
Or si comincia Tisbina a dolere
Clic ’l laccio suo non è per questo sciolto.
Nulla la morte la facea temere;
Ala perchè da Prasildo convicn ire,
Questo l’è sopr* ogni altro aspro martire.
E nondiiucn per osservar la fede
A casa sua dolente s’ è avviata,
E di parlare a lui segreto chiede.
Era di giorno, ed ella accompagnata.
Appena, che sia ver, Prasildo crede:
Correndo vietile incontro in su 1* entrata,
E quanto può si sforza d’ onorarla ;
Ma di vergogna vinto pur non parla.
Pur, poiché solo in un luogo segreta
Si fu con lei ridotto finalmente.
Con un dolce parlar piano e quieto,
E quanto più sapea piacevolmente.
Si sforza di tornarle il viso lieto,
Che Iagrimoso il vedeva e dolente,
Cagion di ciò credendo esser vergogna : |
Nè sa ben eh' al suo male altro bisogna. I
Alfin da lui fu tanto scongiurata 1
Per quella cosa che più al mondo amava,
Che gli dicesse perchè si turbala,
E tanto dolorosa si mostrava :
E se 1* o;:era sua l’ era ancor grata,
Morir per essa apparecchiato stava : •
E tanto alla risposta la strigneva,
Ch* alfm udì quel che udir non voleva.
Disse la bella donna a lui : L’ amore
Che con tanta fatica hai guadagnato,
È in tuo potere, e sarà ancor quattri ore :
lo vengo ad osservar quel ch’ho giurato;
Perdo la vita, ed ho perso l’onore;
Ma, quel ch’è pili, colui ch’ho tanto amato:
Perdo con esso e lascio questo mondo ;
E a te, cui tanto piacqui , mi nascondo.
S’ io fussi stala in alcun tempo mia,
Avendomi tu amata, siccom’ hai,
Arei usata gran di scortesia
A non averti amalo aneli’ io assai ;
Ma non poteva, c non si convenia.
Due non possono amarsi; e tu lo sai.
10 non poteva amarti con ragione;
Ma sempre ebbi di te compassione.
E quello aver pietà della tua sorte
M’ha di questa miseria intorno cinta.
11 tuo lamento mi strìnse si forte,
Dalle lagrime tue fui tanto vinta,
Che provar mi convien che cosa è morte
Prima che ’l sol la luce abbia oggi estinta :
E poi con più parole conta appieno
Ciò eli* ella c Iroldo lian fatto del veleno.
Prasildo è dal dolor tanto assalito,
Quello ascoltando clic la donna dice,
Che sta senza parlare sbigottito:
E dove si pensava esser felice,
Ycdcsi giunto a così rio parlilo :
Quella che di sua vita è la radico,
E che l’ anima sua nel viso porta.
Si vede innanzi agli occhi quasi morta.
Non è piaciuto a Dio nè a le, rispose,
Della mia cortesia, donna, far prova;
Acciò che fra le strane orrende cosa
Questa a stupore estremo il mondo muova.
Spesso fu che du’ amanti a morte pose
Amor ; ma questa certo è strana c nuova,
Che tre in un tratto, e quasi per niente,
Muoiano insieme sì miseramente.
Di poca fede, or perchè dubitasti
Di richiedermi in don la tua promessa^
Tu di’ che 1 miei lamenti già ascoltasti
Con pietà grande. Ah fiera, il vcrconfessa,
Chè già noi credo : e questa prova basti,
Clic per farmi morir morta bai te stessa.
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274 POEMI ROMANZESCHI.
Or che me solo almeno avessi spento,
Ch'io non sentissi ancor di te tormento.
Tanto li spiacque eli' io li volsi amare,
Crudrl,clie per fuggirmi hai morte presa.
Sasseto Iddio eli' io non potei lasciare,
Benché provassi, d' amarli l' impresa.
Mi dovevi in quel bosco abbandonare,
Se si d' amarmi li pesar a c pesa.
Citi li sforzava quello ad offerire
Che poi con meco alita ti fa morire ?
Io non voleva alcun tuo dispiacere.
Né mai lo volsi, e meli lo voglio adesso :
Sol che m’amassi cercai d' ottenere,
E nella grazia tua sol esser messo.
S’ altra credenza bai voluto teucre.
Tu ne puoi far l'esperienza appresso;
Perché assoluta d'ogui giuramento,
Puoistarccandarcoinel'é più in talento.
l.a donna a quel parlar dolce di' udia.
Fatta di lui pietosa torna a dire :
Tu m'hai vinta di tanta cortesia,
Cile sol per amor tuo vorrei morire ;
Ma vuol Fortuna di' altrimenti sia :
10 non il posso far lungo offerire,
Perocché il viver mio debite esser |ioco.
Ma in questo tempo andrei per te nel foco.
Prasildo di dolor lauto s' accese,
( Avendo gii la sua morte ordinata)
Che le dolci parole non intese,
E con la mente stordita intronata
Un bacio solamente da lei prese :
Ed ella poi da lui s’é licenziata;
11 qual tolto dal dolce suo cospetto.
Piangendo forte, si gittò in sul letto.
Tisbiua con Iroldo si raffronta,
E lo trovò col capo ancora involto :
La cortesia del cavalicr gli coma.
Si come ha solo un bacio da lei tolto.
Iroldo del suo letto in terra smonta,
E con man giunte al del dirizza il volto :
Inginocchialo con molla umiliato
Prega Dio per mercede e per pielate,
die renda a quel Prasildo guiderdone
Della sua cortesia si smisurata.
Ma mentre che faceva l' orazione.
Cade Tisbiua c pare addormentata.
Fece il sugo la sua operazione
Più tosto nella donna delicata :
Cb' un cor gentil più tosto sente morte
Ed ogni passton, eh' un duro e forte.
Iroldo volto, in viso sente un gelo,
Vedendo la sua (tonnata terra andare, [Io,
Che come avesse innanzi agli occhi un ve-
Soavc sonno il suo, non morte pare.
Crudel chiama egli il Sol, lo Stelle e 'I Cielo
die tanto l' hanno tolto ad oltraggiare :
Chiama dura Fortuna e duro Amore,
Che lo lasciano in preda del dolore.
lasciam dolersi questo sventurato :
Stimar potete. Signor, come slava.
In camera quell'auro s'è serrato,
E cosi lagrimando ragionava ;
Or fu ma' in terra un altro innamorato
Ch'avesse sorte si crudele e prava?
Clic per voler la vita mia seguire.
Per viver, lasso, mi convien morire?
Ecco quel clic mi porta la mia fede,
L'amor, gli affanni miei crudeli e duri.
La mia fatica ha s) falla mercede?
Son questi i frutti suoi dolci c maturi?
0 s' alcun queste cose intende c vede ;
S' egli è in ciel Dio che degli amanti curi;
Considerate se vi par clic sia
Pena nel mondo simile alla mia.
Mentre clic piagne cosi sopra il letto.
Ecco alla porta un medico picchiare :
Domanda quel che fa Prasildo; e detto
Gli é che da lui nou si poteva entrare.
Diss’egli : lo son d’alta cagione stretto : *
A lui convicnmi al tutto favellare;
Perdi' altrimenti datevi conforto.
Il signor vostro questa sera é morto.
11 camcricr clic Intese il caso grave.
Prese d’entrar pur In camera ardire.
Costui teneva sempre un’ altra chiare
Per entrar dentro a sua posta od uscire;
E da Prasildo cou (tarlar soave
Impetra che quel vecchio voglia udire;
E dopo fatta molta resistenza.
Pur alita glicl conduce alla presenza.
Era quel cameriera un piccolctto.
Ma di statura e cera allegra e grata,
Plendi fede c d’amor, libero e schietto.
Tanto che gli noccva qualche Hata.
Assiduo, diligente, accorto e netto :
La patria sua Calazio fu chiamata :
Pratico nel servir, leggiadro c destro.
Al suo padron costui menò il maestro;
Il qual giunto che fu, disse : Signore,
lo sempre mai t’ Ito amato e riverito :
Or ho molto sospetto, anzi timore
Che tu non sii crudelmente tradito :
Perocché gelosia, sdegno ed amore,
E delle donne il mobile appetito.
Che raro han tutto il senno naturale,
Posson indurre ad ogni estremo male.
ORLANDO INNAMORATO.
Questo li dico perchè stamattina
Mi fu veleno occulto domandato
Da una cameriera di Tisbina;
E meu d’ un’ ora fa detto nTè stato
Che qua venuta è quella mala spina.
Io ho ben tutto il fatto Indovinato :
Per tc lo volse : da lei ben ti guarda,
ClTclla non ti facesse qualche giarda.
E già non sospirar per questa volta,
Chè in verità non 1* ho dato veleno;
E se quella bevanda hai forse tolta,
Dormirai da cinque ore, o poco meno.
Così quella malvagia sia sepolta
Con l' altre tutte di che il mondo è pieno ;
Dico le triste : ch'alia nostra ctate
Una n’è buona, c cento scellerate.
Poiché Prasildo udì queste parole,
Gli tornò vivo il tramortito core.
Si come per la pioggia le viole
Pallide fansi, c perdono il vigore,
Poi quando il del s'allegra, c torna il Sole,
Apron lo foglie, c fan nuovo colore;
Tal Prasildo si fece lieto a quella
Non aspettata già lieta novella.
E poi ch’cbbcqucl vecchio ringraziato,
A casa di Tisbina se n'andava,
Dove trovando Jroldo disperato,
Sì come il fatto cr’ilo gli contava.
A voi lascio pensar se gli fu grato.
Quella che più che la sua vita amava,
Al tutto vuol che di Prasildo sia
Per render merlo alla sua cortesia.
Fece Prasildo molta resistenzia;
Ma mal si può disdir quel che si vuole;
E benché ognuno stesse In contincnziar
Come fra due cortesi far si suole;
Alfine Iroldo vinse la sentenzia.
E per abbreviarvi le parole.
Lascia a Prasildo la sua donna bella,
E senz'altro indugiar montava in scila.
DI Dahilona si volse partire
Per mai più non tornarvi alla sua vita.
Tisbina, poi che fini di dormire,
Tutta la cosa intese coni* cr* ila :
E benché udisse con molto martire
Del caro sposo la crudel partita ;
Pur la necessità del caso intese,
E per marito il bel Prasildo prese.
Ragionava colei tutta fiata ;
Ed ecco Innanzi lor pel bosco folto
Si sente un’alta voce spaventata.
La damigella si smarrì nel volto.
Benché Rinaldo assai l’ha confortata,
| Ma questo Canto è stato lungo molto;
j Ancor ch’io credo che ta sua dolcezza
; Gli abbia levato assai della lunghezza.
CANTO SETTANTESIMOSKTTIMO.
Il Derni descrive la sua natura c i suoi casi.
Quivi era, non sa come, capitalo
Un certo buon compagno fiorentino.
Fu Fiorentino c nohil : benché nato
Fosso il padre c nutrito in Casentino;
Dove il padre di lui gran tempo stalo
Semlo, si foce quasi cittadino,
E tolse moglie c s'accasò in Rihbicna,
Cli* una terra è sopri Arno molto amena.
Costui eh’ io dico, a Lamporecchio nac-
Ch’è famoso costei per quel Masetto; [que.
Poi fu condotto in Fiorenza, ove giacque
Pm a diciannove anni poveretto :
A Roma andò dipoi, cornea Dio piacque,
Pien di molla speranza e di concetto 1
D'un certo suo parente cardinale,
Che non gli fece mai nè ben nè male.
Morto luì, stette con un suo nipote,
Dal qual trattato fu come dal zio;
Onde le bolge trovandosi vote,
Di mutar cibo gli venne disio :
E sondo allor le laude molto note
D’un clic servila al vicario di Dio
In certo officio che chiamali Datario,
Si pose a star con lui per secretarlo.
Credeva il povcr uom di saper fare
Quello esercizio ; c non ne sapea straccio.
11 patron non potè mai contentare;
E pur non uscì mai di quello impaccio :
Quanto peggio facca, più avea da fare :
Aveva sempre in seno c sotto il braccio,
Dietro e innanzi di lettere un fastello;
E scriveva e stillavasi 11 cervello.
Quivi anchc,o fusse la disgrazia o *1 poco
Merito suo, non ebbe troppo bene.
Certi beneficio!*! aveva loco
Nel paese), che gli eran brighe e pene.
Or la tempesta, or l’acqua ed or il foco.
Or il diavol l’entrate gli ritiene;
E certe magre pensioni aveva,
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POKMI ROMANZESCHI.
Onde mai un quattri» non riscoteva. |
Con tulio ciò viveva allegramente;
Nò mai troppo pensoso o tristo stava,
lira assai ben toltilo dalla gente,
IH quei signor di corte ognun l'amava :
Ch' era faceto, e capitoli a mente
D* orinali e d'anguille recitata,
K certe altre sue magre poesie
Ch' eran tenute strane bizzarrie.
Era forte collerico e sdegnoso.
Della lingua e del cor libero c sciolto :
Non era avaro, non ambizioso;
Era fedele cd amorcvol mollo,
Degli amici aniator miracoloso.
('.osi anche chi in odio aveva tolto
Odiava a guerra finita c mortale;
Ma più pronto era a amar, clfa tolcr male.
Di persona era grande, inagro c schietto;
Lunghe c solili le gambe forte aveta,
E 'I naso grande c *1 tiso largo, c stretto
Lo spazio die le ciglia divideva;
Concavo l’occhio aveta azzurro e netto;
La barba folla quasi il nascondeva,
Se l'avesse portata; nia il padrone
Aveva con le barbe aspra questione. j
Nessun di servitù già mai si dolse,
Nò più ne fu nimico di costui;
E pure a consumarlo il diavol tolse ;
Sempre il tenne Fortuna io forza altrui, i
Sempre che comandargli il padron volse.
Di non sortirlo venne voglia a lui.
Voleva far da sò, non comandato;
Onte un gli comandava, era spacciate.
Cacce, musiche, feste, suoni c balli,
Giuochi, nessuna sorte di piacere
Troppo d uiotca : piacer angli i cavalli
Assai; ma si pasceva del t edere;
Citò modo non atea da comperali!.
Onde il suo sommo bene era in faccrc
Nudo lungo disteso, c *1 suo diletto
Era non far mai nulla e starsi in letto.
Tanto era dallo scriver stracco e morto ;
Si i membri e i sensi aveva strutti ed arsi,
Clic non sapeva in più tranquillo porto
Da cosi tempestoso mar ritrarsi,
Nè^iù conforme antidoto e conforto
Dar a tante fatiche, clic lo starsi.
Clic starsi in letto, c non far mai niente,
E così il corpo rifare e la niente.
Quella diceva che era la più bella
Arte, il più bel mcsticrclic si facesse.
Il letto er'uua veste, tuia gonnella
Ad ognun buona clic se la mettesse.
Poteva un larga e stretta e lunga avella.
Crespa e schietta, secondo che volesse.
Quando un la sera si spogliava i panni.
Lasciava in sul fnrzicr tutti gii affanni.
BERNARDO TASSO.
AMADIGI.
CANTO DUODECIMO.
Amadigi ode i consigli del re suo padre.
Già fuggendo le stelle ad una ad una,
Dan luogo ai lume della bianca Aurora;
Ed al novo splendor cede la Luna ,
Che già si mostra d’ Oriente fuora ;
Già 1* atra notte V ombre insieme aduna,
E’I nostro mondo il dì scopre e colora ,
Ripigliam dunque in inano il plettro d’oro
('alitando d’ Amadigi e d’ Alidoro.
A le volgo, o gran prence, il canto mio
Che ti veggio senz’alma e senza vita,
Odiare il tuo tcrren dolce, natio,
La patria , eh’ esser dee cara e gradila ;
E punto dallo spron dei tuo desio
Brami dal padre tuo far dipartita ,
Per gir a ritrovar dentro un bel viso
11 ben del tuo bramato paradiso.
Mentre Amadigi di gioia nudriva
i 1 parenti felici col suo aspetto ,
i II cor, ch’ardeva in chiara fiamma c viva,
■ Vago di gire al desiato oggetto,
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AMADIGI.
(ìli dava vita dolorosa, c priva
li' ogni piacer; ond'aila fin constrelto
Dal suo dcslr, con molta riverenza
Chiese al suo genitore un di licenza.
Signor dicendo , poi che la Fortuna
M’Iia fatto figlio di si degno padre ;
Clic , ovunque copre il cerchio della Luna,
Ha sparso l’ opre sue chiare c leggiadre;
A me convien senza dimora alcuna.
Acciocché obblio connetti oscure ed adrc
Non copra il lume in me de'vostri pregi,
Far opre eccelse c fatti alti ed egregi.
Perché al trimentc, conir erede indegno
Del voslro onore e della gloria vostra ,
Ch’apprezzo molto più, che l’ ampio regno
Di tutta la mortai terrena chiostra ,
Al mondo vile : ed a me stesso a sdegno
Vivrei, con biasmo della stirpe nostra;
Facendo oltraggio ai chiari nomi illustri
De’ miri predecessor por tanti lustri.
Il padre * che 1’auiava , (pianto deve
Padre figliuol di si lucida speme ,
Se ben gli è’I suo partir molesto e greve,
La sua noia nel petto asconde e preme :
E poi che '1 vede risoluto in breve
Quindi partenza far, un giorno insieme
Essendo entro un giardin, le luci fisse
Ambo tenendo in lui, cosi gli disse:
Figliuol, la tua virtù mi dà speranza,
Che tu debbi con opre altere c beile
I tuoi avi avanzar di quanto avanza
Di lume il Sol la Luna , essa le Stelle.
Ma perdi’ ad altro, eh’ oprar spada e lauza;
A gir errando in queste parti e ’n quelle
T’inviterà l’età presta e fugace ,
Questo breve parlar farli mi piace.
10 non vo’già mostrarli a parte, a parte
Tutti i precetti c tutti i documenti
Della tua degna c venerabii arte ,
r.h’impossibil saria , non inen, ch’a venti
F renare il corso , e di Dodona sparte
Annoverar lo fremii ai giorni algenti :
Ma alcuni ten dirò de* principali ;
Ond’ uscir ponno c molli beni c mali.
La prima cosa , che saper bisogna
A un capitano è 1’ alloggiar del campo ,
A cui governo n’ha ; se non agogna
Per sanar sua pazzia chiamar Mclampo ;
Qiò noi sapendo far, n’avrà vergogna,
Se pur la fuga avrà presta al suo scampo.
Però gli è d’uopo, eh’ ci dotto e perito
Sappia ovunque cammina i lochi e’I sito.
11 loco, dove a suo comodo stare
E l’esercito possa c’I capitano;
K tanto più , se vi s’ avrà a fermare ,
Debile esser sotto del salubre c sano;
In parte spaziosa, ove allargare
Possa le schiere a questa e a quella mano;
E se possibil fia, di sito forte.
Alto c secur, quanto natura il porle.
E , perchè l’arte non ti dà fatica
Di far argini c fosse intorno, intorno,
In cima al piano d’ una piaggia aprica;
0 d’un rapido fiume a canto al corno ;
Ove sia l'acqua al viver nostro amica ,
De’ vaghi, umidi Dei dolco soggiorno ;
Ove sia il colle largo c spazioso
Vestito d’erbe, c d’altre piante ombroso.
E sovra tutto li ricordo e dico,
Clic locar debbi il campo, ove non vaglia
Porti interno l’assedio il tuo nemico;
Nè torti il passo deila vettovaglia,
E se non hai cotanto il sito amico ,
Che l’assicuri ; in vece di muraglia ,
Falli d'intorno vallo, argine, o fossa.
Si, ch’entrar senza rischio altri non possa.
In procurar dappoi non esser lento,
Chc’n ogni parte sia bene ordinato ,
E disposto di modo , che contento
Desti del tuo giudicio ogni soldato :
Abbia ogni nazion su’ alloggiamento ,
Quanto dar le si può comodo e grato;
Nè sia mischiato 1’ Iber col Francese ,
Nè lo Scoto col Daco o con l’Inglese.
Fa che piazza vi sia per vivandieri
Comoda a tutta l’ oste, e per mercanti ;
Così dei regno tuo , conte stranieri ;
Nè sian mcschiati con cavalli , o fanti :
Abbiano il suo quarlioro i tesorieri ,
Giudici, commissari, cd altri lauti
Officiali , c gradi di persone ,
Clic per senir soli necessarie e buone.
E, perchè di natura alla virtute
Contrario è l’ozio, ai fatti alti c lodati;
Nemico capitai della salute ,
Non tener oziosi i tuoi soldati ;
Perchè non sia fra lor chi poi rifiule
La fatica , qualor saran chiamati
Dalla occaslon , dagli accidenti ,
Che varj son più che non sono i venti.
Fa lor, per farli forti alla fatica.
Lanciare il palo ed avventare il dardo ;
Giocar di spada c maneggiar la pica;
Ed ogn’ altr’ arnia di gnerrier gagliardo ;
Notar fiume talor con la lorica ;
Saltar c correr, per non esser tardo ;
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278 POEMI ROMANZESCHI.
Senza scala salir sopra alcun muro ;
O soira arliur ancor saldo e sccuro.
Gii dell' ordine è ben, eh' io li ragione,
Ministro delle glorie e degli onori ;
Onde poi nascon tante cose buone ,
Quant'ha prato d’ Aprile erbette e fiori ;
Senza il qual fora una confusione ,
Sola cagion de’ perigli maggiori ,
Gilè poro giova o la forza , o l' ardire ,
Dove I' ordine manca al tuo desire.
In quella guisa, clic padre prudente
Mandar ad imparar suole il fanciullo ,
Per farlo nelle lettere eccellente;
Onde nell'arte sua poi ceda a nullo.
Ordine espresso ad ogni tuo sergente
Darai , clic per diletto e per trastullo
Ogni tre giorni aititeli ponga in usanza
D’ ammaestrar le genti all' ordinanza.
Slclic'nlrndanoilsuon,clic lor comanda,
A cui donno obbedir, ciA clt'lianno a farsi;
Perche siati presti a volgersi alla banda ;
A por innanzi il piede, ovver fermarsi ;
Urtar, quando bisogna ; e sc’l dimanda
La qualità del caso, anco a ritrarsi:
A rivolger la faccia, ov’ era il dorso,
E qualche volta apparecchiarsi al corso.
SI come danzator dotto ed esperto
A suoli di cetra , o di viola arguta
A guisa d’un di ciA, ch'ita a tarò incerto :
Rivolge 11 corpo e'I piè solleva e muta ,
Cosi '1 soldato buono e ili gran merlo ,
Si move presto al suoli della battuta
D'ogni tamburo e di sonante tromba ;
A la eui voce il eie! tutto rimbomba.
Ma avverti , che 'I trombetta, o'I tambu-
Sla pi A nell'arte sua dotto e maestro, f ritto
Che non è di far preda in mar delfino ;
Che non è nella caccia il falcon destro.
Altrlmentc n’andrebbe a capo chino
Piangendo il fato suo fiero e sincstro
Il capitano ; e paglteria !' errore
DI colui, con la vita e con l' onore.
Or con quai modi debbia e con qual for-
L.' esercito condurre un capitano , [me,
Se fia vicino del nemico all’ orine,
Ovver se non sarti mollo lontano,
E ben { ligi iuol mio caro) eh' io l'Informe,
Perchè non caggi in un inciampo strano;
Perocché accorto e saggio esser bisogna
Adii non vuol mcrcardanno, o vergogna.
Prima è bisogno, ch’abbi conoscenza
Del sito del paese, ove cammini
Particolare; e per esperienza
Tutti sappi d'intorno I suoi confini :
Clt’ abbi ile' fiumi e de’ monti scienza ;
E, se ti sono o lontani , o vicini ;
E d’ ogni poggio e d' ogni valle e strada ;
E dovunque si torca , ovunque vada.
Se quivi avrè città, ville, o castello:
E le distanze , che saran fra loro ; [ le
Clic mandi un unni prudente, a veder quei-
Clic non abbia il ccrvel giovane, o soro;
Che ne vadi tu stesso a rivedelie;
E riconoscer tutto il lenitoro;
Acciocché sappi , senza altrui consiglio ;
Onde ti puO venir danno, o periglio.
Quinci iu tre parti il tuo campo diviso.
Clic coinè, or non vo’ dirti a parte a parte,
SI come fia di buon sergente avviso.
Che sappia ben della milizia l' arte :
Dal quale 'apri l’orecchio) io te n'avviso.
Dipende del tuo onor la maggior parte.
Farai moverlo al suon , con passo eguale
Di tamliur, tromba, o di strumento tale.
Ma sovra tutto fa, eh’ un' orditi solo
Suoni ogni talli burino, ogni trombetta;
Perchè non vada una battaglia a volo ;
L'altra la segua poi con minor fretta :
Manda uomini ad ogn’or, che facciali solo
Gir egualmente ogni battaglia stretta;
Che mova il passo, con una misura ;
E di nuli’ altra cosa alibian più cura, glio.
Perchè 'n nidi spazio, o poco piè d' un mi-
che camminasse chi presto, echi tardo.
Sarebbe evidentissimo periglio ,
Clic ciO men fesse il tuo campo gagliardo.
Il che por li potrebbe in gran scompiglio.
Disegna dunque aver molto risguardo ,
Cli" un disordine tal non ti succeila ;
Onde ’I nemico tuo poscia s' avveda.
Fa eli 'ognun vaila , come fosse certo ,
Clic ’l nemico il venisse ad assaltare.
Dell’ arme usate sue sempre coperto ; [re;
Ch’ognun sia instruttodi ciO ch'abbia a fa-
cile ciascun sia dell' ordinanza esperto ;
E sappia, ove ritrarsi, ove girare
Si debbia, accio eh' all' improv viso colto.
Non volgali tergo, ove dovrebbe il volto.
Manda cavalli innanzi a discoprire ,
SI come è usanza , imboscate ed aguati ,
Securee fide spie, che sappiali dire
Del nemico i pensicr, benché celati.
Ma qui li vo’ , figliuolo, anco avvertire
CiO, di’ avvertilo hall sempre I più lodati;
Che ‘1 tuo nemico con gl' inganni suoi
Debbi stimar, per non temerlo poi.
AMADIGI.
Chè s’ altrimcnte non l' apprezzerai ;
E’nrauto andrai, come vorrà la sorte ;
In qualche gran perlcol raderai.
Uve fuori non Ila chi poi ten porte :
Nè presso al tuo nemico alloggerai ,
Se ’l numero e I’ ardir non tei conforlc
Dell'esercito tuo, delle tue genti
In guisa pria , che poi non tc ne penti.
Che, se sarai di forze inferiore.
Cinger non ti potrai d'argine , o muro ;
Lo starvi senza , sarebbe un errore
D' ingegno e di saver poco maturo;
II ritirarsi, appresso al disonore,
Far noi potresti mai salto c securo;
E con la pena fora il tuo peccato
Congiunto insieme e ad un parto nato.
E perchè , come se corsier da morso
Non fusse retto, o barca da timone,
Quand' è spronalo l’ uno a tutto corso ;
L’altra il fiato sospinge d’ Aquilone,
Questa s* atToudarebbe , e quel trascorso
Se n'andrebbe a cader dentro un burrone;
0 in qualche valle di profondo abisso,
Ove starebbe eternamente fisso ;
Cosi forza e ardir , qualor non fia
Dalla prudenza governala e retta.
Sarà più tosto furore e pazzia ,
Che virtule e valor dal mondo detta;
E 1’ uomo in parte adduce , onde devria
Fuggir , si come cervo da saetta.
Però fa che ragion ti regga , e sempre
L’ ardir , la forza cl’ ira In te contempre.
Non por giammai I" onor, nella corona
A rischio, figliuol mio, d’ una battaglia,
S’ a quella far , non ti sospinge e sprona
Necessità, che con furor l' assaglia ;
0 s’ una occaslon perfetta o buona
Di securo vantaggio, che li vaglia
A porre in mano la vittoria certa ,
Non l’ è dal tempo o dal nemico offerta.
Ma , se pur vuoi tentar la tua ventura
0 dalia forza mosso , o dal vantaggio ,
L’ impeto osti! della battaglia dura
Sosticn tu capitano accorto c saggio ;
Chè l'impeto, ch'altrui non fa paura
Viltà diventa, ardir toglie e coraggio
A chi lo face , e ’n chi il sostien , rinforza
Contra’l nemico ardir, virlutc c forza.
lo non ti vo’ insegnar , come le schiere
Debili ordinare il dì della giornata ;
Dove disporre il fante, o'i cavaliere ;
Dove la picca inerme, ove l'armata;
Perchè bisognaria prima sapere
Il loco della pugna disegnata ;
Clic gente hai tu, che gente il tuo nemico.
Ed altre cose assai , eh' or non ti dico.
Se destro Ciel seconda il tuo desire ;
Talché sia vinta la contraria gente.
Non star (si come fan molti), a dormire,
Cbè la vittoria 1' uoin fa negligente.
Segui il nemico aflìn che non respirc ;
E si rinnuovi, come fa i serpente
Di nova pelle ; e non lasciar la traccia ,
Cli' ardita e uova gente egli uun faccia.
Ma, se disdegno pur d' iniquo Fato,
Ti farà al vincitor le spalle dare ;
Acciocché 'I colpo di fortuna irato
Non passi al cor, come potrebbe fare,
E in un l’ onor a te tolga ciò stato ;
Quelle reliquie tue cerca salvare
Dall’ avversarlo, s’a seguirli ei bada;
Ed impedirgli , quanto puoi , la strada.
0 far, sì come nelle piaggie suole
D'Ircania fare il caccialor accorto,
Gic parte almeno della preda vuole
Portar (se può ) dalla tempesta in porto;
Gic, come il tigre, che si cruccia e duole
De’ tulli figli , di lontano ha scorto ,
Un ne lascia cader timido e scaltro.
Por securo portar nel legno l' altro.
Facile disperga ognun l'oro e l’ argento
Per campi e strade per salvar la vita;
Perchè il soldato a depredare Intento
La via ti lascierà larga e spedita ;
E’n colai guisa l’uno avrà il suo intento;
L’ altro la libertà cara c gradita ;
E conservando le reliquie estreme ,
Di ristorarti ancor ti resta speme.
Non mi voglio obbliar di dirti questo,
Gl’ importa al campo alia battaglia cicito;
Perdi’ uno errar sarebbe manifesto ,
Clic faria il capitan vile e negletto.
Se luogo eleggi , u’ de' soldati infesto ( to
Sia’i vento, o’i Sol agli ocelli ed all'aspet-
S1 che non veggia , o i' arnie oprar non va-
Ti veggio pcrdilor della battaglia, [giia.
L'uno , l' altro di questi è capitale
Nemico del tuo onore ; e ti bisogna
Dar loco al suo furor, perdi’ egli è tale,
Clic grande ti faria danno c vergogna.
Clièsc'l tuo arciera a saettar non vale;
0 ’l fiedcil Sol negli ocelli , invano agogna
Geco ed inerme di farsi la strada
Con r arco alla vittoria, o con la spada.
Se col surgente Sol , se quando in alto
Si vede fiammeggiare, o poco poi,
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POEMI ROMANZESCHI.
280
S’ abbia da fare il ixrilicoso assalto ;
Dove le guardie, ovver l’ ascolte, poi
Cauto locar, in loco basso, od alto,
O dentro, o fuori degli argini tuoi,
Ti potrei dir, e tanti documenti ;
Quanl'onde nell* Egeo muovono i venti.
Ma l'uso, ottimo mastro d’ogui cosa,
('.he dotto I’ uomo fa senza scienza,
T* insegnar^ quest* arte gloriosa
Sol con lo studio dell* esperienza.
K così detto, alla grave e pensosa
Voce, pose silenzio, e poi non senza
Dolce pianto d’amore c di desio
Il benedice e raccomanda a Dio.
Tal soleva il gran Duce, a cui I* Isauro
Donò già lungamente il corno pieno
I)’ ambre lucenti, di cristalli c d* auro;
Cui il padre Appennin nel ricco seno
Serbò per molli lustri il suo tesauro.
Al caro figlio, cui lasciava il freno
In man de’ regni suoi, sovente dire
Della sua verde ctade in sul fiorire.
Il magno Duce, alla cui gloria inchina
Chi del Tamigi bee 1* onde c del Gange ;
E chi si lava i piè nella marina, [ ge ;
('di' al sofliar d* Aquilone c d’ Austro pian-
ger cui un tempo andò la gran Reina,
Ove*! sordo mar d’ Adria il lido frange ,
Dì gran vittorie altera c di trofei ;
E fe’ tremar gli Espeij c l Nabatei.
Posto già line al suo saggio sermone
Intentamente dal figliuolo udito;
Il cui animo bel, virtù c ragione.
Come caro fanciullo , avea nudrito ;
Gli diè di cor la iienedizlone ;
Ed ci, come dovea, lui riverito.
Da sì famoso ed onorato padre
Prese licenza c dalla cara madre.
La qual non senza pianto gliela diede.
Ohe per gli occhi le versa alTclto pio;
E, se volger con lui non potè il piede.
Ni rivolse il pensiero e’I suo desio,
i Il principe di Francia, clic si vede
Da quest* obbligo sciolto, si parilo;
E per gir al suo ben , prese la strada ,
Che più di fare al suo pensiero aggrada
Solo col caro suo fido scudiero
! Alla man destra Compiegni lasciato.
Andò verso Bclmonte il cavaliero;
E d’ Oisa e Soma il fiumicel varcalo.
Dritto per Picardia volse il destriero;
E Rua e Monte regolo passato,
E Bologna c Marqucsa, aggiunse lieto
Ovc’l grand' Occan mira Calcio. [ gno.
Ma pria, ch’egli nel mar spinga il suole-
Benché il farlo tardar gli fia molesto.
Io vo* dar tregua all’ affannalo ingegno ;
Onde poi sia al novo Canto presto :
Chè non vorrei, se trapassassi il segno,
! Che già promesso v* aggio, esservi infesto :
| Domani in alto spiegarem le vele,
• E solca remo il mar piano c fedele.
CANTO CENTESIMO.
Rassegna de’ letterali e gran personaggi del suo tempo.
Già veggio al sommo dell’altiero colle, '
Ove in’ ha scorto il mio destro pianeta j
Di polve c di sudor coperto e molle,
Del corso mio la desiata meta ;
('.he la superba cima al ciclo estolle :
E’ntorno a lei una gran turba lieta ,
( Ilio del mio giunger con amica fronte
Fan sonar d’alte voci intorno il monte.
0 per quanti senlier spinosi cd erti
Veggio gente poggiarvi ancia e stanca :
Ma non so qual di lor più laude merli ,
E dalla parte dritta e dalla manca :
Quanti nc veggio di potere incerti
Questa meta toccar , cui lena manca ,
Tornar indietro affaticali e lassi
Vicini a) giogo, e dal mezzo, e più bassi.
l.a meta della gloria per impresa
i Da fanciul tolta dal signor d* Urbino ;
: A cui drizzò , sì come fiamma acci sa
Al suo principio suole , il suo cammino :
Vcdetel là, che vinta ogni contesa
('.oii 1* immensa virtù del suo destino ,
Col crine adorno di corone c fregi
; Siede vicino a impcradori e regi.
O quanti cavalicr, chc'l inondo belio
Fanno col lor valor, che seco adduce ;
Ranier dal Monte, c Montili suo fratello.
10 veggio presso al glorioso duce ;
11 conte d'Orcian Pier Bouarcllo ,
Ch’ or ad Ancona dà splendore c luce ;
E quel di Montebello ; ed altri conti
Tulli all’ opre d* onor veloci e pronti.
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AMADIGI. 281
0 che degno lo cinge e bel collegio
D’ invilii e valorosi capitani ;
Glie scilo il padre , duce allo ed egregio ,
E sotto lui oprar 1’ armate inani ;
Il cui valore e P acquistato pregio
Fa risonar i prossimi e i lontani;
Gii' hanno sovente col cor saldo e forte
Posto freno al furor , vinta la morte.
Veggio Leonardo dalla Quercia; e a paro
Con lui, Silvio Gonzaga ambi ad un segno;
Il Simonetta; e’1 Mario, ciascun chiaro,
E d’ allo grido c d’ ogni laude degno ;
Conquesti il Muzio a cavali ersi caro
Scrillor prudente c di felice ingegno :
E quella coppia di duo lidi amici ,
A cui Pallade c Clio fur le nudrici. [netti
l)n Pietro e un Paulo, di’ ancor glovo-
Alzano a grande onor la toga e Panni.
Scorgo alcun altri in una squadra stretti
Di statue degni, di metalli e marini;
Che col sublimi e lor chiari intelletti
Non pur in dotte prose c colti carmi ;
Ma con la lor prudenza e col valore
Della Reina d’Adria ergon P onore.
Il Mula, il Mocenigo e ’l Navngicro
li Legge e’1 Zeno, accorti e saggi mollo;
li Barbaro , che alzando il suo pensiero
S’è dalle cure della patria tolto,
E pensa e scrive ; cd Agostin Valerio
Dalla Filosofia nel seno accolto ;
E’1 Tiepolo geografo esquisito,
Che sa del mondo ogni forma , ogni silo.
Ecco, clic gli occhi rivolgendo intorno
Vago di rimirar la gran vaghezza
Del sacro colle in ogni parte adorno
Di rara ed incredibile bellezza ,
Scorgo dal lato onde’l Sol porla il giorno,
Tutta ripiena la sublime altezza
Di Semidei ; de’ qual s’ io non son losco,
Alquanti de’ più degni io ne conosco.
L’eccelso e gran Filippo, onor de’ regi,
A cui post’ ha la Gloria una corona
Di mille palme adorna c mille fregi ;
A cui P Fremitale il loco dona
Sublime più, fra i pellegrini egregi ;
L'I re dai gigli d’or, di cui risuona
Grido illustre per lutto, ove circonda
li Sol coi raggi e l’Oceano inonda.
Con loro di Savoia il duca invitto
Di ricche palme altiero c di trofei;
Il cui onor, la fama ha già all’ Egitto
Portato ed agii Esperi , ai Nabatei ,
E tanti altri signor, di cui già scritto
Hanno i nomi e le laudi i versi mici ,
Che non posso ridir, chè ’l tempo è breve
Al cammin lungo, eh’ ancor farsi deve.
Scorgo di cardinali un bel drappello
D’onor non men,clie d’ostro il crine ornati.
Il gran Medico è I’ un, l’altro il Savello,
Ben degni di seder fra i più lodati;
Il Pisani; lo Strozza, il Putco e quello
Che nacque d’Adria in sui liti beati ,
Della Cornelia, alta famiglia il primo.
Cui tanto debbo c tanto apprezzo c stimo.
Ecco Guglielmo, a cui di lucid’ onde
Apporla il puro Mincio il corno pieno;
E veste di smeraldi ambo le sponde ,
Che rendono quel ciei lieto c sereno ;
Di cui le treccie s’orna auratee bionde
La bella Manto; c fregia 11 tergo c ’l seno :
E i duo fratelli suoi , alla cui gloria
Fia ancor chi sacri un’immortale istoria.
Veggio del gran Ferrante i cari pegni ,
Che’l bel monte poggiar fanciulli ancora ;
Vespaslan , che fra gl* illustri c degni,
Gli’ hanno pregj nell* armi , oggi dimora ;
Sciplon da Gazuol , eh’ iinpcrj c regni
Tiene per vili e sol virtù te onora ;
Curzio , che con la peuna c con la spada
AU’immortalità s’ apre la strada.
Ecco un gran lume dell’ erculea prole,
Per cui Ferrara va lieta e superba,
Luigi, a cui il sommo , eterno Sole ,
Pien di celesti doni il lembo serba ;
Che d’altro, che di rose e di viole ,
S’ ornerà il crine in questa etate acerba ;
Ed Alfonso suo zio, prode c cortese.
Sol nato ad alle e gloriose imprese.
Il conte Federico Borromeo,
Il cui onor la fama alzata a volo
Non meli , che di colui , eh’ uccise Anteo
Porta dal caldo, all’ agghiacciato polo ;
Chè, se furor di destino aspro c reo
Non s’Intcrpon; senza sentir mai duolo,
Stati acquistati , c gloria vera c salda
Vivrà, mentre che’l mondo il Sol riscalda.
Ed Alberico, a cui Massa e Carrara
Portan di marmi in sen varia ricchezza ;
A cui non fu l’ alma Natura avara
D’ alla presenza e di viril bellezza :
Cui Fortuna e Virtù diedero a gara [za;
Tutti que’ doni, onde l’uom più s’apprez-
Liberal , saggio , valoroso c forte ,
Atto a far schermo alla seconda morte*
E presso a lor Paolo Giordano Ursino ;
Di Santa Fiore l’ onorato conte ;
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POEMI ROMANZESCHI.
A scalilo dalla Cornia ; c quel Vicino ,
Cli' ha di pregialo allor cinta la fronte ;
Giordan , che fece al mondo in Monlalcino
L' ardir , l' ingegno e le sue forre coute j
Ed Aurelio Eregoso alto e pregiato
Mastro di guerra , ed al gran Cosmo grato.
Ecco Ali aro di Sande; il cui ardire
Passa in esempio alle future genti ;
Che , senza tema alcuna di morire ,
Offerse il petto ai ferri aspri e pungenti
Dell’ empio Trace ; pria falle fuggire.
Siccome lieve polve innanzi a tenti, [sto;
L’armate schiere : ond’ ci fé’ tanto acqui-
A1 suo gran re sert izio ; onore a Cristo.
E llaldassar c Fulvio , ambo Rangnni,
Che fanno altero gir Secchia e Panaro ;
Di cui benché la fama alto ragioni ,
Giunger non può del lor gran morto a paro;
E i duu , di cui ben degno è , clic risuoni
Allo grido, c varchi oltre Grati e Varo,
Girolamo c Giberto; onde s’appregi
fioreggio; ole lor tempie adorni e fregi.
E Mario Savorgnan , che stare a lato
Può d’ ogni capitan forte c prudente ;
Ollatian Colalto oggi ouoralo
Per saggio , ardito e d' una nobil mento :
Gìoan Battista conte di Brcmbalo
Con la pennac conParmi alto, eccellente;
E'i Puola, cli’csser mostra a più d’ un segno
Nell’ arte militar famoso c degno.
Ercol l'regoso , che della romana
Corte, qual cosa vile, odiò ('altezza ;
Fi ’n tutto fuor d’ambizlon umana
Sprezzò mitro , cappelli e lor grandezza ;
E quegli, clic dal volgo s’allontana,
Di Monaco signor, eh’ ha sol vaghezza
Degli alti studj di filosofia ,
Che di poggiar al Clcl mostrali la via.
0 leggiadro di donne e di donzelle
Stuolo ch’io veggio, che di gemme e d’oro
Corona l’iiau le chiome bionde c bel le ;
Ma dcuti o adorne di maggior tesoro.
La prima, che va innanzi a tutte quelle,
Come Udata scorta e duce loro,
Caterina C de’ Medici , eh’ avanza
Di pregio ogu’ altra , c regin’ è di Pranza.
La reina Isabella , al cui onore ,
Io sacro questa penna e questo Inchiostro;
Moglie dei gran Filippo , allo splendore "
Del sesso feminil nel secol nostro ;
Di senno , di bellezza c di valore
Altero, raro e vencrabil mostro.
E le sorelle sue, in cui Natura
Per formarle perfette asò ogni cura.
Margherita, di cui mai nè più casta, .
Nè di maggior virtù vide la terra.
Duchessa di Savoia , che contrasta
Con lor di gloria , nel cui cor si serra ,
Come in suo albergo, quanto valor basta
Ad arricchire il mondo ed a far guerra
Dura e perpetua al Tempo inculo e rio.
Scorta secura per guidarci a Dio.
Ccnl’allrc e piu princesse illustri e
Cento c più dame di famoso grido, [chiare.
Che son con lor , di potervi nomare ,
Nè di saper ancora io mi diffido.
Oli clic turba mi viene ad incontrare.
Clic fan d* Italia bel questo e quel lido ,
Abili a governare irnperj e regni :
E star di par coi più famosi e degni.
Giovanna d’Aragona, c la sorella.
La duchessa d’Ain.illì, che con Dio
A fronte, a fronte ogn’ ora urail favella.
Di Bisignano la priucessa , eh’ io
Osseri o , c Aurclla sua parente, e quella ,
Gli’ io non posso onorar quanto desio ,
Vittoria ; c l’ altra Colonncse , a cui
Porta Sulmona i ricchi doni sui.
Maria Cardona , di cui benché cantc
Più d’ una cetra c d’un sublime ingegno
Del bell’ animo suo le lodi tante,
Poggiar non ponilo, ove d'alzarsi è degno.
Giulia Gonzaga , che le luci sante ,
E i suoi pensicr, si come strali al segno
Rivolti a Dio, iu lui viva, in sè morta
Di uuU’allro si ciba c si conforta.
Dorolea d’ Acquaviva, a cui s’ inchina
Ed Atrie’ITronlo, die te tre più chiare
Lingue possiede; e la Sauseverina
Felice , clic potrebbe altrui beare :
Leonora Fatela di dottrina;
E d’ altre parli deli’aninia rare
Altera iti vista : e la bella Gonzaga
Ippolita, d’onor, non d’altro vaga.
Girolauia Colonna e la cognata :
Di Santafiore la gentil contessa :
Giulia Ursiua Rangona oggi laudata
Dai più lodali c ’n allo pregio messa :
Ersilia Cortese un tempo stata
Donna di Roma ; eh’ or va si dimessa
In gonna vedovile; e la Berlana
D’ alto intelletto : e Cornelia Varana.
LaMalalcsta, mia dolce nemica.
Nel cui oucslo foco arsi moli’ anni ;
Cile troppo (alti lasso ine) bella e pudica
Cagion mi fu di cosi lunghi affanni :
AMADIGI. ?83
Che, se quanto virtù, le fosse amica
Slata Fortuna, in più sublimi scanni
Sarebbe assisa , ove ben degno fora
Poiché la nostra olà da IH s’onora.
La contessa Fregosa e la Rangona
Constanza , clic già feo bella Ferrara ;
Indi superbo il Ligeri e la Sona ,
Per sangue e per virttite illustre e chiara :
Veggio colei , che la rasa Manfrina ,
Sì come in vivo Sole orna e rischiara,
Lucrezia e saggia e casta e fra le rare
Donne, che in pregio son, degna di stare.
Isabella Gonzaga a lei sorella,
Tempio d’ogni virtù, di cui ben poco
Sarebbe il dir, che fosse casta e bella ,
E eh 'avesse d’amor negli occhi il foco ;
E d’altre ancor, c di questa c di quella
Patria, veggio io ; ma nè’l tempo, nè’l loco,
Che lodare io le possa mi consente.
Benché pronta a ciò fare abbia la mente.
0 bella schiera, o pellegrino coro,
D’alti poeti, eh* a ’ncontrar mi viene ,
Il Caro e ’l Varchi, al suon dolce e canoro
De* quali , e Febo cede e le Camene ;
Il Veniero e ’i Moli n , cui 1* Indo c ’l Moro
Ammira , e qual più fama e grido tiene ;
E I dotti Capilupi c gli Amaltci,
Quegli nuovi Virgili, e questi Orfei.
Il Gambara , che in questo secolo ave
Grido sì grande, nell' eroico stile:
Il Cappel , che coi dir canuto e grave
Sen va cantando augel bianco e gentile :
Pier Gardinico,che col suo soave
E puro canto, di rustica e vile
Fa nobll niente, e’I Fcnaruol , cli’a segno
Allo solleva il suo fecondo ingegno.
II Dolce, che con colli e dolci carmi
Ha le cangiate forme di Nasone,
E d’Achille cantali i pregj e l’armi ;
D* Ifigenia la morte e di Didone ;
Piagner facendo di pletate 1 marmi ;
E con disciolto c polito sermone ,
Per mostrar del dir bel la norma e l’arte,
Vergate tante sempiterne carte.
Consalvo Pere», clic nel chiaro Ibcro
Fa Tonde risonar col dolce canto;
Che nel patrio scrmon cantar Omero
Fati’ ha d'Ulisse con le Muse a canto ;
Caro al gran re, che nel clima, l’impero
Stende, dal nostro cicl remolo tanto;
Prudente, integro, accorto c d’alto affare ;
Di v irtute e dottrina singolare.
Girolamo Ruscelli , al cui inchiostro
Cotanto debbe il bel nostro idioma ;
Che col giudicio e col sapere ha mostro.
Come uom gli scritti suoi polisca e coma :
Antonio Gallo, cui d’altro, che d’ostro
Fregia la Fama 1’ onorata chioma :
ET Atanagio, alla cui colta lira
Delle nove Sorelle il coro aspira.
Luca Contìl , che sì aito e profondo
È ne’ suoi carmi ;e’l Patrizio con esso,
Che le loro bellezze ha mostre al mondo:
E lor, come doveva, in pregio messo :
Il Gherardi , che va piano e giocondo
Cantando Iella sua :e ’l Pace appresso
Pieno di gravi cure ; e‘l dotto Pino
E Laura Battiterra onor d’ Urbino.
Ercole Dentivoglio, c ’i Bolognelto
Gloria maggior delle Felsinee rive :
11 Giraldi , che in slil puro ed eletto
Canta adogif or con le sorelle Dive;
Filosofo e oralor raro e perfetto.
Le cui opre saran mai sempre vive;
E’I Marmila gentil, eh’ a Dio rivolto
Dalle cure del mondo é hi tutto sciolto.
Georgio Gradenico, che T arene
D’ Adria fa intente alla sua dolce c pia
Lira , piangendo la sua bella Irene ,
Che Morte gli rapì spietata e ria :
Giacopo Zane , che può le Sirene
Vincer col suon di sua vaga armonia :
Il Mocenigo, che coi chiari accenti
Traggc a sé i monti c fa arrestare i venti.
Veggio una compagnia di spirti eletti ,
Che di Scbeto sulle vaglie sponde
Cantando, con leggiadri , alti concetti
Accendono d* amore il lido e T onde.
Il colto Rota, che par che s* alTretti
Di lagrimar, come di pianto abbonde.
Della diletta sua cara consorte
L’ inaspettata ed immatura morte.
Il Costanza, il Carracciolo e Ferrante,
Che del Tempo il furor s’han preso a sclier-
E rendono il Tirreno alto c sonante [no :
Piano ed umil nel tempestoso verno:
Il Transillo, che fa niover le piante
Coi carmi ; c i fiumi star fermi; c ’l Paterno,
Che col fecondo ed elevato ingegno
È già poggialo a sì sublime segno.
Molli veggio io da lor poco lontano
Filosofi , legisti ed oratori ;
L’ eloquente Manuzio ; il Poggiano ;
E ’l Sigonio, che s’ alza ai primi onori ;
Pietro Vlllars, che di saver umano
Co’ più saggi s’ agguaglia c co’ migliori,
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POEMI ROMANZESCHI.
Gioan Angiol Papio, clic di par contende
Con chi formò le leggi, o me’ l’ intende.
Il dotto Picrolomini, che in carte
1,0 bellezze del Clel si vagamente,
E tulli i suoi secreti a parte , a parte
Ha dimostrati ad ogni gentil mente;
K I Gas tei vedrò in ogni lingua , ogu’arte,
Ogni scienza chiaro ed eccellente;
Agostin Muzio mio nobil conci ve,
Che ben d' ogni dottrina e parla c scrive.
Di più d'un pregio adorno e d’uua gloria
Girolamo Falcio, che 1’ estense
Famiglia esalta con la dotta istoria;
Che luce a par di mille faci accensc :
E’I Pigna , le cui carte alta memoria
Fanno del suo saver ; con laudi immense
Dal giudicio cornuti in prosa e ’n verso
Tenuto per scrittor polito e terso.
Il Pinello, di' al Ciel s’ innalza c saie
Con gli alti studj di filosofìa :
Il Carrara, che chiaro ed immortale
Sprezza la morte invidiosa c ria :
Il cavalicr Enea , a cui non cale
Se non d’onor; nè cosa altra desia :
Prospero dalla Sale; ed altri in grembo
Nud ri ti della Morgola e del Rrembo.
Il Trevisan non pur Tommaso, o Scolo
Ciascuno della Chiesa un chiaro lume;
Ma per sè stesso a lutto il mondo nolo;
E della sua eloquenza il chiaro fiume :
Il vcsco’ di Rclonte , che devoto
Predica e scrive, e quasi un nuovo Nume
Da Dio mandato in terra, apre c ci mostra
L'altrui perversa legge c la Fè nostra;
Camillo Trevisan, che parche avvampi
Le menti altrui col parlarcolto c scorto :
Il Sonica , che sembra , eh’ ogn’ or stampi
Leggi atte a governar l’ Occaso c l’Orto :
Il Tornitati, che per gli aperti campi
Della filosofìa scn va a diporto :
E Dccio Bumu-bc! , che coi licori
Dona altrui vita c rende ai di migliori.
Gioseppe Saldali , a cui mostrare
Le Stelle i rei e i lor felici effetti ,
Che come in specchio trasparente e chiaro
Vede del Ciel tutti i secreti aspetti ;
E col nobil pennello, a paro, a paro
Va de* pittor più illustri e più perfetti.
Veggio il Danese , spirto allo ed egregio
E poeta c scultor di sommo pregio.
Io veggio la Tommaso de’ Marini
Caro a principi , a re fuor d’ ogni stima:
E seco Oltavlan Pallavicini
La cui fede giammai non fìa chi opprima :
Battista Giustinian, eh’ olirà i confini
Della feconda Europa ancor si stima :
Gioan Battista de’ Botti e ’l suo germano
| E ’l Ceba non da lor punto lontano.
Camillo Strozzi c l’Albicl, ambo chiari
E’I Nasi, onor dell* Arno edi Mugnone :
Il Rucellai , che con lor va di pari :
Il Gaglian , eh’ a sua fè nulla prepone :
E l’Atta vanti, che fra grandi affari
Andar secura fa la sua ragione :
Il Vania : e ’l gran Bonvisi, ond' oggi pare
Che ’l Serchio vada si superbo al mare.
Camillo, Paulo e i Frali altri Cusani,
Nobili , accorti e d’ incorrotta fede :
Constanzo d’ Adda c Donato Fagnani
di’ ad alcun di valor punto non cede :
Con Ambrogio da Ho quel de’Dugnani
Alla cui lealtà lutto si crede :
E I miei concivi il buon Tasca e ’l Maffcllo
Integri c di prudente, alto intelletto.
S’ ad alcun par che ’l tempo abbia eon-
l In lodar questa dama c quel signore [sunto
i Invan; passin tre carte a punto, a punto,
! Ne mi dian biasmo, onde n’ attendo onore:
j L* esser da cortesia scevro e disgiunto
! Non è di generoso c nobil core ;
Anzi mi doglio non poter memoria
j Di molti far, che soli degni di gloria.
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POEMI EROICOMICI
TASSONI.
LA SECCHIA RAPITA.
CANTO OTTAVO.
Son da Bologna ambasciata mandati
Che di Renoppia fra i ricami e l'armi
Del cieco Scarpinalo odono i carmi.
Ed ecco comparir due ambasciatori ,
L'un con la veste lunga e incappucciato,
E l'altro in su le grazie c in su gli amori
Con la spada e'I pugnai tutto attillato.
Il primo è del collegio e de’ signori ,
E ’l dottor Marescolti è nominato.
Il secondo di Rodi è cavaliere.
Di casa Barzellin, detto fra Piero.
Questi venian per ritentar, se v* era
Partito alcun di racquistar la Secchia,
Avendo udito già per cosa vera
Che’l tiranno Ezzelin I* armi apparecchia.
Furo onorali e si fermar la sera :
Nè trattar più della proposta vecchia;
Ma di cambiar la Secchia in que’ baroni,
Eccetto il re, eh’ essi tenean prigioni.
Il Polla che 'I disegno a’ cenni intese.
Rispose lor eh* era miglior riguardo
Finir tutte le liti c le contese,
E barattar la Secchia col re sardo,
E'I duca di Cremona e’I Gorranesc
Col signor di Faenza e con Ricciardo;
E in questo si mostrò sì risoluto,
Che d* ogni altro parlar fece rifiuto.
GII ambasciatori , a’ quali era prescritto
Quanto dovean trattar, spedirò un messo,
Ch’ andò dal campo alla città diritto
A ragguagliarne il reggimento stesso ;
E intanto ii figlio di Rangone invitto,
E’I buon Manfredi, a cui fu ciò commesso,
Condusscr a veder le lor trincierò
GII ambasciatori , e l’ ordinale schiere.
Menargli a spasso poi , dove alloggiate
Renoppia le sue donne avea in disparte,
Non quelle tutte clic con lei passate
Erano pria, ma la più nobii parte.
Stavano a’ lor ricami intente, armate,
Imitando Minerva in ogni parte ;
Ma lasciargli aghi c fer venir intanto
Il cicco Scarpinel con 1' arpa e 'I canto.
Questi in diverse lingue era eloquente,
E sapeva in ciascuna all’ improvviso
Compor versi c cantar si dolcemente,
Ch* avrebbe un cor di Faraon conquiso.
L’ arpa al canto accordò subitamente ;
E poiché fu d* intorno ognuno assiso.
Col moto della man celli alternando.
Incominciò cosi tenoreggiando :
Dormiva Endimlon tra l' erbe e i fiori,
Stanco dal faticar del lungo giorno;
E mentre V aura e ’l ciel gli estivi ardori
Gli gian temprando c amoreggiando intor-
Quivi discesi i pargoletti Amori, [no :
Gli avean discinta la faretra e’I corno;
Ch’ai chiusi lumi e allo splendor del viso
Fu loro di veder Cupido avviso.
Sventolandoli bel crine all’aura sciolto,
Ricadea sulle guance in nembo d' oro:
V accorrean gli Amoretti , e dal bel volto
Quinci e quindi il partlan con le man loro;
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?Sd POEMI EROICOMICI.
K do’ fiorì ondo Intorno avcan raccolto
Pieno il grembo, tesscan vago lavoro,
Alla fronte ghirlanda, al piò gentile
E alle braccia catene , c al sen monile :
E talor pareggiando all' amorosa
Rocca o peonia o anemone vermiglio,
E alla pulita guancia o giglio o rosa,
La peonia perdea, la rosa e ’1 giglio.
Taccono il vento e l'onda, c dall'erbosa
Piaggia non si sentia mover bisbiglio.
L' aria, l' acqua c la terra, in varie forme,
Pareao tacendo dire : Ecco Amor dorme.
Qual ne’ celesti campi , ove il gran Toro
S’ infiamma ai rai di luminose stelle.
Sogliono sfavillar con chioma d' oro
Le figliuole d’ Atlante alme sorelle,
Cli' alla maggiore c più gentil di loro
Brillando intorno stati l' altre mcn beile;
Tal in merito agli amori Endimlone
Parca tra l’crbe c I fior della stagione.
Quando la bella Dea del primo ciclo
Tutta cinta de’ rai del morto Sole,
Alla scena del mondo aprendo il velo,
Le campagne mirò tacite c soie;
E sparsa la rugiada e scosso il gieio
Dal lembo sovra l' erbe e le viole,
A caso il guardo In quella piagga stese,
E vaga di veder dal del discese ;
Sparvero I pargoletti all' apparire
Della Dea spaventati; ed ella, quando
Vide il giovane sol quivi dormire.
Ritenne il passo, e si fermò guardando.
L’ onestò virginal frenò l’ ardire,
E negli atti sospesa , e vergognando,
Avea giù per tornare il pi* rivolto;
Ma richiamata fu da quel bei volto.
Senti per gli occhi al cor passarsi un foco,
die d’ un dolce desio 1* alma conquise,
(vivasi avvicinando a poco a poco,
Tanto di’ al fianco del garzon s' assise :
E di que' vaghi fior eh’ avean per gioco
Gii Amoretti inlrerdali in mille guise,
S' incoronò la fronte e adornò il seno,
Che tutti fur per lei fiamma e veleno.
T cassero i fior la man , la inano i baci
Alle guance, alle labbra .agli ocelli, al petto.
Clic s' imp tesser ai vivi e si tenari ,
Che si destò smarrito il giovinetto.
Al folgorar delle divine bici
Tolto tremò di riverente affetto;
E ad atterrarsi gii ratto surgea,
S’ eHa non l’ abbracciava e noi tenca.
Anima bella, disse, e dormigliosa.
diè paventi? clifc miri? I’ son la Luna,
di' a dormir teco in questa piaggia erbosa
Amor, Necessiti guida, e Eortuna.
Tu non tl conturbar : siedi e riposa ;
E nel silenzio della notte bruna
Pensa occultar 1’ ardor eli’ io ti rivelo.
Od ispcrimcntar l' ira del Ciclo.
0 pupilla del mondo, in cui la face
Del Sol s’impronta, pastorello indegno
Son io, disse il garzon : ma se ti piace
Trarmi per grazia fuor del mortai segno.
Vivi sicura di mia fò verace :
E questo bianco vcl te ne sia pegno,
Cli' a mia madre Calice Etlio gii diede
Mio padre in segno aneli' ci della sua fede.
Cosi dicendo, un vcl candido schietto,
Clic di gigli , di perle era fregiato,
E'I tergo in un gli circondava c 'I petto
Ciò dalla spalla destra al manco lato.
Porse In dono alla Dea, ch'ogni rispetto
Cii spinto avea nel cor tutto infiammato :
E come fior clic ianguc allor eh’ agghiac-
Si lasciava cader nelle sue braccia, [eia,
Vite cosi non ticn legato c stretto
L'infecondo marito olmo ramoso;
Nò con si forte e si tenace affetto
Striglie l' edera torta il pino ombroso :
Come strigncansl I’ uno all' altro petto
Gli amanti accesi di desio amoroso.
Saettai au le lingue intanto li core
Di dolci punte che temprava Amore.
Cosi, mentre vezzosi atti e parole.
Guardi, baci, sospiri e abbracciamenti,
Eacean dolcezze inusitate c sole
Agli amanti gustar lieti e contenti :
Levò la Diva l'uno e l'altro sole.
Accusando le stelle e gli elementi;
Poiché con tanti c con si lunghi errori
Seguile avea le ficrc,e non gli Amori.
Misera me, dlcca, quanl'error presi
Quel di ch'io presi l’arco e’i bosco entrai !
Quant'anni poscia ho consumati e speri,
Che di ricoverar non spero mali
0 passi erranti e vani c male intesi.
Come al vento vi sparsi e vi gettai !
Quaul' era meglio questi frutti corre,
Cli’ a rischio il piò dietro alle belve porre.
Or conosco il mio fallo e farne ammenda
Vorrei poter ; ma ’i Gel non mel consente :
Restami sol, che dei futuro i' prenda
Pcnsier, di cui mai più non sla dolente.
Però l'aria , la terra e 'I mare intenda
Quel che di terminar gii fisso ho in mente:
LA SECCHIA RAPITA. 2*7
E la legge eh’ io fo, duri col Sole
Sovra me stessa e la femminea prole.
10 stabilisco che non copra il cielo,
Ch’io governo, mai più femmina bella,
(Eccetto alcune poche ch’io mi celo.
Che Den di me maggiori e d'ogni stella)
Che sopporti con casto c puro zelo
Finir la vita sua d’ Amor ribella,
E che stia intatta di si dolce alletto,
Se non mentitamente, o al suo dispetto.
Yolea l’orbo seguir come dolente
Tornò la Dita alla sua bella sfera :
Se non clic lo mirò di sdegno ardente
Renoppia, e in voce minacciosa c altera:
Accecalo degli occhi c della mente,
Brutta clTig<'c, gli disse, anima nera,
Va, canta alle puttane infami c sciocche
Queste tue vergognose filastrocche.
Esc vuoi ch’io Cascoli!, o clic il tuo canto
Ritrovi adito più per queste porle ;
Cantami di Zenobia il pregio c ’l vanto,
0 di Lucrezia l' onorata morte.
Il cieco allor stette sospeso alquanto;
Poscia in tuono di guerra assai più forte
L’ amor di Sesto c gli empj spirti ardenti.
Incominciò a cantar con questi accendi
11 re superbo do’ romani croi
Alla reggia di Turno il campo area;
E con fanti e cavalli c servi c buoi
Di trincìcre e di fosse ci la cingea.
Eran con lui tutti i figliuoli suoi,
E quivi si mangiava e si bevea
Con gusto tal, che ’l dì di San Martino
Bebbero in sette un caratei di vino.
Finito il vin, nacque fra lor contesa,
Chi avesse moglie più pudica a lato.
E perdi' ognun volca per la difesa
Combatter della sua nello steccato;
Per diffinir la strana lite accesa,
Di consenso cornuti fu terminato
Di montar sulle poste allora allora,
E andarsene a chiarir senza dimora.
Non s'usavano allor staffi: nò selle;
E quei signor con lauto vino in testa
Correndo a lume di minute stelle,
Ebbero a rimaner per la foresta.
Chi perdi il valigino e le pianelle,
Chi stracciò per le fratte la pretesta.
Chi rese 11 vino per diversi spilli,
E chi arrivò facendo billi biffi.
Era con lor Tarquinio Collatino,
Che la moglie Lucrezia avea a Collazia.
Ei non era fratcl, ma consobrlno,
E lor parente di cognome e grazia.
Tutti in corte smontar sul Palatino,
E le mogli trovar per lor disgrazia,
Clic foco inculoavean piti ch'uri Lucifero,
E stavano ballando a suoli di pillerò.
Fecero una moresca a mostaccioni.
La più gentil che mai s' udisse In corte;
E trovate al eamniln starile c capponi,
Verso Collazia ne portar due sporte.
Giunti cola, di spranghe c di stangoni
D’ogni parte trovar chiuse le porte,
F. bussaron più volle ali’aer bruno,
Prima clic desse lor risposta alcuno.
Una schiavetta alfine in capo a un’ora
Affacciatasi a certe balestriere,
E spinto un muso di lueerta fuora,
Disse : Chi bussa là? non c’ò messere.
C’ è pur, rispose II Collatino allora :
Venite a basso, e vel farem vedere.
Riconobbero I servi a quelle voci
Il padrone, c ad aprir corser veloci.
Lucrezia venne ili sala ad incontrarlo
Con la conocchia senza servidori.
Tutta lieta venia per abbracciarlo;
Ma vedendo con lui tanti signori,
Trasse il pennecchio, chè v olea occultarlo,
E dipinse il bel volto in que’ colori
Ch’abbclliscon la rosa; e fc' chiamare
Le donne sue che stavano a filare.
DI consenso comiin la regia prole
Diede il vanto a costei di pudicizia.
Dormiron quivi, e allo spuntar del Sole
Ritornarono al campo c alla milizia.
Ma la bella sembianza e le parole
Rimasero nel cor plcn di nequizia
Del fiero Sesto, un de' fratelli regj,
E le caste maniere c gli atti egregj.
Onde il di quinto ripassando il monte
Tornò a Collazia sol là dov’ ella era;
E giunto all' imbrunir dell' orizzonte,
Disse ch’ivi alloggiar volea la sera.
I.a bella donna, non pensando all’onte
Ch’ el preparava, gli fe' lieta cera.
La notte il traditor saltò del letto,
E alla cantera sua corse In farsetto.
E la porta gìtlò mezzo spezzata,
Entrando col pugnai nella man destra.
Quivi una vecchia che domila corcata
In un letto di vinco c di ginestra,
Incominciò a gridar da spiritata :
Ond’cì la fe’ balzar per la finestra;
Ed a Lucrezia che facca schiamazzo,
Disse: Mettili gìuso, o ch'io t’ammazzo.
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Jg8 POEMI
A questo dir chinò Renoppia bella
Prèstamente la man con leggiadria,
E si trasse di piede una pianella :
Ma l'orbo fu avvisato, c fuggi via.
EROICOMICI.
S’ alzarmi que' signor ridendo; ed ella
Gli ringraziò di tanta cortesia,
E con maniera signorile c accorta
Gli andò ad accompagnar fino alla porta.
CANTO UNDEC1MO.
Il conte di Culagna entri in furore
E sfida a duellar Titta prigione;
Ma sciolto che lo vede ei perde il core
E cerca di fuggir dal paragone.
Vi si conduce alfine e perditore
Un nastro rosso il fa della tenzone. . . .
Poiché la fama alfin con mille prove
Mostrò l’ infamie sue scoperte al conte,
E gli fece Tedcr come si trovo
Con la corona d' Atteone iti fronte :
(lontra la moglie irato In forme nuovo
SI volse a vendicar l’ Ingiurie e l’ onte :
E per farla morir con vituperio.
L’accusò di veleno e d’adulterio.
Per lutto il campo allor si fc' palese
Quel ch'era prima occulto, o almeno in for-
La donna francamente si difese, [se.
E le querele in lui tutte ritorse :
E fe' rider ognun, quando s’ intese
Coni’ ella seppe al suo periglio opporsc,
E il’ inganno pagar l’ ingannatore,
Ch' ebbe poscia a cacar l’ anima e ’l core.
Il conte che si vede andar fallato
Contra la moglie il suo primicr disegno,
Pensa di vendicarsi in altro lato,
E volge contra Titta ogni suo sdegno.
Sa che per ritrovarsi imprigionato,
Per forza ha da tener le mani a segno.
Lo chiama traditor solennemente,
E aggiugne che se ’l nega, ei se ne mente :
E che gliel proverà con lancia e spada
In chiuso campo a pubblico duello :
E perché la disfida attorno vada,
La fa stampar distinta In un cartello:
E vantasi d'aver trovata strada
Da non poter in qualsivoglia appello
D'abbattimento, o giusto o temerario,
Sottoporsi al mentir dell'avversario.
Ma gli amici di Titta avendo intesa
Ijl disfida, s’ unirò in suo favore,
E feron si, che la sua causa presa
E terminata fu senza rigore.
Anzi, pcrch’ci serviva in quella impresa
Contra Bologna c 'I papa suo signore,
Fu scarcerato conte Ghibellino,
Senza farli pagar pur un quattrino.
Sciolto clt’eì fu, rivolse ogni pensiero
Alla battaglia pronto e risoluto.
Preparò l'armi, c preparò il destriero.
Né consiglio aspettò, né chiese aiuto.
Poco avanti da Roma un rav alierò
Nel campo modancsc era venuto.
Di casa Toscanella, Attilio detto,
E fu da lui per suo padrino eletto, [lo,
Questi era un tal picchi pronto ed accor-
Inventordi facezie e astuto tanto,
Clic non fu mai Giudeo si scaltro c scorto.
Che non perdesse in paragone il vanto.
Uccellava i poeti, e per diporto
Spesso u’avea qualche adunata accanto ;
Ma con modi si lesti c si faceti,
Che tutti si parlimi contenti e lieti.
In armi non avea fatto gran cose :
Però ch’iti Roma allor si costumava
Fare alle pugna, e certe bellicose
Genti il governator le castigava.
Ma egli ebbe un cor d'Orlando, e si dispose
D'ire alla guerra, perché dubitava
De’ birri, avendo in certo suo accidente
Scardassata la tigna a un insolente.
Il conte allor che vide al vento sparsi
Tutti I disegni e ’1 suo pensier fallace,
Cominciò con gli amici a consigliarsi.
Se v'era modo alcun di farla pace.
Vorrebbe aver taciuto e ritrovarsi
Fuor della perigliosa impresa audace :
Cbé sente il cor clic teme e si ritira,
E manca l' ardimento in mezzo all' ira.
Ma il conte di Micelio e 'I Polta stesso
E Gherardo e Manfredi e ’l buon Roldano
Gli furo intorno, c’I vituperio espresso,
Dov' ci cadea, gli fcr distinto e piano.
Indi promiser tutti essergli appresso
E la pugna spartir di propria inano.
Ond'ei riprese core, e per padrino
S' elesse il conte di San Valentino.
I.A SECCHIA RAPITA. ?*>
Questi, che nella scherma a vca grand'ar-
Subito gl’ Insegnò colpi maestri [te,
Da ferire II nemico in ogni parte,
E modi da parar securi e destri.
Indi riride l' armi a parte a parte
Del cavaliero e I guernimcnti equestri.
Ma un petto sema cor, che l’ aria teme.
Non l’armerian cento arsenali insieme.
La notte alla battaglia precedente
Che trai due cavalier seguir dovea.
Volgendo il conte l' affannata mente
AI periglio mortai ch’egli correa :
Ricomincio a pensar tutto dolente
Di noi voler tentar, s’egli polca.
Einnami l’alba I suol chiamo fremendo,
Un gran dolor di ventre aver fingendo.
IJ padrin clic dormia poco lontano.
Tutto confuso si destò a quell' atto.
Con panni caldi e una lucerna in mano
Bertoccio suo scudier v’accorse ratto :
E ’l barbier della villa c ’l sagrestano
Di Sant’ Ambrogio v’ arrivavo a un tratto :
E ’l provvido barbier di' intese il male,
Gli fe' subitamente un scrviziale :
Ed egli, per non dar di sò sospetto,
Cheto sei prese c si mostrò contento.
Ma fingendo che poi non fesse effetto,
Nò prendesse il dolor aileggiamcnto.
Chiamò gli amici e i servidori al letto,
E disse che volea far testamento :
Onde mandò per Mortalin notaio,
Che venne con la carta e ’l calamaio.
La prima cosa lasciò l'alma a Dio :
E lasciò ’l corpo a quell' eccelsa terra
Dov’era nato : e per legato pio
Danari in bianco, e quantità di terra.
Indi tratto da folle c van desio
A dispensargli arredi suoi da guerra,
Lasciò la lancia al re di Tartaria,
E lo scudo al soldan delia Soria ;
La spada a Federico imperatore,
Ed al popol romano il corsaletto :
Alla rcina del mar d’ Adria, onore [letto ;
Del secol nostro, un guanto c un braccia-
L’ altro lasciolio alla citta del fiore,
E al greco imperator lasciò l' elmetto ;
Mailcimiercbe portar solca in battaglia,
Ricadeva al signor di Cornotaglia.
Lasciò !' onore alla cittì del Polla,
Poi fe’ del resto il suo padrino erede.
D'intorno al letto suo s’ era ridotta [de.
Gran turba Intanto, chi a seder, di' in pie*
Fra' quali stando il buon Roldano allotta,
Che non prestava alle sue elance fede,
Gli diceva all' orecchia tratto tratto :
Conte, tu sci vituperato affatto.
Non vedi che costor l' han conosciuto
Che per tema tu fai dell'ammalato?
Salta su presto, e non far più rifiuto;
Chè tu svergogni tutto il parcntalo.
Noi spartiremo e ti daremo aiuto
Subito che l'assalto è incominciato.
Il conte si rìstrigne e si lamenta,
E si vorria levar : ma non s’attenta.
Di tenda in tenda intanto era volata
La fama di quell'atto : e ognun rldea.
Rcnoppia, che non era ancor levata,
Un paggio gli mandò, che gli dicea
Che stava per servirlo apparecchiata,
E accompagnarlo in campo, e ben credea
Ch'egli si porterebbe in tal maniera,
Ch'ella n' avrebbe poscia a gire altiera.
Quest’ambasciata gli trafisse il core,
E destò la vergogna addormentata :
E cominciavo in lui viltà ed onore
A combatter la niente innamorata.
S’ alza a sedere, c dice clic ’l dolore
Mitigato ha il favor della sua amata;
E s’adatta a vestir; ma la villade
Finge che ’l dolor torni, c giù ricade :
E la pittrice già dell' Oriente
Pcnnclieggiando il elei de' suol colori,
Abbelliva le strade al di nascente,
E Flora lo spargea di vaghi fiori ;
Quindi usciva del Sole il carro ardente,
E di raggi e di luce e di splendori
Vestiva l' aria, il mar. la piaggia e’i monte,
E la notte cadca dall' orizzonte.
Quando comparve il conte di Miccno
Col mcdlro Cavalca in compagnia.
Il medico all’ orina in un baleno
Conobbe il mal clic l'infelice aria :
E fattosi recare un fiasco pieno
Di vecchia e (liticata malvagia.
Gliene fece assaggiar tre gran bicchieri!
Ed el pronto gii belibc c volentieri.
Cominciò il vino a lavorar pian piano
E a riscaldar 11 cor timido e vile,
E a mandar al cervcl più di lontano
Stupido c incerto, il suo vapor sottile :
Onde il conte gridò eli’ era già sano,
Clic'l dolor gli avea tolto il viu gentile;
E balzando del letto I panni chiese,
E tosto si vesti l’usato arnese.
Indi tratto fremendo il brando fiera.
Tagliò /.e diro in pezzi c l' aura estiva ;
13
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POEMI EROICOMICI.
E se non era il suo padrino, allora
Alla battaglia sena’ altr’ armi ei gira.
L'almo liquor che i timidi rincora,
Puotc assai più, che la virtù nativa.
Ben piofetò di lui 1* antica gente.
Ch'era sovra ogni re forte e possente.
Onnenlre s'anna, ecco Renoppìa viene,
E *1 coraggio gli addoppia e la baldanza ;
Che con dolci parole e luci piene
D’amor, gli fa d* accompagnarlo istanza.
Egli, che ’l foco acceso ha nelle vene.
Commosso da desio fuor di speranza
E da furor di vino, ambo i ginocchi
A terra inchina e dice a que* begli occhi :
0 del ciclo d’ Amor ridenti stelle.
Onde della mia vita il corso pende ;
D' amorosa fortuna ardenti e belle
Ruote, dove mia sorte or sale or scende;
Immagini del Sol; vive facile
Dì quel foco gentil che Palme Incende;
Il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
Ogn’ intelletto abbaglia, arde ogni core.
Occhi deli’ alma mia, pupille amate.
Lucidi specchi, ove beltà vagheggia
Sè stessa ; archi celesti ond’ infocate [già.
Quadreila avventa Amor ch’in voi guerreg-
Delie vostre sembianze, onde il fregiate.
Cosi splende il mìo cor, così lampeggia ;
Ch’ei non invidia al eie! le stelle sue.
Benché sian tante, c voi non più che due.
Come ai raggi del Sole arde d'amore
La Terra e spiega la purpurea veste;
Così a’ vostri be' raggi arde il mio core,
E di vaghi pensier tutto si veste.
Quest' alma si solleva al suo Fattore,
K ammira in voi di quella man celeste
Le meraviglie; dal mortai si svelle,
0 degli occhi del cicl luci più belle.
Rimiratemi voi con lieto ciglio
Del cieco viver mio lumi fidati :
Siate voi tcstimonj al mio periglio,
E scorgetemi voi co* guardi amati :
Ciiè fìa vana ogni forza, ogni consiglio :
Cadrà l'empio e fello» ne' propri aguati ;
E non clic di pugnar con lui mi caglia.
Ma sfiderò I* inferno anco in battaglia.
Cosi dello risorge c il destrier chiede.
Tutto foco negli alti c ne’ sembianti,
E fa stupire ognun che l’ode e vede
Si diverso da quel ch'egli era innanti.
Ma Titta armato già dal capo al piede
Con armi c piume nere e neri ammanti
In campo era comparso accompagnato
Dal solo suo padrin seni’ altri aitato/'
La desiosa turba intenta aspetta
Che venga il conte e mormorando freme:
S’ empiono i palchi intorno, e folta estratta
Corona siede in su le sbarre estreme;
E dai casi seguiti ornai sospetta
Che il conte ceda ; e la sua fama preme.
Quando a un tempo s'udir trombe diverse
Da quella parte, e ’l padiglion s'aperse.
Ed ecco da cinquanta accompagnato
De’ primi dell’esercito possente
Il conte comparir nello steccato
Con soprav vesta bianca e rilucente
Sopra un cavai pomposamente armate,
Che generato par dì foco ardente :
Sbuffa, anitrisce, il fren morde e ta terra
Zappa col piede, e fa col vento guerra, [to.
Disarmata ha la fronte, armato ha il pel-
Nude le mani; e sovra un bianco ubino
Gii va innanzi Renoppia, e ’l ricco elmetto
Gli porta,e’l buon Gherardo il brando fino,
11 brando famosissimo c perfetto [drillo :
Di don Cliisdotto, e ’l fodro ha il suo pa-
lla V olnce lo scudo, e seco accanto
Roldan la lancia, e Giacopino un guanto.
L'altro ha Bertoldo; c l’uno e l'altro spro-
G li portano Lanfranco c Galeotto ; [ne
E ’l conte Alberto in cima d’un bastone
l.a cuffia da infodrar Telmo di sotto:
Ma dietro a tutti fuor del padiglione
L’interprete Zannili venia di trotto
Sovra d’un asinel portando in fretfa
L’orinale, un’ombrella c una scopetta.
Armato il cavaiier di tutto punto,
E compartito il suolo ai combattenti, [to
Diede il segno la tromba, c tutto a impari-
si mossero i destrier come duo venti.
Fu il cavaiier rornan nel petto giunto;
Ma Tarmi sue temprate e rilucenti
Ressero ; e ’l conte a quell’ incontro strano
La lancia si lasciò correr per uiano.
Ei fu colto da Titta alia gorgiera.
Tra il confili dello scudo e dell* elmetto ,
D’ una percossa si possente e fiera,
Clic gli fece inarcar la fronte e ’t petto.
Si schiodò la goletta, e la visiera
S’aperse, e diede lampi il corsaletto.
Volaro i tronchi al cwd dell’asta rotta,
E perdi* staffe e briglia il conte allotta.
Caduta la visiera, il conte mira,
E vede rosseggiar la snpravvesta;
E cimi* sou morto, grida, e ’l guardo gira
Agli scudieri suoi con faccia mesta :
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LA SECCHIA RAPITA. ?91
Aita, chè già '1 cor l’ anima spira,
Replica in voce fioca, aita presta.
Accorrono a quel suoi) cento persone,
E mezzo morto il cavano tT arcione.
H portano alla tenda, e sopra un letto
Gli cominciano l'armi c i panni a sciorrc.
Il chirurgo cavar gii fa l' elmetto,
E il prete a confessarlo in fretta corre.
Tutti gli amici suoi morto in HTclto
Il tengono, c ciascun parla c discorre,
Che non era da porre a tal cimento
Un uom privo di forza c d’ardimento.
Ma Titta, poi clic l’ avversario vede
Per morto riportar uclic sue tende, [de
Passeggia il campo a suon «li trombe, e rie-
Dove la parte sua lieta l' attende:
Fastoso è si, clic di valor non cede
A Marte stesso, e dell’ arcion discende ;
E scrive, pria die disarmar la chioma,
E spedisce un corriera in fretta a Roma.
Scrive eh' un cavalicr d'alto valore
Di quelle parti, uom tanto prindpalc.
Che forse non ve n' era altro maggiore.
Nò eh' a lui fosse di possanza eguale.
Avuto avea di provocarlo core,
E di prender con lui pugna mortale;
E eh' esso degli eserdti in cospetto
Gli avea passato al primo incontro il petto.
Spedi il corriera a Gaspar Salviani
Decan dell’ accademia de’ Mancini ,
Chè ne desse 1’ avviso ai Frangipani
Signor di Neuii , c ai loro amid Ursini ,
E al cavalier del Pozzo , e ai due romani
Famosi ingegni il Cesi e'i Cesar ini :
Ma sopra tutti ai priucipe Borghese,
E a Simon Tassi di Pavul marchese.
Clic tutti disser poi , eli’ egli era matto,
Quando s’ intese dò eh' era seguito.
Intanto avean spogliato il conte affatto
Dai terror della morte instupidito ,
E gian cercando duechirurgi a un tratto
Il colpo, onde dicea d’ esser ferito ;
Nò ritrovando mai rotta la pelle ;
Ricominciar le risa c le novelle
Il conte dicea lor : Mirate bene.
Perchè la sopravvesta è insanguinata :
E non dite cosi per darmi spenc :
Chè già l’ anima mia sta preparala.
Venga la sopravvesta : c quella viene.
Nè san cosa trovar di clic segnala
Sia , nè eli' a sangue assomigliar si possa.
Eccetto un nastro, o una fettuccia rossa
CIP allacciava da collo, c sciolto s' era,
E pendea giù per fino alla cintura.
Conobbcr tutti allor distinta c vera
La ferita del conte, c la paura.
Egli accortosi aitili di clic maniera
S' era abbagliato, 1* ha per sua ventur»,
E ne ringrazia Dio, levando al Ciclo
Ambe le mani c T cor con puro zelo :^do,
E a Titta , e alla moglier sua perdonati-
si scorda i falli lor sì gravi e tanti,
E fa volo d’ andar pellegrinando
A Roma a visitar que’ luoghi santi ,
E dar intanto alla milizia bando
Per meglio prepararsi a nuovi vanti.
Così il monton che cozza, si ritira,
E torna poi con maggior colpo ed ira.
Ma come a Roma poi gisse , e trattasse
In camera col papa a grand' onore ,
E l'alloggio per forza ivi occupasse
Nell'albergo reai d' un mio signore;
E quindi poscia in Bulgaria levasse
Con la possanza sua , col suo valore
A quel becco del Turco un nuovo stato,
Fia da più degno stil forse cantalo ;
Chè versi uou ho io tanto sonori ,
Che bastino a cantar sì belle cose ;
E torno a Titta , che già uscendo fuor!.
Poiché alla teuda sua 1* armi depose.
Pel campo se ne già sbuffando orrori
Con sembianze superbe c dispettose.
Quando accertato fu die la ferita
Del conte, nel cercar s'era smarrita.
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POEMI EROICOMICI.
MI
FORTIGGERRL
RICCIARDETTO.
CANTO TERZO.
Furali Tacconi» la su* conTCraione.
Finito U prego , Rinaldo gli disse :
Chi siete, padricello? Ed ci : Non posso
Dirlo a veruno ; ed ho fatto più risse
Per occultarmi : e qui si fece rosso.
Rinaldo aveva in lui le luci fisse ;
Nt al buon Rinaldo levava d' addosso
Il romito le sue : e In questa guisa
Stato un poco , poi dledcr nelle risa :
Ed esclamando il slr di Montalbano
Disse La volpe suol Ire a Loreto.
Ferrali frale ? Ferraù Pagano?
Deh sciframi per Dio questo segrelo :
Ch* io non so se mi sia in monte o In piano,
In una cella, o pur ’n un sughereto :
Tu col cappuccio e con la fune ai fianchi ?
Tu Ferraù percolitor de’ Franchi?
Ma se tu sei del buon umor di pria ,
Costerà caro a queste pastorelle
Cercar funghi , o passar per questa via ;
Elie se avesser di piombo le gonnelle ,
Tu le alzaresli con gran leggiadria.
Lo san di Francia le madamosellc,
Che furo il segno della tua lussuria ;
Onde ora v'è di vergini penuria.
Rinaldo mio, io son già mortoal mondo,
E più non penso a queste porcherie
Che danno gusto, ma mandano al fondo
Del bruito inremo, ove son altre arpie
Che quelle del cui sangue festi immondo
Il vicin monte : v’ en bestie più rie :
( Rispose Ferraù modesto in viso ; )
E i lascivi non vanno in paradiso.
Io questo ben sapea , di' era tantino ,
E il numero dìcea delle peccata ,
Onde il maestro davanti il santino
( Disse Rinaldo) ; ma tu qual chiamata
Avesti per passar da Saracino
Alla greggia di gente battezzata?
Kd egli a lui : La storia è un po'lungbctta ;
E Rinaldo : Di pur ; citò non Ito fretta.
Ma meglio fia che noi mangiamo un poco»
Avanti che cominci il tuo racconto.
Ferrtù disse : Io non accendo foco.
Vino non bevo e non mangio dell' orno
E la spesa risparmioml del cuoco :
Con lo digiuno le mie colpe sconto :
Ma se vuoi fichi secchi ed uva passa,
lo n' ho di molti dentro a quella cassa.
Già die tu non hai altro , io ntangerù
E l’ uva e I fichi , amato Ferraù ;
E a' piedi della cassa si assettò :
E il frate con le man fece Gesù ,
Benedicendo il cibo : e divorù
Rinaldo si, che nella cassa più
Da mangiar non rimase : e fuor po' uscì,
E bevve a un fonte eh' era su di il :
E quindi ritornato nella cella :
Orsù, comincia adesso la tua storia,
CM mi figuro che voglia esser beila.
Ed egli per svegliarsi la memoria
Grattossi il capo , e scosse le cerrella ,
K disse : Sia di Dio tutta la gloria ;
Che tutta è grazia sua, tutto è suo dono.
Se quel che un tempo fui, or più non sono.
Hai dunque da saper , forte Rinaldo ,
Clie tanto c si d' Angelica mi accesi ,
Clic non fu ferro al fuoco mai si caldo ,
Quanl' io era , sua mercede. 0 male spesi
Pianti e sospiri ! 0 mal costante e saldo
Amor , per cui lo mio Fattore offesi !
Ma il fatto k fatto , e non si può disfare :
E spero ili Dio die n' abbia a scordare.
Feci per lei (se ben te ne sovviene)
E teco c con altrui, battaglie strane;
Ed uccisi tanti uomini da bene,
Che a narrarli non liaslan settimane :
Ma la crudcl non volscmi mai bene,
E strapazzoninii sempre come un cane :
Alfin fuggissi in India con Medoro;
Clic quando il seppi, io caddi di martoro :
F. mi prese lai voglia di morire,
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RICCIARDETTO. }jj
E terminar cosi la mia disgrazia,
Cile nel Cattai mi risolsi d'ire,
E coli guadagnarmi o ia sua grazia
Con le belle opre e col lungo servire,
0 disperato in One lei far sazia
Del sangue mio : c cosi stabilito,
Vo cercando di navi In ogni lito.
lina ne trovo al porto di Valenza ,
Che andava proprio al regno di Cattai,
E conduceva quantilade immenza
D'uomini e donne e d'altre cose assai.
Il nocchiero mi accorda la licenza
Di salir sopra ; e il notilo fermai :
Il di dipoi si sciolsero le vele,
E il mare or fu benigno , ora crudele.
I tuoni , le procelle e le tempeste
Non ti so dire ed i mortai perigli ;
Ma per me tutte erano gioie e feste ,
Chè aveva di morir mille consigli :
Esse talora ni’ erano moleste ;
Chè ricreare un’altra voltai cigli
Avrei voluto col mirar quel viso
Gite mi pareva proprio un paradiso.
Nè nulla ti dirò dei Acri mostri
Che vanno errando per quelle marine :
Non sono punto somiglianti ai nostri
Che hanno più teste e più pungenti spine :
K le balene che pe’ mari vostri
Sembran grandi , appo lor son piccollne :
Basti di dir, che spesso ih riesce
Equivocar tra un' isola ed un pesce.
Un di, che irato il tridentier Nettuno
Tentò rapirci nel suo sen profondo,
Cozzò la nostra nave all* aer bruno
’N un’ isola , e si aperse, e quasi al fondo
Ella ebbe a andare ; e ne temette ognuno.
Scendemmo In terra.ed’ognl grave pondo
I.’ alleggerimmo e rassettammo appresso.;
E più di stemmo in su quel luogo stesso;
E come si costuma , immenso foco
Si accese per cibar tanta genia.
Che scesa dalla nave era in quel loco :
Quando ecco I' (soletta che va via,
E ia nave va seco ; c a poco a poco
Ci aceorgiam come cosa viva sia.
Per entrar nella nave ognun si affolla,
E pel timor chi affoga c chi si ammolla.
Dopo due ore di ravvolgimento
L’orca spietata d mostrò la fronte,
E poi I* immensa bocca e il brutto mento,
Alta e larga cosi , clic arco di ponte
Non vidi mai (e n’ ho visti da cento
Sulle fiumane più famose c conte)
E di sopra c di sotto acuti e spessi
Denti ella aveva a guisa di cipressi.
Il nostro capitan disse : Siam morti :
Ecco die lutti ella c' Ingolla crudi :
Nè v' è chi ci difenda e ci conforti :
Chè qui non sorvon nè lande, nèscudi,
Nè cavalieri generosi e forti.
0 coperti di maglia , o affatto ignudi.
In un boccone, in un serrar di bocca
Nei suo gran ventre la nave trabocca.
In questo mentre a guisa di ranocchio.
Presa un' antenna in man , gli salto sopra
La lesta , e gliela pianto in mezzo a un oc*
L’orca per lo dolor urla, e s’ adopra [cbio.
Di trarsi fuor quel fcmbo di finocchio;
Ma lo non perdo mica il tempo c l'opra;
Ne prendo un’ altra , e fo il medesimo atto,
E ia bestia crudele acdeco affatto.
Cosi ci liberammo quella volta:
Or vedi come son quei pesci grossi.
Giunsi in fine al Cattai e in fretta molla
In verso di Baldacca il piede io mossi :
Baidacca , dove ogni bellezza è accolta
Che feo tanti terren di sangue rossi:
Tanti erano i desii , tante le voglie.
Che aveva ciaschedun di averla in moglie.
Entro in Baidarca , e trovola dogliosa
Per la morte del prindpe Medoro ;
E la sua corte oscura e tenebrosa :
DI Angelica dimando ad un di loro :
E' mi risponde com’è lacrimosa,
E come strappa i suol capelli d’ oro,
E come chiusa in solitaria stanza
Odia ogni festa, ogni gioia, ogni danza.
Ma che il suo vecchio padre Galafrone
Pensa a trovarle un novello marito.
Il qual sia in armi un celebre campione!
Perche è signor d' un popolo infinito.
Ed ha nemici eli' han grosso rognone,
E lo potrebber porre a mal partilo :
E disse die volca spedire a posta
AI conte Orlando, e fargliene proposta.
Risposi : Vanne a Galafrone , e dilli
Che non spenda monete nel corriera :
Che Orlando ha pien la testa ancor di grilli.
Ed è per tutti 1 capi un pazzo vera :
Ma che c’è un tal, che fuora è de’ pupilli.
Perfetto spadaccln, perfetto arciera;
Uom che solo potrebbe e disarmato
Tutto quanto difendere il suo Stato.
Ebbe a scoppiar quell* uomo dalle risa ,
Udendomi parlar di rotai modo ;
Ma pur disse : Farò come divisa
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2M POEMI EROICOMICI.
La lui persona . cbe per franca k> lodo ;
Ma non se poi se nella stessa pulsa
L’ apre saranno alle parole che odo :
Tota un (a la vigna pampinosa ;
E 11 dire e il far non son la stessa cosa.
le, cbe mai non conobbi pazteuaa ,
Ut so’ clic mi si replichi parola ,
Vedendo che al mio dir poca credenza
Mostra colui , lo prendo per la gola.
E gliela stringo con tanta potenza ,
Cbe I* alma dei meschin tosto sen vola.
Cene tutta la piazza a questo fatto,
Ciri son sopra più di mille a un tratto.
lo con quello strozzalo aurora in mano
la giro a tondo, e mi faccio far lato;
Poi lo scaglio da me tanto lontano,
Che Calafron , eh* era al balcone andato,
Udendo quel tumulto cosi strano,
Ebbe a restarne quasi sfragellato :
E lo spezzava appunto come un vetro:
■a lo colpi con le parti di dietro :
E disse : Corpo del nostro Apollino,
Chi fa volar sì in alto le |>ersonc ?
Non soffia già Scirocco nè Garbino,
Nè gli «omini son foglie o polverone
Ghe facciano per V aria il lor cammino :
E mancia in piazza il duca del Cordone,
Onde s'informi di quella faccenda :
Ed il chirurgo intanto lo rammenda.
Arrivato non era ancora in piazza
Il duca , cbe snudato il fiero brando
Aveva ucciso ormai di quella razza
Più di un migliatole pur feria scherzando:)
Aride slargossi il cerchio e ; ammazza ara-
- mazza ,
Diceano da lontano e ancor tremando.
Il duca nel veder sì gran macello,
Mi to' un saluto e si cavò il cappello :
E disse : Generoso cavaliere ,
Perchè avvilirli con questa canaglia?
La quale , se l* ha fatto dispiacere ,
Non ha viva nè morta, come vaglia
A soddisfarti , siccome è il dovere :
E prega seco clic in palazzo io sagtia ;
K mi assicura che il re Galafronc
Mi vederi con gran soddisfazione.
La cortesia fra l’ armi non disdice
(lo dissi a lui , c rinfodrai la spada).
Fra Unto al re corre un staffieri), e dice.
Come io per girne a lui preso boia strada,
Mafron vietimi incontro, e maledice
Il punto c I* ora nella quale io vada
A ritrovarlo : pur compone il viso,
Meglio che puote , a contentezza e rìso :
E mi abbraccia e mi bacia nella fronte,
E vuol ch'io sieda sotto il baldacchino ;
Nè v’è baron, nè v*è marchese o coste
Che mi parli , se non coi capo chino :
E dettomi di lodi un mare , un monte ,
Mi chiese si i' era Franco, o Saracino :
Saracino risposi : e mon compiaccio,
E adopro per Macon la spada e il braccio.
Quindi gli presi a dir, come a Parigi
Fui qual ci»e tempo, c d* ogni paladino
Provai ic lancio, e vi feci prodigi:
Cbè nè tu, nè il tuo celebre cugino
Abbatter mi poterò, c Maìagigi ,
Ancorché avesse i diavoli in domino.
In fin gli dissi come Amor mi prese
Della sua figlia , e di lei in cor mi aocere :
E eh’ appunto venuto era al Cattai
Per vederla di nuovo c poi morire ;
E in ciò dicendo , di pianto bagnai
Le gote, c fei quel vecchio impietosire;
Talché mi disse : Forcslier, che hai?
D’ ogni male si può sempre guarire ,
Toltane morte : però ti consola,
Chè per moglie arerai la mia figttaoia.
E con essa to' darti in dote il regno ;
Giacché Lucina l’altra figlia mia
Da noi fuggendo fece un atto indegno.
Rinaldo disse alior : Non molta sia
É ila noi lunge , e consorte ben degno
Ha seco, e sono bella compagnia :
E tutta a lui narrò la varia Istoria
Dì quegli amanti, degna di memoria.
Poi gii disse : Ripiglia 41 tuo racconto :
Chè 1* ora passa c U moccoi si consuma.
Rispose Ferraù : Sempre son pronto :
E se questo si estingue , altro si alluma :
Cbè di cera non tengo mollo conto.
Ho di molte api; e nell’ orrida bruma.
Quando l’aria è più fredda c piu crudele,
lo mi diverto in far delle candele.
Ferrali, tu mi fai strasecolare
(Disse Rinaldo, e si battè sull' anca)
Tu prima non volevi che trescare
In bordelli c in taverne, esulta manca
K sulla dritta, ed in giro trottare ;
Ed or ti inetti a far la cera bianca?
Ma tu non mica puoi durare assai;
Chè il pel si cangia, e *1 costume non mai.
La grazia del signor qui mi tien forti*.
Ma ritorniaino ai nostro Gaiafnone,
Clic mi vuol dar la figlia per consorte.
Quando egli tanta grazia mi propone.
RICCIARDETTO. 20S
Mi diè per lo piacer quasi la morte;
E feci sul terreno un stramazzone.
Che fui creduto morto : ma l>en presto
Ritornai in piede vigoroso e lesto.
intanto egli spedito alla sua figlia
Aveva un messo , acciò venisse in fretta :
Quando che io vedo (orara maraviglia !)
Farsi P aria più quieta e più perfetta,
E splender tanto, che strigner le ciglia ,
Per non vederla , P alma fu costretta :
Alfin le apersi , c le apersi in quel punto
Che il boli’ idolo mio era li giunto
Non ti so dire quel che parve allora
La bella donna : certo mortai cosa
Non la credetti , c nou la credo ancora :
Sotto un oscuro velo era nascosa ;
Ma di lei parte ne apparia pur fuora ,
Siccome sul mal tin vermiglia rosa ,
Che tutta non si mostra c non si cela,
0 come il Sol che per nube si vela.
Appari s an di fuor la bocca c il mento,
L’eburnea gola c il delicato seno;
Ma il ve] si non copriva il bel di drcnto.
Che fuor non traluccsse il bel sereno
Degli occhi suoi , benché tal poco spento
Dal duolo onde il suo cor era ripieno :
Ma rugiadose ancor , sempre son belle
In cielo le vivaci c chiare stelle.
Ma perchè tcco la beltà di lei
Cerco adombrar, che n’ hai notizia tanta?
In somma riguardandola, perdei
E voce e moto , c rimasi qual piànta
Un di restò sovra il Peneo colei
Ch’ora è mercede a chi gentil più canta:
Volli parlare e non formai parola :
Chè la voce reslommi entro la gola.
Alzalo in fine P odioso velo,
Guardommi c parve serenarsi in parte :
Ma ritornaro tosto in quel bel cielo
Più nuvolette , benché rare e sparte.
Quindi, qual fior che sul nativo stelo
O P aura tocca che d’ Africa parte ,
0 lieve pioggia , od altro avvenimento ,
Che si vede mancare in un momento ;
Cosi, nel veder me, tutte ad un tratto
Le sovveniro le cose di Francia;
E di Medoro suo, di Orlando matto
Rammento rossi e impallidlo la guancia ;
E venne meno in un baleno affatto.
Quasi percossa da colpo di lancia.
In braccio me la reco e la conforto :
E a darsi pane , quanto «o , l’ esorto.
Yengon le donne c la pongono a letto,
E il medico si chiama : e Incontanente
Le tasta il polso, e negli omeri stretto.
Dice : Qui 1’ arte mia non fa niente :
Chè Angelica mi par moria in clTello;
Chè non vede , non ode c nulla sente.
Ciò detto, s’alza un piantosi crudele.
Che fino al ciel nc vanno le querele.
Pensa, Rinaldo mio, come restassi
A quella vista : mi volli ammazzare :
E poco andò che allor non mi gettassi
Da tuia finestra ( e si polca ben fare )
Ch’era alla almeno cinquecento passi ;
Ma Iddio che roteami riserbare
A questa vita santa e luminosa,
Mi mise in lesta un’ altra miglior cosa:
E fu di ritornare al mio paese ;
Giacché Fortuna in’ era sì contraria .
Dunque con Galafronc io piansi un mese;
Poi quando a intiepidir cominciò P aria,
Presi una nave tutta a proprie spese :
Chè andar con gente molta e geme varia.
Mai non mi piacque ; cd al fm salvo c sano.
Un giorno mi trovai sul lito ispano.
Rinaldo riguardandolo in cagnesco;
Gnaffe (gli disse] tu la festi grossa;
Angelica traltolli di Tedesco;
Ch’ella non morì mai: chè bianca e rossa
Vive cd un altro amante ave al suo desco.
Tu mi faresti ritornarla tossa;
(Ferraù gli rispose) e Dio ringrazia ,
Che ho volo di far bene a citi mi strazia.
Senza voto, darrstimi di barba
Due dita e un poco più sotto le reni,
Disse Rinaldo con la faccia sgarba.
E Ferraù : Gli è Cristo, che mi tiene
In pace; onde il demonio uon mi sbarba
Dal mio proposto di farli del bene;
Ma mi faresti il bel soninone
A nou mi porre nell’occasione.
lo non ti levo, e non ti pongo in essa:
( Disse Rinaldo ) ina ve’ dire il vero :
Angelica con tc sempre è la stessa,
E l’ odia più che lepre un cau levriero.
Co testa barba tua sì folta e spessa,
Cotesto viso smunto, giallo c nero.
Colesto corpo voto di carname ,
Ti paion cose da piacere a dame?
S’ una donna trovassi a tc simile.
Che dovessi per forza avere in moglie.;
Seppellir -vivo in mezzo d’ un porcile
Mi farci prima , c patirei altre doglie.
Angelica si bella e sì gentile,
Ove ogni grazia certo si raccoglie ,
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POEMI EROICOMICI.
Avea trovila la bolla ventura ,
A pigliar si terribile figura.
Di pur, fratello mio, eh' io ti perdono :
E presa Ferraù la disciplina ,
Baliesi forte si , che parve un tuono.
Disse Rinaldo: Sino a domattina
Per me seguita pur cotesto suono ;
Ma quella fune * troppo piccolina t
S’ lo fossi In te , o Ferrau beato ,
Mi frusterei con un bei correggiato.
Io ti vorrei corregger con modestia ,
Se si potesse (disse Ferraù ) :
Ma tu sei troppo la solenne bestia;
F, a dirla giusta , non ne posso più.
Disse Rinaldo : Disprezzo e molestia
Sofferta in pace, è grata al buon Gesù ;
Ma tu sei , per la Vergine Maria ,
Romito falso e più briceon di pria.
A quel dir Ferraù gli diè sul grugno
La disciplina sua cinque, o sei volte;
E Rinaldo affibbigli un colai pugno.
Che gli fe’ dar dugeuto giravolte.
Dlcea Rinaldo : Frate , s' io l’ augno ,
Le tue basette non saran più folte.
Ferraù non risponde e Intanto mena
A Rinaldo la frusta in su la schiena.
Prende Rinaldo II frate pel cordone,
E si Io tira , che quasi 1' ammazza.
Un zoccol Ferraù nel peltignone
Scaglia a Rinaldo , e a terra lo stramazza.
Donde sorge e ritorna alla tenzone : [za.
Ma nel mentre che ognuno urla e schiamaz-
S' ode un gran picchio all’uscio della cella.
Che introna a’ combattenti le cervella :
EgridaFerrauttc: Avemmaria;
E mena intanto un pugno al buon Rinaldo.
Gridano ; Aprite , quelli della via :
Nìun si muove, ed in pugnar sta saldo.
Pur Ferraù dall' oste si disvia :
E sbuffando per l'ira e per lo caldo.
S’affaccia al bucolino della chiave:
Poi spranga l' uscio con pesante trave.
E grida : A prir non voglio a gen te arma la.
Risposer quei di fuora : Con le nocca
Questa porta t’ avrem presto sfasciata.
Rinaldo , che ode il frale che tarocca ,
Ogn' Ingiuria da lui presto scordata ,
Apri pur (disse) a questa gente sciocca ;
Chè assai ben presto li farem pentire
Di unta lor baldanza e tanto ardire.
Aperse 11 buon romito; e dentro cntraro
Quattro soldati forti e nerboruti.
Or, belle donne, voi arcstc a caro
Saper chi cn questi, e perchè qui venuti.
Abbiate flemma c non vi sembri amaro,
Se mi riposo ; e se il Signor ci aiuti ,
Nell’ altro Canto voi saprete il tutto ,
Qual forse forse non parravvi brutto.
CANTO VIGESIMO.
Sventura e morte di Ferrati.
Al luogo dove Carlo era alloggiato,
Stava vicino un celebre convento
Di vergini, che quivi d’ogni lato
Venivano di Spagna, ed eran cento.
Nel tempio loro Astolfo fu locato ; [to :
Chè Carlo il vuol dappresso ogni momen-
E riman Ferraù con don Fracassa
E don Tempesta a guardia della cassa.
Le verginelle che II stanno chiuse,
Vanno vestite d'un color modesto.
Non son per voti dalle nozze escluse :
Ma di rado da lor marito è chiesto :
Chè all' ago, al fuso, al ricamar ben use,
A nluna quel loco par molesto.
Escon talvolta e van per lo castello,
E qualche volu ancor fuori di quello.
Quivi del Saracino era una figlia
Bella cosi, che un angelo parca;
Ch’egli ebbe d’una dama di Siviglia,
Allor che mezza Spagna egli reggea.
Nè gii deve recarvi maraviglia,
Come quel luogo ad un Pagan piaeea :
Chè II tener custodite le figliuole
Piace a ciascuno, anzi ciascun lo vuole :
Cbè come nobil pianta giovinetta
Cinge d’intorno II villanel di spine.
Acciocché qualche fera maledetta
Non la guasti col dente, o la ruine;
Cosi donzella iu sua magion ristretta
Star deve, onde nessun se le avvitine :
Chè perduto il buon nome, una fanciulla.
Per bella eh' ella sia, non vai più nulla.
la giovine chiamata era Almerina,
La quale a Carlo con l' altre donzelle
Venne a far riverenza la mattina :
E come appar la Luna iufra le stelle,
0 pur tra’ fior la rosa porporina;
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RICCIARDETTO. M7
Cosi Almerina sì mostrò tra quelle.
SI come il padre gii bruna non sembra ;
Ma pare che dì latte abbia le membra.
Rinaldo, Orlando e il vecchio Carlo an-
In vederla si sentono nel petto [cora
Un non so che, che tutti lì accalora.
Ma Carlo, pien dì senno e dì rispetto,
Spegne quel foco che nasceva allora :
E Orlando, per timor che l'intelletto
Un'altra volta non gli venga guasto.
Al novello desio fece contrasto.
Rinaldo pur, contro sua vecchlausanza,
Non stimò ben di dare esca alla Dammi :
Onde uscita ella dalla regia stanza,
Come levricr che persa abbia la damma
0 lepre, più nel corso non s’avanza;
Cosi coslor non sentono più dramma
DI fuoco : c hencliò sia cotanto bella,
Di Almerina fra lor non si favella.
Ma non così successe a Ferra ulte ;
Chè nel passar clic fece ella pel tempio,
CU arse la carne, i nervi c Tossa tulle;
Sicché fulmine mai non feo tal scempio.
Quando egli cadde sulle paglie asciutte.
Ond'egli pien d' audacia senza esempio
Pensò di trarla da quel loco, e poi
Saziar con essa tutti 1 desir suoi :
E perchè vcslilo era da romito,
Lo lasciavano entrar le giovinette
Nel chiostro loro. 0 povero vestito !
O funi, o chicrche, o barbe maladcltcl
Quanto il mondo da voi viene tradito!
Che credendole mostre pure e schiette
D'anime sante, si fida di loro,
K in mano lor mette ogni suo tesoro.
So ben clic in tanti sacelli c si diversi
Qualcuno è pieno di buona farina;
Ma questi stan ne' chiostri, e non dispersi
Perle contrade. 0 giustizia divina!
Cbi ti tralticn contro questi perversi,
Che non li ammacchi, c non ne fai tonnina?
Ma se non sbaglio, tu vuoi tardar poco
A non mandarli tutti a fiamma e fuoco :
E con essi arderai Tempia avarizia,
E la superbia c la sporca lussuria,
La frode, l'ignoranza e la malizia,
L’ipocrisia c la fraterna ingiuria.
Ed in somma ogni sorte di nequizia
Di clic ì cappucci non bau mai penuria :
E purgato da peste cosi ria,
Il mondo tornerò miglior di pria.
Nò meco v’ adirate, anime sante,
S'io me la piglio con la gente vostra.
Vi giuro per quel Dio die avete arante,
E di sé v' empie e ognora a voi si mostra ;
Che umile baccrei le nude piante
De’ vostri tigli, c bacorei lor chiostra.
Non dico gii se fosser come voi ;
Ma fossero men tristi c meno buoi.
Vede il buon frate adunque che vicina
Ad un grand’ orto di' era la cclletta
Della' leggiadra amabile Almerina;
Onde la notte a' suol disegni aspetta ;
E questa giunta, all'orto s’incammina,
E un piceni uscio spezza con T accetta.
Entra nell'orto, ed alla stanza voia.
Ove ella stava addormentala c sola.
Aperse T uscio, chè mal chiuso egli era ;
E messole una mano in su la bocca,
Con fuga speditissima e leggiera
Con essa in collo fuor dell'orto sbocca
Ed entra in una selva orrida e nera.
Ma questo fatto si l'alma mi tocca,
E si ni' offende, clic lo vo' lasciare
Dentro alla selva, ed al caste! tornare.
Ciò la notte fuggiva a tutta briglia
Con T ombre grate c con T amiche stelle,
E con tutta T oscura sua famiglia :
E giù giù l’alba di rose novelle
S' ornava 11 seno e si Tacca v coniglia ;
E 1 pastor sulle candide scodelle
Poneano il latte, ed in diversi modi
Nc fcauo poi giuncate c caci sodi;
Quando s’alza un rumore pel convento.
Che il simil non crcd’ io che udito fosse
Là del grand'ilio nel comttn spavento,
E nell’ alzarsi delle fiamme rosse.
Onde cenere fessi in un momento;
Da tanto duol, da tanta ira commosse
Fur le donzelle in veder la mattina
Che stata tolta loro era Almerina.
Giuntane a Carlo la trista novella.
Manda gente a cavallo, c gente a piede
Per ogni parte a ricercar di quella.
Ma quando più nel tempio non si vette
Il romitaccio; Orlando monta in sella,
K Usuo cavallo ancor Rinaldo chiede.
Ed enlran nella selva, c stanno attenti
S: odono pianti, o miseri lamenti.
Il buon romito intanto sopra nn prato
I a giovinetta nc'lruzuoli involta
Pone, del gran cammino ornai stancato;
E con voce pietosa a lei si volta.
Fingendo esser afflitto e sconsolato
E le chiede pietà, s' egli T ha tolta
Dal suo convento, e quivi T ha condotta;
J96 POEMI EROICOMICI.
UH- Amor lo spinse a far opra si bruita.
Amore ( le dicea ). bella fanciulla.
Ha più potere In noi, che non si dice.
Egli si prende spasso e si trastulla
Di Giove stesso ; ed or lo fa felice,
Ed or tapino, conforme gii frulla.
Perù ne incolpa lui, come radice
Di tutto il male; e solo lui minaccia,
E a me perdona e come amico abbraccia ;
E mentre cosi parla, e si riposa,
E eoo quel clic far vuole si ristora :
Si sta la verginella vergognosa
E afflitta si, che par che allor sì mora.
Stende il romito la man furiosa
Verso di lei che trema e s' auge e plora ;
Ma in quel punto fatale Orlando arriva,
Che la languida giovane ravviva.
Come quando d’amor tutto divampa
il ceno, e viene alla sua cerva ai anti ; i pa.
Ch'occhio non move, non fronte, non tatù-
Ma in essa ferma tanto I suoi sembianti.
Che il caccia tor, se in lui persone inciam-
Oon la turba de' suoi cani latranti, [pa
Tutu obbliaudo la natia paufa.
Nulla ode, nulla vede c nulla cura ;
Cosi quel romilcllo benedetto
S'era lauto ingolfalo nel piacere.
Che perduta la visue l'intelletto
Non vide aversi sopra il cavaliere.
Che colmo d' ira, per lo collo stretto
Levollo presto presto da sedere,
E presa la donzella In su la groppa.
Strascina II frate evi al castel galoppa
Al meato di sua lucida carriera
Giunto era il Sole -, e le froniute piante
Nao più spargevan la lor ombra nera;
K dei cantare la cicala amante
L’aria stordiva di strana maniera:
E disteso pel bosco e ruminante
SUvasi il gregge : e dibattendo i fianchi
1 cani attorno dal gran caldo slancili : .
Quando rivolta la doniclla al conte.
Lo prega a soffermarsi ; tanto stracca
Si sente, e di dolor colina la fronte;
Che senza posa cerio si distacca [tc
Dal mondo. Orlando, clic le toglie ba pron-
Di compiacerla , il frale a un olmo attacca ;
Indi discende, e sopra un verde prato
Pon la fanciulla, ed ei le siede a lato.
Quindi di tasca tragge un temperino,
E dice alla donzella ; In questo mentre
Che ooi ci difendiam dal Sol vicino.
Io voglio un poco a sto frale valentie
Levar U pelle, e farne un otricioo ;
E se vi pare, ineomhieiar dal ventre.
Fate voi (disse la beila fanciulla ) j la.
Cb* in quantoame, ni' imporla pecco nul-
Qò dello, s'alza, e Ferraù legato
Dispoglia affatto, in fuor delle mutande ;
E dice : Adesso d'ogni tuo peccato
Ti va' far far la penitenza grande :
ChO cosi vivo vivo scorticalo.
Le lue caruaccc saranno vivande
Di barbagianni, di gufi e il’ a! occhi ,
Uve le prime beccale dan negli occhi.
Non v I crediate giù clic il saggio Orlando
Volesse scorticare un cav alieni;
Ma lo diceva il buon uomo scherzando.
In questo mentre rovinoso e fero
Entra uri prato col fulmìneo brando
Rinaklo, e li si ferma col destriero.
Dove si stava il signore d’Anglante
Col ferro in roano al frale ignudo avantc.
E tosto grilla : Forse questo è quello
Clic rubo la fanciulla dal convento?
Rispose Orlando : Questi * il sanleretlo.
Questi è l'eroe del Nuovo Testamento,
Che fece alto si bruito, indegno e fello.
Rinaldo allor gli pon la mano al mento,
E lo scuole e lo sgrida, e dice : Ancora
Vuoi trar de* chiostri le monache Ita ora ?
Ribaldo, inìquo, schiuma de' furfanti.
Quando porrai tu fine a' tristi fallì,
Sempre peggior, quanto più vai avanti?
Ma tante volle al lardo vanno i gatti.
Che ci aon colti e pesti tutti quanti :
Ed or la pagherai a tulli i patti.
Orlando disse : lo lo vo' scorticare
Cosi vivo, ed a' corvi abbandonare.
Rinaldo sorridendo : Assai fatila
Questa sarebbe e pena troppo acerba :
E poi biasmo ti fora che si dica
Della destra d’ Orlando, che superba
Strìnse più palme di gente nemica,
Cile bosco foglie e il prato non ba erbai
Or abbia tratta ad un uomo la pelle,
Benché il più tristo sia sotto alle stelle.
In cosi dire giunge don Fracassa,
E poco dopo ancora don Tempesta;
E visto il frate con la fronte bassa,
E saputa la fuga disonesta,
E la rapina che ogni colpa passa,
Crucciarsi alquanto, e croilaro la testa;
E dopo aver taciuto nn qualche poco.
Parlò il Fracassa ia suono grave e fioco :
E disse ; lo so che ogni mal opra merta
RICCIARDETTO.
Il suo gastigo ; c il non punir chi pecca
Mende tutti e il pubblico diserta :
Chè il mal esempio è fuoco in paglia secca
Che al vento stia nella campagna aperta:
E quel chirurgo che le piaghe lecca,
E col fuoco c col ferro non le invade;
Apre e non serra del morbo le strade. [de
Ma la somma giustizia, ognun compren-
di’è somma ingiuria ancora; e non si
Però seguirla come il testo intende, [debbe
Talora a men fallir pena s’accrebbe,
E fu scemata alle maggiori mende.
Secondo che al peccar maggiore egli ebbe
Oppur minore spinta il nostro core,
(III* a mal oprare inclina a tutte Tore.
Bellezza e Amore han fatto ne’ mortali
Sempre gran stragi : e misero colui.
Che cade in braccio ad un di questi mali,
E più se cade in braccio ad unbidul.
Però se colto da cocenti strili
Di bella giovinetta fu costui,
E se la prese c si fuggi oon essa :
di’egli operasse male ognun confessarsi,
Ma non per questo egli ha mancato in gui-
dile il debba o possa ognuno a morteporrc,
dom’ uomo ch’abbia la sua madre uccisa,
O della patria sua castello o torre
Data a* nemici. Egli d’anior conquisa
d’alma sentendo, s’ è provato a corre
Quel frutto clic potea trarlo d‘ affanno
don quel piacere, come molli sanno.
Al giudice severo, e non a noi
Tocca a lui destinar Ja pena estrema :
Nè lessi mai die alcuno drgli eroi
Facesse un’opra si di laude scema:
Perciò si sdolga; c sciolto clic sia poi,
Si mandi alia sua cella ; c quivi gema,
E perdon ciiicgga a Dio del suo fallire.
E qui il Fracassa terminò il suo dire.
Riiiaido tentennò la testa un pezzo.
Poi disse : Il rimandarlo alla sua cella
Non mi dispiace : che cotanto è ii lezzo
D'ogni opra sua si scellerata e fella,
dlic se Tossa e la testa non gli spezzo.
Nò gli traggo di lenire le budella,
do fo per dar nel gerio a don Fracassa ;
Ma si liscia, per Dio, non se la passa.
lo vo’che gli facciamo un tagliettino
lTn palmo buono sotlo all’ ombllico ;
The sebbon io non feci inai 11 norcino,
NulUtdimcn lo servirò da amico.
Ivi sta il male di questo assassino,
E quel velen che fallo a Dio nimico.
Grattossi Orlando, sorridendo, il naso ;
E : Per me (disse) ne son persuaso, [que:
E a don Tempesta pur ciò non displar-
Chò tolta la cagiou, manca T effetto.
Ma Ferraù, che fino allora tacque.
Scossa da sè la vergogna c il dispetto,
Gridò : Prima del niar in’ affogliin Tacque,
E mi sia il collo da un cauape stretto.
Che far mi veda affronto sì villano,
Rinaldo traditor, dalla tua mano, [ebbi ;
Ma al suo gridar non v’è chi presti orec-
E preso il temperili clic aveva Orlando,
Rinaldo all* opra santa s’apparecchia:
Ed ogni cosa insieme affastellando
Gon tutta quanta la boscaglia vecchia.
Dice : Fratello, perdo» li domando
Se ti fo male. E con queste proteste,
Zifie;c l’aggiusta pel dì delie feste.
Vicn meno Ferraù pel duolo strano
Ma restano a curarlo i suoi giganti ;
Ed i due Franchi di valor sovrano
Gon la bella fanciulla vanno avanti.
Ragionando fra lor di mano in mano
Del male oprar degl’ ipocriti santi;
E concludo» tra lor, che 1 colli lord
Lascian sol di far mal, quando son morti.
Almerina, clic nulla sa del frate,
Se l’abhian scorticato, oppure ucciso;
Fa lor mille domande e ricercato
Per saperlo; e Rinaldo con sorrìso
Dice : Fanciulla mia, non vi curate
Sapete di costai veruno avviso:
Vi basti ch’egli è vivo, ed ha la pelle ;
Ma gli mancano certe bagattelle.
Orlando si contorce, arrabbia e stizza,
E gli fa cenno che taccia e s’ ingolle
Il gran volere rh’a parlar Tattiiza;
Ma la ragazza più s’invoglia, e colle
Mani congiunte, al contrario l’aizza.
Rinaldo, come pentola che bolle,
F versa per la troppa bollii tira,
l.e narra il fatto della castratura.
Non capì tutto la fanciulla ii fatto;
Ma capi tanto, clic si fece rossa.
Chinò la testa cd ammutissi « un tratto,
E fc’ vista d’ avere tuia gran tossa.
Acciò clic quel colore di scarlatto
A quello sforzo ascrivere si possa,
Ghe si suol far tossendo, e die talora
Par che vi faccia sbalzar gli occhi fuora.
lu questo mentre del castello in vista
Eccoli giunti ; e da mille persone
Già si divulga la nobii conquista
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3<>0 POEMI EROICOMICI.
Della fanciulla ; e nullo in dubbio pone
Ch’ella ritorni svergognata e trista.
Ned era un creder tal scura ragione ;
Che prima scanna la pecora II lupo,
E poi la trae nel bosco orrido e cupo.
E se noi fece il Tornitacelo Infame,
Fu dell’ordine suo strana appendice.
0 mondo sciocco, che questo letame,
Questo veleno d’ ogni mal radice
TI stringi al petto, e satolli sua fame!
Quando sari quel tempo si felice,
Ch’Io vegga I romitorj arsi e distrutti,
Ed Impiccati I lor romiti lutili
Tempo fu gli, clic gli uomini dabbene
Col piede scalro e con la testa rasa
Forniva» d’erbe I lor pranzi e le cene,
E un' elee cava prendeva» per casa;
E volte al mondo davvero le schiene,
Magri e languenti e con la barba spasa
Fuggivano le genti, e sopra tutte [bruite.
Le donne, ancorché vecchie, ancorché
Ed oltre a questo, nelle spine acute
Si gettavano ignudi, o In mezzo al gelo;
E rozze vesti dentro e fuori Irsute
Slringeansl addosso, sol pensando al Cielo.
Genti beale, eli' or godon salute,
E veggio» Dio qual é senza alcun velo;
E colme di piacer, vuote d’ alfanno
Sento» gioir d'ogni sofferto danno.
Ma I successori lor [corpo di Giuda'.)
Sono luti' altro: mangia» come porci
Starne c fagiani ; ed alla carne cruda
Tirano più, che al marzolino I sorci :
E il v inanello che s' affanna e suda
.Per aver grano clic sua fante accorci;
Appena l’ ha battuto, che ne dona
Al romltaccio qualche parte buona.
E chi gii porla 11 vino, c chi i pollastri,
E dii I piccioni, onde s' impingui, c vaglia
Resistere agl'incomodi e disastri
Dell'aspra vita : ed ci tornisce, c intaglia
Corna frattanto, e fa lavori mastri
Alla devota credula marmaglia.
O viver dolce de’ nostri romiti,
Gli’ hanno le mogli c po’ il pan da’ mariti !
Né ti stupire, lettor mio benigno.
Se quando posso, io l' accocco a costoro :
Ché so II romito quanto egli é maligno,
Che da per tutto fa tristo lavoro,
Né udirai mal alcuno fatto indigno,
Dove non entri qualchrdun di loro:
Le rapine, le morti c gli adullerj
Sono le lor corone e i lor salterj.
Ma ritorniamo alla nostra Almerina ,
Che ha ripieno 11 castello d' allegrezza.
La Incontra Cario, e a Orlando s' avvicina.
Acciò del fatto gli arrechi contezza :
Ed Orlando la storia gli sciorina
Con sermon breve e con somma chiarezza.
Sol di quel taglicttin non disse nulla ,
E ciò fece a cagion delia fanciulla;
lai quale ritornò tosto al convento;
E dò che se ne fosse , non é scritto.
Rinaldo intanto pieno di contento
Racconta a Carlo qual fece despitto
A Ferrali , elle più rasoio al mento
Non mencrassi; e come ei l'ha relitto
In mano de’ giganti : e quel buon vecchio
Lieto piegava a tal parlar l’ orecchio.
Quindi del pranzo gii venuta l'ora,
Suonan le trombe e I musici strumenti
E seco vuole I paladini ancora
A mensa Carlo cd altri uomin valenti :
Ché quanto la virtude più s'onora,
Più si fa grande e bella infra le genti.
Ma mentre questi se ne stanno a pranzo,
Ritorniam, se vi piace, al nostro manzo.
A forza d’erbe gii gli avean fermato
Il sangue, e del dolor gran parte tolta :
Ma egli era Fcrraù si infuriato.
Che Incomincia bel bello a dar di rolla ,
E cosi Ignudo dentro il bosco entrato,
Fugge per quello e mal non si rivolta.
Gli corrati dietro 1 pietosi giganti :
Ma più d' un miglio egli è gii corso avanti :
E ravvivato gii nel corso s’era
Il sangue ed inaspritosi II dolore;
Onde cadde svenuto in su la sera,
Ed a caso trovato da un pastore
Ch'Ivi passava con la sua inngliera,
Fu presoe fu portato con amore
Al convento de’ padri Tesbitini ,
Clic da per tutto sono uomin divini :
Che gli scaldaro in un subito il letto,
E lo bagnar ben ben con l'acquavite;
Talché riprese lena il poveretto :
Ma fuor del suo costume umile e mite,
Tacito stava c si batteva il petto;
Indi a lavar le sue colpe influite
Chiese d'uu confessore, c tutto ansando
Venne correndo il padre Fidelhrando.
Questi era un vecchio settuagenario.
Si diede in giovinezza alla milizia;
Indi lasciolla, e il viver suo fu vario :
Yo' dire or buono, or pieno di malizia ,
Finché racchiuso dentro del sacrario,
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RICCIARDETTO. 30!
Muti costumi , ed acquistò dovizia
Di virtù tali , che divenne un santo.
Or questi a Ferrati si mise accanto :
E presolo per man : Figlio ( gii disse ),
Dura cosa è la morte ; ma quel Dio
Che si fece uomo, e Giuda il croeifisse,
Dolcissima la rese al parer mio.
Ha in lui i pensieri , in lui le luci fisse
Tener bisogna, e d'ogni fallo rio
Domandargli perdono, ed umilmente
Pregarlo, acciò ci Ila dolce e clemente.
Nè perchè forse la marina sabbia
Esser possa minor de' falli tuoi ,
Non ti lascljr da disperala rabbia
Opprimersi, che l'inferno t’ Ingoi.
Nessuno sa quai sia , che torrnin abbia
La divina Pietà verso di noi ; [re,
Perchè ella è immensa ,e men si può pccca-
Di queUo eh’ ella possa perdonare.
Ferrautte a quel dir s’ alza sul letto,
E sul gomito manco sostenuto,
Si leva con la destra il suo berretto,
E pietà chiede a Dio, c chiede aiuto
Al padre in quell’ orrendo passo stretto ;
E segnatosi in fronte, alquanto muto
Si stette , e poi tra lagrime e lamenti
Incominciò le note penitenti :
E seguitò più di quattr’ore a dire;
E fece spesso bofonchiare il frale,
Che molte colpe si pensava udire ,
Ma non gii tante c cosi scellerate.
Pur lo consola, e gli ministra ardire,
K gli promette dall’ alta Dontade
Perdonanza , c P assolve ; c gli augel santi
Fanno udir suoni d’allegrezza e canti.
Ma non si stette con le mani in mano
Il demoniaccio in questa congiuntura :
Chè fece ivi venire da lontano
I diavoletti di maggior bravura.
Chi prese di Qimcnc il volto umano,
E a lui mostrollo In dolce positura;
Chi le sue grazie ci vaghi atteggiamenti ;
< '.Iti il grato suon de’ suol leggiadri accenti.
Chi gli mostrò la giovin da lui tolta;
Chi gli amor del Cattai : in somma cento
Uemonj travestiti in fretta molla
Entraro repentini nel convento,
E della cella corsero alla volta ,
E zitti zitti vi passaron drento.
A quella vista Fcrraù meschino
SI rallegrò, benché a morir virino.
Ma il padre Fidclhrando, che l'osserva
Minutamente, di quella allegrezza
Insospettissi , e della rea caterva
Ebbe timore e disse con prestezza :
Il riso, figlio, nel Cielo riserva;
E piangi adesso e esala con tristezza
L’anima addolorata. Indi lo segna
Con l’acqua santa ; e II dlavot se ne sdegna :
E disparirò quelle cose belle.
Allora Ferraù maravigliato
Ringrazia il Facitore delle stelle ,
Che sia da tal periglio liberato ;
E narra al confessor le Inique e felle
Arti d’ inferno ; e di pianto bagnato
Rinforza il suo dolore : e pietl di Fede
Nuove arme a Dio contro il nemico chiede.
Quando ad un tratto ecco che smania e
Si , che par toro da’ cani ferito : [grida
E chiede il ferro ed a battaglia sfida
Un non so chi; talché sembra impazzito.
Indi soggiunge : Si sbrani e s' uccida
Costui che si ni’ ha concio e ni’ ha tradito.
Fldelbrando lo prega che s’accheti:
Ma parla agli usci e parla alle pareti.
Di queste strida e di questo furore
Cagion fu un diavoletto de’ più tristi,
E di cui forse non ve n’è un peggiore
Che con modi furbeschi e non previsti
Da Rinaldo gli apparve; e il feritore
Coltello avea che fece il repulisti.
In una mano, e nell’ altra le cose
Cile gli recise , ed anco sanguinose :
Onde a tal vista manda fnor la bava
Per la grand' ira; ed il padre schiamazza
Che gli perdoni, mentre il mal s’aggrava:
Ma invano s' affatica , invan s' ammazza.
Tanto l’invade la rabbia sua prava.
Che d’atra bile già la mente pazza
Altro non pensa più , che a far vendetta
Del suo nemico ; c in quella sì diletta.
Un crocifisso prende il padre santo,
E gli dice : Figliuolo, hai tu nemici
Che t’abbiano piagato c offeso tanto,
Quanto Tu questo, clic co’ benefici
Trattolll sempre c se li tenne accanto?
Eppur per lor, come fossero amici.
Pregò l’eterno Padre e di buon core,
A perdonar un cosi grave errore.
Fcrraù , che non sa ciò che sì gracchia,
Dice : Rinaldo mi fc’ peggio assai.
Fidelbrando a tal voce si sbatacchia ,
E grida : Figli noi mio, che di’ tu mai?
Ed egli : Padre, il tristo in una macchia
Castrommi con un ferro da beccai ;
E quasi poco gli paresse questo ,
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«02 POEMI EROICOMICI.
Ci fece piazza col tagliare il resto.
Fidelbrando gli disse : Oh via, figliuolo.
Tu gli suoi mal , perché t' ha fatto bene,
iieue to' intasca ; con vooe di duolo
Egli riprese : E dentro delie tene
GU bolli il sangue come in un paiuolo,
Quando di sotto le secche terincne
Van divampando : ed in quel gorgoglio
Attaccò i santi e disse mal di Dio.
Me' che può il frate a lui conforto porge :
Ma non trova la via di ripigliarlo.
Pur dolcemente lo riprende e scorge
Pel buon cammino e cerca d'aiutarlo:
Ma l’ ira non i scema , ami risorge
In lui , che ornai dal velenoso tarlo
Nel core è roso : e morto impenitente
Fora , se non giungeva ivi allra gente.
I due giganti dalla vasta cliicrca
Entrar carponi dentro della cella;
E udito come il diavolo sci merca
Con quel rancor clic tanto lo martella ,
Gli disser : Ferrati , cosi si cerca
Pcrdon da Dio, dell’ opera tua fella?
E non sai tu che 1' anima sdegnosa
In (ìlei non sale c in grembo a Dio non posa?
Se dall* offeso Dio vuoi perdonami ,
E tu perdona a cbi ti fece male ,
Perchè vuole il Signor questa uguaglianza:
Altrimenti , non fare capitale
Del Ciel : chè nell' abisso avrai tua stanza,
Dove diventerai tizzo eternale.
Ferrati s'addolcisce a quella voce,
E mitiga lo spirito feroce
E tornato di nuovo a confessarsi.
Sentendosi oramai presso al morire,
Pregò i giganti a volere accostarsi
A lui , che un non so che volca lor dire :
E disse : Se non son sepolti od arsi
Que' cosi , me li fate ricucire ;
0 me U fate , se non v’ è molesto ,
Di cera, o stracci , o pur dì carton pesto;
Perchè se morto qualchedun mi vede.
Non mi faccia a tal vista onta o vergogna.
Lo che raccomandato alla lor fede.
Perde la voce e si affanna ed agogna ,
Ed assoluzton col capo chiede.
Gii bagnano la bocca con la spogna
Zeppa di vino, perchè si risto»;
Ma in un tratto boccheggia, e se ne muore.
Pianscr la morte sua teneramente
I pietosi giganti c Fidelbrando;
E portatolo in chiesa, prestamente
Gli andar» molte messe celebrando.
V' era un vuoto sepolcro nobilmente
Fatto, c a nessuno sovvenia del quando
Fosse stato formato; ond' è rhe in caso
Da quei buon padri Ferrati fu messo:
E don Tempesta con la spada scrisse;
« Fermali , passa gei ero. In questo avello
« Hiposa Ferrali, che mentre vìsse
• Saracin, de' Cristiani fu flagello:
• Fallo Cristiano , i Saracin sconfisse :
« Si fc’ frale, c riprese poi 'I cappello:
» Fu Amor suo beccamorto e suo oorcino.
« Pregagli pace, e segui il tuo cammino.»
F don Fracassa poi scrisse sul muro
Tutta I1 istoria c tutta la sua vita,
Perchè n’ andasse dalFobblio sicuro
li nome di si celebre eremita;
Della cui morte, donne mie, vi giuro.
Clic ne ho pena acerbissima sentila;
F matadico quel giorno fatale
Clic fe’ Rinaldo un taglio si brutale:
Perchè se ogni uomo che in tal cosa
Dovesse rimaner cosi infelice ; [manca ,
La barba nera , oppur la barba bianca
Sarebbe rara come la fenice:
F più che altrove, tra la gente franca,
Ch* è si donnesca , come il mondo dioe.
Ma Rinaldo scortlossi di sé stesso,
E però diede in cosi strano eccesso.
Di che nc pianse poi sera e mattina :
Come sta scritto in un foglio vetusto,
II quale narra ancora die Almerina,
Quando lo seppe , nc senti disgusto;
Benché non ben capisse la meschina
I.a gran virtù del mozzo mazzafrusti:
Chè se per sorte la sapeva tutta,
L’ avrebbe al certo il giusto doni distrutta.
Ma tempo è ornai di rivoltare ah acre
Gli afflitti carnè c rallegrar chi m’ode;
F nella selva ritornar, lò dove
Pieno d' amore c di desio di lode,
Insiem con Malagigi il passo move
Il mio Ricciardo, il casalier si prode.
Colò dunque venite : e vi prometto
Di colmarvi le orecchie di diletto.
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POEMI GIOCOSI.
CAPORALI.
VITA DI MECENATE.
PARTE
Mecenate era un uom, eli' aveva il naso.
Gli ocelli c la bocca siccome ai ctu noi.
Fatti dalla Natura e non (lai caso.
Si dilettava aver due gambe , c dol
Piedi da camminare, e aver due mani,
Da fan! da s£ stesso i Tatti suoi.
Scese per razza già dai re toscani ,
E l’ avo del bisavo del suo avo
Fece venire il cancaro ai Romani.
Fu buon poeta , Tu soldato bravo,
E si legge , eli' Augusto un di gli disse :
Capitan Mecenate io vi son schiavo.
Maneggio dunque l'armi a un tempo e
scrisse,
E spesso col pugnai temprò la penna
E mollo in corte Tavorilo visse.
Il padre suo fu Menedor Porsenna,
Cb'ailor che Siila combat tea con Mario,
Morì nei fatto d’arme di Ravenna.
So , che del tempo nulla , o poco vario ,
Perche tolti gli annali ho sulle dita,
E gli raffronto al nostro calendario :
Ma bisogna a descriver questa vita
Di ritrovar le vie più larghe e dritte ,
E farci in somma discussion più trita.
10 trovo in certe istorie manoscritte
Recate già da don Tristano Actigno,
Quando Tu ambasclator del re Davitte,
Che Mecenate nacque avanti giugno
Due mesi in circa , c nel trar fuor le braccia
Diede sugli ocelli all' Avarizia un pugno.
11 che fu segno d'una gran bonaccia,
Onde ic Muse , preso del formeMo ,
Fecero al Dio degli orti una focaccia.
Nett* anno ab Urbe condilo seicento
Novanta quattro , se però non hanno
Gl' istorici intricato il nascimento:
Si legge che la madre soni’ affanno
Lo partorì, benché Marrubio scriva ,
Che fu a gran rischio di sdrucirsi il panno.
E eh’ ella , mentre gravida dormiva ,
Sognò di partorire ttn violone.
Che poi pian pian s’ era converso in piva.
PRIMA.
Dal cui liberalissimo trombone
Tante ciliare zampogno arcano il fiato.
Clic di dolcezza empiano ogni regione.
Tosto il fanciullo a scuola fu mandato
Dal padre ad imparar la nobii arte
Di difender le cause nel senato.
Benché la scuola circa questa parte
Sol gli servi per starvi in compagnia
Con gii altri putti a schiccherar ic carte.
Pereti’ el nella reai fisonomia
Avea giunta la linea supcriore
Con T oroscopo delia poesia.
Nondimcn per far noto il suo valore ,
E che nel ventre delia madre intese
Tutto quel che si scrive d'oratore ;
A difender per scherzo un di si prese
L'accusato In giudizio legno santo,
D' aver rotto la tregua al mal francese.
Ove ingegno, c valor mostrò cotanto.
Clic Ciecron tinto d' invidia , finse
Gir a pisciar, e usci dall'altro canto.
Nessun di grazia inqiiell’età Io vinse.
Nessun distese meglio il suo concetto.
Nessun di più bei fior mai lo dipinse.
Sol notato gli fu questo difetto ,
Gli’ usava sempre , clic s’ avea forbito
Il naso , di guardar sul fazzoletto :
Benché dal Galateo ne fu avvertito.
Nel resto poi, quanto alla politezza,
Sembrava nato a Napoli e nutrito.
Ma’l prender poiché fé' domestichezza
Col nipote di Cesar, fu cagione,
Ch’aneti’ ci fosse tenuto una cavezza.
Massime quando a mastro Labeone,
Dormendo nella scuola un di di festa.
Quella burla ordinar con quel soffione.
Pcrocch'aiia decrepita sua vesta
GileP appiccar, come si legge espresso
In Livio, e Quinto Curzio anco l' attesta.
Tremò il mastro a quel schioppo, e a un
tempo stesso
Svcgliossi e vide quelle due fraschette
Fuggir ridendo e a lui voltarsi spesso.
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304 POEMI
Orni* per l’erudite moiette
Del proprio dizionario e per le sparse
Polver delle Urlate sue bacchette,
Giurò contro ambedue di vendicane
Più ch’altro mastro fatto avesse mal
Da che Vernini sU per rìcordarse.
Ma I putti, che torneano I propri guai,
Kccer risoluzione ambedue Insieme ;
Per quella volu aver studiato assai.
Cesare inunto avendo il maggior seme
Spento del gran Pompeo, escorsa Spagna
Per le parti di mezzo e per l' estreme.
E recandosi a scorno e gran magagna,
Che I Parti nel trionfo avesser posto
Romol, che gli pagava di calcagna.
Chiamò i soldati all' arme, e fe' che tosto
Ventotto Insegne di spazzacamini
Venissero a trovarlo alfin d’ agosto.
Chè non ardiva In si lonUn confini
Gir senza queste genti esercitate
Per lunghi ed oscurissimi cammini.
Indi per soddisfar molte brigate,
A dar incominciò norma ed effetto
Alle pubbliche cose e alle private,
Ordinando al nipote giovanetto,
t."h’ andasse a studio in Apollonia, dove
l.e dotte Muse allor aveau ricetto.
E pcrcliò ’I capo non volgesse altrove,
E per torgli anco l’ occasion del gioco.
Gii abbruciò un par di carte nuore nuove.
Gran cosa certo e da stupir non poco,
Che l'asso di donar, ch’era nel fondo
Rimase intatto fra le fiamme c I fuoco.
Onde preso l'augurio da quei tondo,
Predisser gl' Indovin, che resterebbe,
Gli emuli estinti, ei sol padrnn del mondo.
Il partir di costui cotanto increbbe
A Mecenate, che più volte corse,
Per attoscarsi a un fiasco di giulebbe.
Ma poi thè si ravvide c die s’accorse,
Che poteva ancor egli alla Valona,
Gir con dicci velate e in manco forse;
Tosto da sè scacciò, come persona
Saggia, quei pensier tristi ed inquieti,
Gli' un'ora aver notigli lasrlavan buona.
E si fece venir fin da Spoleti
Melisso, uoui dotto negli studj umani
Oliò gl' insegnasse l’arte dei poeti.
Nella qual fc' profitti poi si strani,
Cli’avria di capo a Febo i lauri tolti,
S'egiì non ci correva con le mani.
Scrisse moli’ elegie, compose molti
Sonetti» c celebrò leggiadramente
GIOCOSI.
La sorella d’Otuvio in versi sciolti.
Onde nacque un bisbiglio fra la gente.
Che Apollo entrando per la balestriera
Del tetto, il giva a visitar sovente,
E di più gli dettava ogni mamera
DI versi, e che quel putto nulla cosa
Più sembrava quel Dio che nella cera ;
Perdi’ una grazia avea miracolosa
Nel zafir del begli occhi e nel divino
Lampeggiar della fronte spaziosa,
La dove nostr' Adam nel taccuino
Dice, eh' a mezzo dì venian le stelle
A giocar con le Muse a sbaraglino.
Baia, ch'avanza in ver, quante novelle.
Quante mai disser favole e carote,
Stando al fuoco a filar le vecchìarelle.
Onde con !' opinion manco remote
Me ne girò seguendo la scrittura
Più veridicamente, che si puote.
Dava trattenimento ; ozio e pastura
A tulli i letterati di quei tempi,
E del poeti avea precipua cura ;
Talché vedeansi le colonne e i tcmjij
Tutti impiastrati d’epigrammi e versi.
Fatti in onor dei suoi cortesi coempj.
Diccan, come nel di freddi e perversi,
Fece aprir la cucina aTucca e a Varo,
Che pel freddo dei pie givan dispersi.
Diccan, com’egli offerse il calamaro
A Maron per finir quei pochi carmi.
Che tronchi nell’ Eneide restaro.
Già gli venian da Paro i ricchi marmi.
Per fare un nobilissimo musco
D’ uomini illustri sol di lettre e d’anni.
Ma di Cesare il caso indegno c reo.
Il qua] con ventitré partegianato
Cadde innanzi alla statua di Pompeo,
Ritirar fc’ le Muse spaventate,
E le corone dei privati allori
Si trasformaro in pubbliche celale.
Si dice, che fuggendo i senatori.
Non furo accompagnati pur da un cane,
Anzi fin gli schivaro i servitori.
Perocché mentre si menar le mane,
Molli per tema s’ empirò i calzoni,
E colava per tutto l'ambracane.
Sol un corpo di guardia di Mosconi
Gli accompagnò mai sempre, e gli difese
Dall' assalto importun dei Calabroni.
Tosto eh’ in Apollonia ciò s’ intese,
Pcrch’ una velocissima feluca,
Vi spedi Mecenate alle sue spese,
Dicon, ch'Ottavio volto a certo duca,
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VITA DI MECENATE. 304
Al corpo (diate) del re Massinisaa,
Ole mi faranno uscir fuor della buca.
I tradltor, senza oecaslon di rissa,
Osare han mono, e quel ebe più mi cale,
Roma ancor se ne sla balorda e fissa.
Ahi portali si son dia voi nule!
Orsù datemi il giaco e la mia spada,
Ma recatemi prima l’ orinale.
Mecenate mi scrive, che la strada
Prenda del mar sol per fuggir gli agguati
E che verso l'Italia me ne vada.
Dunque in sua compagnia tosto chiamati
Alcuni capitan di fanterie,
Amici giù di Osare, e soldati;
A Brlndesi passò per l' ampie vie
Del mar, dove I Tedeschi arditi e fieri
Stavan divisi in venti compagnie.
Qui prima ai capitan, indi agli alfieri
Donò tanto vln corso e tanto greco,
Cb'a ciascun ne toccar trenta bicchieri.
Fatto poi sacrifizio e tolto seco
Qualunque in guerra bravo era pur dianzi
Or rimasto storpiato, o mezzo cieco,
Lieto imbarcossi con trecento lanzl,
Sciolta prima una cifcra, secondo
Che ne scrive Lucan nel suoi romanzi,
Laqualdicea, va pur lieto e giocondo,
Ma ponti sulle spalle un matarazzo,
Che non ti schiacci li gran peso del mondo.
Fer quei viaggio in ver con gran sollazzo,
Vedendosi per tutto corteggiare
Da' pesci, e far tra lor gara e schiamazzo.
A guisa che bramasser di montare
Sulla rea) d' Ottavio, a cui portate
Avesser molte commlsslon del mare.
Ma quel che le marittime brigate
Non prezzò mai, da 'glorili magri in fuora.
Sol gustò del sapor di certe Orate.
Al fin una mattina, die l’ Aurora
liscia dalle riviere arse e biscotto
Dell'Indo mar tutta dolente fuora;
Anzi spargendo lacrime dirotte,
Per esserle all’ aprir della finestra
Caduta in mar la scuffia della notte;
Giunsero a Terracina ed a man destra
Sbarcar, mentre gridava il planoe’l roon-
Bent cereria dominatici r estro. [te
Correan le genti tutte allegre e pronte
Sol per veder del gran Cesare il figlio
Con tanti bravi, armato conte un conte.
Nacque per questo In Roma alto bisbl-
Tanto piò che i parenti ed i fautori [gllo.
Del putto, non temendo alcun periglio,
Con Infinita gente c servitori
Eran giti a incontrario, e ci fur anco
Non so che travestiti senatori.
Gii non avea più Terracina e manco
I convicini, stalla alcuna o tetto
Per tanta gente, nè pan bruno, o bianco.
Ed è cosa certissima in effetto,
Ch* appena due pretor, che giunser tardi,
Ebber mezza scodella di brodetto;
Quando ecco Mecenate dai gagliardi
Schiavi portato e dai garzon dell’ oste,
Giunse, ma veramente a passi tardi,
Pcroccli’ alquanto gli dolean le coste.
Avendo ricevuto da un cavallo
Un par di calci nel mutar le poste.
E questo lo trattenne (se non fallo)
Tanto a venir, siccome anco lo scusa
Negli epigrammi suol Cornelio Gallo.
Fersi tra lor gran cera, come s’ usa
Tra 1 cari amici, e fu tosto rerata
E aperta In sala una valigia chiusa,
Piena di doni in ver di gran portata;
Un salo nero, una berretta fina,
E due camicie bianche di bugata.
Arme non mica goffe, o da dozzina,
Un stocco, che co) denti in più partite
S’avea gii rosa mezza la guaina.
Due Donde fatte a lleva c ben guarnite,
Un pistoiese a ruota, un giaco a fuoco.
Una picca mancina fatta a vite.
Or queste Mecenate a poco a poco
Cacciate fuor, donolie al degno crede
Di Cesar, che ne fé’ gran festa e gioco.
E subito gridò: Venga una sede
Per Mecenate mio, chè mille Rome
Non pagherian la sua boutade e fede.
Posto dunque a seder cominciò, come
Cesar fu morto, a dir, eh’ a più d’ un palo,
Per lo spavento s' arricciar le chiome.
Cimbro (disse) gli diè con un ravaio,
Bruto con una ronca bolognese,
Cassio con un colte! da macellalo.
Disse anco conte un pezzo si difese.
Poi spiccò un salto a guisa di leone
Dal trono, e Casca al primo balzo il prese.
Ma mosse più del resto a compassione
II sentir raccontar, che i traditori
Rulnato gli avean tutto il giubbone.
Indi narrò, che molti senatori,
Per la disposlzion del testamento
Di Cesar fur eletti a grandi onori.
Ma, che pur di quel Padri era l' intento,
Non si parlasse più nè mal, nè bene
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IH) EMI GIOCOSI.
Del parricidio, c fosse ogn’ odio spenlo.
E perciò dato avcan Creta e Cirene
Di Macedonia in vece e di Sorta,
▲ Bruto c a Cassio per tenergli in speme.
Cosi diceva, cd era untai la
Mecenate per dir fin a compieta;
Ma Ottavio sotto vel di cortesia,
Per man lo prese, e nella piu segreta
Camera entrare c mandar sulla porta,
Qie non v’entrasse istorico, o poeta.
Perchè sta gcute è quella, che rapporta,
Pubblica e scrive ciò che vede e sente,
Tanto più volentier, quanto più importa.
Scusandosi, clic quest* incoili enicute
Yien da natura, che desia far note
Le cose, clic rinchiuse ha nella mente.
Nè ritrovar rimedio li si puolo,
Se ben con qualche segnalala noia
Molti gli han tratto sangue dalle gote.
Come già il protomedico lanoia,
Ch* al volto d’ un poeta appor fe’ certo
Unguento corrosivo da Pistoia,
Rimedio inver troppo crudele al merla.
Ahi non so, come Apollo non si sdegna.
Che a un vate sia col ferro il viso aperto;
Perchè '1 dir mal , come Galeno insegna.
Si suol purgar con certa calamita.
Il cui proprio è tirare a sè le legna.
Anzi appresso i chirurghi ò cosa trita.
Ch’ogni mordace lingua ha la sua vena
Arterlal, che ver le spalle addita.
Oud’è, che tanti oggi l' Italia han pina
Cavai ier dalla Cerqua ; io dico quelli.
Che portali la medaglia sulla schiena.
Ma mentre io rado altrui sul vivo I velli.
Che deve Ottavio c Mecenate or fané
Là dentro? forse arruolano i coltelli
Per trinciar Cassio, c Bruto scorticami
Pur sia clic vuol, noi che stiam qui di fuore
Non io’, che ci mettiamo a indovinare.
Come fe* dianzi un garrulo scrittore,
Qie sognandosi ber l’onda Aganippa,
S* accorse poi benissimo al sapore.
Ch’era la lai atura d'uua trippa.
BRACCIOLINI.
LO SCHERNO DEGLI DEI.
CANTO SECONDO.
Sdegnata Citerea, con aspre note
Chiama Cupido e lo Bonaccia e sgrida :
E piena d’ira il prende e So percolo,
Ond’ei spiega ie penne al munte d’Ida.
Tosto che fu dalla Paura vinto
Lo Sdegno, c si fuggi dal fiero Marte,
Qual capitan , che dall’ assedio cinto
S’arrende al fine alla contraria parte ,
E da forza maggior battuto c spinto
Le rotte mura abbandonando parte;
Torna egli al cielo a riprovar se il foco
Arda con più fermezza in altro loco.
E lassù visto il pargoletto arciere.
Amor delle sue fiamme emulo aulico,
Anzi di lui, con glorioso impero
Mai sempre invitto, vincitor nemico;
Nell’ incontrarsi in lui , torbido e fiero
Spira dal ciglio ardente il guardo obblico,
E per nuocer, se può, vaunc alla bella
Sua genitrice, poi cosi falcila:
Deh , Citerea , contra *1 credei con sorta.
Che si rara bellezza a scherno prende ,
E volle dianzi a lutto ’l Cielo esporte
Senz’ alcun iel, che li ricopra, o bende.
Non prender ira e non voler proporle ,
Clic derivi da lui ciò che t’ offende.
Ma con seuno riguarda e con ragiooc.
Dell’ effetto malvagio alla cagione.
E troverai clic per amarti il zoppo
Consorte, ingelosito 1 nodi ordisce,
E le con l’amator serra in un groppo,
E poi stretti c legali ambo schernirne,
E voi per riamarli amando troppo
Incautamente, all’ un l’altro s’unisce,
E cosi d' ogni danno e d’ ogni errore.
Non troverai cagioa altra ohe Amore*
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LO SCHERNO DEGLI DEI.
Amordunqtie P offesa, Amor lo scherno,
Amor è quel , che ogni tuo mal produce j
Mentre accecandoli tao 'edere interno,
Poi mal accorta a vaneggiar t’ induce ;
E per mercé del merito materno,
L’ iniquo a questo strazio or ti conduce :
E tale t il guiderdon , che questo ingrato
Rende a chi 1’ ha nutrito c generato.
E non dica il forbotto: lo tiro a raso,
E non posso veder ciò eli’ io ni’ offenda ,
Ch' el la ie viste di soffiarsi il naso
Ben cento volte, e manda su la benda:
E sbarliatelio appar, perch’ei va raso.
Acciocché T eli sua non si comprenda ;
Ma gli è da forche ornai soli parecchi anni,
E nudo va, che s’è giocato i panni.
E non cresce , e non crepa il marinaio
Per la lauta malizia , Clic l’opprime;
Cosi pianta malvagia in fertil suolo
Si torce abbietta e non va mai sublime,
■a in il comporti , perché t' é figliuolo,
E non pensi risponderli alle rime.
Ti sta bene ogni mal, crepa ed arrabbia ;
Chi cosi vuole in somma , cosi abbia.
Tacque ciò detto, c l' amorosa Dea
TrafiUa il scn da queste sue parole ,
Gii già contro ii figliiiol ili sdegno ardea,
Già gii trovarlo c pastinarlo vuole;
E ’l bel volto di rose ella tingea ,
Come l’Aurora all' appressar del Sole,
E due e tre volle a maledir l’Amore,
Moss' ella dentro amareggialo il core.
Ma la maledizione aspra cd amara
Giunta a confin della purpurea bocca.
Raddolcita da lei, snave e cara
Tosto divicn, dié le due rose tocca.
CoslTelUro pur, che il del rischiara.
Se d" occidente a noi gelido sbocca ,
Per le piagge de’ fior si rammollisce ,
E se vento comincia , odor finisce.
fitta che se ne avvede , in seno asconde
Le dolci ingiurie, e la soave colpa
Tacila nel suo cor volge c trasfonde
Nei figlio Amore , e lui pur solo incolpa.
Chiamalo, c lini ideilo ei non risponde ,
Ma s'arretra piangendo e si discolpa.
Vlenqua, die' ella, ahi cattivello, e quando
Ti chiamerò, tu non verrai volando?
Possa qua , diro, ahi ritrose! protervo,
Nato per tribolar lo Staio mio!
Nemico di virtù , d' affetto servo,
Al mal volonteroso, al ben restio.
Tu li foggi da me pur come cervo,
Che il lupo incontra in appressarsi al rh> ;
Vien qua : chcsì ? fa' rh' io t’appelli ancora,
Fa' di' io mi adiri più, fa’ pur dimora.
Ma'l pauroso fancinl, clic della bella
Madre riguarda all' adiralo volto,
E spirar vede all' una e l' altra stella
Tra I bei raggi d'amor lo sdegno accolto,
Teme lo sguardo, sì che alla favella
Non ardisce ubbidir poco né molto,
E tanto più, quanto sdegnarla vede.
Per lo ciclo a fuggir rivolge il piade.
Or la disubbidita al fuoco, faoco
Accresce , al suo disdegno, ira e furore.
La materna pioli non ha più loco.
Né in prod' Amore aver prodotto amore ;
Fugge di là , di qua , la strada e il loco,
Fuor di lococ distraila apre il timore,
E di saette scompigliate c sparte
Semina errando ogni fuggita parte.
Cosi qualor tra’ cavali s’ accorpi
L’ asino, che di lì viene H padrone,
E da vicino al tergo suo giù scorge.
Clic la rigida man leva il bastone ,
Per l’ orto errando, ove il timor lo scorge.
Dimenticando ornai d’rsser poltrone.
Corre, e sparge il tcrrcn d’ambra c zibetto,
Alia carriera sua tromba e trombetto, [de
Segue rapida Amor, l'aggiunge c prcn-
La bella madre , ed ci raggiunto allora ,
Nel corso anicndiic l’ ali al volo stende,
Si clic lento a seguir /.elfiro fora ;
Ma In van s’ aita , e per uscir contende
Dalla materna man libero fuora,
Cli’ ella I’ ha preso, e per In manco piede
Stringe il lallon delle volanti prede.
Volge»! Amor con cento rote e cento
Per P aria intomo c si dibatte in vano.
Come spander, che per lo suo spavento
Girando va P affronatrice mano.
Strcpilan Pali, c impetuoso il vento
Per P azzurro del ciel corre lontano.
Ratte, rota e s’aggira, alfin si arrende,
E dal braccio materno immobit pende.
Col petto allor sulla sua coscia manca
Venere il ferma infra le man di latte,
E con la destra sua dal tergo all’ anca
L’ innocente figlino) batte c ribatte ,
Suona al picchio la palma , c non ai stanca,
Stride e sv incola Amore e si dibatte.
Toh qui , die' ella , c leni munte il tieni ;
Quanti 'io ti chiamo, un’altra volta vicnLfto,
Toh qui, spuma d’error, toh qui, furbet-
Con quel balestro quando tu lo scocchi.
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P0KM1 GIOCOSI.
l'n’ altra volu a riguardar più retto
Vo’ che tu impari , e disserrarti gli occhi ;
Ch* non è saettare il cor d'un petto
Sveglier nell’orto i gambi di finocchi.
Toh su qui , iraditor, che il proprio loco,
D’ onde il latte traesti , empi di foco.
Ma poiché alquanto ebbe soITcrlo Amore
Della Dea genitrice i colpi e I* ira ,
E bagnatole il sen di caldo umore ,
Mentre in grembo di lei s'angc e martire.
Quasi carhon, che dal propìnquo ardore
Prende al vento le Damme c ’l fuoco spira,
S’accende anch*esso,e della Dea non meno,
Tutto s'IuOamma al Ber garzone il seno.
E benché pargoletto ignudo e cicco,
Tra sé rammemorando esser quel Dio,
Che le spere del cielo c’I mondo seco
Raggira c quanto mai nacque e morto,
Volgesl, c in atto dispettoso c bieco,
La figliolanza sua posta in obblio,
Spiccasi acerbo, c le purpuree gote
Col pugno chiuso a Giterca percolo.
Cosi talor dal suo primiero latte
Per addomesticar tolto leone.
Se citi *1 nutrisce, amicamente il batte,
Soffre il gastigo suo lunga stagione,
Ma se vengon talor da lui disfatte
D'amicizia le leggi e di ragione.
Fiera aneli' essa la Bera, arde e minaccia,
E ’1 cor nel petto al suo custode agghiaccia.
L'arcier di Guido, un folgore tonante
Fatto per ira , il chiuso ciel disserra
D’ orribll rombo, e se ne va volante.
Sciolto e lontan dalla materna guerra ;
DI qua scorre e di Ih dubbio ed errante ,
Poi drizza il volo in ver l’oscura terra.
Partesi , e più né ciel, né madre pregia,
Rosso di dietro come una ciregia.
Nell’ ali strette, e con l’aurata fronte
Volta all’ ingiù , rapidamente passa
Verso l’Ideo prodigioso monte,
E le spere e le nubi , a tergo lassa -,
Quivi tra l' ombre sacre, altrui non coute,
Tacito scende in valle oscura e bassa,
E quivi el si celò chiuso e remolo
D’ antica selva , abitatore ignoto.
E quivi in compagula di pastorelli
Scherzando infra di lor sull’ erba fresca ,
Vince in due giuochi , e scegliesi 1 più belli
Quarantaquattro noccioli di pesca ;
Poi ineltesl a sbuccìarde’ ramoscelli
Tanti , che un zufolelto li riesca ,
E lutto di pigliando il cielo a gabbo,
Suona la gamba, e il berreltin del babbo.
CANTO DUODECIMO.
La battaglia de’ Giganti.
Taniiri in questo mentre avea composto
E distinto un poema in libri sei ,
Dove a rappresentare el s’ora posto
l.a guerra de’ Giganti e degli Dei,
E T valor del Giganti avea preposto
Celebrando 1 Fialti c i Urlare! ;
La favola era sciocca, e gli episodi
Stiracchiati e soverchi In varj modi.
Non ti maravigliar, se di quest’arte
Nel favellare lo ti parrò maestra,
Ch’ lo ne trovai per casa alcune carte
E me ne riserbai nella canestra.
E di nascosto trattami In disparte
Tra la sponda del letto e la Dnestra,
Me le studiava, acciò non mi vedesse
Il mio Dgliuolo e me le ritogllesse.
La favola era doppia, e non avea
Né ricognlzlon, né riuscite.
Al contrario di quel, che si crcdca,
Le parti eran difformi e disunite,
Né util, nè piacer se ne traea,
E cosi terminata era la lite,
Qual abbia di lor due la precedenza.
Mentre il poema suo ne riman senza.
Non si riconosceva a nessun segno
Regola, nè precotto in quell’ordito,
Chè senza imitazione e senza ingegno,
In nessuna sua parte era pulito;
In vece di pietà movea lo sdegno,
E ’l timor di nonnulla in core ardito.
Le parole eran barbare, eran dure.
Dissonanti ed Incognite ed oscure.
Sciocca Feti virile e non curante
Nè di reputazion, nè di decoro ;
E la vecchia fingea sempre arrogante.
Incauta, ardita e prodiga dell' oro;
Saggia la gioventù, pigra c costante,
Querula, e mesta in procurar tesoro,
E facea, confondendo de persone.
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1.0 SCHERNO DEGI.I DEI. 309
11 seno ragionar come ’l padrone.
Disordinata era la tela e piena
DI fila inverislmlli e interrotte.
Descrivea fuor di tempo aura serena,
E fuor d' occaston tempesta e notte ;
Sterili gli orti e fertile l'arena,
Bianchi i carboni e nere le ricotte,
Menrogne e frasche e vaniti leggiere
E cose Inverislmlli per vere.
Ha per non istar più sui generali,
Ei cominciò cosi la sua canzona:
Era d'agosto, e per li venti australi
Venne a piover un di fra vespro e nona,
E per le buche ov’eran fitti i pali,
N'acqner Giganti di si gran persona,
Che la sera medesma eran simili
Alle torri più grandi, al campanili.
Non giungevano a lor fino a’ ginocchi
Aceri, cerri, pln, querce e castagni,
E gli strappasse su come finocchi,
E in un sorso bevean paludi e stagni;
l'arean cupole i nasi, e fuor degli occhi
Spalancati, rotondi, orrendi e magni
Gran vampa liscia, come la notte fa
La fiamma, quand'abbrucia le città.
Come d' aglietti, ower di cipolline,
Facean mazzi di monti a otto, a otto,
E pigliavano l’ alpi e le colline
Con altri poggi, e le mettean di sotto ;
Ed un che valicava ogni confine,
E chiamar si facea mastro Ncmbrolto,
Piluccava gli armenti, come noi
Kacciam dell' uva, e s'ingollava i buoi.
Costor, che le maremme d’animali
Avean disfatte in una settimana,
E le pecore c’ becchi (esche lor frali)
Con le coma inghiottite, e con la lana,
Cominciaro a gridare agl’ immortali
Abitator della magion sovrana.
Sonando le pianella; o messer osti
Portate roba, e se vuol costar, costi.
Giove, clic la cucina c la dispensa
Avca sfornita di pane c di legna,
Bada a pascer il Ciclo, e poco pensa
A satollar quella canaglia indegna;
Onde el per fame in su la vota mensa,
Porta, gridavan, canchero ti segna.
Giove li sente, e pur badando a suoi,
Risponde ad alta voce ; Or veng'a voi.
Si racchetano alquanto, ma reggendo
Che nessun comparisce, e son canzone;
Essi ornai comportar più non potendo,
Tolgon di man la briglia alla ragione.
E muovon contea 'I cielo assalto orrendo,
Tirando sassi senza descrizione,
E già verso Saturno e verso Giove,
Per disotto all’ insù gragnuola piove.
Gli Del dalle percosse sbigottiti
Si cominciano armar dal mezzo al basso ;
Zoppica Marte e chiama chi Taiti,
Che nel manco tallon )' ha colto un sasso.
Ebe portò racconci e ricuciti
Al suo Signor con frettoloso passo.
Due grandi stivaloni di vitello,
Opra di mastro Nardo Searplnello.
Tira sassi Fìalte a tre, a tre,
A cinquanta, a cinquanta Brìareo,
Ne portano a cataste, ove non n'ò.
Sopra gli omeri lor, Tizio e Tifco,
Grande sfrombola sua d’intorno a se
Gira c rigira il poderoso Anteo,
E si forte una volta sfrombolò.
Che Saturno In un gomito arrivò.
Grida il povero vecchio : Aita aita.
Mercurio a Giove carica il balestro ;
Sul Capricorno allor Pallade ardita
Cavalca e saltar fallo agile e destro;
Porta a Gònion l’ancella scimonita.
Gran quantità di rape in un canestro,
Dicendo che non trova altro per fretta,
E in giù la Dea raponzoli saetta.
Ercole dalla mazza I ragnateli
Subito leva e volgesi ai Titani;
Alle bravure sue tremano i Cieli,
Rotola i sassi c fa paura ai cani;
Scioglie dai capei d' or Diana i veli
Senza fante aspettar, con le sue mani,
E tra le chiome sue mentre s'allaccia
L'elmo, fa delle corna una focaccia.
Tamiri anco di voi. Venere bella.
Scrive clic voi v' armaste incontinente;
Ma che nel guerreggiar fiera e ruliella
Voglia vi venne, com’ avvlen sovente,
Dell'orinale, o della catinella,
E trovando un cocomero presente,
Mentre il vostro licor l'empie e l'immolla,
Rossa ne diventò la sua midolla.
Per lo caldo, die' el, della tenzone,
Che ’l magnanimo cor d’ira v’accese,
E non, come sospetlan le persone,
Per ritrovarvi al terminar del mese.
La battaglia terribile dispone
Tamiri appieno, e l' aspre sue contese.
Gli accidenti racconta, o belli, o brutti,
Che In quanto a me, non mi ricordo tutti.
Ha l'orrlbll conflitto avend'el tolto
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Sio POEMI GIOCOSI.
A raccontar con certe frati nuore,
Verbigrazia co '1 ciglio in su risolto.
Adir che suda l’ aria, quando piote.
Un concilio però subito accollo
Fu dalle Muse tutte qoante e nove,
E mandarongli a dir, che 'I mondo è reo,
Egli fé’ l'ambasciata il Pagaseo.
Se ne ride Tamii!, egli risponde.
Che le Muse non sanno e sou liuessc;
Onde scendono a lui dalle sacr'oode
Per catarlo d’error le Muse stesse;
Ed egli, appunto; e sempre piu confonde
Tropi e figure, e le fa grandi e spesse.
Sino a chiamar le strile alte e lucenti.
Sulla banca del elei lecchini ardesti.
Onde per gasligar la sua pania
A benefizio de' poeti sciocchi.
Clic credon maneggiar la Poesia,
Come si fa la pasta degl’ igiiocchi.
Tulle d’accordo in buona compagnia
Prcscr Tamlri e gli cavaron gli occhi.
Gli tagliamo le dita delle mani,
E gli fecer su T naso accenti strani.
CASTO DECI MOQ CISTO.
1/ Abitazione della Morte.
Riman la madre a divisar nel bosco
Come ella deggia incominciar l’ impresa;
Fa pensier sulla Morte , e ’l freddo tosco
Prender da lei per vendicar l’ offesa.
Poi favella tra sè ; Non la conosco ,
Non sarà forse a compiacermi intesa;
Che farò dunque ? eleggerò mezzano
Seco, il consorte mio, ch'è suo germano.
Ciò detto al Sonno immantinente corre.
Piglialo per lo crhie , e tanto il tira ,
Che malagevolmente il viene a sciorre,
Dal nodo in cui pacifico respira ;
VIen meco su . ben ti potrai riporre
Tosto alle piume tue. Tace, e sospira
Ridormendo il poltrone , alfin si desta.
Sollevando con gli argani la testa, [roda ,
Che vuol ? che il morbo e il canchero tl
Fastidiosa, importuna. Oh maledette
Le mogli e chi le piglia e chi le loda,
E dii giammai con esso lor si mette.
Che vuoi? tirati in là sulla tua proda.
Non è tempo or da correre staffette.
Ed ella : Or tad so, che diro vogPio;
Vestili per mio amor, marito mio.
Vo’ leggiereosa , il favor tuo richieggio,
Per aver dalla Morte tua sorella ,
Altrasonnoeheitluo, chi alfin poi veggio
Clic dal lume maggior si dissuggella ;
Andiaime insieme al paventoso seggio,
Non lontana è giammai 1’ orribll celta;
Ed ella, sducciofcvole omicida.
Non contende a nessun cosa eh’ uccida.
Tace , e l’aperte calze a lui presenta,
Le pianelle di fdtro in piè li pone,
Ed egli ad or ad orsi raddormenta,
E russa all' affibbiar d' ogni bottone ;
Alfin dappoiclià vcntlrinqiie, o trenta
Volle, il mento ricadde in sul giubbone.
Svegliasi affatto, e con la sua consorte.
Camminano alla casa della Morte.
Posta è la casa in una gran pianura,
A cui si va per cento strade c cento ,
E tinte son con diligente cura,
Pulite più d’ ogni brunito argenta ;
Soffia da ciascnn lato, e sempre dura.
Spirando a tergo ai viandanti il vento,
E l' aura fresca all’ odiosa porta
I piè, correndo e sdrucciolando, porta.
Tondo è il ricco edificio, e di diamante
Le mura sono a ciascheduno specchia,
Clic sì conduce al domicilio arante.
Rapido, o lento, o giovanetto, o vecchio.
L’ uscio ha per entro un dubbio calie
errante ,
Qual di più antri incavernato orecchio.
Che rende lui con ammirai»! uso,
grmprr iH'~ntnrnp rln ill’irrirrManp
Or là giunta la coppia , al suo germano
Esce incontro ia Morte e dice a lui :
Siate il ben venga, c preso lui per mano
Lieta il conduce entro gli alberghi sui.
Leva il Sonno le ciglia, e nel sovrano
Della porta maisempre aperta altrui,
Legge con nna lettera smarrita.
Scritte queste parole: Ai buoni, vita.
Per entro al limitar con la man destra
Grave d' alto martello, e con un chiodo,
Ch’ ella batte all’ ingiù sulla finestra.
Conficcando! per sempre acuto e sodo
Slà la Necessità dura maestra.
Da cui s'apprende in troppo acerbo modo,
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LO SCHERNO
Che fuggire, o difendersi non vale,
Dal colpo inevitabile e fatale.
Più là stanno le Parche , e runa al fuso
Di nostra vita il breve filo accozza,
L’ altra I* innaspa or su tirando , or gìuso,
L uman volume e lo distende e sbozza ;
La terza, o sia distinto, o sia confuso
Con la rigida man lo stame mozza
Su’ treni* anni, su’ cento c su 'quattordici.
Che il canchero gli venga nelle forbici.
Ahi, fera Parca, al ferro tuo crudele
Inevitabilmente oimè non basta
11 conturbar con Improvviso fiele ,
La vita all’uom, che agli animai sovrasta.
Che vuoi sparger l'assenzio in ogni mele,
E intrometter le man nella mia pasta;
Ma quella rima , e sia quantunque ria ,
Voglio a dispetto tuo ch’ella vi stia.
Con la Morte del parla mano a mano
Va lo Spavento in abito da donna ;
Con le orecchie di lepre ode lontano,
DI cangiante color breve ha la gonna.
Scppravvenirli orrlbil caso c strano
Teme, e trema abbracciando una colonna;
La colonna rovina , onde ci perisce ,
E fuggir si vorrebbe , e non ardisce.
DEGLI DEI. 311
DI negletti legati , c di ritorti
Testamenti derisi, alte montagne
Giacciono per le logge e per le corti
Tenaci men del paviglion di A ragne;
L’ eredità di mille vecchi accorti ,
Por cui dentro si ride e fuor si piagne,
Corre a brodetto, e si consuma c sbratta,
Alla barba di Ior che l’hanno fatta.
Mille preghiere , o che la Morte vegpa ,
0 che si parta, errar veggionsi al vento ,
L’ avaro indarno a frenar lei s’ingegna,
Chè già non rende il suo cammin più lento;
La sollecita quei, che si disdegna
Di vii moglie mal presa a suo talento ,
E la chiama con speme, e con desio,
Il povero nipote al ricco zio.
Ma fa la Morte orecchio di mercante,
Gira a tondo la falce, c non risponde;
Ulisse le Insegnò, quando costante
Passare ardi tra le Sirene l’ onde :
Si fa beffe di medici , e di quante
Ricette, ogni speziat mesce e confonde,
h di color , che ne* pianeti leggono
Levito, e in terra i colpì suoi non veggono.
LIPPI.
MALMANTILE RACQUISTATO.
SETTIMO CANTARE.
Paride depo aver mollo bevuto
Entra d‘ andare al campo in frenesìa.
E come il sonno avea pel ber perduto.
Perde nel gir di notte anche la via ;
Cade in on fosso, onde a donargli aiuto
Cormu le faie e gli usan cortesia;
Vien condotto in un antro e per diporto
La storia gli è narrata di Itagurlo.
Fino tempera te , disse Catone ,
Perchè si dee berne a modo e a verso ,
E non come colà qualche trincone.
Che giorno e notte sempre fa un verso ;
Ond’ eì si cuoce , c perchè ei va a girone ,
La favola divien dell' universo;
E vede poi, morendo in tempo breve,
Ch* è ver che chi più beve manco b«v«.
Se il troppo vino fa che T uotn soggiace
A tal crror di tanto pregiudizio;
Chi non ne beve, e quello acuì non piace,
A questo conto dunque ha un gran giudi'
Anziché no (sìa detto con sua pace) [zio,
Perch’ogni estremo finalmente è vizio;
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312 POEMI
E se di biasmo è degno l'uno e Patirò, [altro.
Questo ha 11 vantaggio, al mio parer, sena'
Perchè , se quel s’ ammazza , e non c’in-
Kd è burlalo il tempo di sua (Ita ; [vecchia,
Almen sente II sapor di quel ch'ei pecchia,
E tlen la faccia rossa e colorita.
Burlar anche si fa chi va alla secchia,
E insacca senza gusto acqua scipita ,
Che lo tien sempre bolso e in man del fisico,
11 qual l'aiuta a far morir di tisico.
Pert , sia chi si vuole , egli è un dappoco
Chi'mbotta al pozzo come gli animali:
S'avvezzi a ber del vino appoco appoco ;
Ch’ el sa che I* acqua fa marcire 1 pali :
Ma , com’ io dico , si vuol berne poco :
Basta ogni volta cinque o sei boccali ;
Perch' egli è poi nocivo il trincar tanto ,
Com’ udirete adesso In questo Canto.
Ornai serra gli ordigni e le ciabatte
Chiunque lavora c vive in sul travaglio ;
E difilato a cena se la batte
A casa, o dove più gii viene II taglio.
Chi dal compagno a ulto il dente sbatte :
Tanti ne va a taverna , ch'è un barbaglio :
Parte alla busca , e infin , purché si roda.
Per tutto è buona stanza , ov’ altri goda.
E Paride, eli’ anch'egli si ritrova
A corpo voto in quelle catapecchie :
IV Amor chiarito , figlio d'una loia,
Che svaligiar gli ha fatto le busecchie:
Dice al villsn : Va a comprarmi dell' uova :
Ecco sci giull , tounc ben parecchie :
Piglia del pane; e sopratutto arreca
Buon vino, sai? non qualche cerboneca.
E se t’ avanza poi qualche quattrino ,
Spendilo in cacio, non mi portar resto.
Messer sine, rispose 11 contadino,
lo torr* , s' io ne trovo , ancor cotesto :
E partendo gii ride l’ occhiolino ,
Sperando aver a far un po' d' agresto :
Ma facendo I suol conti per la via ,
S' accorge che e' non v' è da far calia.
All' oste se ne va per la più corta ,
El'uova, Il pane e II cacloe il vili procaccia;
E fatto un guazzabuglio nella sporta,
l.c quattro lire slazzera c si spaccia.
I.' altro l'aspetta a gloria; e in su la porta;
Per veder s’ egli arriva , ognor s’ affaccia;
E per anticipare , il fuoco accende,
I.ava i bicchieri e fa l’ altre faccende;
Pcrrh’egliò tardi, ed ha voglia di cena;
i oidi' ogni cosa ha bell' e preparato,
SI strugge e si consuma per la pena ,
GIOCOSI,
Chè li non torna il messo nè il mandalo ;
Maquand' ei vedde con la sporta piena
Giunger al fine il suo gatto frugato ;
0 ringraziato , dice , sia Minoase ,
Ch' una volta le furon buone mosse.
Chiappale robe : e mentre ch'ei balocca
In cuocer l'uova e 11 cacio, ch*è stupendo;
Sente venirsi P acquolina in bocca,
E far la gola come un saliscendo:
Sbocconcellando intanto. Il fiasco sbocca,
E con due man alzatolo , bevendo ,
Dice al vinari , elle nominalo è Meo :
Orsù , ti fo briccone , addio , lo beo.
Cosi per cella cominciando a bere ,
Dagliene un sorso, e dagliene il secondo,
Fe’ si che dal vedere e non vedere
Ei diede al vino totalmente fondo :
A tavola dipoi messo a sedere ,
Lasciato il fiasco voto sopra U tondo ,
Voltossi a’ dieci pan da Meo provvisti,
E in un momento fece repulisti.
Dieci pan d’otto.euiigiullo di formaggio
Non gii toccaron P ugola; e s’inghiottc
Due par di serque d’ uova e da vantaggio ;
Poi dice : 0 Meo, spilla quella botte
Che t’hai peri’ opre, c dammi il vlooasag-
lo vo’ stasera aneli' io far le mie lotte, [gio.
Beiteli' io stia bene , sia ripieno c sventri ,
Perchè mi par di' una lattala c' entri.
Il rustico, che dar del suo non usa.
Non saper, dice, dove sia il succhiello;
Oliò per casa non v’ è stoppa nè fusa ;
E die quel non è v in , ma acquerello.
Ci vuol , risponde Paride , altra scusa ;
E rlttosl , di canna fa un cannello ,
E in su la botte posto a capo chino ,
Con esso pel cocchiume succia il vino.
E perch' è buono, c non di quello il quale
È nato in su la schiena de' ranocchi ,
A Meo, che piuttosto a carnovale ,
Gite per P opre lo serba, esce degli occhi :
E bada a dire : Ovvia ! vi fari male :
Ma quegli che non vuol ch’ei lo ’nfinocclii ,
Ed è la parte sua furbo e cattivo ,
Gli risponde : Oli tu sei caritativo!
Non so se tu minchioni la Mattea :
Lasciami ber , eh' io ho la bocca asciutta :
Che diavol pensi tu poi eh' io ne bea?
lo poppo poppo , ma il cannel non butta.
Risponde Meo : Poffar la nostra Dea !
Che s’el buttasse, la bercsti tutta:
0! discrezione, s’e’ce n'è minuzzolo:
Paride beve, o poi gii dà lo spruzzolo.
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MALMANTILE
Koii vi so dir, se Meo allor Uroeca:
Ma l’ altro clic del vin fu sempre ghiotto,
Di nuovo appicca ai suo cannel la bocca,
E lascia brontolare , e tira sotto:
Ma tanto esclama, prega e dagli e tocca,
Ch' ei lascia alfin di ber , già meno cotto,
Dicendo ch’el non vuol che il vin lo cuoca;
Ma che chi lo trovò non era un’ oca.
Poiché dal cibo e da quel vin ebe smaglia
Si sente tutto quanto ingauullito ,
Risolve ritornare alla battaglia ,
Donde innocentemente s' è partilo :
Chè scusa non gii pare aver ebe vaglia ,
Che non gli sia a viltade attribuito:
Cosi ribeve un colpeillno, e In cambio
D’andare a letto, s'arma c piglia l’ambio.
Sema lume nè luce via sputeisa,
E corre al buio, che nè anche il vento:
Non ha paura mica della breua ,
Perch’egli ha in corpo chi lavora drento:
Per la mola sibben si scandolezza ,
Chè dando il culo in terra a ogni momento,
Quanto più casca e nella memma pesca,
Tanto più sente eh’ eli’ è molle e fresca.
Dopo eh’ ei fu cascato c ricascato ,
Per non sentir quel molle e fresco ancora ;
Cbe'l vino, equanlo diami avea ingubbia-
Opra di drento si , ma non di fuora ; [lo,
Giunto al mulin , dal mezz’ in giù sbrac-
Si sciaguatta i calzoni in quella gora, [ciato
Per dopo nella casa di quei loco *
Parsegli lutti rasciugare al foco.
Mentre si china, dando il culo a leva,
Ei fece un capitombolo nell’ acqua ;
Ond’ avvici! eli' una volta cil'acqua beva
Sopra del viti, che mai per altro annacqua ;
Quanto di buon si è , che s’ ci voleva
Lavare i panni, il corpo anche risciacqua;
E dividi l’acqua si fetente e gialla.
Che i pesci vengon tutti quanti a galla.
Le regole ben tutte a lui son note,
Che insegnò per nuotar bene il Romano:
Distende il corpo , gonfie fa le gote ,
Molto annaspa col piede e con la mano:
Intanto si conduce fra le ruote
Che fan girando macinare il grano :
Ben se n’avvede, e gii mette a entrata
Di macinarsi , e fare una stiacciata.
In questo che il meschin gii si presume
D’andar a far la cena alle ranocchie.
Aprir vede una porta, e in chiaro lume
Sventolar drappi e campeggiar conocchie :
Chè le naiadi, ninfe di quel fiume.
RACQUISTATO. 313
Coronate di giunchi c di pannocchie ,
Corrono ad aiutarlo, infin eh' a riva
Lì dove il di riluce , In salvo arriva :
E vede ali’ ombra di salcigne frasche ,
Fra le più brave musiche acquaiole.
Parte dì loro al suon di bergamasche
Quinte e seste tagliar le capriuole.
Chi tien die queste ninfe sten le lasche.
Chi le sirene, ed altri le cazzuole.
10 non so chi di lor dia piu nel buono ,
E le lascio nel grado eli’ elle sono.
Ognun si tenga pure il suo parere:
0 quelle o altre, a me non fa farina.
Bastivi per adesso di sapere
Che queste non son bestie da dozzina ;
E s’ella non m' è stata data a bere.
Elle son Fate ch’han virtù divina :
E che sia ’l vero , fede ve ne faccia
11 (ìarani scampato dalla stiaccia:
Il quale cosi molle e sbraculato
Il cadavero par di mona Checca,
di’ essendo stato allor disotterrato ,
Abbia fatto alla morte una cilecca :
Si scuote e trema si, ch'io ho stoppato
Per sati Giovanni il carro delta zecca;
E mentr'cl si dibatte e il capo scrolla,
li pavimento e i circostanti ammolla.
Ma le Fate, clic specie son di pesce, [zo,
Ed hanno il corpo a sur nell' acqua avvez-
Più che l' esser bagnate , a lor rincresce
Il vederlo cosi fradicio mezzo :
Perciò lo spoglian : ma perchè riesce,
Quando un vuol far più presto, sUrc un
pezzo;
Per trattenerlo ( mcntr’or quesU or quella
L’ asciuga) una contò questa novella :
Furo un tratto una dama e un cavalieri) ,
Moglie e marito, In buono e ricco stato,
Che fatti vecchi contro ogni pensiero
Dopo d’aTer qualche anno litigato
La grinza pelle con un cimitero,
Convenne loro alfin perdere il pialo,
E senza appello aver a far proposito
Di dar per sicurtà l'ossa in deposito.
Lasciaron due figliuoli, i più compiti
Che ’l mondo avesse mal sulle sue scene :
Perch'essi avevan tutti I requisiti (ne :
Dovutiaungalantuomoeaun uom tlabbe-
Agglunto, che di soldi eran gremiti : [ne.
(Chè questo in somma è quel che vale e tie-
Stavan d’accordo , In pace ed In amore ,
Ed eran pane e cado , anima e core.
Cosa che fare in oggi non si suole ;
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IH) EMI GIOCOSE
Perchè i fratelli a' lian piuttosto a noia ;
E se lor bau due cenci o terre al Soie ,
All’ un uiill’ anni par ebe 1’ altra moia.
E questo è il ben che a' prossimi si vuole :
E siam di cosi perfida cottola ,
Che sebben fosser anche al lumicino,
E' non si sovverebbon d’un lupino;
Perch ’ e’st>no una man di mozaorecchi,
Al contrario costor , di eh’ io favello ,
I quai di cortesia furon due specchi,
E trattavau ciascun da buon fratello ;
S' avrebbou portai' acqua per gli orecchi,
E si servian di coppa e di coltello;
E per cercar dell’ uno il bene stare ,
L’ altro voluto avrebbe indovinare, [to.
Essendo un giorno insiemead un convl-
Quami'appunlo aguzzato hanno il mulino,
E mangiati con bonissimo appetito ;
Non so come il maggior, detto Nardino,
Nell' affettar U pati, tagliossi on dito.
Siedi' egli insaiigubiù il lovagiiuolino;
E parvegli si bello a quel mo’ intriso,
Oli' cl si pose a guardarlo fiso fiso.
E resta a seder 11 tutto insensato,
Ch' ei par di legno aneli' cl come la sedia :
Pub far ( tanto nd viso è dilavato )
Con la tovaglia i simili in commedia;
E mirando quel panno insanguinato.
Ormai Uni' allegria nuli In tragedia :
Mentre nel più bel suon delle scodelle
SI vede ognun riposar le mascelle :
E butti quei clic soggoli quivi a mensa ,
1 scrii,! circostanti ed ogni gente,
Corrongli addosso ; che ciascun si pensa
Che venuto gli sia qualch' accidente ;
Nè sanno che il suo male è in quella rensa,
Com’appunto fra i'erba sta il serpente :
Reusa non già, ma leusa, ondo il suo cuore
Preso all'amo col saugue avoali Amore :
Chè gli |iar di veder, mentre iu quel tdo
Contempla in campo bianco i lìor vermigli,
Un carnato di qualche Uva di cielo.
Composta colasse di rose e gigli;
E si gli piace e tanto gii va a pelo.
Che hualuicntc , meutrech'ei non pigli
Una moglie d un tal componimento,
Non sari de’ suoi di mai più conteuto.
E giù se la figui a nel pensiero
E bianca e fresca e rubiconda c bella,
Co' suoi capelli d' oro e 1' occhio nero,
Cbe più nè men la mattutina stella;
0 comecch’ ei U vegga daddovoro,
D boto se le inchina e le favella ,
E le promette, s' egli avrà moneta,
IN pagarle la fiera all' Imprenda.
E vuol mandarle il cuore in un pasticcio,
Perch' ella se ne seri a a colazione :
E gli s' interna si coul caprìccio,
E tanto se ne va in cootemplauùooe ;
Cheli maltos' innamora come un miccio,
D’ un amor die non iu conclusione :
Ma eh’ è fondalo, come udite , la mia ,
D' una bellezza finta e immaginaria.
Cosi a credenza insacca nei frugando -,
Ma da un cauto egli ha ragion da scadere :
Che »' egli e ver eh’ Amor vuol esser solo.
Rivale non è qui con chi contendere.
Ma Brunetto II fratei cbe n' ha gran dacie,
Poicbè'l suo male alcun non puùcomprea-
Tienpcrla prima un' ottima ricetta fdere.
Per rimandarlo a casa una seggetta.
Ove condotto, e messolo In sul ietto.
Il medico nc venne e lo speziale ,
Chiamati a visitarlo; ma in effetto
A neh’ essi non conobbero il suo amie.
Disperato alia fin di dù Brunetto,
Coi gomito appoggialo in sul guanciale ,
A cald' occhi piangendo più che asai :
10 vo’ saper, dicea, quel che tu hai.
£1 che vagheggia sotto alle ieutuola
11 gentil volto e le dorate chiome ,
Nè anche gli risponde una parola.
Non che gli voglia dir nè che nè come :
Replica quello e seccasi la gola ,
lo fruga, tira e chiamalo per nome :
Ed ei pianta una vigna e nulla sente :
Pur Unto i' altro fa , eh’ eisl risente :
Dicendo : Frate! mio, se tu mi vuoi
Quel ben che tu dice! volermi a sacca ,
Non mi dar noia , va pe’ fatti tuoi ,
Perchè li mio mal non è male da biacca ;
Al quale ad ogni mo' trovar non puoi
Un rimedio ebe vaglia una patacca ;
Perch' cgti è strav agame ed aRa moda ,
Cbe non se ne ri vie» capo ne coda.
Vodi, soggiunse l'altro.och Ho m'adiro,
Oppur fa conto eh’ io lo vo’ sapere :
Hai tuqulslione? hai tu qualche rigiro?
Tu me l’ hai a dire in tutte le maniere.
Nanlin rispose dopo nn gran sospiro :
Tu sei importuno poi più del dovere ;
Ma da eh’ io devo dirlo, eccomi pronto.
Cosi quivi di tutto fa un racconto.
Brunetto odilo il caso c quanto e’ sia
U suo cordoglio, aneti’ et dolente resta :
Sebben per fargli cuor, mostra allegria i
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MALMANTILE
Ha , come lo dico, (lenirò è chi la pesta ;
Perchè in seder si gran malinconia ,
Ed nn umor sì Osso nella testa ,
In quanto a lui gii par che la succhielli
IVr terminare il giuoco a' pazzerelli :
E conoscendo eh' a ridurlo in sesto
Ci suol altro che il medico o II barbiere :
V| si spenda la alta e vada il resto,
Vuol rimediarvi In tutte le maniere:
E quivi si risolve presto presto
& andar girando il mondo, per vedere
DI trovargli ima moglie di suo gusto,
Com’el glW ha dipinta giusto giusto.
Perciò d’ abiti e soldi si provvede,
E dà buone speranze si suo Nardina ;
E preso un buon cavai lo e un uomo a piede ,
Esce di casa e mettesi in cammino,
Sbirciando sempre in qua e in là , se vede
Donna di viso bianco e chermisino;
E se ne Incontra mai di quella tinta ,
Vuol poi chiarirsi s' ella è vera o finta :
Perchè oggidì non ne va una In fallo,
Che non si mini o si lustri le cuoia -, [lo,
E dov’ella ha un mostaccio infrigoo e gial-
Ch’ ella pare li ritratto d di’ Ancroia ,
Ogni mattina Innanzi a un suo cristallo,
Quattro dita vi lascia sn di loia ;
E tanto s’ invernicia , impiastra c stucca ,
Ch'ella par proprio un angiolin di Lucca.
Di modo eh' ei non vuol restarvi coito,
Ma starvi lesto, e rivederla bene;
E per questo una spugna seco ha tolto,
E sempre accanto in molle se la tiene ,
Con che passando ad esse sopra il volto
Vedrà s' il color regge , o se rinviene ;
Ma gira gira, in fatti ei non ritrova
Soggetto che gii occorra farne prova.
Dopo die tanto a ricercare è ito,
Che I calti al culo ha fatto in su la scila ,
Giunse una aera al luogo d’ un romito,
Che a restar I* invitò nella sua cella.
A hit parve toccar il elei col dito,
(Per non aver a star fuori alla stella)
Il passar dentro ed egli e il servitore,
Ringraziando H buon uom di tal favore.
Vestla di bigio 11 vecchio macilente,
Facendo penitenza per Macone ;
E perch' ei fu nell' accattar frequente ,
Per nome si chiamò fra Pigolone.
Costui , eom’ lo diceva , allegramente
In cella raeeettò le lor persone :
Spogliò il cavallo e gli tritò la paglia -,
Sul desco poi distese la tovaglia :
RACQUISTATO. Ili
E gli troTò buon pane e buon formaggio.
Tutto accattato, ed erlie crudo c cotte,
E del vino fiorito quanto un maggio,
Cli' egli è di quel delle connina botte ;
Di che spesso ciascun pigliando a saggio.
Stettero a crocchio insieme tutta notte;
E perchè per provvedilo dir si suole :
La Lingua batte dove il dente duole ;
Brunetto, che teneva il campanello.
Dice chi sia , e che di casa egli esce
Non per suo conto, ma d' un suo fratello.
Del quale htflno all'anima gl’ incresce;
Perchè gii pare uscito di cervello :
Non si sa s' ei si sia più carne o pesce.
Cosi piangendo In far di ciò memoria.
Per la minuta contagli la storia.
Sta Pigolone attento a collo torto
Ad ascoltarlo; c polch’ egli ita finito :
Figltnol , risponde a lui , datti conforto,
E sappi che tu sei nato vestito ;
C.hè qui è I' uom salvaticn Magano,
Ch' è un bestione , un diavol travestito.
Che se tu lo vedessi , uh egli è pur brutto!
Basta , a suo tempo conterotti il tutto.
Egli ha un giardino posto iti un bel piano,
Ch'è ognor fiorito e verde lutto quanto.
Giardiniera non v’è, nè ortolano,
Chè d' entrari i nessun può darsi vanto.
Da per sè lo lavora di sua mano,
E da sè io fondò per via d' infanto,
Con una casa bella di stupore ,
Che vi potrebbe star l’ imperadore.
Ma f H vuo’ dar adesso un' abbozzata
Qui presto presto della sua figura.
Ei nacque d’ un Folletto c d’ una Fata
A Fiesnt ’n una linea delle mura ;
Ed è si I trutta poi , che la brigata
Solo al suo nome crepa di paura.
Oh questo è 11 caso a por fra i Nocentini
A far mangiar la pappa a (pici bamhinL
Oltrecch’ ei pule come una carogna.
Ed è più nero delia mezzanotte ;
Ha il ceffo d’orso, e il collo di cicogna ,
Ed una pancia come una gran botte :
Va in su i balestri ed ha bocca di fogna ,
Da dar ripiego a un tin di mele cotte :
Zanne ha di porco, e naso di rivetti.
Che piscia in bocca e del continuo getia.
Gli copron gli occhi i peli delle ciglia.
Ed ha ceri' ugna lunghe mezzo braccio :
GH uomini mangia e quando alcun ne pi-
glia.
Per lui si fa quel giorno un berlingaccio,
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aie poemi mucosi.
Con ogni pappalecco e gozzoviglia :
CIP ci la prima col sangue il suo migliaccio,
l a carne assetta in varj e buon bocconi,
E della pelle ne fa maccheroni.
Deli' ossa poi ne fa stuzzicadenti :
Sicntc in somma v’è, elle vada male;
Siccità, Brunello, figliuol mio, tu senti
CIP egli è un cattivo ed orrido animale.
Ora torniamo a' suoi scompartimenti,
Ove son frutte buone quanto il sale ;
Vaglie piante, bei fiori ed altre cose,
Coni' io li potrei dir maravigliosc.
Ma lasciando per or l' altre da parte,
Cocomeri vi son di certa razza.
Che chi ne può aver uno, c poi lo parte,
Vi trova una bellissima ragazza;
Clic per esser astuta la sua parte,
Diratti elle tu gli empia una sua tazza
A un di quei fonti 11 si ciliari e freddi :
Ma se la servi, a Luca ti riveddi.
Tu puoi far conto allor d'averla vista;
Perchè, mcntr' ella beve un’acqua tale,
Ti fuggirò in un subito di vista,
K tu resterai quivi uno stirale :
Se tu non I’ ubbidisci, ella, eh' è trista.
Vedendo clic il pregare e il dir non vale,
Intorno ti farò per questo fine
Un milieu dì forche e di moine.
E se di compiacerla poi ricusi,
Dirò che tu buon cavalier non sia;
Mentre, conforme all' obbligo, non usi
Serv ilù con le dame e cortesia :
Ma lascia dire c tien gli orecchi chiusi,
boli ti piccar di ciò, sta pure al quia :
(traccili a sua posta : tu non le dar lierc,
Acciò non fugga, c poi ti stia il dovere.
(ioti questa, clic sarò fatta a pennello
Come tu cerchi, leverai dal cuore
Ogni doglia, ogni afiannn al tuo fratello:
Ed io te n'entro giò mallevadore.
Vienlene dunque meco, e sta in cervello.
Cammina plano c fa poro romorc :
Chè se c' ci sente a sorte o scuoprc il cane.
Non occorr' altro, noi abbiam fatto il pane.
Zitti dunque, nessun parli o risponda :
Andiamo, eli' e' s’ ha a ir poco lontano.
Cosi va innanzi, e l'altro lo seconda,
E il serv itor gli segue aneli' ci pian piano ;
Ma quel demonio clic va sempre in ronda,
(ìli sente, e gli vuol vincer della mano,
l*e reliè gli aspetta; e il vccchio,cli'a!la siepe
Vien primo, chiappa su, come dir pepe.
A rasa lo strascina c te lo ficca
'fi un sacco, e con la corda ve lo serra :
E fatto questo, a un canapo l’appicca.
Clic vien dal palco giù vicino a terra:
E per pigliare il resto delia cricca.
Esce poi fuora ; ma nel fatto egli erra :
Chè quand'el prese quello, gli altri due
Ad aspettarlo avuto avrian del bue.
Ed oggimaì si trovano in franchigia;
Sicché Magorto quivi ne rimane
Un bel minchione, e n’ è tanto in valigia.
Che nè manco darla la pace a un cane.
Sfogarsi intende, e a quella veste bigia
Vuole un po’ meglio scardassar le lane :
Perciò su verso il bosco col pennato
A tagliar un querciuol va difilato.
Brunetto, che l'osserva di nascosto.
Vedutolo partire, entra nell'orto,
E corre a casa, di veder disposto
Quel ch'è del vecchio, sogli èvivoomorlo:
(osi chiuso ili quel sacco il trova posto.
Che 'I poverin, trovandosi a mal porto,
E trema e stride, e par che giù pel gozzo
Egli abbia una carrucola da pozzo.
Ed ci, le corde al saccoa un tratto sciolte,
E fatto quel meschino uscirne fuorc,
Che lo ringrazia c bacia mille volte,
E fa un salto poi per quell'amore;
Vi mette il can clic guarda le ricolte.
Dandogli aiuto ed egli e II servitore :
E poi con piatti e più vasi di terra
Due fiaschi di vin rosso, e lo riscrra.
E l'attacca alla fune in quella guisa
Ch'cg'i era prima, c poi di quivi sfratta:
E del fatto crepando delle risa.
Di nuovo con quegli altri sì rimpiatta;
Quando Magurlo in giù viene a ridsa
Con una stanga in man cotanto fatta;
Perchè gii par miti' anni con quel tronco
Di far vedere altrui eli’ ei non è monco.
Arriva in casa e sbracciasi e si mette
(Serrato l' uscio) con epici suo randello
Sopr'a quel sacco a far le sue vendette,
Suonando quanto ei può, sodo a martello,
Il romito che stava alle velette,
(Perchè l' uscio ha di fuora il chiavistello.
Andò (benché tremando, c con spavento
Che avrà di lui) c ve lo serrò drcnto.
Ed ci eli’ è in su le furie, non vi bada:
Chè insili eh' ci non si sfoga, non ha posa.
Sta intanto il vecchio all’uscio fermo in
Ad origliare per udir qualcosa; [strada
E sente dire : 0 leccapcverada.
Carne stantia, barba piattolosa,
MALMANTILE
Ribaldo, santinfizza, e gabbadei,
Ch'a quel d'altri pon cinque, e levi sei.
Guardate qui la gatta di Masino,
Cile riprendeva il vizio ed il peccato.
Se il monello ha le man fatte a oncino
Per gire a sgraffignar pel vicinato !
Ma quel eh' hai tolto a me, ladro assassino,
Non dubitar, ti costerà salato :
Chi tante volte al pozzo va la secchia,
Cb' ella vi lascia il manico o l' orecchia.
Poi sente eh' egli, dopo una gran bibbia
D’ ingiurie, dà nel sacco una percossa.
Che tutte le stoviglie spezza c tribbia ;
E ch'cl diceva : Orsù, gli ho rotto l' ossa :
E che di nuovo un altro ne raffibbia ;
E che (facendo II sin la terra rossa)
Soggiunge: 0 quanto sangue ha nelle vene!
Questo ghiottone, a me, bcc\a bene.
Bencli’ei creda finita aver la festa.
Tira di nuovo, c dà vicino al fondo.
Ed il suo cane acchiappa in su la testa.
Che fa urli che van nell’altro mondo;
Ond’ egli stupefatto assai ne resta,
Dicendo : Qui è quando io mi confondo :
Se luti' il sangue egli ha di già versato.
Come a gridar può egli aver più fiato?
Brunetto in questo mentre col suo fante
Avea di già, scorrendo pel giardino,
Il luogo ritrovato, e quelle piante
Ov'è colei che chiede il suo Nardino;
E già l' ha tratta fuor bell'e galante,
Che non si vedde mal il più bel sennino;
E con un suo'bocchin da sciorrc aglietti
Chiede da ber; ma non già se l'aspetti, [la,
Percli’ei del certo, in quantoa contentar-
Non ci ha nè meno un minimo pensiero;
E perù, quante volte ella ne parla,
Muta discorso, e la riduce al zero :
Ma perch'ella è mozzina, econ la ciarla
I.e monache irarria del monastero;
Vede, che s’ ella bada troppo a dire,
Si lasccrcbbe forse convertire.
Però per non cadere In questo errore,
Ij piglia a un tratto, e se la porta in strada;
Ed al vecchio fa dir pel servitore,
Che più tempo non è di stare a bada,
E eh’ ei ne venga ; eh’ ei l’ aspetta fuore,
Acciò con essi ancli’egii se ne vada :
Chè li non vuol lasciarlo nelle peste,
Ma condurlo al paese alle lor feste.
Cosi di là poi tutti fer partita,
Ma più d’ ogni altro allegra la fanciulla ;
Perchè non prima fu dell’orto uscita,
R ACQUISTATO. 317
Ch’ogni incanto, ogni voglia in lei s’an-
Anzi a’ lor preghi ili sul cavai salita, [nulla :
Senza più ragionar di ber, nè nulla, [no,
Va sempre innanzi agli altri un trar di ina-
lbera e bizzarra come un capitano.
Brunetto si ridca di Pigolone,
Pcrch’ ei parca nel viso un fico vieto,
E menava a due gambe di spadone.
Come egli avesse avuto i birri dreto*
E la donna diceva : Glambracone,
Clie la duri : ed il vecchio mansueto,
Che si vedeva fatto il lor zimbello :
Dagli pur, rispondea, ch’egli è sassello.
Cosi scherzando, com'iodico, In briglia.
Ne vanno senza mai sentirsi slancili ;
E sempre ognun più calda se la piglia,[chl:
Perchè il timor gli spinge c sprona i fian-
Perciò, dopo aver fatte molte miglia,
E che lor parve un tratto d’ esser franchi.
Tutti affannati per si lunga via
D'accordo si fcrmaro a un'osteria.
Dove il padron, che intende faro a pasto,
Trova gran roba per parer garbato : [sto;
Ch'ei lidi elica far non abbian troppo gua-
Ma e' non sa di' e’ non hanno desinato:
Ben se n’ accorge affin di’ ci v’ è rimasto.
Quando in sul desco poi non restò fiato;
E che quella per lui è una ricetta,
Che il guadagno va dietro alla cassetta.
Magorto intanto finalmente stracco
Di menar il randello a quel partito.
Sciolto ed aperto avendo ornai quel sacco
Per cucinar la carne del romito;
Ed in quel cambio vistovi il suo bracco,
Tra cocci c vetri macolo e basilo;
Resta maravigliato in una forma,
Ch' ci non sa s’ ei sia desto, o s' ei si dorma.
S’ io percossi quel vecchio mariuolo,
Coni' ho io fatto, disse, un eanicidio?
So eh’ io lo presi, e lo serrai qua solo,
Che gnuu polca vedermi o dar fastidio :
Non so s' lo sono il Grasso Legnaiuolo
A queste metamorfosi d' Ovidio,
Clic sono in ver meravigliose c strane ;
Poiché un romito mi diventa un cane.
Cane infelice, povero Melampo,
Che netto qua tcnei quanto si sceme !
Citi più farà la guardia ai mio bel campo
Adesso, clic tu hai chiuse le lanterne?
lo ho una rabbia addosso, di' lo avvampo.
Con quel v rechiamo, barila d’ Oloferne,
Che al certo fatto in' ha cosi bel giuoco :
Che dubbio '. metterci le man nel fuoco.
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31* PORMI GIOCOSI.
Oimv ! le mie stoviglie elisio di chianti,
di’ io tolsi io dar la caccia a un vetturale,
A ragion di quel tristo grafilasanti,
lo un tempo è versato e ito male, [vanti ;
Giuro al Cicl, ch'io non vo’ ch’cl se ne
E s’ei non vola, può far capitale
Gli' io voglia ritrovarlo ; e s' ei c' incappa.
Che mi venga la rabbia s’ ei uil scappa.
Lo troverò bensì, perdi’ io vo' ire
Qua intorno per veder s' io lo rintraccio.
Cosi corre alla porta per uscire ; [vacclo :
Ma ci non può farlo, pereti’ e' v’ò II chia-
La scuote e sbatte per voler aprire;
Ed or v’ attacca l’ uno, or l’ altro braccio :
Sui.Hu aitine vanne e corre ad alto,
E da’ balconi in strada fa un salto.
Ma perchè ci vede quivi le pedate
Volte al giardino, e poi verso la via.
Che Brunetto e quegli altri avean lasciate,
Quando v ' entraro, e quando andarmi via;
Insospettito, lascia andare il frate,
Ed entra nel giardino; e a quella via
Scorge quel suo cocomero diviso,
Ch' è stalo il fargli un fregio sopr’al viso.
Poiché levata gli han quella figliuola
Che in esso, coni' ho detto, al trovava :
Per la stizza non può formar parola :
Si sgraffia, batte i denti c fa la bava ;
E spalancando poi tanto di gola,
Urla, bestemmia II Clel, minaccia e brava,
Dicendo ; O Maometto, e tu comporti
Che si facciano al mondo questi torti ?
In quanto a te, chi ti pisciasse addosso,
So ben che tu non ne faresti caso ;
Ma io, elle da' miei di mai bevvi grosso,
E le mosche levar mi so dal naso.
Saprò ben lo a costor fare II cui rosso ;
Credilo pur ; perché, s’ e’ si dii il caso
(Che si darà senz' altro) eh' lo gli arrivi ;
Io me gli vno’ di posta ingoiar vivi.
Ma dove col cerve! son h> trascorso?
Più bue di me non è sotto le stelle ;
Perdi' innanzi ch’io abbia preso Perso
Vuo’ (come si suol dir) vender la pelle :
Falli el voglkm qui ; perché il discorso,
Fuor che al sensali, non fruttò rovelle :
E mal per chi ha tempo e tempo aspetta :
Che mentre piscia il can, la lepre sbietta.
E però primaclté a viola a gamba
Una foga mi suonln di concerto,
A casa Plgolon vogl'ir di gamba,
Che vi sarà co’ complici del certo.
Cosi ronchiuso, corre, ch'el si sgamba,
E come un bracco va per quel deserto
Tutti quanti quei luoghi a uno a uno
Cercando, s’ ei vi seuoprc o seste ateo no.
Quei della celta del romito è H primo,
Ove trovando il passo e porto franco,
Intana drento, e non vi scorge nino:
Fruga e rifruga in qua e In là, nè anco :
Sgomina ciò che v'è da sommo a hno;
Ma lutto in vano: ood'egll al fine stanco
Se n' esce eoo le man piene di vento,
Ma dieci volte più di mal lalento.
Entrò nel bosco.eognl contrada scorse,
E in somma ne cerco per mari e monti,
E vedde, senza metterla più In forse.
Il pigiato esser lui al far de' conti :
Onde nel fine all' arti sue ricorse,
Che pur vuol vendicar si grandi affronti :
Cosi v’ arriverò po' poi in quel fondo.
Se voi foste, dicea, di là dal mondo ;
E poiché fatti egli ha certi snoi incanti.
Che gli riescon bene, e vanno a vanga r
Andate, dice, o stumtnia di furfanti ;
Poich' a pianger volete eh' io rimanga.
Che sieno in casa vostra eterni pianti.
Tal che ciascuno, e fino al gatto pianga :
E cosi poi, di quanto aveva detto,
Nè più nè manco ne segui l'effetto.
Poiché Brunetto e le sue camerate
Pagaron l'oste (Il quale assai contese,
Perchè le gole lor disabitate
Gli eran parate care per le spese)
Partiron ; e poi dopo altre fermate,
Ei le condusse salve al suo paese;
E giunto a casa, ringraziando il Cielo,
Entra in sala, e di posta fa un belo.
Entra la donna col romito appresso,
E cominclaro a piangere ambedui :
Entra il famiglio ; e aneli' egli fa lo stesso.
Senza saper perché, nè men per cui t
Trovan Nardino ancor di male oppresso,
E sbietoiar lo veggono ancor lui :
L’astante, che porgevall l'orzata,
Pur ne faceva la sua quattrinaia.
Nardin vede colei bell' e vezzosa.
Com’appunto l’aveva nel pensiero,
E dice ; Ben venuta la mia sposa :
Voi mi piacete affé da ravallero :
Ma voi piangete? Ditemi una cosa :
Voi cl venite a malincorpo, è vero?
Non vogliate risponder ch’e’ non sia,
Perchè voi mi diresti una bugia.
Mettete pur cosi le mani innanzi
(Ilispond’ella) signor, per non cadere;.
MALMANTILE
Mentre, temendo ch'io non mi ci stanzi,
Specorate si ben, ch’egli è un piacere:
Ch’Io mi levi ditemi dinanzi,
Chè voi non mi potete più vedere,
Senza darmi la burla, ch'io m’acquieto,
E senza replicar do volta a drcto.
Nè sossopra la man non volterei,
Chè l'andare e lo star mi son tutt'una;
E bcnch'a! mondo lo sia conte gli Ebrei
Che non hall terra ferma o patria alcuna ;
Andrò pensando intanto a' fatti mici,
Per veder di trovar miglior furtuna;
Perchè, come diceva mona Berla :
Citi non mi vuol, segn' è eh e non mi mcrta.
Ed ri risponde : Oitnè, signora mia !
Non vi levate in barca cosi presto :
S'io non v’ ho detto o fatto villania.
Perchè venite voi a dirmi questo?
Abbiate un po’ più flemma in cortesia :
Ch’ogni cosa andrò bene in quanto al resto:
Voi siete beila, ed anco di più sposa;
Perù non vogllat' esser dispettosa.
Ella soggiunge ed egli ribadisce :
Ella non cede ed ei risponde a tuono :
Pur gii acquieta Brunetto e alilo gli uni.
Siccbè l' un l’ altro chiedesi perdono; [sce,
Ma non per questo il lagrimar finisce,
Ch’ognorain casa e fuora e ovunque sono
( Perchè sempre si smoccica e si cola)
Hanno a tenere agli ocelli la pezzuola.
Vivonoin somma in un continuo pianto:
Piangono i servi e piangon gii animali ;
Onde il guazzo per terra è tale e tanto,
Che e' portai! tutti quanti gli stivali.
Ma torniamo a Magorto, che frattanto,
Per saper quel che sia di questi tali,
E dove la sua figlia si ritrovi,
Ha fatto ai consueto Incanti nuovi :
E veduto eh’ eli’ è tra buona gente,
Moglie d'iin ricco c nohii baccalare,
E che giammai le può mancar niente,
Perch’ ella è in una casa come un mare ;
Non ri so dir, s’ei gongola e nc sente
RACQDISTATO. Il»
Contento grande c gusto singolare,
Di modo cb' ei si pente, affligge e duole
Di quanto ha fatto e risarcir io vuole.
Perciò per un suo cogito se nc corre,
E nell'orto lo porta, dove è un frutto,
Ch' hai pomi d'oro, e ne comincia a corre,
Durando fin che l' ebbe pieno tutto:
E poiché dentro piò non ne può porre,
Sapendoche '1 suoaspettoè molto brutto,
Si lava, ripulisce c raffazzona,
E rimbellisce tutta la persona.
E presa addosso poi quella sua cassa,
Cli’è tanto grave, cli’ei vi crepa sotto;
Si mette in via, e presto se ne passa
Ov’ è la figlia e il flebile raddotto,
Che ai suo venire ogni mestizia lassa,
Mutando in riso il pianto si dirotte;
E versa i pomi in mezzo della stanza.
Poi si sberretta in tennin di creanza.
E dice ch’egli è il padre della sposa,
E che di lui ima abbiano spavento:
Perch'egli ornai scordato d’ogni cosa,
L'antico sdegno totalmente ha spento:
Anzi, come persona generosa.
Vuol dare agli sponsali 11 compimento,
Ch’è quello che la sposa abbia la dote,
E che non vadia a marito a man vote ;
E perchè qualsivoglia donnkcìuo!»
Porta la dote ed il corredo appresso,
Accioccb’ in quella casa la figliuola
Possa mostrar d' aver qualche regresso.
Nè che gli abbiali a aver quel caldo In gola.
Che nn picciolo nè anche v' abbia messo ;
La vuol dotar conforme al grado loro
Con quel gran monte di bei pomi d'oro.
Gli sposi allor brillando con Brunetto
Gli rendon grazie e fan grata accoglienza ;
Ed ordinato un grande c bel banchetto,
Reiterar le nozze in sua presenza :
Ed egli poi alfin con ogni affetto
Riverì tutti c volle far partenza.
Lodandosi del furto dei romito,
Che si grand’allegrezza ha partorito.
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*J0
POEMI GIOCOSI.
AUTORI VARJ.
BERTOLDO, BERTOLDINO E CACASENNO.
CANTO QUINTO.
Bertoldo esce del sacco e ruba la veste della regina.
Inchinevole è l’ uomo per natura
Ad esser nel suo viver poco accorto;
Bada al presente, e l'avvenir non cura,
E stassi In mar come se Tosse in porto;
Ma sol, qualor crude! Fortuna c dura
L’ assale , egli allor pur cerca conTorto,
E pensa a provvedere al proprio scampo,
Uopo caduto nel non visto Inciampo.
Cosi , nel sacco il buon Bertoldo chiuso,
La fuga meditava entro il pensiero;
Ma quale inganno potrà porre in uso
Povero e sprovveduto prigioniero!
Come fia che giammai resti deluso
L’attento e mercenario carceriero, [ga,
Tanto che il )acdo,ond'egli è stretto, scìol-
E si dal grave suo periglio tolga! [bla
Più cose el pensa , c poi non sa qual s'ab-
Egli ad usare per non dare in secco ;
Chi, parte per amor, parte per rabbia.
Là gli conviene dover starsi a stecco ;
E porta invidia agli augelletti in gabbia,
Chèalmcn dei buchi cacciati fuori il becco ;
Chi in nlssun luogo il suo sacco i sdrucito
Per cacciarti a unbisoguoalmenouudito.
Gli sbirri per lo più soli genti accorte ,
E forse questi i più degli altri destro;
Ond’cgli teme giustamente forte,
Chela cosa finisca in un capestro;
Pure risolve di tentar la sorte,
E far, potendo, un colpo da maestro;
Cosi, qual fosse da gran cure oppresso,
A ragionar comincia fra si stesso :
Oli destin ladro ! in qual misero stato,
Per esser ricco, tristo me, son giunto!
Perchi non son per mia fortuna nato [to.
Dami vllian becco.. ..equi tacque, e fe'pun-
Poi ripigliò : Chi se l’ avvia sognato,
Che per la troppa roba In questo punto
Dalla reina io fossi ora costretto
A sur in questo sacco maledetto!
E poi perché ! e perchè a tal ridutto,
Cile movermi non posso a mio piacere!
Perchè son ricco : c questo non è il tutto ;
die a mio dispetto dar mi vuol inogliere ;
Ed io che de' miei beni il dolce frutto
Voleami solo e vergine godere ,
Dovrò, per far piacere alla reina,
Bella donna tener sempre vicina!
Moglie a me, che son brutto conte Esopo
Moglie bella a uno stroppio econtralfattn !
Certo non voglio ber questo sciiopo.
Nè segnar mi faranno un Ul contratto;
Mi converrebbe roder, come il topo,
Gli avallai altrui , ed io non son sì malto ;
Dirò ben lo, se la reina torna ,
Clic non vo' far provi iglon di corna.
Lo sbirro slava a queste voci intento
Più eli' una donnicciuola a' fatti altrui ;
E tingendo d’aver gran sentimento
Di quelli dolorosi affanni sui,
GII chiese la caglon del suo lamento,
Quasi nudrisse in scn pietà di lui;
E domandò chi fosse, e come e quando,
E per qual colpa stesse là penando.
Bertoldo replicò : L' aver d' cntrau
Ogni anno scudi mila cinque , o sei
È la mia colpa ; ni' iianno destinala
Una mogliere, ed lo non la vorrei;
Per forra ella esser dee da me sposau,
E per questo io son qui, e tu qui sci.
Pur questa una fortuna altrui saria ,
E a me la non mi va per fantasia.
Caro fratei, io ti dirci coni' è,
Ma per pietà cavami fuor del sacco,
Gilè dallo star si curvo, per mia fè ,
Sono del tutto oramai pesto e fiacco;
In ogni modo cosa importa a te,
Ch' io sia cotanto disagiato e stracco!
Or, se tu mi farai questo servirlo,
lo ti darò di questo caso indirlo.
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BERTOLDO, BERTOLDINO E CACASENNO.
Lo sbirro allor, che pur bramava udire
Il caso e veder anco la figura ,
Disse : Ti slegherò, e Cuora uscire
Potrai , purché parola abbia sicura ,
Che quando poi finito avrai di dire
Questa tua storia lacrimosa e dura ,
Senza aspettar ch’ioti comandi e preghi.
Tu ritorni tiri sarco, ed io li leghi.
lo tei prometto, allor disse il villano;
E lo sbirro, poich'ebbe il sacco sciolto,
N' apre la boera , e quel prende per mano,
E col favor d' un lume eh' avea tolto.
Ben ben lo guarda , c nel veder lo strano
Sesto di vita, il petto, il dorso, il volto ;
Pan egli appunto un di que' babbuini ,
Che mostrano a' fanciulli i Levantini.
Poter del mondo! non ho visto mai.
Gridò lo sbirro, un ceffo cosi brutto :
Ma la tua sposa t' ha veduto ? I’ hai
Tu visitata? anzi io son qui ridutto,
Disse Bertoldo, e provo questi guai ,
Perché mi sposi pria , poi veda il lutto ;
K prender mi dovrà, coni’ io son fatto,
Che rimedio non v ’ è, se il dado è tratto.
E presto presto mi saran sborsate
Per grazia spedai della reina
Due mila doble delle mal tagliate ,
Che allo sposo futuro ella destina.
So che le cose son molto imbrogliate,
Quando una bella a un bruti'uonioé vicina;
Onde fortuna tal sprezzo e non curo,
Chè pur troppo abbastanza il capo ho duro.
Guarda che bel banibin da torsi in brac-
Una ragazza dilieala e beila ! [ciò
Esclamava lo sbirro; e un tal mostaccio
Toccherà a quella povera donzella ?
Povere donne, In qual mal strano impaccio
La sorte v i conduce , e poi v' uccella ,
E legate al voler del genitore ,
Vi conviene pospor genio ed amore!
Perchè costui è ricco, non si bada
S’ egli è poi mal in ordine e mal fatto ;
Con tale sposo la donzella vada,
E non si pensi , se ancor fosse malto ;
lo che son pover uomo, per Istrada
Da me ognun fugge , qual topo dal gatto ;
Io son sano, io son dritto ; e pur la sorte
Tocca a costui, ch’ha braccia e gambe stor-
Bertoldo disse allor : Se tu volessi , [te.
Io potrei farti ricco in un momento.
Come vorresti mai che ciò facessi?
L’ altro dicea : Non v' è provvedimento.
E quei : Basta che adesso io lì cedessi
321
Il mio luogo, ed entrassi tu là drento ;
Chè non ho voglia di sposar costei ,
Citò sarian troppi li perigli mici.
Unqualclie matto ! c quando domattina.
Lo sbirro ripigliò, venisse qua
Con tutta la sua corte la rcina,
E vedesse la cosa come sta ,
Per lo men mi farla porre in berlina,
E frustar pei quartier della città.
Caro fratcl, no no, certo non voglio
Entrar a bella posta in questo imbroglio.
Senti, non dubitar, soggiunse il tristo
Bertoldo; e poi , quando l’ avrai sposata,
E la sposa si bello t’avrà visto,
Ella sarà contenta, e a te sborsata
Sarà la dote, c farai presto acquisto
D' un pingue stato, c crescerà l' entrata
Per la morte del padre , vecchio ornai ,
E cavaller, non sbirro, allor sarai.
Entra nel sacco pur, l' altro ripiglia;
Qual tu la fai , non è facil la cosa.
0 poveraccio, meglio ti consiglia,
Dicea Bertoldo , e becca sulla sposa :
Vuoi tu, che il padre ti nieglii la figlia,
Quando la cosa è fatta? nè ritrosa
La reina li sarà a quel ch'è fatto,
E sborscratti anzi la dote a un tratto.
Vuoi tu che generosa per natura
La rcina ti manchi di parola?
E contenta sarà di sua ventura
La sposa , perch'ella è buona figliuola.
Fortuna, amico mio, passa e non dura;
Chi non la ferma e tien, viafuggee vola;
Ed io non ti dirci una bugia ,
Se avessi ad esser re di Lombardia.
Tu te n’ andrai in casa della sposa ,
E li daran, se vuoi, dell' Eccellenza;
Ch’ oggi titolo tal non è gran cosa ;
Basta esser ricco, o averne l’apparenza ;
La tua vita sarà lieta c gioiosa.
Risolvi dunque c non aver temenza.
Entra nel sacco, c a diman non sarai.
Che, s’ io ti volli lieti, t’ accorgerai.
Qui tacque; c dopo avere un po’pensato,
Lo sbirro ripigliò : Tu m’hai si bene
11 fatto facilissimo mostrato.
Che quasi di tentar voglia mi viene.
Chi sa , ebe la Fortuna preparato
Non abbia a me meschino questo bene?
Citi non sguscia non mangia la castagna,
E chi un po’non arrischia, non guadagna.
Bertoldo tutto allegro , allor s’ accorse
Ohe il topo era vicino a trappolarsi
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3» POEMI GIOCOSI.
E «celò lo sbirro più non stesse in forse,
Dei negozio mostrò più non curane :
Obi a Fortuna , dicea , le man non porse
Quand’ era tempo, può I capei graflìarae ;
Inutilmente non to’ più gracchiare;
Aprì pur , chè nel sacco I’ to’ tornare.
Aspetta un poco, chè c’è tempo ancora,
Disse lo sbirro ; a clic cosi l’ affretti ?
AUor Bertoldo: Io non to' più star fuora;
E quel che ha tempo , tempo non aspetti;
Forse a tal cosa s' ha a pensarvi un'ora?
Insomma sempre fur veri que’ detti:
Chi lava II capo all' asino, e ’1 giubbone.
Perde l’ opera , il ranno ed li sapone, [lo.
Pian pian, caro fralcl, l’Impegno ho tol-
L’ altro dicea , d’ entrar nel sacco adesso ;
He conosciuto ben che m' ami molto :
Quegli Interruppe: Nonsonplù quel desso;
In van tu chiedi , ch'io più non t'ascolto.
Ah per pietà, dicea l'altro, concesso
D'entrar dentro nel sacco ora mi sia;
10 te lo chiedo, amico, In cortesia.
Bertoldo, a ciò lietissimo, soggiunge :
Oh ria , son troppo tenero di cuore;
E tal amor per tc dentro mi punge.
Ch’olire ch'io porto ad ammogliarmi orro-
11 desio di giovarti ancor s'aggiunge: [re,
Su via, fa presto, e non farclam rumore;
Io tengo il sacco, entravi pur tu drcnto,
E non si gcllln più parole al vento.
Orsù, riponi ben quest' altro braccio,
E gtuso un poco abbassa più la testa.
Oimè , grida lo sbirro , Il mio mostarclo;
Tu mi vuoi acconciar pel di di festa.
Coraggio pur, disse Bertoldo; lo faccio,
Perchè la tua grandezza ini è molesta,
Che non penso annodar ben questo groppo;
Ch'altro tu più di me sei un po'troppo.
Mentre dire tal cose , el s’ affaccenda
A legare la bocca al sacco stretta ;
E perchè con lo sforzo non s'arrenda,
Slaeelasl tostamente una calzetta,
E la grossa legacela , e senza menda ,
Ch'era fatta di canape perfetta,
Rilega Intorno diligente c scaltro.
Et c fa due o tre groppi un sovra l'altro.
Aveva avuto lo prevedlmento
Di levargli uno stile che portava ;
Chè nessun sbirro allor avea ardimento
IN portar arrhibtiso, o non usaXa.
Anzi v' era un reai provvedimento,
Che agli sbirri portar armi negava ;
Lo stll Bertoldo ascose In certo loco;
Cosa el n* fece , lo direni fra poco.
Poi rivolto allo sbirro: Stai tu bene *
Disse. E quei : SI, ma troppo panni duro
Lo star qui In piè, chè nulla mi sostlane;
Tu potresti appoggiarmi dietro II muro,
Ch’io starò là finché la sposa viene.
Bertoldo il prende , e ponelo in sicuro ;
Anzi di lui sì piglia un po' di gioco ,
Fingendo non trovar agiato loco.
Orsù, sta zitto zitto, e non parlare,
Soggiunse, chè la sposa verrà presto.
Lo sbirro disse: Non tu dubitare!
La sposa attendo , e con la sposali resto.
Replicò I’ altro: Me ue voglio andare.
Finché nessuno nel palazzo è desto;
Chè d'alzarsi a buon’ora lian percostume ;
Poi disse : Buona notte, e spense il lume.
Lasciamo per un poco lo insaccato
Sbirro nel career suo plen di speranze,
E vediam , se Bertoldo sla Imbrogliato
Ad uscir fuor delle reali stanze.
Egli era in ver benissimo informato,
E pratico era ben di quelle usanze;
Sapeva dove la retna stava ,
E che di là non lunge riposava. [sa
Ora all'uscio pian pian l'orecchlotppres-
Per sentir se si vegli , o se si dorma ;
Nè sentendo rumor, l’apre un po’ in fessa ;
Quinci entra, ei passieoi timor conforma,
Sicché non lascierla sul suolo impressa ,
Se polve fosse , alcun vestigio, od orma ;
Evasi pian, che giusto par si mova,
Come se avesse a camminar sull' uova.
Faccaduc passi, cpoi si trattenea,
Perché non fosse qualche cosa mossa ;
Dolcemente avanzava, e fin temea
Quel piccolo romor clic fanno Possa
E sovente P orecchio ancor tendea ,
Se la reina inai sf fosse scossa;
Pur s' accorse alla fin , ch’ella dormiva
Al romor che facea come una pira.
Nell'angolo più oscuro della stanza
Era una ricca alcova fabbricata,
E dentro v' era un letto a tutta usanza ,
E più morbido assai della giuncata;
Quattro tende letavan la speranza
Al Sol di palesar la sua levata ;
E v’era sovra il letto un baldacchino
Di velluto , o damasco erentesino.
Colà sua maestà si riposava;
Quando al tristo Bertoldo In mente venne,
Mentre vicino al letto si trovava ,
Di levarle d' addosso P andrienne ;
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BERTOLDO, BERTOLDINO E CACASENNO. 321
Vetta, che ancora anticamente usava.
Benché a* di nostri sol di Francia venne;
L* usanza durerà , perdi’ ella ha cura
Di coprir i difetti di natura.
S' accosta al letto, e cerca con la mano
Cosi tenton, se trova il vestimento:
Lo trova alfine , e levalo pian piano.
Sicché non faccia nè ronior nè vento :
Preso che I’ ha, si fa quindi lontano.
Ed intorno sei caccia in un momento;
Anzi nei mentre egli l’ imbraccia e inette.
Col grosso dito entro vi pianta un sette.
Nella camera appresso la reina ,
Dormiva certa vecchia sospettosa.
Antica più di quei che fu Gabrina,
Crespa, barbuta, rancia, lagrimosa;
Suo spasso era il gridar sera c mattina,
E più eh’ ogni altra mai era noiosa;
Sicché creder si può da un tale indizio,
L’ a v esser 1’ altre donne in quel servizio.
Costei le di iati delle stanze appese
Teneva a un chiodo presso il capezzale ,
Che a chiuderle la sera sempre intese.
E questo era il suo uOzio principale;
Che cautamente non facca palese
li vizio che alle vecchie è naturale.
Di condurre ad amar la gioventù ,
Quando in amor esse non posson più.
Entra Bertoldo, e per aprir le porte
Prende le chiavi senza soggezione;
Sapeva d ben che potea far più forte ,
Ch’ era sorda costei come un zuccone ;
Sapca di più eh’ ella l’ odiava a morte ,
E sempre gii noceva all’occasione;
Egli venne in pcnsicr di vendicarsi,
E di costei un poco ancor burlarsi.
Or con Io stile tolto all’ infelice
Sbirro, egli fece un picciol forametto
In fondo al vaso, clic nomar non lice
Per ogni convenevole rispetto.
Acciò madama la governalrice ,
Venendo il caso, scompisciasse il letto :
Se ciò accadesse allor, dir noi saprei ;
So che accadde a un poeta a’ giorni miei.
Mentr’ egli slava in alto d’ uscir fuora.
La buona vecchia nel sognar disse : Otto :
Pensò che di giocar ella alia mora
Sognasse ; ma di piu sette , e ventotto.
Sognando aggiunse; ed ei s’accorse allora,
Che dormendo costei pensava al lotto;
E in ver ella avea il lotto sempre in vista ,
E sotto il capezzal tenca la lista.
Che fece il tristo allor? cosi allo scuro
Prese un po’ di carbon da un scaldaletto,
E un gran quattro dipinse sopra il muro.
Che parea proprio il grugnod’un porchet-
S’ og accadesse dò, io v’ assicuro, [to.
Taluna certo Impegnerebbe il letto;
Chè non si sa tentare la Fortuna ,
Senza badare ai sogni, oal fardi Luna.
Bertoldo intanto con la veste intorno
Apre le porte , e le lascia cosi ;
Benché fosse vicino il far del giorno,
E un freddo sommo facesse a que’ di,
Perch’era il Sole allora in Capricorno;
Ma il villan non v’attese e fuora usci,
E vide di’ era un poco nevicato,
E si trovò, adir ver, molto intricato.
Fra sè stesso dicca : Come farò?
L’ormc de’ piedi miei conosceranno;
Ma le scarpe al rovescio mi porrò.
Ed al rovescio Forme stamperanno.
Ei cosi fece , c come non lo so ;
So, che in tal modo sì tolse d’ affanno.
Se talun non intende il fatto, o il ditto.
Sappia che il Croce 1' ha lasciato scritto.
Ciò che fece Bertoldo, e che gli avvenne,
Lo sentirete or or nell’ altro Canto,
io vi dirò, che le dorate penne
Spiegò 1’ Aurora pallidetta intanto ;
Anzi , clic un poco di rossor le venne
Per la vergogna d’ esser siala tanto,
Credendosi , perduta nel diletto,
Troppo esser stala col suo amali le in le Ilo.
Appena in cielo col diurno lume
I cavalli del Sol facean ritorno.
Che la reiua lasciava le piume,
E si poneva 1’ andrienne intorno.
Felice etadc , in cui era in costume
Fare la notte notte , c giorno ìl giorno,
Nè si credeva d’ esser più onorato
A letto stando il di, la notte alzato.
Cerca la veste, e non la trova, o vede.
Nè si rammenta dove I* ha lasciata;
Alle sue damigelle ne richiede,
E nessuna I' ha vista, o I’ ha trovata;
Così ella pensa francamente , e crede
Che lo sbirro vichi l’ abbia involata.
Di questi temerari e van pensieri
Le donne ne fan spesso c volentieri.
Poscia imbracciato un altro vestimento,
Portossi ove la sera avea lasciato
Lo sbirro fuor del sacro e 11 villan drento;
E pensando che quei fosse scappato.
Più chiaro le’ del suo furto argomento ;
Onde accesa di sdegno in ogni lato,
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POEMI GIOCOSI.
Biuró per 11 dmler ili suo marito
Di vendicarsi , e morsicossi un dito.
Quindi al sacco accostossi , e col villano
Credendo ragionar, gli disse : Ebbene ,
Galantuomo, sei più d' umor si strano?
fio signora, io farò quel clic conviene,
Disse lo sbirro, e non son più lontano
A pigliar quel eh’ util può farmi , o bene.
Pigliar! Che cosa? disse la reina;
Pigliar forse una qualche medicina?
Si, st, te la vo' dar. fi’ avrò piacere,
Disse io sbirro, e qui mi sia condotta.
Ella rispose : l.a potrai godere.
Che a lei ti condurremo tuli' allotta.
Come? Io sbirro disse : egli ò dovere
Ch' ella qui venga ed il boccone inghiottì;
Qui la donna da me sarà sposata,
E qui la dote mi sarà sborsata.
Hestò sospesa la relna a tale
Discorso, c disse ; lo vo' veder cos’ è;
Mi si cavi un po’ fuor questo animale,
Ch’ io lo ravvisi. E ciò tosto sì fé’ ;
SI vuotò il sacco c si scoperse il male.
Quel villan tristo me I' ha fatta affò ,
Esclamò la rcina, e a tal offesa
Di doppio sdegno fu in un punto accesa.
La donna In furia aver non suol ritegno,
Nè corre sol , ma nel furor galoppa :
Tal vedendo deluso il suo disegno
La relna mostrò sua rabbia troppa :
E la collera sua giunse a tal segno,
Che per furore le scoppiò una poppa ;
Sicché il barblcr ili corte fece prova
D’ allacciarle un bracbier d usania nova.
Orsù , disse , costui si pigli tosto,
E a colpi di baston sia fiacco e pesto.
Nel sacco iiu' altra volta sla riposto,
E nel fiume vicin si porti presto,
lo vo’ch’ ei muoia or or ad ogni costo;
Tanto si faccia ; il mio volere è questo.
Tanto si fc' ; lo sbirro bastonalo
Ben bene , fu nell’ Adige gìttato.
Povero sbirro, per tua mala sorte
In man di donna irata capitato!
Che , quando meno tei pensavi , Morte ,
E non la sposa , li trovasti a lato !
0 vaiti fida alle promesse accorte
D’ un villan tristo, che si t’ ha ingannato.
Insonima è vero, ed è provverblo antico.
Che si credea un villan , cornea un nemico.
Ma affò, che a' nostri di per questa via
Bertoldo non scampava certamente;
Son gli sbirri oggigiorno una genia
Destra, accorta e ben spesso impertinente.
Ch’usa frodi, e fora’ anche villania;
Cosa , che non usava anticamente ,
Quando Alboin d’Italia il freno tenne,
E che il gran fatto, ch’ho narrato, avvenne.
Orsù, finiamla; la reina irata
Con pregiudizio del reai decoro,
Qua e la correva come spiritata,
E non trovava al suo furor ristoro.
Buona parte del giorno fu impiegata
A cercar del villan; ma mio lavoro
Questo non è; voi ben I' udrete. Intanto
Chiude la morte dello sbirro il Canto.
PASSERONI.
CICERONE.
CANTO DEC1MOSESTO.
Anticamente tutti i gran signori
Tenean appese con ben saldi chiodi
De’ loro venerabili maggiori
Le immagini dipinte in varj modi :
V’eran dotti avvocati c senatori
E capitani valorosi c prodi :
E ve n' era più d’ uno in fra di loro,
Cui pendeva dal collo il toson d'oro.
E v'eran più di cinque, 0 più di sei;
Che sdegnando un’origine mortale,
Cercavano i parenti fra gli Dei,
E face va n dei Ciel uno spedale:
Chi da Ercole, o dagli altri Semidei
Sccndca per linea retta, o trasversale :
E, come appunto s’ usa all’ età nostra.
Chi più ne avea, più ne metter a in mostra.
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CICERONE. 355
Amichinoli neavea,prendeane In pre-
sto,
Chi le imposture al mondo eran già note ;
Più d’un faceva qualche strano innesto
Sugli alberi piantando le carote :
Chi al ter facendo un torto manifesto,
Si spacciava di Romolo ncpote,
Chi parente d’ Evandro, e chi volpa
Discendere da Troia, e chi da Enea.
Premesso questo, forse alcuno aspetta
D’udir parlar dell' ascendenza altera
Di Tullio, c nell' entrar nell'antldelta
Galleria, nella quale io l’altra sera
Penetrar non potei, perche ama fretta,
Fondatamente oggi d'udire spera
Di Marco nominar diciotto o venti,
Trenta, quaranta, o più chiari ascendenti.
Ma,o che non fosse in Marco punto punto
Di superbia, di fumo c d'albagia,
Oche in Arpino, dot 'egli era appunto,
Di pittori vi fosse carestia,
0 qualche Incendio avesse a lui consunto,
Come forse è successo in casa mia.
Degli avoli le immagini non conte.
Chi le disgrazie sono sempre pronte.
Comunque sia la verità del fatto,
lo so, che Marco in tutta la sua casa
Non avoa de' maggiori alcun ritratto,
E si poteva dir tabula rata :
E perciò oscura c quasi Ignota affatto,
Con mio gran dispiacer, oggi è rimasa,
Rlmasa è, diro, ignota alle persone
La genealogia di Cicerone.
E questo essendo veramente il loco
Di nominar di lui qualche ascendente,
Imbrogliato ritrovomi, chi poco
Io so della sua stirpe, anzi niente :
E Apollo invano, invan la Musa Invoco,
Perchè su ciò ni' illumini la mente,
Chè T un fa 'I sordo, l' altra non risponde,
E non mi può venir soccorso altronde.
È ver, ch'io potrei pure in qualche modo
Supplir, no 'I niego, a questo mancamento:
Potrei, fingendo di parlar sul sodo,
Varj nomi Inventar a mio talento,
Chè questa è cosa, sia destrezza, o frodo,
Che la fanno altri ; pure io non mi sento
Tanto coraggio, ed inventar non posso
L'na sola bugia, tanto son grosso.
So, che per mia disgrazia io sarò sempre
Povero, e che nessun mai vorrà darmi
Cosa alcuna, che 'I mio sudor contempre,
Perchè mentir talor non san mici carmi :
Ma tenga pur con me l'usate tempre
Fortuna, eh' io nè mcn voglio cangiarmi,
E se la sorte povero mi fece,
Bugiardo mai non mi farà per diece.
M a se non av ea Marco un’ampia schiera
Dipinta nelle sale d'antenati,
D’ una gran cosa poi privo non era,
Per consenso degli uomini assennati :
SI perch'è posta la nobiltà vera
Nelle vlrtuti, e ne’ fatti onorati,
Si perchè nella nobiltà sovente
V è dell' abuso anche presentemente.
Ma qui di esaminare io non pretendo
Quest’abuso, o sia antico, o sia moderno:
Per quel, che corre, la moneta spendo,
Senza guardare al suo valore Interno :
E quelle cose a criticar non prendo,
In cui più rischio, che utile discerno :
E a me non tocca a dar sentenza intera
Sull'altrui nobiltà pretesa, o vera.
lo dico sol, clic certi impertinenti.
Che ripongono tutti i loro onori
Ne’ loro eccellentissimi ascendenti,
Che furo al tempo, che passaro ì Mori :
E a un bisogno non hanno altri ornamenti,
Nè altri merli, da que’ degli avi in fuori,
E si stimano più, clic non conviene,
Io dico, che costor non fanno bene.
Per me possono aver mille ritratti,
Fatti da Cimabuc, pittore antico,
Che se non s’assomigliano ne' fatti
A’ lor maggiori, io non gli stimo un fico :
Che vai, se gli avi lor furono fatti
Conti, o marchesi fin da Federico,
Quando imitargli ad essi poi non caglia,
E se il rovescio son della medaglia?
E stimato un deslrier di buona razza.
Perchè simile al padre si suppone :
Ma se quando lo mena in su la piazza,
O in mercato, per venderlo, il padrone,
E guercio e zoppo ed ha più d’ una chiazza,
E scorgere si fa per un ronzone,
Potria esser figlio de’ corsier del Sole,
Che lo strapazza ognun, nessun lo vuole.
In certo modo si può dir lo stesso,
Perdonimi chi è nobile, o si tiene,
Forse di molti nobili d' adesso;
N’eccettuo quei, ch'eccettuar conviene :
Se alla nascita lor fan torto espresso,
Clic vai, che scorra loro entro le vene
Un chiaro sangue, se da lor s'oscura
Quel dono accidcntal della Natura?
E se avessero un poco di prudenza,
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116 POEMI GIOCOSI.
Degli avi lor le immagini ramose.
Onde san si superbi all' occorrenza.
Per vergogna dovrian tenerle ascose :
Cbè nel vederli pieni d’ insolenza,
D’ ignoranza, di fasto e d' altre cose,
E di valore c di saper si poveri,
Pan loro.anclte tacendo, aspri rimproveri.
Trovaronsi i ritratti, non per boria.
Ma perchè ad onta dell'alato veglio
Viva e fresca restasse la memoria
Di que' che fumn di virtute speglio :
E per destare un bel desio di gloria
Nel cor de' riguardanti : o per dir meglio,
Acciò degli avi lor l'eccelse doli
Imitassero un di tardi nepoli.
Ed era santo un simile istituto,
E produsse più volle un buon effetto :
Conte appunto di Osare e di Bruto,
E di mille altri eroi vetusti ho letto :
Spesso un ritratto taciturno e muto
Pa molta Imprcsslon nel nostro petto !
E tal mover non punn le altrui parole.
Clic a un solo sguardo movere si suole.
E Orazio disse giù nella Poetica,
Che dò, che passa per gli orecchi in noi.
Più debolmente gli animi solletica
Di ciò, che vede un uom cogli occhi suoi :
Hanno gli sguardi una virtù magnetica.
Che tira molto più, che un par di buoi :
Alle parole altrui taiun non crede,
Ma nessun può negar quel ch’egli vede.
E quando noi sentiamo verbigrazia
Un orator, che alla virtù n’esorti,
S'cgli non è dabben per sua disgrazia,
Ei può far conto di parlare a’ morti :
Ma se accoppiasi suo dircon buona grazia
Anche l’esempio, altor seniiam più forti
Stimoli al core a far quel tanto, eh’ esso
Ci predica e che fa prima egli stesso.
E s’io dicessi a voi, signori, fate
Que) eh' io dico, cioè tutto l’ opposi to
Di quel ch’io fo, fareste le risate,
E mi direste ancor qualche sproposito.
L’esempio è quel, clic move le brigate,
Cora’ io diceva : e sopra un tal proposito
Io non voglio passar sotto silenzio
Quell’ omiedatto cli’è presso Terenzio.
Guardando unquadro. che rappresenla-
Giovein certo atto sconcio e disonesto, [va
Costui la sua natura stimolava,
Dicendo... ma già voi sapete il resto :
Però, pittori miei, con quest’ ottava
Esser non vi vorrei troppo molesto,
Pur vi priego di nuovo e vi scongiuro,
A non dipinger mai nulla d'impuro.
0 più tosto mi volgo a voi clic siete
Capi di rasa e che per la Dio grazia
Una famiglia numerosa avete,
Ève la guardi il Ciei d'ogni disgrazia:
Padri c madri, vi dico, non tenete
In casa vostra e vel domando in grazia.
Non tenete pitture, che sten poco
Oneste, ma gettatele sul foco.
Volgeri ad esse il desioso ciglio
I.a vergine, e ’l fanciullo, e qualche male
Quelle tele faran, qualche scompiglio
Nel loro cor, eh' è troppo naturale:
E per ben vostro c loro, io vi consiglio
A tener nelle stanze c nelle sale.
Immagini divote o certi quadri
Rappresentanti spirti leggiadri.
Cosi fe’ Marco e s'cgli de’ ritratti
De’ suoi maggiori aveva carestia.
Mille nomini di garbo eran ritratti
Nella prefata insigne galleria :
Ed ecco eh' io secondo i nostri patti,
0 tardi, o tosto son tornato in via :
Dunque vediam prima, che venga sera,
In questa galleria che cosa v'era.
Nel elei di quella stanza si vedea
Dipinto delle Muse il nobil coro,
E Kebo in allo di cantar sedea
Colia corona in lesta in mezzo a loro :
Vera Mercurio e la Cecropia Dea,
Vera la Fama colia tromba d'oro: [rio,
V era T deslricr, che diede acqua col cal-
E rodeva d’alloro un verde Iraleio.
0 pittor temerario ed ignorante.
Tu porre in bocca l’onorata fronda.
Che serve a' regi in vece di turbante,
E le leste poetiche circonda.
Tu porla in bocca a un asino volante
Osasti? e tu Dio della testa bionda,
Come il couscnti ? non hai tu altro strame.
Da discacciare agli asini la fame?
L’arbor gentil, elle giù cotanto amasti,
Se pur le ne ricordi, in corpo umano,
Di cui la lesta poi t' incoronasti,
Fatto per doglia, e per amore insano,
1 di cui rami non soli tocchi, o guasti
Dal fulmine, che rade a lui lontano.
Da un asino sarà consunto e roso
indegnamente l'arbor glorioso?
Ma lo scaltro pittor forse già alluse
Al poco conto, che si (iene adesso
Dell’ alloro c di Febo e delle Muse,
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CICERONE.
E de’ versi e di Pindo e di Permesso
Da certuni I quali han le menti ottuse,
E Intenti al vii guadagno, all' interesso,
Stima non fanno d’un gentile spirto,
E Taglieria non lian di lauro o mirto,
O accennò forse quell'usanza Indegna
Il sagace plttor che ors’e introdotta,
Per cui la fraude si pregiata e degna
A mal termine vedesl ridotta :
Questa gii un tempo gloriosa Insegna
Di sagri ingegni in quest' età corrotta
Cosi vilmente si disperge e dona.
Che un asino talor se ne incorona.
0 scherni forse qualche vii cantore.
Che ornar pretende il capo suo leggiero.
Perche sa in versi cinguettar d’amore.
Dell’ apollinea fronde e andarne altero:
E Ih, dirò cosi, tanto rumore
Sopra un candido sen, sopra un crinnero:
E va qua e li rubando da diversi
Autori ora I concetti ed ora I tersi.
V erano oltre le Immagini suddette,
Dipinte in aria grave di matrone.
Le Sibille, ma il libro non ne mette
11 numero, onde v’è gran quisftone :
Chi vuol, che fosser due, ehi sei, chi sette,
E taluno sin dieee ne suppone :
m
Chi tre, chi quattro, chi cinque, ehi una,
E chi otto e chi nove e chi nessuna.
Se qualche cosa non avessi detto
Sulle anticaglie altrove, certamente
La palla questa volta sul mio tetto
Saria caduta fortunatamente;
Potrei porre In ridicolo II difetto
Di tanti e tanti dell’eti presente.
Che perdon l’olio, Il trmpo e la fatica
Sopra una cosa vana, incerta, antica.
Quando nel mondo »' t tanta farragglne
Di cose necessarie, utili e certe,
E partili una solenne mellonaggine
Le vie piane lasciar per le aspre ed erte :
E pur tanti per troppa dabbenaggine
Lasciati le cose certe per le incerte :
Lasciano il proprio per l’ appellativo,
E direi quasi. Il buono pel cattivo.
Cercan le cose amiche e troppo oscure,
In cui spesso ne avvlen di travedere,
E delle nunve poi che son sicure,
La notiila non han, che s’ ha da avere :
Simili appunto a que' che sanno, oppure
Si dan vanto oggigiorno di sapere
Ciò che succede in Francia, In Inghilterra,
Nò san dò, che si fa nella lor terra.
LALLI .
ENEIDE TRAVESTITA.
LIBRO
Io canto l’ arme c M bravo capitano,
D’una Troia figliuola che al Tebro venne ;
E per terra e per mar con tempo strano,
Fortune del gran diavolo sostenne :
Gli fe* Giunone più d’un soprani mano;
Portò 1 suoi Del nel sacco, e gli mantenne :
1 Sono da questa raccolta escluse le tradu-
zioni ; ma il Lalli travestendo V Eneide ha
tradotto e inventato. Quindi non isgradiran-
no i Lettori questo breve saggio della sua biz-
zarra fatica. Egri fu il padre di colai genere
di parodie e pTecedè le Scarron e gli altri
PRIMO.
I suol fondaro, a rischio delie coste,
Roma, e forni Ha poi di calde arroste.
Musa, ridimmi a pien d’onde fu mossa
La Dea, moglie di Giove, insplritata,
A dare al galani’ uom sì gran percossa,
E tanto odiar tutta la sua brigata.
travestitoli stranieri. Si noti poi che il Lalli
succede qui al Passeroni, come il Caporali al
Foriiguerri, perchè ci ha parse pib acconcio
distinguerei componimenti secondo le specie
che secondo l’età.
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338 POEMI
Perchi. cosi di stirta in faccia rossa,
Gli menava ogni punto una stoccata :
Tanto puO dunque, anco lì su concetta,
La collera cornuta e maladclta?
Eravi una clttade, e inaino allotta.
Che gli uomini n’ andatati senza brache,
Corsero a fabbricarla i Tiri in frotta,
( Per star coperti a guisa di lumache )
Rincontro a Italia, ove il gran Tever trotta
Per adacquar carotte e pastinache :
Avea la gente poderosa c ricca
E sempre intenta a maneggiar la picca.
Chiamatasi Cartagine : c si cara
Era a Giunon con tutto il suo domino.
Che a par di quella. Santo illustre c chiara
Non Istlmava un marcio bagaltino.
Qui letica la carretta, ed a migliora
Spargea le grazie sotto il baldacchino;
E se la palla non perdeva il tondo,
Capo la solca far di tutto il mondo.
Questa at ea inteso, clic dovea ben tosto
Dalla razza troiana esser disfatta;
E che un lor duce ne vcrria disposto
Di mandarla in tre colpi a casa matta.
SI ricordata ancor, che a lor gran costo
S’oprò contro i Troiani a spada tratta;
E che in favor de’ Greci suoi diletti
S’ avea più volte alzato i mauicltctli.
Teme a ragion della troiana gente,
Di Pari ha in mente la sentenza strana,
Clic facendo del giusto e del saccente,
Ebbe ardir d’ anteporle una puttana.
La spregiata beiti la fa dolente,
Di Ganimede poi la cifra è piana;
Cagioni tutte, che crucciosa e pazza
Sempre odiò di Venere la razza.
Per questo dunque quei Troiani afflitti,
Che con le carabattole fuggiti,
E stracchi, a pena si tenean più dritti,
Volea tener più che potea sbanditi :
Ed era suo pensier, eli' essi sconfitti
Non approdasser mai d’ Italia ai liti;
Tanto pesava una si fatta mole
Dell’ A, B, C, della romulea prole.
Erano di Sicilia usciti a pena.
Dove imparate a mente quattro ottave,
In quella lingua di dolcezza piena,
Le givano cantando in su la nave :
Quando Giunon, lasciando anco la cena,
In rimirar, che avean vento soave;
Per la rabbia crude! che la trafisse,
Cosi tra sè farneticando, disse t
GIOCOSI.
Ch'io sempre stia di sotto; e che ne' porli
Enea giunga d'Italia a mio dispetto?
Mai, mai, mal non sari, che ciò comporti ;
Troppo deH'onor proprio io ci rimetto.
Gnaffe ! il chiamano i Fati : tutti i torti
Apparecchiala gli han la sposa e il letto ;
Ed lo son per restare in questo caso
Con sei palmi lunghissimi di naso.
Sla quel che può ; fu Palladc bastante.
Sol con un solfanello, c un po' di fuoco,
All’ alte navi d'Argo trionfante
Far, come volse, un maladetto giuoco.
Essa, essa contro Aiace fulminante
Un tizzone involò di Giove al cuoco;
Essa avventolle ; e per leggiera colpa,
L’ossa gli abbruciò alfln, non che la polpa.
Ed lo regina cosi magna, ed io.
Che del gran Giove son consorte e suora ;
Bastevole non son, col poter mio.
Quei quattro scalzi annichilare ancora?
Peggio è questo, che torna ; ahi caso rio !
Citi più di me tien conto, e chi mi onora?
N'andran gli altari mici tulli in fracasso,
10 vilipesa, ed il mio culto a spasso.
Cosi dicendo, a rompicollo corre, [na;
Dove Austro, e gli altri venti Eolo imprigio-
E può lor senza tema il freno imporre,
Come colui, che n' è re di corona.
Quivi ognuno di lor cerca di sciorre
La sua catena, c romoreggia c tuona,
Che ne trema il terren, scuote la fronte,
Paralitico fatto il vlcìn monte.
Alla sua regia man maggior possanza
Ne diè le chiavi, e prigionler ne 'I fece.
Egli a sua voglia In quell' orrenda stanza
Attaccati gli Ilei) sin con la pece;
Poiché allrimente, per loro arroganza,
11 mondo inticr non stimcriano un cece;
E presto il balzcria quella canaglia,
Come una piuma vii, come una paglia.
Dunque, poiché Giunone alla presenza
Di sua reai ventosità fu giunta;
Prima gli fe’ una bella reverenza,
E de' ginocchi gli chinò la punta.
Poi disse : Salve, o re, la cui potenza.
Che li diè il Cielo, è col saper congiunta;
Tu eli' a tua v oglia il mar confondi e mesa.
Assoluto padron dei miglior pesci.
Naviga il mar Tirreno una canaglia,
Al conto mio con l'oste a me nemica;
Clic di Troia avanzata alla battaglia,
Salvossl coi Penali a gran fatica.
Per giungere in Italia or si travaglia,
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ENEIDE TRAVESTITA. 329
E regnarvi, c piantarvi anco le fica :
Or questi ; sommergendo ogni vascello.
Deh manda per mio antor tutti In bordello.
Ho sette e sette Ninfe c linde c belle ;
l.a più bella di tutte 6 Dcinpea ;
Appresso alla cui rossa e bianca pelle,
Parratti una bertuccia Citcrea.
In moglie questa, o qual vorrai di quelle
10 ti darò, se tu sommergi Enea;
Di figli quindi avrai vezzosa schiera,
Alta a fornire ogni maggior galera.
Conviene a te, regina, Eolo rispose,
11 comandar ciò che il voler tl detta;
Ed a me l'eseguir l’ imposte cose,
Ch'io solo qui per te regno a bacchetta:
Se regnar si può dir questa ventosa
Mia monarchia di cosi magra incetta.
Del suol raffreno i turbini c dell’onda,
E su poi mangio a tavola rotonda.
In questo dire il cavernoso monte
(3osl spaccò, die parse una ricotta :
E i venti allor, con baldanzosa fronte.
Tutti sbucar dalla profonda grotta.
Fero alla terra gran dispetti cu onte,
E T turbo con la polve fe’ alla lolla;
Scorrendo poi del mar l' alte campagne,
L’ondc in torri innalzavanoc in montagne.
Eccovi nelle nasi un parapiglia.
L’ila confusimi maggior del mondo :
E chi sbatte la man, chi si scapiglia,
Per la temenza di cader nel fondo :
Chi chiama il babbo, il figlio, e chi la figlia,
Chè l' aiuti a placare II mar profondo ;
E sminuzzano i cuori in mille fette,
Ombre, lampi, balen, tuoni e saette.
Enea, quantunque bravo, aneli' ei tre-
Morso dalla tarantola parca; [mante,
E con timor, che cade in uom costante,
Con qualche lagrimetla, alto dicea :
Ohimè, questa è una morte da furfante ;
In guerra con più onor morir potea;
Felici quei, che si morirò a Troia ;
Qui moriam sotto i legni, e il mar fa il boia.
0 fortissimo figlio di Tideo,
Felice me, se m'ammazzavi allora
Ch' il forte Ettorre, e Sarpedon cadeo ;
Ch'oggi di questi intrichi io sarei fuora.
Ma se vuole il mio fato iniquo e reo,
Che bevendoa pien corpo in acqua io mora,
Perchè non fu nel Simoenta, o Xanto,
Ch’ han l' acqua dolce, e qui salata è tanto ?
Miri poscia Aquilon, colmo di rabbia,
Cavalcar l'ampio mar senza stivali;
E farlo corvettar sovra la gabbi ).
Con salti orribilissimi e mortali.
Squarciatisi Tonde, e puoi mirarla sabbia ;
Vola la vela Infranta anco senz'ali.
Gli uomini sopra Tacque in quelle tresche,
Palon far capitomboli e moresche.
Vera un monte sublime Are chiamato,
Monte era dianzi, ed or coperto scoglio;
Colà tre navi spinse il mar turbato.
Come aggirolle il suo cornuto orgoglio.
Tre ne furo alle sirti (o gran peccalo!)
Tratte, arenate in quel confuso imbroglio.
Una di Liria, che guidava Orante,
Midolla Borea in barra di Caronte.
Eran le navi e i naviganti insieme,
Ogni arnese troian tutto in conquasso;
Il legno buon d’ llloneo. clic geme,
E quel d’Acatc eran già andati a spasso;
Quel d’ Abantc e d’Alctc all’ ore estreme
Parcan condotti, c non valeano un'asso;
Quando Nettuno a cosi gran tempesta,
Stropicciandosi gli occhi alzò la testa;
E disse: Olà, che gran fracasso è quello?
Indi con grazia rimirando intorno,
Vide i legni d' Enea tutti in fardello,
E n’ ebbe in vero e dispiacenza e scorno :
S'accorse, che Giunon si gran macello
Fatto n' aveva, e dato il fiato al corno ;
Onde chiamando 1 venti alla ragione,
Il capo lavò lor senza sapone :
Bazza perversa, cl disse, ed insolente,
Fannosi senza me si fatte cose ?
Voi, voi senza di me Rellor possente.
Ardite d'irritar l'ondc orgogliose?
Ma vi farò. ... ! mel terrò bene a niente ;
Abbonacciamo pria Tacque ritrose;
Questo eseguir tosto dispongo, c poi
1 conti nostri salderem tra noi.
Dileguatevi via, brutta canaglia,
E dite al re, eh' è un re di fanfaluche;
lo qui son re assoluto; a lui sol caglia
Tener ristretti voi tra quelle buche :
Di quei suol nudi sassi cl si pretaglia,
E delle sue albagie magre e caduche :
Quivi ponga sua reggia, e T capo stilli,
Ed attenda a pigliar nottole c grilli.
Ciò detto appena, con T orecchie basse
Partirò i venti c fe' ritorno il Sole.
Cimotoe e Tritoli nell' onde trasse
Le tre, eh' urtar nella sassosa mole :
L'altra poi tre, che fra Tarane basse
Seppellite giacean sino alle gole,
EI stesso col tridente rlpescolle
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POEMI GIOCOSI.
330
Dell’ acquatico umor pregne e satolle.
Cosi reggiani talor malli cervelli
Destar tumulti e orribili tcnaoni ;
E volar con furor tra questi e quelli
Sassi, saette, faci, aste e sponlouL,
Se vion.ch’un uom di garbo gli rappclli,
Dell' aulorevol rauca de’ Catoni,
S'acquelao rispettosi, e tutti iu fretta
Lasciaci la luffa, e fatigli di berretta.
Cosi tantosto che Nettuno al velili
Fece la solennissima bravata;
Con le loro bagaglie riverenti.
Si rintanar dentro la grolla usato :
Egli pel marco' suoi destrier correnti.
Tranquillo l' acque sol con un’ occhiato ;
E quel Troiani, dopo rie procelle
In Libia al0u storiar, salva la pelle.
Slassi sulla riviera collocato
Uu'isolelto graziosa e bella;
Qfce risospintì liene, e dileguato [la.
Dal scn, che sembra un porto, ogni proccl-
Placido un golfo sotto si dilata,
K gli arbori gli fan fronzuto ombrella ;
S’erge di qua di lì dritta montagna,
E il luogo 0 tal che sembra una cuccagna
Con sette navi Enea, che gli avanzare,
Qui si condusse assai male in arnese;
E i Troiani di botto si lanciare,
Saltando come gatti in quel paese.
Con l’esca e col focil; poiché sbarcato,
Il diligente Acate il foco accese ;
Indi l’ un l' altro compartillo, e poi
Rasciugava ciascun gli stracci suoi.
Le vettovaglie lor, per l’ acqua grande,
Kran già diveniate guazzabuglio;
E gran disagio avean delle vivande,
CbiFavea poste il mar tutte ingarbuglio.
Ciascuno i cibi molli ai foco spande.
Echi gli asciugai chi ne fa un miscuglio ;
Altri 11 cibi sodi intento stassi
A macinare, od a pestar co' sassi.
Enea sovra mio scoglio il guardo gira,
S' alcun de’ legni suoi di già smarriti,
D’ Anteo, Capi, o Calco si raggira,
0 in allo mare, o quinci intorno ai lilL
Tre grossi cervi iutonlo egli rimira,
E appresso a lor minori altri infiniti, [re,
Ch'crgcano errando io su que’ colli a scble-
D' ogni cornuto a par, le corna altere.
Egli , che l’arco ave», però che appresso
Gliel portata mai sempre il fido Acate,
1 primi tre pria saettò con esso.
Che si morir per gran necessitate.
Scguitonne quattro altri, e a un tempo
Gli fece anco restar bestie scornate, [istesso
Son sette navi, e sette 1 cervi a punto,
Grassi da poter farci anco il pan unto.
Racconsolato da si fatte prede
Enea per compartirle ai suoi ritorna:
Fu preso a lieto augurio or, eh' egli riede
Con gli eccelsi trofei di tante corna;
Ad ogni nave intero un cervo ei diede.
Che per sette c per nove il conto torna ;
E pose i vasi dei licor di Bacco,
Dono d’ Aceste, allegramente a sacco, [ti,
Poscia Enea disse : 0 miei compagni anta
Di cancheri è ripieno il pazzo mondo :
Noi gii mille perigli abbiam passali,
Or uclla terra , ed or nel mar profondo :
Scilla, fra scogli orribili e celali.
Poco mancò non ci traesse a fondo :
E da color non fussiiuo anco spenti,
CI»’ hau solo un occhio e centomila denti.
Allcgrauicule : il mondo ha questa
usanza
Di travagliar ; ma il mal non sempre dura ;
Dolce un giorno vi tia la rimembranza
D’ogni periglio rio, d'ogui sventura:
Clic d’ Italia acquisiiaui la maggioranza,
Per varj casi vuol I* eterna Cura:
Colà vedrcin delle fatiche il Due,
Che v’ha de' buon pollai, buone cantine*
Fabbriche rem colà Troia novella:
Or fate animo voi da paladini,
E mostrate a Fortuna empia e rubella,
Ch' avete cervelloni adamantini :
Cosi asconde quel duol, che lo martella.
Clic non lo porlerian trenta facchini,
Fingendo, come aneli’ io, di sonar l’arpa ;
Ma beu sapcu, dove premea la scarpa.
Fra lauto addosso ai ceni i compagnoni
S’ avventarono lutti; altri grau fette
N’attende ad iiililzar negli se bidoni ;
Altri a bollir dentro un caidar le mette ,
Ognun fa fuoco , o stuzzica i tizzoni ,
Perchè l’arrosto cd U bollir s’affrelte :
Ognun mangia e divora e a colma tazza
Beve , fa brinzi allegramente e sguazza.
Finché mangiar , si stette allegramente.
Nè vober ricordare i morti a tavola;
Poi la rabbia crudel ritornò in mcnte[vola;
Del mar, quando più freme e più s’ india-
ci! i piangeva il compagno, e chi ’l parente.
Chi la sorella, c chi la madre o l'avola :
Nè sanno indovinar se in quella tresca,
0 son sommersi, o pur si stanno a pesca.
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ENEIDE TRAVESTITA. 331
Enea fra gli altri gli occhi arca si rossi,
Che parcan foderati di prosciutti ;
Or d' Amico, or d'Oronte ricordossi ,
DI Già . Lieo c Cloanto, e d'altri tutti ;
Ma Giore Intanto del Troian percossi
MirO il malanno e le sciagure e i lutti ;
Vener, che tede occaslon si bella ,
Gli si fa incontro , e poi così favella :
Padre che puoi delmondoa tuo talento,
E disporre e giocartelo al pallone ,
E col fulmln focoso, In un momento,
Arderlo , e trasformarlo in un carbone ;
Deh qual fallo d’Enea, qual portamento
A lui muore, ed ai suoi tanta tenzone?
Perchè gli dan la caccia in ogni loco ,
La terra istessa c l’aria c l’acqua c il foco?
Ornai, non sol l' Italia a lui promessa,
Ma del mondo assoluto il veggio escluso.
La graziagli' i par vostri hau già concessa,
Dì rimbrogliarla poi non hanno in uso :
La brigata di Dardano già oppressa.
Che si traspianti in Roma era conchiuso;
E eh' indi nascati gli uomini sapuli.
Per spular leggi ed infilzar statuii.
Tu per me ’l promettesti , ed or vorrai.
Padre, mutarmi, ohimè, le carte in inailo?
Con questa speme I già passali guai ,
Consolav’io, col tuo voler sovrano.
Novella Troia di veder sperai;
Dunque mia speme c ’l tuovolerfiavano?
Quando fia il fine di si lunghi affanni ,
E quanto diircran questi malanni?
An tenore, o Signor, nel proprio esigilo,
Non ebbe già si maladclto intoppo :
Chè d' Adria al seno, senza alcun periglio,
Giunse volando, non che di galoppo.
Al regno dei Liburni cl diè di piglio;
Passò il Tioiavo, c quel volubil groppo,
Dov'ci s’avvolge, e più superbo appare.
Con nove boccile , c dà tributo al mare.
Qui fondò Padoa ; qual Troia novella
Vi collocò le paesane insegne :
Qui si attende a fondar terre e castella ,
E pacificamente el gode e regna; [bella)
E noi, die siam tuo sangue (or questa è
Il Padre islcsso villaneggia e sdegna ;
Son tapini i Troiani e mezzi morti ; [torti.
Da una sol donna han mille Ingiurie, e
L'aspra tempesta ha il mio figliuolo
Dilantcnaviglièrestalounzero: [afflitto;
D’attingere, confuso e derelitto.
Piò non confida U già promesso impero;
Vuol questo la pietà ; vuol questo II dritto?
Ohimè ohimè, che credo lo piti; che spero?
Cosi dicea stizzata; e Giove allora
La mira e bada In fronte e la rincora ;
Stanne , o diletta mia , di buona voglia ;
In me confida , e non temere on pelo :
Quel eh’ ho promesso già , non ti s’ imbro-
Manterrà saldi I suoi decreti il Cleto, [gtla;
Tosto avverrà eh’ I vostri Italia accoglla
Io straccierò d’ogiti contrasto II volo:
Vedrai sorger Lavinio,c al tuo diletto
Darò poi qui tra noi camera c letto.
Ma per mostrare a te la ronfa intiera
Di quanto i fati nostri han stabilito ;
Elica sarà In Italia ; e grande c fiera
Avrà una guerra, e sosterralla ardito.
GII converrà domar gente guerriera :
Vi fonderà città. Sialo infinito
E potrà , posti I Untoli in fracasso, [so.
Trcanni, agitanti inman, starscncaspas-
Sarà suo successore il giovinetto
Ascanio suo , che lido oggi è nomato :
E che primieramente Ilo fu detto,
Finché Ilio cadde, c fu perduto il piato.
Giuochcrà sempre in Alba a trìonfetto ,
Finché il trentesimo anno fia spirato ;
Ove farò d’ Ettorrc I figli illustri
Sguazzar, signoreggiar sessanta lustri.
Ilia poi nc terrà, la cui bellezza
Piacerà in somma al furibondo Marte;
A bazzica faranno, e male avvezza.
Ella andrà sotto al giuoco delle carie.
Di lui fia pregna In somma , e con salv ezza
Verrà di partorire a imparar l' arte ;
E produrrà , se ben non senza duolo ,
Due garbati bambocci a un parto solo.
Romolo uno di questi , un lesto fante,
Con pelle d'una lupa riverita;
( Poiché una lupa impietosita errante
Gii darà il latte, e manlcrrallo invita)
Fonderà Roma poi, Roma galante.
Che fia di mano in man sempre ingrandita,
Roma, di cui diran le dotte scuole:
Urbem mi Ruffe, l’rbem mi Ruffe cole.
E Giuno istessa ch'orco! grilli in testa
1 vostri Teucri di spiantar procura ,
Tutta ungioraoaddolcita, a mia richiesta
Piegherà alfin quella testacela dura.
Ella tnedesma poi fia pronta c presta
A procurar di Roma ogni ventura :
Non dubitar , eh’ lo non ti dica il vero ,
Ch' anco tei giuro a fé, da cavaliero.
Argo, Micene, Ptia , la Grecia tnlien,
D' Assaraco alla casa fia soggetta.
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POKMI GIOCOSI.
Ed alla barba lor fari primiera
La stirpe tua magnanima c diletta :
I)a lido poscia , c dalla iulia schiera
L'n Cesare famoso Italia aspetta:
Chiaro lìn dove II Sol fra 1 mar profondi,
Iiuon giorno c buona notte da a duo mon-
Quesli domato il popol d’ Oriente, [di.
Che contro Roma braverà In credenza ,
E soggiogatoli tutto arditamente,
Qua suso aneli’ ei Tara la residenza.
K la buona la giù credula gente
baragli altari, voti e riverenza:
Ed in quella tranquilla e lieta ctade
Rimesse (ìan nel fodero le spade.
I .a salila vesta e l'incorrotta fede
Terra Io scettro, c Remo c ’l buon Quirino ;
1.' empio furor con la catena al piede
Non potrà più giuocarc a sbaraglino.
Sbàtterà il capo al muro, clic non vede
I.a forza sua stimata un bagattino:
Vorrà i suol ferri rugginosi c lenti
Tanto azzannar, finché vi lasci I denti.
Disse; c in Libia spedi di Maia il figlio,
Ch' òcome,ierblgrazia, un buon rutilano,
Perché bidone con allegro ciglio
Fesse accoglienze al grande eroe troiano :
Ch’ egli co' suoi corrcan qualche periglio
Dal popol di Cartagine si strano.
Rannido il re de’ ladri allor le penne
Con lurla , a rompicollo in giù ne venne.
E si addolci coloro in poco spazio ,
E tante disse chiacchiere e novelle ,
di' Enea senza pagar gabella o dazio ,
In Libia fermerà le caravelle.
Or quivi giunto, dopo lungo strazio.
Pensò la notte, or queste cose, orquelle:
Conchiuscalfin,ch'all’apparìrdcl giorno,
Quel loco Incolto si spiasse intorno.
Il bosco di Raccan parcan quei campi;
Ove si fosse , ci non sapeva allora :
E perché In qualche briga non inciampi,
Andò a spiarne anch' ei senza dimora ;
Ma pria fra quel cespugli avvien che se-
ta navi sue non iscoperte ancora;[campi
Poi va coi dardi , e con Acate In fretta
Di qua di U giuncando alla civetta.
Ed ecco in mezzo alla gran selva adocchia
Graziosa donzella , e parca tale ;
Ella è sua madre, c intanto l'infinocchia,
Come in maschera occorre il carnevale:
Sparso il bel crine, ignude ha le ginocchia ,
Qual eacciatricc Ila poi l’arco e lo strale;
Come Arpallce già , che sul cavallo
Passava l'Ebro , e parca gisse al ballo.
Ed ella incomiuciò : Veduto avreste
Delle sirocchic mie quinci oltre alcuna
Clic ha l’ arco, e d ’un cervier la sopravesla,
E feroce cinghiai segue importuna?
Rispose Enea : Per queste ampie foreste
Non incontrammo di costor veruna :
Ma tu , chi sei , che con un' aria tale
Fai restar la più bella uno stivale ? [miro.
Donna non sei , ma Dea, per quel ch'io
0 suora a Febo, c cara figlia a Giove,
0 Ninfa scesa dal superno giro,
Con tal sembianze, e si leggiadre e no ve:
Ma qual tu sii , de' casi , iu cui m’aggiro.
Deli fa , eli’ In te qualche pietà ritrove.
Dimmi s' io giunsi, dai mici lunghi errori ,
In paesi de’ Turchi o pur de’ Mori.
Multi anni andiam raminghi ed allog-
giando, [date.
Quando in campagna, c quando all’ospi-
Testè sbarcammo, c andiamo addlman-
Di chi pur sia questo paese, e quale, [dando
Dillonii, prlego, poiché sonoin bando
Da casa mia , senza aver fatto male ;
Ch’io vo’jiol, di mia man la carne e Fossa
D’ una vittima offrirti, e grande e grossa.
Venere allor rispose : Onor celeste
(Guarda la gamba) usurpar io non bramo ;
Noi tutte in Tiro verginelle oneste ,
Arco portar , calzar coturni usiamo ;
In Tiro , dico , chiamar Urie queste
Contrade, ancorché libiche, possiamo;
Ché da Tiro c d’ Agenore le genti,
Traggon principio e fur già suol parenti.
Ma il paese é di Libia, egli abitanti
Son genti gravi , e dalla cappellina
Didon , che dal fratei , re de’ furfanti ,
Già si fuggi , vi siede oggi regina.
S' io gl' intrighi narrar vo’ tutti quanU ,
L'istoria durerà fin domattina.
Ma per quanto ora posso e T dover vuole ,
Io le ne dirò atmen quattro parole.
Dido fu prima di Sichco consorte ,
Coni da bene in Fenicia, e ricco in fondo ;
E senza fargli mai le fusa torte , [mondo.
L’amò quanto può amarsi un uomo al
Pigmaleone, il re, gli diè la morte;
DI lei fratcl , ma lupo ingordo immondo;
Fra gli altari l' uccise a chiuse stanze,
E beccò su tutte le sue sostanze.
Infingevole poi con la sorella,
Lagrime uè spargea di cocodrillo:
Ma l’ azione scellerata e fella ,
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ESEIDE TRAVESTITA. 31*
Non Mette sempre poi sotto sigillo :
L' anima di Siclieo la vedovella
And6 a trovar con doloroso strillo;
E scoprendo te carte , innanzi mise
L' asso di spade , onde il fratei 1’ uccise.
Tutte appresso gli aprì deH'empIo frate
Le crude scelleragginl ; e dappoi
Fuggi , le disse , queste mura Ingrate ,
Fuggi , ti dico , e pensa a’ casi tuoi.
Le mostrò poi d' un gran tcsor celate
Parecchie casse pe' bisogni suol ;
Ch'egli, come uomo pratico alla guerra,
In vita sua riposto avea sotterra.
L’accortissima donna , In un momento ,
Sbucò le doppie, ch’eran d’oro In oro;
N' empie le nati , e diè le vele al vento
Con molte genti, e col suo gran tesoro;
Chè molti seco andaro , o per spavento
Del rio tiranno, o per li fatti loro.
Cosi gabbò, il fratcl di' alle sue case ,
Con la barba di stoppa si rimase.
Giunser poi qui, dove pur ora eretta
Cartagine vedrai col torrione.
Questa , da un caso bel, Birsi fu detta,
Perchè vi fu gabliato un gocciolone.
Quanto termi pelle minuta c stretta
Copria di bue, fe’ patteggiar Didone;
E in foggia poi di stringhe, per sottile
Late' tagliarla zingara gentile.
E voi, segui, chi sete? Onde orsi viene?
Dove si va? clic buon negozio avete?
Rispose Enea , come uom , che nelle vene
Ha febbre grande e che si muor di sete :
0 Diva, il raccontar tutte mie pene,
É un intrigo maggior che non credete :
Mai , mai non finirei l' istoria tutta ;
Tu liajgran fretta, ed io la bocca asciutta.
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POEMI GEORGICI
GIOVANNI RUCELLA1.
LE ÀPI.
Mentri era per emulare i vostri doni
Con alte rime, o verginelle caste,
Vaglie angelcltc delle erbose rive;
Preso dal sonno in sul spuntar dell' alba
M’ apparve un coro della vostra gente,
E dalla lingua onde s’ accoglie mele,
Sciolsnno in chiara voce este parole :
0 spillo amico, che dopo ìnill'anni
E cinquecento rinnovar ti piace
E le nostre fatiche c i nostri studj,
Fuggi le rime, c’I rimbombar sonoro.
Tu sai pur clic l’ immagin della voce.
Clic rispoude dai sassi ov’ Eco alberga,
Sempre nimica fu del nostro regno :
Non sai tu eli* ella fu conversa in pietra,
E fu Inventrice delle prime rime?
E dei saper eli' ove abita costei.
Nuli' Ape abitar può per I* importuno
Ed imperfetto suo parlar loquace.
Cosi diss’ egli : poi tra labbro c labbro
Mi pose un favo di soave mele,
E lieto se n’andò volando al cielo.
Orni' io da tal divinità spirato
Non temerò cantare i vostri onori
Con verso etrusco dalle rime sciolto.
E canterò come il soave mete.
Celeste don % sopra l fioretti c l’ erba
L’aere distilli liquido e sereno :
E come I* Api industriose c caste
L* adunino c con studio e. con ingegno;
Dappoi compongan le odorale cere
Per onorar I* immagine di Dio.
Spettacoli ed cfTeiii vaghi c rari.
Di maraviglie pieni c di bellone.
Poi dirò seguitando ancor siccome
1 magni spirti dentro al piccloi corpi
Governili regalmente in pace c ’n guerra
I popoli, r imprese e le battaglie.
Ne* piccioli suggelli è gran fatica
Ma qualunque gli esprime ornati erniari,
Non picciol frutto del suo ingegno coglie.
Già so ben io quanto diffidi sia
A chi vuol dirivar dal greco fonte
L' acque c condurle al suo paterno seggio,
0 da quel clic irrigò la nobil pianta
Di cui vado or scegliendo ad uno ad uno
1 più bei fiori c le più verdi frondi,
Di cui mi tesso una ghirlanda nuova;
Non per ornarmi come già le tempie
Fecero all'età prisca i ciliari ingegni.
Ma per donarla a quello augusto tempio.
Che ’n su la riva del bel fiume d’ Arno
Fu dagli antiqui miei dicato a Fiora.
E tu , Tr issino, onor del bel paese
Ch’ Adige bagna, il Po, Nettun e l’Alpe
Chiudo»; deh porgi le tue dotte orecchie
All’ umil suoli delle forate canne.
Che nate sono in mezzo alle chiare acque ,
Cile Quaracchi oggi il vulgo errante chia-
Senza te non fc’inai cosa alta c grande [ma:
La mente mia, e leco fino al cielo
Sento salire il susurrar dell' Api ,
E risonar per le convesse sfere.
Deli poni alquanto per mio amor da parte
Il rogai ostro c i tragici coturni
Della tua lacrimabil Sofouisba :
E quel gran Dclisario, clic frenando
IGotl, pose Esperia in libertade,
0 chiarissimo onor dell’ età nostra :
Ed odi quel che sopra un verde prato.
Cinto d’ abeti e d* onorati allori ,
Che bagna or un muscoso e chiaro fonte.
Canta dell' Api del suo florid’orto.
Deh meco 1 labbri tuoi , donde parole
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33$
LE
Escon più dolci che soave mele ,
Che versa il seno del tuo santo petto.
Immergi dentro al liquido cristallo,
Kd addolcisci l’ acqua al nostro rivo.
Prima sceglier eonvienti all' Api un sito,
Ove non possa penetrare il vento,
Perchè ’l soffiar del vento a quelle vieta
Portar dalla pastura all’ umil case
Il dolce cibo e la celeste manna.
Nè buono è dove pecorella pasca ,
0 l’ Importuna capra e’ suoi figliuoli ,
Ghiotti di fiori e di novene erbette ;
Nè dove vacche o buoi che col piè grave
Frangano le sorgenti erbe del prato,
O scuotan la rugiada dalle frondi.
Ancora slian lontane a questo luoco
Lacerte apriche e le squamose bisce.
E non t’ Inganni il verde e bel ramarro,
Ch' ammira fiso la bellezza umana ;
Nè rondinella che con destri girl ,
Di sangue ancora il petto c la man tinta.
Prenda col becco suo vorace e ingordo
V Api che son di cera c di niel cardie ,
Per nutricare I suoi loquaci nidi ;
Troppo dolce esca di si crudi figli.
Ma surgano ivi appresso ciliari fonti,
0 pelaglieli! con erboso fondo,
0 corran chiari e tremolanti rivi ,
Nutrendo gigli c violette c rose.
Che ’n premio dell’ nmor ricevono ombra
Dai fiori, c i fior cadendo infiorali anco
Grati la madre c’t liquido ruscello.
Poscia adombri il ridutto una gran palma,
0 1' ulivo selvaggio; acciocché quando
L’aere s' allegra , e nel glovlnetl' anno
Si ricomincia il mondo a vestir d'erba,
1 re novelli e la novella prole
S’ affida» sopra le v icine frondi ;
E quando usciti del regale albergo
Vanno volando allegri per le piagge.
Quasi gl' inviti il fresco erboso seggio
A fuggire il calor del Sole ardente :
Come fa un’ ombra folla nella strada ,
Che par che inviti a riposar soli' essa
1 peregrini affai' cali c stanchi.
Se poi nel mezzo stagno un' acqua pigra ,
0 corre otormorando un dolce rivo,
Pon salici a traverso, o rami d’ olmo,
0 sassi grandi e spessi ; acciocché l’ Api
Possan posarvi sopra, e spiegar l'ali
Umide ed asciugarle ai Sole estivo ;
S' elle per avventura ivi lardando
Fosecr bagnate da celeste pioggia ,
API.
I 0 tuffate dai venti In mezzo l’ onde.
10 l’ ho vedute a’ miei di mille volte
I Sulle spoglie di rose c di viole,
j Di cui Zeffiro spesso il rito infiora ,
Affisse bere, e solcar l' acqua intanto
j L’ondanti foglie, elio ti par vedere
Nocchieri andar sopra barchette iti mare.
Intorno del bel culto e chiuso campo
Lieta fiorisca l' odorata persa,
E 1’ appio verde, e I’ umile serpillo.
Che con mille radici attorte e crespe
Sen va carpon vestendo il terreo d'erba,
E la melissa eli’ odor sempre esala;
La mammola, 1’ origano ed il timo.
Che Natura creò per fare il mele.
Nè V incresca ad ogn’ or l' arida sete
Alle madri gentil delle viole
Spegner con le fredd’ acque del bel rio.
I vasi ove lor fabbriche fan 1* Api ,
0 sicn ne’ tronchi d'alberi scavali,
0 ’n cortecce di sugheri c di querce ,
Ovver con lenti vimini contesti.
Fa eh' abliian tutti le portcllc strette
Quanto più puoi ; perchè l’acuto freddo
11 mel congela, e ’l caldo lo risolve ;
È l' un soverchio c l’altro nuoce ali’ Api,
Ch'amano il mezzo tra II calore e’I gelo.
Nè senza gran cagion travaglia sempre
Con le cime dei fior viscosi c lenti,
E con la cera fusile e tenace,
In turar con grand’arte ad uno ad uno
1 fori c le fessure donde il Soie
Aspirar possa vapor caldi, n ’l vento
li freddo borcal che l'onda indura.
Tal colla, come tiseo, o come pece,
O gomme di montani abeti c pini,
Serban per munizione a questo ufficio t
l Come dentr’ ai navai della gran Terra
Fra le lacune del mar d’ Adria posta,
Serban la pece la togata gente.
Ad uso di lor navi e lor triremi
Per solcar poi sicuri il mare ondoso,
Difensando la patria loro e ’1 nome
Cristiano dal barbarico furore [canto,
Dei re de' Turchi; il quai, mentre ch’io
Muove le insegne sue contra l’ Egitto
Clic pur or l’aspro giogo dal suo collo
Ha scosso c l’arme di Clemente implora.
Spesso ancor l' Api, se la fama è vera,
Cavan sotterra l’ingegnose case,
0 certe cavcnielte d'eutro a’ tufi,
0 nell' aride pomici, o ne* tronchi
Aspri e corrosi delle antiche querele,
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3.16 POEMI GEÒRGIE!.
Ma la perù le lor rimase celle
Leggiermente col limo empi e ristucca,
E ponti sopra qualche ombroso ramo.
Se quivi appresso poi surgesse il lasso,
Sbarbai dalle radici, e ’l tronco Tendi
Per incurvare i lunghi e striduli ardii
Che gii ultimi Britanni usano in guerra.
Piè lasciar arder poi presso a quel lochi
Gamberi o granelli con le rosse squame.
E fuggi Tacque putride e corrotte
Della stagnarne e livida palude,
0 dove spiri grave odor di Tango,
0 dove dalle rupi alle c scavate
li suon rimbombi della voce d' Eco,
Che Tu forse inventrice delle rime.
Poscia come nel Tauro il bel pianeta
Veste di verde tutta la campagna,
E sparge l’alma luce in ogni parte;
Quanto gradisce il vederle ir volando
Pei lieti paschi, c per le tenere erbe.
Lambendo molto più viole c rose
Sulle tremanti e rugiadose cime.
Che non vede onde il lito, o stelle il ciclo !
Queste posando appena i sottil piedi.
Reggono il corpo sulle distes'ali,
E van cogliendo il iìor della rugiada,
Che la bella consorte in grembo a Giove
Sparge dal elei con le latlenli mainino.
Già vital cibo della gente umana
Neil’ aureo tempo della prisca ctadc.
Adunque i’Apl nell’ >p. ir dell’ anno
Soli tutte di dolcezza e d’ aimir piene ;
Allor son vaghe di veder gli adulti,
E la dolce famiglia e 1 lor figliuoli ;
Allor con artificio e ’ndustria fanno
Loro edificj c celle, c con la cera
Tiran certi angoletli eguali a filo.
Lineando sei faccio; perchè tanti
Piedi ha ciascuna. 0 inagisterio grande
Dell' Api aichiletuici e geomelrc!
Questi sono i celiar’ u’ si ripone,
Per susU-ntarsi poi i’orribil verno,
L’almo licor che 'I Ilici distilla in terra,
E con si gran fatica si raccoglie.
K se non ch’io t’adoro, o chiaro Spirto
Saio presso alla riva ore il bel Mincio
Coronavo Ui salici e di canne
Feconda il culto c lieto suo |tacsc.
Poiché )iortasli alla tua patria primo
Le pallio che togliesti al Greco d’Ascra,
Che cantò i doni dell’ antica madre ;
lo canle. ci coinè già nacque il mete,
K la cagion per cui le caste cero
Adunin l’ Api da cotanti fiori;
Per porgere alimento ai sacri lumi,
Ed ornar la sembianza alma e divina.
Ma questo non vo’ far, perch’ io non cerco
Di voler porre in al grand’ orme il piede.
Ove entrar non porria vestigio umano,
Ma seguo l’ombra sol delie lue frondi;
Perchè non dee la rondine d* Eiruria,
Ch’appresso Tacque torbide si ciba
D’ulva palustre c di loquaci rane,
Ccrtar col bianco cigno del bel lago,
Che i bianchi pesci suoi nutrisce d’oro.
Quaud’ escuti l’ Api dei rinchiusi alber-
E tu le vedi poi per l'aere puro {giti.
Malandò in schiera andar vrrso le stelle.
Come una nube che si sparga al vento;
Contempla ben, perch’ elle cercati sempre
Posarsi al fresco sopra una verde elee,
Ovvcr presso a un muscoso c chiaro fonte.
E perù sparga quivi il buon sapore
Della trita melissa, o l'erba vile
Della ceduta; e con un ferro in mano
Percuoti il cavo rame, o forte suona
Il ccrnbal risonante di Cibellr.
Queste subito allor vedrai posarsi
Nei luoghi medicati, c poi riponi
Secondo il lor costume cntr'allc celle.
Ma se talor quelle lucenti squadre
Surgono instrutlc nei sereni campi,
Quando rapiti da discordia ed ira
Sono i lor re, poiché non cape il regno
Du -egi fin nei pargoletti insetti;
A te bisogna gli animi del volgo,
I trepidanti petti e i moti loro
Vedere innanzi al maneggiar dell’ armi;
II clic dinota un marzlal clangore,
Che, come fosse il suon della trombetta.
Sveglia ed invita gli uomini a battaglia.
Allor concorron trepide, e ciascuna
Si mostra nelle belle armi lucenti;
E col dente mordace gli agili acuti
Arrotando bruuiscon come a cote,
Mov endo a tempo i piè, le braccia e ’l ferro
Al suon cruento dcil'orribil tromba;
E stanno deuse intorno al lor signore
Nel padiglione, e con voce alla c roca [me.
Chiamati la gente in lor linguaggio all’ ar-
Poi quando è verde tutta la campagna,
Esconsi fuor delle munite mura,
E nell’aperto campo si combatte.
Sentcsi prima il crepitar dell' arme
Misto col suon delle stridenti penne,
E tutta rimbombar l'ombrosa valle.
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LE
Così mischiate insieme fanno un groppo,
E vanno orribilmente alla battaglia
Per la salute della patria loro,
E per la propria vita del signore.
Spettacol miserabil e funesto!
Perciocché ad or ad or dall’aere piove
Sopra la terra tanta gente morta.
Quante dai gravi rami d’una quercia
Scossa dai venti vanno a terra ghiande,
0 come spessa grandine e tempesta.
1 re nel mezzo alle pugnaci schiere,
Vestiti del color del celeste arco,
Hanno nei picciol petti animo immenso :
Nati all’imperio ed alla gloria avvezzi,
Non voglio» ceder nè voltar le spalle.
Se non quando la viva forza o questo
0 quello astringe a ricoprir la terra.
Questi animi turbati e queste gravi
Sedizioni c tanto orribil molo
Potrai tosto quetar, se getti un pugno
Di polve in aria verso quelle schiere.
Àncora, avanti che si venga all’ armi,
Se '1 pope! tutto in due parti diviso
Vedrai ual tronco d’ un’antica pianta
Pender, come due pomi o due mammelle
Che si spicchiti dal petto d’una madre:
Non indugiar, piglia un frondoso ramo,
E prestamente sopra quelle spargi
Minutissima pioggia, ove si truovi
Il mele infuso, o ’1 dolce umor dell' uva;
Chè fatto questo, subito vedrai
Non sol quetarsi il cieco ardor dell’ira.
Ma insieme unirsi allegre ami»- le parti,
E l’ una abbracciar l’ altra, e roti le labbra
Leccar»! l’ ale, i piè, le braccia, il petto.
Ose il dolce sapor sentono sparso,
E tutte inebbriarsi di dolcezza.
Come «piando nei Siimeli si muove
Sedizione e che si grida all' arme;
Se qualche uom grave attorsi leva in piede,
E comincia a parlar con dolce lingua.
Mitiga i petti barbari e feroci ;
E intanto fa portare ondanti vasi
Pieni di dolci ed odorati vini;
Allora ognun le labbra c ’l mento immerge
Nelle spumanti tazze ; ognun con riso
S'abbraccia c bacia, e fanno e pace e tregua
Inehbriati dall' umor dell'uva.
Clic fa obbliar lutti i passati oltraggi.
Ma poiché tu dalla sanguinea pugna
Rivocati arerai gli ardenti regi;
Tarai morir quel che tl par peggiore ,
Acciocché il tristo re non nuoea al buono.
API. 3.17
Lascia regnare un re solo a una gente.
Siccome anco un sol Diosi trova in Cielo.
L’allegro vlncitor con l’ale d'oro,
Tulio dipinto del color dell'alba,
Vedrai per entro alle falangi armato
lampeggiare e tornare al regai seggio :
Siccome all'età prisca in Campidoglio
li consolo roman per la via Sacra
Accompagnato dal popol di Marte
Menava alteramente il suo trionfo.
Come son !’ Api di due varie stirpi.
Cosi sono i lor re diversi ancora ;
Quello è miglior, le cui fulgenti squame
Rosseggia», come al Sol la chiara nube;
Ma quel che squallor livido dipinge,
E di poro valor, eh’ appena dietro
Strascinar pnossi il tumefatto ventre,
E cosi aurora è tutta la sua gente ;
Ché '1 popol sempre é simile al signore.
Però voi che creaste in terra un Dio,
Quanto quanto vi deve questa etade.
Perchè rendeste al mondo la sua luce !
Voi pur vedendo essere accolto in uno
Tutto '1 valor clic potea dare il Ciclo,
Lo proponeste ed eleggeste duce
All'alta cura delle cose umane.
Per fare gregge simile al Pastore.
0 divo Julio, o fonte di clemenza,
Onde '1 bel nome di Clemente hai tolto;
Come potrebbe il mormorar deli' Api
Mai celebrar le lue divine laudi!
A cui si converna per farle chiare,
Non suon di canne o di saltile avena,
Ma celeste armonia di moti eterni.
Io veggio il Tebro re di tutti i fiumi
Rincoronarsi dell' auliche fiondi
Sotto 'I governo di si gran Pastore,
Ornalo di virtù tanto eccellente.
Clic se potesse rimirarla il mondo,
S’ accenderebbe della sua bellezza.
Non prender dunque ne’ tuoi floridi orti
Quel seme donde bruna gente nasca,
Che par simile a quel che vlen da lungo
Fra ’l polvere aridissimo dal Sole,
Ch' appena il loto può eli' ei tiene In bocca
Sputare in terra con le labbra asciutte.
Ma piglia quelle che risplendon come
La madre orientai dell' Inde perle,
Cbe pingc il mare ove sè insala il Gange.
Empi di tal parenti i cavi spechi ;
Chè quindi al tempo poi piò dolce mele
Premendo riporrai ; nè sol più dolce.
Ma chiaro e puro e del color dell' ambra :
1&
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338 POEMI GEORGICI.
Atto a dolcir con esso acerbe frutte,
Nespole e sorbe e l’agro umor dell' usa.
Ma quando poscia inordinato gira
L’alato armento con le sue famiglie.
Scordandosi il tornare ai cari alberghi ;
Tu puoi siclar quel «oli erranti e rughi
Senza fatica, e con un picciol giuoco,
Tarpando ai regi lor le tenere ale;
Perciocché senza i capitani avanti
Non ardiscono uscir fuor delle mura.
Nè dispiegar le lor bandiere al tento.
L’ orto eh’ aspiri odor di fiori e d'erbe.
Le alleui,e quello Iddio ch’ha gii orti Incu-
Le guardi e le difenda, e i ladri scacci [ra.
Col rubicondo volto e con la falce,
E gli animali rettili e volanti.
Che viver soglion delle vile loro,
li buon cultor dell’ Api con sue mani
Porti dagli alti monti il verde pino,
E lo trasponga nc' suoi floridi orti
Con le sue barbe intere, e col nativo
Terreno intorno, sicché non s' accorga
La stella pianta aver cangiato silo,
E pongala coi rami a quelli istessl
Venti, com'era nella patria selva.
Cosi facemmo intorno alle chiare acque
L’avolo nostro ed io ; cosi fu fallo
Dal padre mio nella citta di Flora.
A questo motto il timo e l'amaranto
Dei trapiantare ancora e quell' allr’ erbe,
Che danno a questa greggia amabil cibo ;
E spesso irrigherai le lor radici.
Prendendo un vaso di tenace creta
Forato a guisa d’ un minuto cribro.
Che i Greci antichi nominar clcpsidra,
Per cui si versan fuor mille zampilli.
Con esso imitar puoi la sollil pioggia.
Ed irrorar tutte le asciutte erbette.
E dirci come col gonfiato ventre
L'idropica cucurbita s’ingrossi,
E quanti altri saporsoavle grati
Nascano in seme, In barbe, in flori c ’n erbe.
Che con le proprie man lavora e pinge
Di color mille l' ingegnosa Terra :
E direi come un albero selvaggio
Tagliato c fesso, e chiuse ivi le cime
Di domestiche piante, in breve tempo
Si meravigli a riguardar sè stesso
Dell’ altrui fronde e bor vestito e pomi ;
Ma serbo questa parte ad altro tempo.
Intanto vo' cantar l' ingegno e l’ arte
Che ’l Padre onnipotente diede all’ Api;
Per esser grato lor, quando seguendo
Il suon canoro e lo squillar dei russe,
Dentr' ali’ antro ditteo gli di cren cibo,
E lo nutriron pargoletto infante
Di vita! manna c rugiadoso umore ;
Al tempo quando il genitor del Dei
Saturno antico divorava i figli.
E però diede loro il Padre eterno.
Che avessero comuni e' lor figliuoli,
E le famiglie e la città comune,
E che vii esser sotto sante leggi.
Correndo una medesima fortuna.
Sole conoscon veramente i' Api
L'amor pietoso delle patrie loro.
Queste penose e timide dei verno,
Divinatrici degli orribil tempi.
Si dan tutta la state alle fatiche.
Riponendo in comune i loro acquisti
Per goder quelli, c sostentarsi il verno.
Alcune intorno al procjcciar del vitte
Per la convalle florida ed erbosa
Discorron vaghe, compartendo il tempo.
Altre nelle cortecce orride e cave
Il lacrimoso umor del bei narcisso,
E ia viscosa colla dalle scorze
Nel picciol sen raccolgono, e co' piedi
Porgon le prime fondamenta ai favi;
A cui sospcndon la tenace cera,
E tirano le mura e gli altri tetti.
Altre il minuto seme allora accolto
In sul bel verde, e ’n su i ridenti fiori,
Covati col caldo temperato e lento :
Alcune intorno al novo parto intente,
1 nati figli uolin ch'appella lian moto.
Con la lingua figurano, e col seno
Gli allattali di soave ambrosia e chiara.
Parte quei gii elle son cresciuti alquanto,
Unica speme degli aviti regni.
Menano fuori, e con l'esempio loro
Gli mostrali l’ acque dolci e I paschi aprici,
E qual fuggire c qual seguir convieni.
Altre dappoi presaghe della fame
Che l’ orrido strider del verno arreca.
Stipano il puro mel dentr’ alle celle.
Sonovi alcune a cui la sorte ha data
La guardia delle porte, e quivi stanai
Scambievolmente a speculare il tempo
Nei vano Immenso dell’aereo globo :
Ove si fanno e si disfanno ognora
Sereno e nube e Ivel tranquillo e vesto ;
Ov vero a lor le salme, e ì gravi fasci
Alleggerir di chi dal campo toma
Curvate e chino sotto I sconci pesi.
E spesso fan di sé tnedesme schiera,
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3»
LE
E dii presepi lor scacciano i Cuci,
Arroeuto Ignaro, e die non vuol fatica.
Cosi divien queir operi fervente,
E l' odorato nel per tutto esala
Soavissimo odor di Sor di timo.
Come nella fucina I gran Ciclopi,
Che fanno le saette orrende a Giove ,
Alcuni con la forflce a due mani
Tengono ferma la candente massa ,
E la rlToigon sulla salda Ineudei
Altri levando in alto ambe le braccia,
Battonla a tempo con orrlhil colpi;
Altri or alzando le bovine pelli ,
Ed or premendo, mandan fuori il dato
Grave , che stride nel carboni accesi :
Parte quando più bolle e più sfavilla,
Frigon la massa nelle geUd' onde.
Indurando ’l rigor del ferro acuto ;
Onde rimbomba il cavernoso monte,
E ia Sicilia e la Calabria trema :
Non altramente fan le picdole Api,
Se lidio è si minimi animali
Assimtgliare a' massimi giganti.
Ognuna d'eaae al suo lavorio è intenta :
Le più vecchie e più sagge hanno la cura
DI munir Patte torri , far ripari,
E porre i tetti all’ ingegnose case ,
Intonacando le riinose mura
Col sugo dell’ origano e deli’ appio.
Il cui sapor, come un mortai vencno,
Fugge lo scarabeo, fugge la talpa ,
La talpa cieca che la magia adora ,
Fugge II moscone e la formica alala.
La verde canterella , e la farfalla
Piu d' ogni altro animai nimico all'Ape;
E mille mostri rettili ed alali ,
Che , quando il caldo P umido corrompe,
La Natura soverchia al mondo crea.
Tornan poi le minori ai loro alberghi
La notte stanche, ed han le gambe c’I seno
Piene di limo e d’ odorata menta.
Pasconsi di ginestre , rosmarini ,
DI tremolanti canne o lenii salci.
Di nepitella e dei bel fiore azzurro
Che lega in meno alle sue franili il croco,
Della vittoriosa e forte palma.
Del terebinto e dell' umil lenlisco
Che Scio fa degno sol delle sue gomme:
Del languido giaciuto, che nel grembo
Porta dipinto il suo dolore amaro ;
K di molti altri arbusti , erbette e fiori.
Da cui rugiada liquida , cbe perle
Pur» a veder sopra zaffili ad aro.
API.
Sugando questo animaletto ameno
Colora, odora c di sapore al mele.
Tutte hanno un sol travaglio, un sol riposa.
Com’ escon la mattina delle porte,
Non restan mal pcrltn che ’l elei s’Imbruai:
Ma poi , com'egli accende le sue stelle.
Tornatisi a casa , e dei sudati cibi
Nutrono i loro affaticati corpi.
Sente»! il suono e ’l mormorar sovente
Nel vesiibulo intorno alle lor porte :
Ma poiché nelle camere son chiuse.
Prendono ivi a bell’ agio alto riposo
Con gran silenzio fino al nuovo giorno,
E ’l sonno irriga le lor lasse membra
DI profonda e dolcissima quiete.
Nè dalla corte mai si fan lontane.
Se veggon l’ acre tenebroso e scuro,
0 se'l Sol nelle nubi 11 piovoso arca
Dipinge, e mormorar senton le fraudi.
Messaggi certi di tempesta e pioggia :
Ma caute se ne vanno Intorno a casa
A pigliar l’acqua al più propinqui fosti.
Con certi sassolini accolti in seno
Librandosi per l’ aria, e con grand'arte
Secali le vane nubi c ’l mobil vento.
Come se fossen navi in mezzo Tonde;
Che T peso ferme tien della zavorra.
Tu prenderai ben or gran meraviglia,
S’ io li dirò che ne' lor casti petti
Non albergò giù mal pensier lascive.
Ma pudicizia, c sol disio d'onore.
Nè partoriscon come gli altri insetti
Cova, nè seme di animali termi.
Premendo per dolore il matera'alvo;
Ma sopra verdi frondi e bianchi gigli
1 nali figliublini allora allora
Leccano prima, e poi colgongli in grembo,
E gli nutrisco» di celeste umore.
Nè solo esse Api vivon pure e caste.
Come le sacre vergini veslall
Al tempo antico de' Sabini e Noma;
Ma non «ogllon sentir fiato cbe spiri
D’ impudico vapor, nè d’ odor tetro
D' agii, porri, scalogni o d’ altro agrume,
0 di vin sopra vin forte e indigesto.
Che stomaco indisposto esali e rutti.
Però sia casto e netto e sobrio molta.
Qualunque ha In cura questa onesta prole.
Esse il lor re col pargoletti infanti
Ch' esser dea successori al grand* impera,
Allevao regalmente , e regai seggi
Dentro gli fr no d’ odorate cere.
Spesso sopra la pietre aspre e pungenti
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Jto POEMI GEORGIC1.
Lasciano 1' Api le gemmate penne ,
Per la fatica consumate e rose :
E sotto ponderosi e Ingiusti carchi
Hanno spirato fuor dei casto petto
L'anima stanca in su le patrie mura;
Tant' è I' amor dei fior, tant e la gloria
Di generare alla sua patria il mele.
Ed esse, o per natura, o don di Dio,
Sebbene Itati picclol termine di vita ,
Perche non vrdon mai l'ottava estate
Son di stirpe Itnmortal , e per moli' anni
■Stati le fortune delle case loro,
E potisi numerar gli avi degli avi;
Siccome gli Ottomani appresso i Turchi,
Luigi in Francia, c nella Spagna Alfonsi.
Nè tanto amore c riverenza porla
La Gallia al re Francesco, nè la Fiandra
Al suo principe Carlo, c re di Spagna ,
Gli’ è ora eletto iinperadordl Roma,
Nè quei clic bovoli l’ acqua del bel Gange,
Nè I’ Egitto o la Persidc ch’adora
I regi e 'I regai sangue come Dio :
(ioanlo portano I’ Api ai lor signori.
Mentre 11 re vive, tutte hanno una mente,
III pensiero, un disio, sola una voglia ;
Morto, in un punto il popol senza legge
Rompe la fede, e'I cumulato mele
Suo riposto tesor, mettono a sacco.
Spianati le case in fino alle radici;
Chè'l re curava e custodiva il tulio.
Egli è che dì le leggi , c clic con pena
Ora punisce, ora con premj esalta.
Compartendo gli onori e le fatiche
Con giusta lance, e pareggiando ognuno.
Onde ognun poi l’ adora , ognun l' ammira ,
l.o guarda, e in mezzo a lor se rratoc stretto
Lo portan sopra gli omeri, e gli fanno
Nella battaglia dei lor corpi scudo ;
F. spesso per salvare il lor signore
Voglion morir di gloriosa morte.
Da questi segni, e da si belli esempi
Hanno creduto alcuni eletti ingegni,
Che alberghi In lor qualche divina parte,
Che con celeste e sempiterno moto
Muova il corporeo, e l’ incorporeo regga;
Perciocché la grand' anima del mondo
Sta come auriga, c'n questa cieca mole
Infusa, muove le stellate sfere.
L'eterea plaga, e quel dove si crea
II folgore , la pioggia e la tempesta ,
E la mostruosa macchina dei mare
Sul grave globo della madre antica.
Di qui gli uomini tutti c gli animali
E gli armenti squamigeri e i terrestri ,
Le mansuete bestie c le selvagge,
Picciolee grandi e rettili ed aiate.
Aver primo principio, aver la vita,
Avere il moto senso c la ragione ,
E certa provvidenza del futuro :
A questa ritornar )’ anime nostre ,
Ed in questa risolversi ogni molo,
Per questo esser celeste ed immortale
L’ anima in tutti i corpi dei viventi ,
E ritornare aliin nel suo principio,
L' uno alle chiare stelle e l' altro al Sole.
Questo si bello e si aito pensiero
Tu primamente rlvocasti in luce.
Come in cospetto degli umani ingegni ,
Trissino, con tua chiara c viva voce:
Tu primo i gran supplicj d' Acheronte
Ponesti sotto i ben fondati piedi ,
Scacciando la ignoranza dei mortali.
Ma non voglio ora entrar nelle tue iodi ;
Ch’ io starei troppo a ritornarmi ali' Api.
Nel desiato tempo elle si smela
li dolce frutto, e i lor tesori occulti,
Sparger conviensi una rorante pioggia.
Soffiando l’ acqua eh' hai raccolta In bocca
Per l’aria, Che spruzzare il vulgo chiama ;
E coni lenti anco avere in mano un legno
Fesso, eli' ebbe già fiamma, or porta fumo ;
Chè impedite da quel , non più daranti
Noia c disturbo nel sottrarli II mele.
Due volte l'anno son feconde, e fanno
La lor casta progenie ; e i lor figliuoli
Nascono in tanto numero, che pare
Che sian dal elei piovuti sopra I' erbe.
L’ una è, quando la rondine s' affretta
Sospender alle travi luto e paglie
Pe’ dolci nidi , che di penne impiuma
Per posar !' uova genitai , chè 'I corpo
Non le può piti patire, c col disio
Gii vede i rondinin , che sente il ventre.
L’altra è, quanti' ella provvida del tempo
Passa il Tirreno, e sverna in quelle parti
Ove son le reliquie di Cartago.
Ma perchè l' Api ancor s' adirar! molto.
Abbi gran cura, quando grave oltraggio
Indegnamente hall ricev uto a torto.
Perciocché quando Dio creò i' Amore,
Insieme a lato a lui pose lo Sdegno.
Sicché ben guarda, che ilei picclol corpi
Non già piccini furor di rabbia e d'ira
Ondeggia e bolle ; c come acqua in caldaia ,
Clic sotto 'I negro fondo ha fuoco ardente
Fatto di schegge o di sermenti secchi,
341
LE API.
Trabocca il bollorfuor dai labbri estremi,
Gioiosi non cape, ole gonfiale schiume
Ammorzati sotto la stridente Damma,
K 'I fuoco cresce, e insieme un vapor negro
S' innalza, c vola come nube in aria ;
Cosi fan l’ Api indegnamente offese.
Allora è il morso lor rabbioso e infetto,
E s) mortai venen le infiamma il cuore.
Clic le cieche saette cntr’allc piaghe
Lasciano infisse con la vita insieme.
Se tu poi temi il crudo algor del verno,
E se vuoi risparmiar per l'avvenire,
E compatire agli animi contusi,
Alle fatiche dell' afflitto gregge;
Non dubitar di profumar col timo
Ben dentro gli apiari, e col coltello
Recider le sospese e vane cere.
Perciocché spesso dentro ai crespi favi
La stellata lacertoia dimora,
E mangia il rnel con l’ improvviso morso.
Ancora dentro agli apiari il fuco
Ignavo stassi, e senza alcun sudore
Si pasce e vive dell'altrui fatiche:
Come la pigra e scellerata setta
Cli’ empie le tasche e ’1 scn dì pane e vino,
Gie qualche semplicetta vedovella
Toglie a sé stessa ed a' suol cari figli,
E dallo a loro timida c divota,
Credendosi ir per questo in gremboa Dio,
Fa poi che tu avvertisca al calabrone
Lor gran nimico, die per l'aere ronza.
Superiore assai di forze e d' arine;
Ed anco a certa specie di farfalle,
Dei meilifero gregge acerba peste;
Ed alla Aragoe odiata da Minerva,
Che tende i lacci suoi sopra le porte ;
Ed a moli’ altri mostruosi vermi
Che soglion far dell' Api aspre rapine.
Ma perchè in questi mostri eli’ io racconto.
Non è maggior venen nè più mortale,
Clic quel della farfalla; lo voglio dirti
Prima il mal eh’ elle fanno, e poscia II modo
Che dei tenere a spegner questo seme.
Elle non solo all’ Api son nimiche
Per abito, per arte e per natura ;
Ma ciò che toecan, ciò che di lor nasce,
È come peste del soave mele ;
Chè cosi la gran Madre, ower matrigna,
li suo contrario ad ogni bene ha posto.
Dal nostro ventre esce un umor corrotto,
Ch' a dire è brutto, ed a tacerlo è bello.
Da questo nasce uno vlslbil seme.
Che come ha moto, Infetta i fiori e l' erbe.
La regai corte, e i pargoletti nidi :
Ancor la terra e Tacque e 'I focoe l’aria
Col fiato impesterebbe atro e corrotto,
Se non che corruttibil fu creato.
E però ti bisogna corre il tempo
Nella stagion che son le malve in fiore,
Chè allor tal verme con ale ampie e pitie
D'innumerabil popolo germoglia;
Sicché provvedi, e spegni questo seme.
La sera, allor clic l’aere è ben oscuro.
Piglia un gran vaso, clic sia senza fondo,
E largo sia dal piede, c poi si stringa
Nel mezzo, ìnsin che la sua cima estrema
Venga in un punto, ove sia posto un foro;
Acciocché esalar possa indi 11 vapore
In guisa dì piramide rifonda.
Ma se non hai tal vaso, per quest'uso
Piglia l'imbuto onde s'infonde il vino,
E ponil poi tra le vicine malve
Col lume dentro, c stia su quattro sassi
Quattro dita alto, acciocché quella luce
Riluca fuor, che le farfalle alletta.
N’on prima arai posato il vaso in terra.
Che sentirai ronzar per l’aere cieco,
E insieme il crepitar dell'ale ardenti,
E cader corpi semivivi e morti,
Ed anco il fumo uscir fuor del cammino
Con tal fetor, che volterai la faccia,
Torcendo il naso e starnutando insieme.
Però t'avverto, che posato il vaso
Ti fugga, e torni poi quivi a poc'ore.
Dove vedrai tutto quel popol morto.
Che sarebbe un spettacolo nefando
A quel gran saggio elle produsse Samo.
Come quando una vostra antica nave
Fabbricata dal popol di Liguria,
Se 'il la nitrosa polvere s' appicca
Per qualche caso inopinato il fuoco.
Tutta s’abbrucia P infelice gente
In varj modi : e chi 'I petto e chi ’i collo
Ila manco e chi le braccia e chi le gambe,
E quale è senza capo e chi dal ventre
Manda fuor quelle parti, dove il cibo
S'aggira per nutrir l'umana forma;
Cosi parranno allor quei vermi estinti.
Ma se nell’ Api tue venisse peste.
Poiché cosi nel pargoletti corpi.
Come nel nostri, son diversi umori;
Questo con chiari segni il Ila noto.
Massimamente in sul fiorir dell'olmo,
0 del verde titimalo, che solve
1 corpi lor, come scamonlo I nostri.
AUor le vedi Impallidirsi in volto.
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3U POEMI CEOBGICI.
E farei estenuate orride e secche.
Simili a set rze e spoglie di cicade;
E tu le redi ancora i corpi morti
Portar di fuor dalle funeste case ;
Orvrr connesse pender dalle porte,
E sospese aspettar l’ ultimo fine ;
Orrer rinchiuse dentro ai ior covili
Posarsi neghittose e rannicchialo.
Con l' ale basse e le ginocchia al petto.
Adorai sente un su&urrar più grave
Fra loro, e un suono doloroso e mesto,
Come fa il vento nelle antiche selve,
0 come stride il mormorar dell' onde,
0 come fuoco in la fornace incluso,
Cli' ondeggia e manda fuori orribil suono.
Qui ti convien soccorrere agl' infermi
Con odori e profumi : incendi prima
Il galbano c le gomme dei Salici ;
Nè t’indugiare a colar entro II mele
Per un canal di canna rivocando
Le stanche alla verdura, all' onde chiare
Giovrralti anco il mescolarvi insieme
Le rose secche, over la galla trita,
0 la ben dolce e ben decotta sapa,
0 buon zibibbo, od uva passa di Argo,
O la ccntaurea col suo grave odore,
O l’odorato timo, che ’n gran copia
Nasce 14 dove fur le dotte Atene,
Che son or serve di spietata gente.
Prendi ancora un catin di rame o creta.
Che sia pien d’acqua tremolante e pura,
E quivi infondi un rugiadoso umore
Di sapa, o di amenissimo vin dolce.
Ed in tale acqua poni alcuni tcìlj
Di pura lana, e bianchi come falde
Di spessa neve che dal ciel giù fiocchi ;
0 pezzetti di panno che pur dianzi
Fosser tagliati da purpurea veste :
Elle si poseranno ivi ondeggiando
Distese a galla, come fosser cimbe;
Elie indi quasi ila spugnose mamme
Suggono a poco a poco il buon licore
Che si diflonde nei porosi velli.
Nè si sommergo» nel viscoso lago,
lo vidi alcun che non curò far questo ;
Onde ’l minuto e miserabil gregge
S' invescò lutto in quel tenace umore :
E vidi ancor per tale orribil peste
Le care Diandre abbandonale e sole,
E gii edifici ior privi di mele.
Disabitati e pien di aragni e vermi;
E però s'clle ti venisser meno
Per qualche caso, e destinilo fossi
Dalla speranza di potere averne
Da alcun luogo vicino; io voglio aprirti
Un magistero nobile e mirando.
Che ti farà eoi putrefallo sangue
Di morti tori ripararle ancora;
Come già fece il gran pastor d* Arcadia,
Ammaestrato dal ceruleo vate.
Clic per l'ondoso mar Carparlo pasce
Gli armenti informi delle orribil Foce.
Perciocché quella fortunata gente
Che beve l' onde del felice fiume,
Clic stagna poi per lo disteso piano, [de
Presto al Canopo, ove Alessandro il Gran-
Pose l'alta città ch’ebbe il suo nome;
La quale ha intorno sè le belle ville
Clic la riviera delle salubri onde
Riga, c le mena le barritene intorno.
Questo venendo lunge fin dagl’indi
Ch’hanno i Ior corpi colorati e neri.
Feconda il bel lerrcn del verde Egitto,
E poi sen va per sette bocche in mare :
Questo paese adunque intorno al Nilo
Sa il modo ciie si dee tener, citi vuole
Generar l’Api, e far novelli esami.
Primieramente eleggi un picciol loco
Fato c disposto sol per tale effetto,
E cingi questo d'ogni parte Intorno
Di chiusi muri, e sopra un picciol tetto
D’embrici poni, ed indi ad ogni faccia
Apri quattro finestre die siati volte
Ai quattro primi venti, onde intrar possa
La luce che suoi dar principio e vita
E moto e senso a tutti gii animanti :
Poi vo’ clic prenda un giovinetto toro
Che pur or curvi le sue prime coma,
E non arrivi ancora al terzo maggio
E con le nari e la bavosa bocca
Solfi mugghiando fuori orribil tuono.
D'indi con rami lieti nodosi e gravi
Tanto lo batterai, clic caschi in terra;
E fatto questo, chiudilo ili quel loco,
Ponendo sotto lui popoli e salci,
E sopra cassia con serpillo e timo;
E nel principio sia di primavera.
Quando le grue tornando alle fredde alpi,
Scrivon per l'aere liquido e tranquillo
La biforcata lettera dei Greci.
In questo tempo dalle tenere ossa
Il tepcfallo umor bollendo ondeggia.
0 potenza di Dio, quanto sei grande,
Quanto mirabili D’ogni parte allora
Tu vedi pullular quelli animali.
Informi prima, tronchi e senza piedi,
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LE
Se«z’ ali. Termi eh’ hanno appena U moto.
Posai in un punto quel bel spirto infuso
Che vien dalla grand’anima del mondo.
Spira e figura i piè, le braccia e l'ale,
E di vaghi color le pingc e inaura.
Ond’elle fatte rilucenti e belle
Spiegano all’aria le stridenti penne.
Che par che siano una rorantc pioggia
Spinta dai vento, incoi fiammeggi il Sole;
0 le saette lucide che i Parti,
Ferocissima gente, cd ora i Turchi
Scuoton dai nervi degl’ incurvati archi.
10 già mi posi a far di questi insetti
Incislon per molti membri loro,
Qie chiama anatomia la lingua greca;
Tanta cura ebbi delle picciolc Api;
E parrebbe incredihil, s’ io narrassi
Alcuni lor membretti come stanuo.
Che son quasi invisibili ai nostr’ occhi;
Ma s’io ti dico l’ lustramento e ’l modo
Ch’io tenni, non parrà impossibil cosa.
Dunque se vuoi saper questo tal modo,
Prendi un bei specchio lucido e scavato,
In cui la picciol forma d’ un fanciullo
Ch’uscito sia pur or del matern’alvo.
Ti sembri nella vista un gran colosso.
Simile a quel dei Sol che stava in Rodi,
0 come quel che fabbricar già voise
Dinocrate archilei lo per scolpirne
La fortunata immagin d’ Alessandro
Nel dorso del superbo monte d’Ato.
Cosi vedrai mulliplicar la imiuago
Dal concavo reflesso del metallo
In guisa tal che I* Ape sembra un drago,
Od altra bestia che la Libia mena.
Indi potrai veder come vid’io.
L’organo dentro articolato c fuori,
La sua forma, le braccia, i piè, le mani
I-a schiena, le pennute e gemmate ale,
11 nifolo o proboscide, come hanno
Gl’indi elefanti, onde con esso finge
Sul rugiadoso verde, e prende i figli.
Ancor le vedi aver l’occulta spada
Nella vagina che Natura ha fatta
Per la salute loro e del suo rege.
T ruotasi scritto poi quel ch'io non vidi,
Sebbene io le osservai per molte etadi.
Che T re la spada sua eh* ei tiene al lato,
l.a Un per scetlro,c mai però non l’ usa ;
Quasi ammonendo ognun ebe popol regge.
Or adoprar debba il senno, e ima laspada.
Ma perchè ’i tempo (ugge, e mai non torna,
Troppo ne spendo mentre che T amore
API. Si 3
Mi spinge a investigar lutti i secreti;
E questo or basti a riparar la stirpe.
Poi resta a dir come le sommerse Api
Si possan rlvocar da morte a vita.
Tu prenderesti, Trissino eccellente.
Gran meraviglia dalle mie parole.
Se non sapessi i Usici secreti,
E la natura delle cose occulte :
Pur un mirarci grande io vo’ narrarti.
Non già per inscgnarca chi altru’ insegna.
Ma sol per porre il suo fastigio al tempio.
Quando repente un tempestoso nembo
Per l’aere si condensa, e ’1 cielo oscura,
E si preme dappoi, come una spugna
Che sia gravida d’acque, in folla pioggia;
Quindi si bagnati i’Api in un momento,
E patir non possendo ii molle incarco.
Casca n prostrate come morte a terra.
Di lor coprendo tutta la foresta :
Allor tu con le di la pure e caste
Raccogli leggermente 1 corpi morti
In una tua concbetta, o in un rasoio
ficn netto, c ponvi sopra un bianco panno
CI;’ esali intorno il grato odor del limo,
E stendile sovr’esso ad una ad una.
Nel riguardare arai gran meraviglia
I.’ aurato pavimento adorno c pitto,
Che fanno i corpi lor di color mille;
Qual madreperla, ovver testudin inda.
Segate in soldi lamine polite.
Quando le arai cosi raccolte insieme.
Fa che lu curi ancor d’ aver riposto
Nel tuo tesoro, non argrnto o gemme.
Ma cener puro di silvestre fico.
Più possente rimedio c più salubre,
die non son quei del fisico Galeno,
Nè del gran Coo, eh’ è padre di tal arte.
Questa polvere poi tepida alquanto
Spargerai sopra ie già morie gcnd.
Voltando il vaso dove raggia il Sole;
Ma s'egli è nube, fa che reggia il fuoco
Kccod un gran miracolo apparire
Qui, che s' ei fosse sopra corpi umani,
S'aOretlerebbun le pietose madri
Di sospender le cere c i voti al lempio.
Dico cb’alior vedrai tornar la vita
A quei defunte popolo sommerso.
Il cui principio non appare al senso;
Cono* interviene a chi tien gli orchi fisi.
Credendosi vedere aprirsi un fiore :
Cbè pria nell' Api U tremolar de’ corpi
Si vede, e poscia il uvorovorar si sente
Subito, e lo strider dell'ale pitie;
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3U POEMI GEORGICI.
Onde levate in aria, e fatta schiera,
Risuscitale dall' orribll morte.
Ritornano a veder gli aviti regni.
Ma tempo è ch'io ritorni al tristo Oreste
Con più sublime e lacrimoso verso,
Come convieusi ai tragici coturni.
ALAMANNI.
COLTIVAZIONE.
LIBRO PRIMO.
Esortazioni all' Agricoltore.
Il pio cultor non deve solo
Sostener quello in piè, ch'il padre o l'avo
Delle fatiche sue gli ha dato in sorte;
Ma far, col licite oprar, chcd'annoin anno
Cresca II patrio terrcn di nuovi frulli ,
Quando l'albergo umil di Agli abbonda.
Nè reggia, olmè, tra pecorelle e buoi
La figlia errar dopo il vigcsimo anno ,
Senza ancor d'imeneo gustar idoni.
Discinta e scalza e di vergogna piena ,
Fuggir piangendo per boschetti e prati
L’antica compagnia, clic in pari etade
Giù si sente chiamar consorte e madre :
Nè i miseri figliuoi, pasciuti un tempo
Pur largamente nel paterno ostello
E di quel sol che nei suoi campi accolse
Dolci e nativi ; in tcncrclia etade ,
Di prregrin maestro implo flagello
Sentir , la madre pia chiamando indarno.
Alle fonti menando, ai verdi prati
Le non sue gregge ; e le cipolle c P erba ,
Lassi, mangiar, vedendo in mano ai figli
Del suo nuovo signor formaggio e latte :
Siccome oggi addivlen tra I colli toschi
Dei miseri cultor ; non già lor colpa ,
Ma dell’ira civH, di chi l’indusse
A guastar il più bel eh' Italia avesse.
Or chi vuol nell’ età canuta c stanca
Di pigra povertà non esser preda ,
E poter la famiglia aver d'intorno
Lieta, c la, mensa di vivande carca;
Nella nuova stagion non segga in vano:
Ch'or rlnnuov i or rivesta or pianti or cangi.
Pur secondo il bisogno, or vigne or frutti...
La vita dell’ Agricoltore. Lodi della Francia.
0 beato colui die in pace vive
Dei lieti rampi suoi proprio cultore ;
A cut, stando lontan dall' altre genti ,
La giustissima terra il cibo apporta;
E sicuro il suo ben si gode in seno !
Se ricca compagnia non hai d’ intorno
Di gemme e d'ostro, nè le case ornate
Di legni peregrin, di statue e d'oro;
Nè le muraglie tue coperte e tinte
Di pregiati color , di veste aurate ,
Opre chiare e solili di Perso e d'indo;
Se 'I letto genia! di regie spoglie
E di si bel lavor non aggia il fregio
Da far tutta arrestar la gente ignara;
Se non spegni la sete , e toì la fame
Con vasi antichi. In cui dubbioso sembri
Tra bellezza e valor chi vada innante ;
Se le soglie non hai dentro e di fuore
Di chi parte e chi vlen calcate e cinte;
Nè mille vani onor ti scorgi intorno;
Sicuro almen nel poverello albergo ,
Che di legni vlcln del natio bosco ,
E di semplid pietre ivi entro accolte,
T' hai di tuapropria man fondato e strutto.
Con la famiglia pia t’ adagi e dormi.
Tu non temi d’ altrui forza nè inganni,
Se non del lupo : e la tua guardia è il cane,
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COLTIVAZIONE. 3U
Il cui fede) amor non cede a prezzo.
Quando tl svegli all’ apparir dell'alba.
Non trovi fuor chi le novelle apporte
Di mille ai tuoi desir rontrari elTelti :
Ne, camminando o stando, a te conviene
All’altrui satisfar più ch'ai tuo core.
Or sopra il verde prato , or sotto il bosco,
Or nell’ erboso eolie, or lungo il rio.
Or lento or ratto , a tuo diporto vai :
Or lascure, or l’aratro, orfalce, or marra,
Or quinci or quindi , ov’ Il bisogno sprona,
Quando è II tempomiglior, soletto adopri.
L’offeso vulgo non ti grida intorno
Che derelitte in te dormili le leggi.
Come a nuli' altra par dolcezza reca
Dall'arbor proprio , c da te stesso inserto,
Tra la casta consorte e i cari figli
Quasi in ogni slaglon godersc i frutti !
Poi darne al suo sicin, contando d'essi
La natura , il valor, la patria e ’l nome ,
Edel suo coltivar la gloria e l'arte.
Indi menar talor nel cavo albergo
Del prezioso vin l’eletto amico;
Divisar dei sapor, mostrando come [già;
l.’uno ha grasso il tcrrrn , l’altro ebbe pìog-
E di questo c di quel di tempo in tempo
Ugni cosa narrar che torni in mente.
Quinci mostrar le pecorelle c i buoi ;
Mostrargli il Odo can-, mostrar le vacche,
E mostrar la ragion che d'anno in anno
Han doppiato più volle i figli c’I latte:
Poi menarlo ove slan le biade e I grani
In varj monticei posti in disparte.
E la sposa fedel, eli’ anco ella vuole [po,
Mostrar di' indarno mai non passe lltem-
I. irtamente a veder d' intorno il mena
La lana, il lin , le sue galline e l'ulva,
Che di donnesco oprar son frutti e lode.
E di poi ritrovar, montando in alto,
La mensa inculta di vivande piena
Semplici c vaglie ; le cipolle c l’erba
Del suo fresco giardln.l’agnel ch’il giorno
Avca tratto il pastor di bocca al lupo.
Che mangiato gli avea la testa e ’l fianco.
Ivi, senza temer cicuta e tosco
Di chi cerchi il tuo regno o ’l tuo tesoro ,
Cacciar la fame , senz'affanno e cura
D' altro che di dormir la notte intera,
E trovarsi al lavornel nuovo Sole.
Ma qual paese e quello ove oggi possa,
Glorioso Francesco, in questa guisa
Il rustico cultor godersc in pace
L’alte fatiche sue sicuro e lieto?
Non giù II bel nido ond’ io mi sto lontano ;
Non già l' Italia mia: che poi che lunge
Ebbe, altissimo He, le vostre insegne.
Altro non ebbe mai, clic pianto c guerra.
I colti campi suol son fatti boschi ,
Son fatti albergo dì selvagge fere,
Lasciati In abbandono a gente iniqua.
II bifolco c ’l pastor non puote appena
In mezzo alle città viver sicuro
Nel grembo al suo signor : che diluì stesso,
Che'l devria vendicar, divien rapina.
Il voinero, il marron , la falce adunca
Han cangiate le forme , c fatte sono
Impie spade taglienti c lance acute,
Per bagnare il terren di sangue pio.
Fuggasi lunge ornai dal seggio antico
L'italico villan , trapassi l’ Alpi ,
Truove il gallico sen , sicuro posi
Sotto l’ali , Signor, del vostro impero.
E se qui non avrà, come ebbe altrove.
Cosi tepido 11 Sol, si chiaro 11 cielo;
Se non vedrà quel verdi colli toschi ,
Ove ha II nido più bel Palla e Pomona;
Se non vedrà quel cctri , lauri c mirti
Che del Partenopeo veston le piagge;
Sedei Rcnaco, e di mill’ altri insieme,
Non saprà qui trovar le rive e ('onde;
Se non l'ombra, gli odor, gli scogli ameni
Che ’l bel liguro mar circonda c bagna;
Se non l' ampie pianure c i verdi prati
Che’l Po, l'Addae'l Tesili girando infiora;
Qui vedrà le campagne aperte e liete,
Che senza line aver, vincoli lo sguardo;
Ove il buono arator si degna a pena
I)i partir il vicin con fossa e pietra:
Vedrà I colli gentil , si dolci c vaghi ,
E ’n si leggiadro andar tra lor disgiunti
Da si chiari ruscei , si ombrose valli ,
Che farieno arrestar chi più s'affretta.
Quante belle sacrale selve opache
Vedrà in mezzo d' un pian , tutte rìcinte.
Non da crude montagne o sassi alpestri.
Ma da bei campi dolci, e piagge apriche!
La ghiandifera quercia, ilcerroel'eschio
Con si raro vigor si leva In alto,
di' ei mostrati minacciar coi rami il cielo,
Rcn partiti tra lor ; ch'ogni uom direbbe
Dal più dotto cultor nodrite e poste
Per compir quanto bel si truove in terra.
Ivi il buon eacciator sicuro vada ,
Nè di sterpo o di sasso incontro tema.
Che gli squarce la veste , o serre il corso.
Qui dirà poi con maraviglia forse ,
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POEMI GEORGICI.
Ch'il suo caro licor Ul grazia infonde
Bacco , Lesbo obbliando, Creta e Rodo ,
Che r antico Falerno invidia n’aggia.
Quanti ciliari , benigni , amici fiumi
Correr sempre vedrà di merce colmi!
Nè disdegnale un sol d’ aver incarco
Cb’ al suo corso contrarlo Indietro torni.
Alma sacra Ccranta, Esa cortese,
Rodan, Senna, Garonna, Era c Matrona,
Troppo lungo saria contarvi a pieno.
Vedrà il gallico mar soave e piano :
Vedrà il padre <>cean superbo in vista
Calcar le rive, e spesse volle irato.
Trionfante scacciar i fumi al monte;
Che ben sembra a colui che dona c toglie
A quanlì altri ne son le forse e Fonde.
Ma , quel ch’assai più vai , qui non ve-
1 divisi voler, l’ ingorde brame [draoae
Del cieco dominar, clic spoglie altrui
DI virtù, di pietà, d’onore e fede;
Come or seniiam nel dispietato grembo
D’Italia inferma, ove un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Qui ripiena d’arnor, di pace vera
Vedrà la gente ; c’n carità congiunti
1 più ricchi signor, l'ignobil plebe,
Vlverse insieme, ritenendo ognuno.
Senza oltraggio d'altrui, le sue fortune...
LIBRO TERZO.
Lodi di Bacco c del vino.
0 famoso guerrier, di Giove figlio,
Il cui divino ouor dispiacque tanto
Alla fera Giunon, eh* a morte acerba
Semelc indusse allor con nuovi inganni.
Che dell’ incarco tuo gravida andava ;
Ben si conobbe il dì come devea
Il mondo empier di sè 1’ altero nome;
Quando il gran padre tuo, di lampi e tuoni
E di fulgor vestito e nubi cinto.
Non potendo fallir le sue promesse,
Lagrimamlo di duol tua madre ancise,
Che non maturo il parlo uscisse fuore
Del fulminato ventre. E 'I buon parente
In sé stesso ti pose , c tenne tanto.
Che già il decimo mese aggiunse al fine.
Così due voile nato, alla sorella
Ti pose in man dell’ infelice madre :
Poi le Ninfe di Nissa ascosamente
Nutrici avesti nel sacrato speco.
Ivi crescendo poi d* anni e d' onore
Gl'lrcan. gli Arabi, i Persi, i Battri e gl’Iiuli
Sentir quel che polca quell' alto germe
Che d venne da Giove , e nacque in Tebe.
Ma i superbi trionfi , i regni e 1' oro,
Tanto onor, tanta gloria c tante lodi
Ch’ indi traesti ailor, furon mortali :
Ma 1' eterna memoria, il divin nome,
1/ esser chiamato Dio, gl* incensi , 1 voli,
Il tirso, i sacrifici , il becco anciso,
1 Satiri, i Silen ti sono intorno
Perchè mostrasti a noi quel sacro frutto.
Quel sacro frutto clic ciascuno avanza,
Quanto il poter divin terrena cosa.
Se tu fussi tra lor venuto allora
Quando furo a qtiislion Nettuno e Palla»
Non mi contrasti alcun clic dai tuo solo
La dottissima Atene il nome avrebbe.
Chi potrebbe agguagliar con mille voci
L* infinita virtù ch’apporta seco
Il soave arbor tuo? chè di lui privo.
Quasi vedovo e sol saria ciascuno?
La natura dell’ uom più saldo e vero
Non Ita sostegno alcun; se questo prenda
Con misura e ragion , Ira ’1 mollo e ’1 poco.
Quando più gira il cicl ventoso e fosco;
Ch’Apollo è in l>ando, e le fontane c i fiumi
Son legali dal giel , c i monti intorno
Mostrati canuto il pel , uccello e fera
Non si vede apparir, chè stanno ascosi.
Clii fa il buon vlator sicuro c lieto
L’altc nevi stampar, calcar i ghiacci.
Se non questo licor? chi ardente e vivo,
Di più d’ un lustro antico, c non offeso
Dall' onde d’ Acheloo, nel più gran verno
Può in mezzo V Appendili portar aprile?
Poi, quando a noi la rondinella riede.
Che v igor, che dolcezza ai corpi e all’ alme
Dona il soave viu, di’ alle chiare onde
Del rivo cristalli» sia fatto sposo!
Non ci porta ei nei cor Ciprigna e Flora?
Poi , che Febo, montando, al punto arriva
Onde le piagge c i colli in (lamina c ’n foco
Torna coi raggi suoi ; eli’ a pena ardisce
Trar la testa di fuor pur il laccrto;
Che dolce compagnia , die bel ristoro
Si ritrova egli in quel leggiadro e chiaro.
Senza fumo c calor, che il fresco e l’ acqua
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COLTIVAZIONE. S4t
Fa di noi •penetrar là dove questa
Gir non può sola , o più sudore apporta !
Indiche'! tempo vien ch’ogni arbor mostra
Spiegate al del le vaghe sue ricchezze
Nel tardo autunno; che quel ramo appare
Carco d' oro più fin , quell* altro d* ostro ;
Che dir si può di lui , che solo ha forza
D’ ammorzar il venen che i pomi hanseco?
Già le membra e’1 poter del seme umauo.
Per ciascuna slagion, per ogni ctade.
Non pur nutre, sostie n, conforta, accresce;
Ma 1* ingegno, il discorso e l' altre parti
Che dell' animo son , risveglia c rende.
Se moderato vien, più acute e pronte.
Questo spoglia il timor, riveste ardire.
Porta in alto i peusier, pigrizia scaccia ;
Nè gli può cosa vii restare in seno.
Questo ci mostra pian lalor il monte
Di Pierio, di Pimpla e d* Elicona;
E ci conduce ove le Muse e Febo
Ci fan dir cose a maraviglia altere
Chiara tromba sov rana, il cui gran suono
Di cosi raro onor il mondo ingombra.
Che mille altre cil tadi , e Sinirna e Rodo,
Sol per gloria acquistar, ti chiama» figlio;
Tu *1 puoi saper ; chè lui compagno avesti
Per far 1* onde sigee sanguigne c*l Xanto,
E far troppo aspettar la casta sposa.
Or non sa il mondo ornai , non è palese ,
Cile questa è la cagion che l’edra antica,
Perch’ al padre Lenro le teuipìe cinge ,
Al santo poetar ghirlanda sia?....
LIBRO QUINTO.
Provvide cure dell* Ortolano.
Tosto die noi veggia m dici bei eri nd'o-
Già tra gli umidi pesci Apollo spande ; [ro
Tra ove il saggio oriolai! gli eletti semi
Pur dell’ auno medesmo : (ai troppo antichi
Non si può fede aver : chè la vecchiezza
Mal vien pronta al produr riguardi ancora,
Che di pianta ikmi sia dai tempo stanca ,
0 che *1 triste terreno, o *1 poco umore ,
O *1 poco altrui curar 1* avesse fatta
Di forza o di sapor selvaggia e frale :
E non si pensi alcun che I’ arte c P opra
Possan del seme rio buon frutto accorre.
L' ampio cavo! sia il primo : e non pur ora,
Ma d’ ogni teni|K> aver può la semenza ;
Brama il seggio trovar profondo e grasso;
Schiva il sabbioso, in cui non aggia Tonda
Compagna eterna; e più s' allegra e gode
Ove penda il terren : vuol raro il seme.
Vuol largo il fimo; c sotto ciascun cielo
Nasce egualmente; ma il più freddo ago-
Ri volto a Mezzodì, più tosto surge ; (gna ;
Più tardo all’ Orse ; ma P indugio apporta
Tal sapor e vigor, eh’ ogni altro avanza.
Or la molle lattuga, e’unanzi ancora,
Acdò die il nuovo aprii cangiando seggio
Dentro a miglior terreo colonia induca.
Tempo è di seminar : seco accompagno
(Chè d’aver lei vidn lieto si face)
L* infiammante nasturzio ai serpi avverso.
Or la salace eruca, e Pumil bieta,
E la morbida malva (ancor che sembri
Di soverchio vulgar) tale ha virtude.
Tale ha dolce sapor, eh’ è degna pure
Di vedersi allogar tra queste il seme.
Or quei eh’ aviam nelle seconde mense
Di ventosi vapor salubre schermo,
E 1’ anicio c ’l finocchio e ’l coriandro,
E P aneto con lor sotterra senta
La sementa miglior, la satureia
Negli aprici terren virin al mare.
La piangente cipolla, P aglio olente.
Il mordente scalogno, il fragil porro
Ove il grasso e P umor siati loro aita,
E dove truovin ben purgata sede
Dall’ erbe intorno, e che soave e chiaro
Spiri il fiato quel dì fra P Euro e P Ostro;
Quando il suo lume in del lal.una accresce,
0 con semi o con piante è la stagione
Di dar principio lor ; ma quello è meglio.
Al pungente cardon già il tempo arriva
Di dar sementa , e ’l sonnacchioso e pigro
Papavero in quei di non senta obbìio.
Or la ventosa rapa e i suoi congiunti
Di più acuto sapor napi e radici ;
Or del lubrico asparago il cultore
Prender la cura deve : e se dal seme
Vuole U principio dargli , il luogo elegga
Ben lieto e molle, e gli apparecchie il seggio
Lev ato in alto, e d‘ ogn’ intorno il possa
Purgar dall’erbe,c che non v enga oppresso
Dagli armenti, da gregge, o da umau piede;
Ma chi più tosto voglia il frutto avere,
E più grato il sapor, congiunga allora
Dei selvaggi che stan fra boschi e siepi
Molte radici in un : chè più robusti
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348 POEMI G SORGICI.
Saran degli altri , e con mcn cura assai :
Quasi il rozzo pastor che d’acqua e vento,
E di nevi e di Sol già per lungo uso
Non sente offesa, e la vii paglia e’1 fieno,
Come ai ricchi signor gli aurati letti ,
E i panni peregrln , le piume e gli ostri ,
Son dolci e cari ; c *n ogni parte alberga
Culta o sassosa , e non gli cal del ciclo;
Quei che di seme son, tratte il cultore
Con più dolcezza; e quando il verno scende
Della sua prima età dal gielo il cuopra :
Nè il tenere! suo germe sveglia affatto
Dalle radici fuor(chè troppo offende
Quando è giovine ancorala rompa il mezzo
Pur leggiermente; e dopo l’ anno terzo,
E poi sovente ancor ( perchè gli accresca
Vigor sotterra) le pungenti chiome
Del tiranno Yulcan si faccian preda.
La pura verginella, e sacra ruta [pianta
Tempo è d'apparecchiar, chc'n seme e’n
Cresce ugualmente, purché in alto assisa ,
E ’n umido terren : se la sementa
Eia dentro al guscio suo, più larda nasce ,
Ma per più lunga età : chi picciol rami
Con parte del troncon sotterra asconda,
Più intende il ver, dicchi ripianta il tutto.
Orchi mel crederà? eh* a dirle oltraggio,
E maladirla. nllor più lieta c fresca
Risurga e verde? e sopra tutti il fico
Vicin vorrebbe , c tra le sue radici
Prende virtù maggior; c sol gli nuoce
E la vista e la man di donna immonda.
Or la salubre indivia, or la sorella
Di più amaro sapor, ma picn di lode
La cicorca sementi, onde si adorni
Poscia al tempo miglior la mensa prima.
Qui già s'innalza il Sol, già d'ora inora
Yeggiam più chiaro il eie], la sacra Lira
Già si nasconde in mar, già i fornici fiumi
Che legò I* Aquilon, Zolli i o scioglie :
Già nel tempo più bel truovc il cultore,
Per onorar dappoi Venere c Flora,
E prima incoronar la madre antica,
Di bei dipinti fior, di vaglie erbette
(kdinc di varj odor le piante e i semi.
Prima a tutte altre sia la lieta e fresca
Amorosa, gentil, lodata rosa,
La vermìglia, la bianca c quella insieme
Ch* in mezzo ai due color l’Aurora aggua-
glia;
Sicché ’1 campo pestano e ’l damasceno
Di bellezza e d’odor non vada innanzi.
Chi non voglia aspettar, (chè molto indugia
Il suo seme a venir) radici e piante
Metta intorno al giardin, ove non manche.
Nè soverchie l’umor : che quel l’ affligge,
Questo le toc virtù : siano ove guarde
Apollo al Mezzodi : chi vuol più folta
Aver schiera di lor, sotterra stenda
Di propaggine in guisa i miglior rami
A cui l’aglio *icin l’odore accresce
Più soave e miglior, quanto è più presso.
Quandoil verno è maggior, di tepide onde,
Cavando intorno, le radici irroro
Chi desia di poter (quando più giela,
E quando nulla appar di vivo al mondo)
0 ’l bel candido seno o i biondi crini
Della sua donna ornar, c farla accorta
Che ’nvan non sia di sua bellezza avara,
Chè (qual la rosa ancor) caduca e frale
La guastan l’ore, c non ritorna aprile.
Dei celesti giacinti e bianchi gigli
Or l' antiche radici c pianti c poti.
Ma con riguardo assai, che non sostenga
In lor l’occhio novel percossa o piaga.
La violetta persa e la vermiglia.
La candida e l’aurata in verdi cespi [ga
Cinghino oggi il giardin; ma in mezzo seg-
Con presenza reai leggiadra e vaga
Di purpureo color, di bianco e mista,
E di più bel lavor le maggior f rondi
Tutte intagliale, c si dimostri altera
La gerofila allor facendo fede
Come nacque fra lor regina e donna
Per riempier di bel palazzi e templi,
E di Venere qui portare insegna.
Dei puri gclsoniin radici e rami
Trapiante in loco ove più scaldc il Sole,
E dove di di in dì sej-pendo in alto
Truovi sostegno aver muraglia e canne :
Or quei clic senza odor fan vago il manto
Del dolcissimo aprii, ridente il croco,
L’immorlal amaranto, il bel narcisso,
E chi al fero lcon, che mostre dente
Rabbioso per ferir, sembianza porta.
Poi dipinti i sui crin di latte e d’ostro,
Le margherite pie che invidia fanno
Al più pregiato fior del nome solo
Ch’ oggi ha colmo d’ onor la Senna e l’ Era.
Mille lascive erbette a queste in cerchio
Faccian corona, che da lungc chiami
La verginella man, ch’ai tardo vespro
Con l’umor cristallin del lungo giorno
Lor ristoro il calor, poi nell’Aurora
1 lenti e verdi crin soa\c coglia,
E tra gli eletti fior ghirlanda lessa
COLTIVAZIONE.
I)a incoronar Giunon, che bello e Odo
Al suo casto voler congiunga sposo.
L’amorosctta persa in mille Torme
Di vasi c di animai composta avvolga
l.e membra attorte, il scrmollin vezzoso,
E ’l basilico accanto, il qual si veggia
Per gran sete talor mutarse in quello,
0 in salvatica menta, c mostrar fiori
Con maraviglia altrui talor sanguigni,
Talor rose agguagliando e talor gigli;
34»
li melliTero timo, il sacro isopo,
L'amaro matrlcal ch'ai tristo assenso
Benché la palma dia più viene appresso :
E qua) anno il valor, eh' asciuga e scalda.
Tal albergo vorrien ; non già la menta
Che trapiantata allor vicina all' acque
Vive in molt’anni poi conforto e scampo
Dell'Interno dolor che 'I cibo affligge.
TANSILLO.
IL PODERE.
CAPITOLO PRIMO.
Io non so se da scherzo 0 da dovero
Voi diceste l’altr’ ior su quella torre,
Che per testa vi va novo pensiero :
Eclie’l giardiu che destaste torre [corto
Qui in riva al mar, più non v' aggrada, ac-
Dell' errore e del danno ove s’incorre.
Ma in cani biodi giardin [nel che v'esorto)
Voi vorreste incontrar villa o podere.
Clic a prò vi fosse insieme ed a diporto.
Voi pensate da saggio, al mio parere;
Ch’egli è follia che apporta penitenza.
Il comprar ne’ tcrren solo il piacere.
Io so che a voi non manca provvidenza
In questo e in altro da far scelta buona,
E per ingegno e per esperienza.
Che siete uom raro eda gradir persona,
Non pur che 'I cerchio cinga il capo suo ;
Ma che porti il camauro o la corona.
Ma perchè si suol dir : nel caso tuo
Proprio prendi avvocato ; e suolsi dire ;
Cbè veggon più quattr'occhi die non duo;
E panni d’ora in ora vedere’ ire
Col venditore e col notaio al fianco:
lo vi vo’ col consiglio prevenire.
Nè vi debbo in quest’ alto venir manco,
Sebben l’usanza il consigliar mi vieta
L'om che noi chiede, olirà eh' ha il peto
bianco.
Se comparir da amico econ monetalo
Non posso, il che voi forse avreste a scor-
Verrò con penna in mano e da poeta.
E vi voglio insegnar tutto in un giorno
Quel poco che in molti anni m’ha insegnato
li leggere e l’udire e '1 gire attorno.
Perchè inognialtochc non sia sforzato,
L' elezton ben fatta è quel die Importa :
Lasciamo andar quando da su vicn dato.
Se va l' elezton senza la scorta
Del buon conoscimento, ella andrà male :
E un gir al buio là 've ’l piè ne porta.
Ch’ esser puote il podere In partee tale,
Ch’Io noi torrei se mi si desse in dono,
Non pur a molto men di quel che vale.
Orni' io vi mostrerò quante e qual sono
(Pria che ’l danaio fuor di banco v’ esca)
Le parti che richiede un podcr buono.
Eperchè'lprezzooltrealdovernon cro-
io vi darò due documenti radi, [sea,
Cliè mai di compra falla non v’ incresca.
E vi dirò degli uomini e de’ gradi,
Col cui mezzo c da cui l’aver fia leve
Cosa die men vi costi c più v’aggradi.
Della memoria mai non vi si leve,
Che nè poder nè altro che si cole.
Comprar cupidamente unqua si deve.
Membratevì quest’ altre due parole,
Quando al vedere e al patteggiar voi siete.
Clic ciò che mal si compra, sempre duole.
Se ’l piè dall’ormc mie non torcerete,
Fia ’l cammin buono ; e non vi farà mal
Acqua torbida ber soverchia sete.
Voi mi potreste dir : Se tu non hai
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ISO POEMI GEORGIC1.
Nè poder ch’io sii sappia nè giardino.
Coma trattarne ed insegnar saprai ?
Stimate eh’ in sia un pover Fiorentino,
Che regga scuola d’abaco; e dei mio
Non abbia da contar soldo o quattrino.
Q nel che pria s’ ha da fareè il pregar Dio
Vindrizzi al meglio; come in tutti affari
Tor dee principio ogni uom prudente e
Indi parlale a' pubblici se usa ri, [pio.
A* più ricchi e più noli contadini,
A* dottori, a’ mercanti ed a’ notari.
Or han gli amici e i clìcntoli c i vicini :
Saprai) s'uoni vender voglia e quanto chie-
Equai siati le contrade e quali! fini, [da :
Quando saprete ove il poder si sieda.
Itelo a riveder non una o due
Volte, ma dieci ; e con voi altri il veda.
Sappiate di cui sia e di cui Tue;
Guardatel tutto intorno, entro e di fuora,
E nelle piti riposte parli sue.
Giova il vederlo più e più talora;
Cliè s'è buono il terreo, s* è vago il silo,
Quanto il vedete più, piu v’ innamora.
Com'uoin ch’egli abbia a procacciar ina-
A figlia bella e sola e d' ai la dote ; [rito
Con la lingua e col piè siate scaltrito.
Sìa presso alla città quanto si punte
li poder clic cercate ; c larghi c pìauì
Siano i .senti e r, che andar vi possati rote.
Comprar poderi e che nc siati lontani,
fc un far dono a tre stati di persone,
A servitori, a schiavi ed a villani.
Però quel Moro saggio il buon Magone
Dicea : Chi ’l poder compra, immantinente
Venda nella città la sua magione ; j venie.
Per mostrar clic ’1 signor non pur so-
li die non potrà far, s’ è lunga strada.
Ma a qualunque ora esser vi dee presente.
S’è presso al mar sìch’uoin per mar vi va-
E del carro si vaglia e delle barche, [da,
Qual più gli è in destro, tanto più m’ag-
grada. [che.
Ma sia che bisogni ir poich’ uom si sbar-
Duo tratti d' arco ; e sia eh’ entrili le porte
E treggie e carra, non che bestie cardie.
Quanta u lillà pensate voi che apporte
Poder ch’abbia si comodi 1 viaggi.
Oltre al piacere, a cui gliel dà la sorte?
S’è lontan da città, sia tra villaggi;
Chè chi vuol voi, per boschi non vi cerchi;
Nè il guardian tema di ladri oltraggi;
E possa ancor pi ù agev olii) ente aver chi
PoU e vendemmi e zappi cd ari c falce ;
Nè lungi e caro altrui fatiche merchi.
E se la zappa o ’l vomero o la falce
Si rintuzzali, sia presso chi gli acconcte.
E s’ abbiati ferro e legni e pietre e calce.
Da far nuove opre e da sarcir le scoocie:
E se si paga il far de* tetti o palchi
Altrove a dramme, qui non monti ad onde.
E fisici e chirurgi e maniscalchi
Uom possa aver, quando il bisogno accade;
Nè lunga via per lor vada o cavalchi:
Che ’1 villa» vostro rade volle e rade
Per uom che gli sia d'uopo, o roba od opra.
Lasci la villa cd usi alla cittade.
Pigra palude che di nebbia il copra[gna,
Non abbia intorno, o verde umor che sla-
E nociva aura ognor gli affiati sopra.
Sieda alle falde o al piè della montagna.
Che si possa goder vista più bella,
E l' acqua accor clic le pendici bagna.
Ma non clic tema a tempo di procella
Torrente che ogni cosa affatto strugga.
Portile biade vìa, gli arbori svelta.
Nè penda si, clic l’acqua se ne fugga
Clic d’aria vieti; nè ve nc mora goccia;
Ma che la terra il più n* assorba e ruggì.
Nè gli stia su qualche scoscesa roccia.
Che per tempesta che la srnova o crolli.
Col rotar giù de’ sassi t.ilor noccia. [molli:
E s’egli è in pian, sien campi asciutti e
(Chè ancor sul piano esser può buono e bel-
Nè sempre aversi posson monti o colli.) [lo;
Attendete ch’egli abbia o questo oquel-
0 il terre» tu ilo ad una banda inclini ;
0 sla per tutto egual, non a livello, [ni.
Che cd erto e pian ne’ fossi e ne’ pendi-
Non si faccia quel liuto c quella borra
Che uligine suol dirsi dai Latini, [corra:
Se umor non ha, nè *1 punte aver, che
Abbial che giaccia; ma siati vene eterne;
Non si profonde, che ’l villan le abborra.
Non in’ appaga» pescaie nè cisterne.
Or calde or secche ; ma vo* fonte o pozzo,
Freddo di stale c caldo quando venie.
Oh se la Parca non avesse mozzo
Il filo della vita del gran Pietro,
Cir ebbe si in odio il viver rude c sozzo ;
Chiare onde e fredde più che ghiaccio e
vetro
Avrian forse e Pausi li poc Sant’ Ermo, [tro.
Non pur la quercia e ’l salce e i rampi addir-
Amcno e collo ogni aspro colle ed ermo
Fora qui intorno; ed acque avrian gli agru-
Pcr far dal caldo e dal gelarne schermo. [mi
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IL PODERE. 3S1
E chi non sa, che le fontane e i fiumi
Son Palme delle terre e i fregj veri.
Come del del le stelle e i maggior lumi ?
E se avesse sortito il buon Lettieri
Un secolo del nostro meu cattilo.
Quando in opra poneansi i bei pensieri ;
Avria la vostra casa oggi il suo rivo :
Ed ei, come a que’ tempi era il costume.
Fora in pietre e *n metalli sempre vivo.
Poich'egli ebbe d’ ingegno tanto lume,
Cbe scoperse le vie maravigliose
Che da Scrino a Napoli fea ’l fiume;
Le vie mille anni c mille e più nascose
Sotterra, in mezzo al sasso, den irò i monti;
Che pur sono a pensar mirabil cose.
Che fora il veder Napoli coi fonti
Cosi nel sommo suo, come nel basso ?
Altro saria, che aver marchesi c conti.
Non perchè sia ’l terreo fertile c grasso.
L’aria abbia infetta, clic icultor funeste:
Nè sia magro sabbione o steri! sasso.
Perché l'aria abbia pura: chè son queste
Due vie sorelle ; e ne dee far paura
Cosi la stcriltà, come la peste.
Non è si scarsa o poterà natura, [sa :
Che ambedue grazie un loco aver non pos-
Efar.ch'ove egli ha ’l petto, volga il tergo.
Chè ancor che non v i sia vapor terrestre
Che l'aria ammorbi; son talora i venti.
Che fan le cose or prospere or siueslre.
Non sempre appare ai tisi delle genti.
Se ’l ciclo è buono o reo ; clic spesso usale,
Vìvon sane ne’ luoghi pestilenti.
Nè titol di salubre unqua gli date.
Se non è buon per le stagioni tutte;
E via più che di verno , anche di state.
Pessimo è quel terreo, benché assai fruì*
Col qual bisogna die sì metta a gioco [te,
La vita del padrone e seco lutte.
Dissi dell' acqua ; dico ancor del foco.
Abbia il poder comodità di legna;
Chè ameudue fan bisogno in ogni loco.
Abbiala si , eh' arda alla villa, c \egna
Alla città col carro il rustie’ uomo;
E ’l carbon sempre acceso vi sostegno.
Voi d’altrui siete, e vostro maggiordomo:
Sapete se le legna oggi son care
Più clic 'I guaiaco d'india e ’l cinnamomo ;
E se qui senza bragia si può stare ,
Quando ci soffia il vento di rovaio;
Oltre ai bisogni in che si suole oprare.
Venga la prima sera di gennaio
Coi ceppi e lauri suoi lo sluol selvaggio
A chiedervi cantando alcun danaio,
E coi fiori la prima alba di maggio
A suon d’alta sampogna e porti in collo.
Per piantarlo in su l'uscio intero un faggio.
Eco» le legna orv’ arrechi uova or polio;
Or questi doni or quei, conformi al tempo;
0 meni alto il suo carro, o basso Apollo.
Susine e fieli! ed uve al caldo tempo ;
Nespole c sorbe al freddo , c pere e poma ,
Frulla da fargli onor più lungo tempo.
E stridano or sul carro or sulla soma ,
Leprotto, cavilo), porcbclti cd agni.
Quando il verno ha piu bianca e barba e
chioma.
Benché non entri al libro de' guadagni,
È dolce ad uotu qual vuoi largo e gentile.
Dare, e dire a' signori ed a’ compagni:
Questo è del mio podere, odel mio ovile:
0 ch’egli stesso a mensa sen ricordi:
E ’l suo gli aggradi , c ù nga ogni altro a
bastate bcccafichi, il verno lordi, [vile.
Che visco o rete ne' vostri arbor prenda ,
Da far di loro i più svogliati ingordi.
Imporla assai, benché nessun v'intenda.
Per comprar con men costo e men perìglio.
Saper chi sia ’l (ladrone , e percliè venda.
E vi vo' dare un saggio aito consiglio,
Cile mai scrittore antico altrui non diede :
Cercate di comprar sempre da figlio.
Figlio che sia di morto padre erede ,
Se aver bramate un vendi tor cortese.
Clic si foglia assai mondi quel che chiede.
Schivale di comprar d’uom che v'intese,
E’» farlo abbia oro c diligenza posta;
Chè all or vai troppo ogni aspro e vii paese.
Però Nisida bella assai men costa
Al vostro e mio signore, a cui fortuna
Dovria far d’ oro i sassi della costa,
0 donar lutto a lui raccolto ili una
Quanto tesoro ili queste parti e ’n quelle
Per le molte arche altrui sparge e raduna.
So che le donne valorose e belle ,
E le persone dotte e virtuose
Non si dorrian sì spesso delie stelle.
E Nisida , ch’or è delle vezzose
Che cinga il mar da Cadi a Negroponte,
Saria delle più ricche e più famose.
La qual se in quei primi anni ebbe occhi
e fronte
Dolci , come or, non paia strano a vui ,
Che ardesse del suo amore il vlcln monte.
Ma se a comprar s’ avesse da colui
Che prima la spogliò li’ incolte vesti ,
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POEMI GEORGI».
Ut
Per tre colenti non saria d' altrui.
Sogticn dirquel sagaci uomini agresti,
Clie amor di figlio i d’arbore sembiante,
Qualora notti di sua mano il pianti ni nur-
se vi vlen qualche giovane dat ante [stl.
Cui siano appena i primi peli schiusi ,
Che faccia il cavalier , faccia l’amante;
Non è bisogno allor clic da voi s’ usi
Cotanta provvidenza ; ma potreste
Comprar, comesi dice, ad occhi chiusi.
E Unto più, se si fan giostre o feste;
E ’1 giovanetto a frrgj, a |«>mpe avvezzo,
Vuol cavalli e stallieri ed arme c veste.
Comprale allor, se vi vendesse un pezzo,
Di quel monti d’ Aicroia, o di Scala:
Chè s'è aspro il terreno, è dolce il presso.
Benchèla compra non fa buona, o mala,
Inquanto al mio parer, s’uom se n'appaga
Il meglio, o'I piu chc’l costo sale o cala.
Purché si pigli cosa buona e vaga,
Ancor che siati talor cari i partiti ,
Con quel si compra, che di più si paga.
Trovo un errore, e d’uomini infiniti,
Che non s’ emenderian del creder loro ,
Se fosser come eretici puniti.
Che si delibati comprar voglion costoro,
Possesslon deserte, ed’uom mendico
E pigro , acciò s’ avansin col lavoro.
E di qui nacque quel proverbio antico
Ch’èira noi: magion [atta, e terra sfatta
Ed lo tutto il contrario oggi vi dico.
11 buon Censore cd altri che ne tratta,
Concbiudon , clic cercar terra ben colta
Non men si debba, che magio!) ben fatta:
E che faccenda più dannosa e stolu
Non si può fare, c dove uom più s'inganni,
Che possession comprar caduta e incolta.
Non è meglio (lasciamo ir gli altri danni)
Goder dal primo giorno il ben giù fatto,
Cheqiiclchc s'ha da fare, attendergli anni?
Da terra beli nudrila se n' Ila ratto
1.’ usura in mano' e l' uliitù vien certa :
L’altra é dubbia c dannosa al primotratto.
Chi vuol pigliar possesslon deserta,
Piglila ch’ei noti abbia ancor la gota
Della prima lanugine coperta.
Ma chi con quattro croci il di si noU
Del suo natale , o se ne stia digiuno ,
0 la cerchi ben lieta e sulla rota.
Più vi vo’ dir: sappiate ad uno ad uno
Qua: fruiti v’ha, da chi gli ha colli, o visti,
Nò vi caglia il parer troppo importuno.
Perchè se tutti son cattivi o misti,
Rlsognan doppie spese : affanni doppi
A porvi I buoni ed a sbandirne i tristi :
Ch’or nohìl ramo a tronco vii s’ accoppi ;
Or questo arbor si taglie, or quel si sterpe;
E sì accasin di nuovo or gli olmi or gli oppi.
Chè veder vite che per arbor serpe,
Nonpuongliocchi soffrirde’ buon padro-
S’ ella non ò di generosa sterpe. [ni.
Ma che le viti e gli arbori slan buoni ;
Se con misura ed arte non fur posti ,
Ancorché sian ben colti, c’nlor stagioni.
Rende poco il poder, benché assai costi;
Citò P una pianta all’ altra si fa guerra,
Se più clic non dovria s’appressi o scosti
L’ulta ali’ altra. Qualor nell’ordln s’erra.
L’aria c P aura e la Luna e’I Sol si toglie.
Nè forse a tutte ugual può dar la terra.
Il che noce di lor fino alle foglie; [so.
Olirà che non dan mai quanto hall promes-
E quel poco men buon, ch’indi si coglie.
Priache’l poder sia nostro, non solocsso
Noi dobbiamo c mirare e squadrar bene,
Ma ancor le terre che gli stan da presso.
Perchè se quelle splendon.nc dan spene,
Anzi certezza clic sia buon il clima.
Sappiasi ancor l’uom che vlcln si tiene.
E quai siano i vicini inquirer prima.
Che gli alberghi o i poderi abbìam noi tolti,
E di mnnien lo assai più cli’uoin non stima.
K vi potrei contar popoli molti,
Clic per fuggir vicini ladri infidi.
Si son da più contrade insieme accolti;
E dalle patrie lor, dai dolci nidi
In volontario esilio si son messi,
Nuove terre cercando e nuovi lidi.
Nel principio del mondo fur concessi
Agli animai da Dio quei privilegi
E quei doni che chiesero egli stessi.
Come nuovi vassalli a nuovi regi.
Gran popolo di loro Ivi convenne;
Quali ai comodi intenti c quali ai fregi.
Tra gli altri la testuggine vi venne,
F, chiese il poter sempre, o vada o seggia,
Trar seco la sua casa ; e ’l dono ottenne.
Dimandata da Dio, perchè gli chieggia
Mercè clic a lei piti grave ognor si faccia :
Non è, diss’ ella, eli’ io ’1 mio mal non veg-
gìa;
Ma vo’ piuttosto addosso, e sulle braccia
Tor si gran peso tutti gli anni mici,
Che non poter schifar, quando mi piaccia.
Un mal vlcln. Che dunque dir potrei
De’ tempi nostri, se da quei d’ Adamo
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IL PODERE. 353
Gii s’ebbe tema de’ vicini rei? [chiamo, Riposiamoci un poco e poi torniamo; [chi.
Ha acciò che quel poder che noi cer- Che avrem più fona ai plé,più lena al flan-
lnnanzi che si trovi, non ne stanchi.
CAPITOLO SECONDO.
Se per cercar laior picciola lepre [vento,
Uom va più miglia al freddo, all’acqua, al
E guata e scuote ogni solchetto e vepre :
Per trovar il miglior d'un elemento,
Non vi gravi seguirmi per via lunga,
E un di sudar, per riposar poi cento.
Benché vi paia spron clic poco giunga,
Il doversi spiar come sian fatti
Quei che limite o siepe a noi congiunga ;
E benché esaminar degli altrui fatti
Impaccio sia che rado utile apporti,
S’ uom di servigio o maininoli non tratti.
Nessun potria pensar quel che gl’importi
L'aver, se prima non ne viene a prova,
Buoni vicini o rei, debili o forti.
Il reo virinoli noce, il buon mi giova;
Col povero ho speranza d’allargarme;
E ’l ricco fa eh’ uom passo non si mova.
Se ’l poder compro per talor quetarme,
Se ho mal vicino, a capo al letto, al fianco,
La notte c ’l di convicnmi tener l’arme.
Sia ferii! quanto uom voi ; se a destro o
manco
Qualche Autolico stanimi o qualche Lacco,
Non vale il mio poder la meta manco?
Ruba a Pomona, a Cerere ed a Bacco;
Non teme di minacce né d’ accusa, [sacco.
Pur ch’empia In terra altrui la corba o il
Non giova villa d' ognintorno chiusa,
Né diligenza d’ uomini e di cani
Contro le insidie che ’l vlcin vostro usa.
Gallina che dall'uscio s'allontani,
Piu non vi riede ; e chiami pure e pianga
La villanella e battasi le mani.
Aratro o giogo o rastro o mari a o vanga,
Qual sia di ferramenti o di legnami,
Non fidate che fuori si rimanga.
Or svelle viti or pali, or tronca rami,
Or albero per foco o per altri usi ;
Né lascia intatti i prati né gli strami.
Fura i legumi ancor ne' gusci chiusi,
Né de' frutti primier né de' sozzai
Sostien che ’l padron doni o per sé gli usi.
Nel suo terrennon mette piè giammai,
Che danno non incontri e guardia e cura
N' abbia a sua posta e d’ ogni tempo assai.
Chi per sua colpa o per sua rea ventura
S’accosta a’ rei vicini o si raffronta,
Sempre ha l'oste alle siepi ed alle mura.
D'un signor greco e saggio si racconta.
Che facendo una sua possessione
Por sotto l’asta al prezzo ché più monta;
Comandò che gridasse anco II precone,
Ch’ella avea buon vlcin ; quasi ciò stimi
Nonmen che l’altre qualità sue buone.
Se ho reo vlcin: quai mura si sublimi
Faran che Qu nel letto non ni’ assaltc ?
Qual legno o ferro é, che non apra o limi ?
Abbia il poder le siepi e folle ed aite.
Gli argini o i fossi ogli steccati o i muri.
Si che bestia non v'entri, uom non vi saltc.
I termini più saldi e più sicuri
Delle possession son gli arbor stessi :
Clic non ho tema eli' uom gli smova o furi.
Però chi vi pon pini e chi cipressi.
Che sono arbori rari ed immortali ;
Né giudice bisogna ove son essi.
L’ uve c le biade son le principali
Ricci.czze ne’ poder che denno aversi,
Come il bere ’l mangiare hall gli animali.
Benché abbia intornoa ciò parer diversi:
Chi vuol che sian le prata , e le difese :
Chi le vigne e chi gli orti d' acqua aspersi.
Io che tratto di questi del paese
Tra Li ri e Sarno e le montagne e Tonde,
Lascio le altrui dispute e le contese;
I quai son ricchi d’arbori c di fronde,
Più che di piante e d’ erbe quasi tutti ;
Le prime parti al vino c le seconde
Do al grano. D’ogni spezie poi di frutti
Abbiali che aver si possa e più e meno,
Come più da quel clima son produltl.
Non produce ogni cosa ogni terreno ;
Coni icn che sua natura ogni terra abbia;
E pari all’ esser suo se l'empia il seno.
Ché s’uom volesse non lontan da Stabbia
Arare c sementar e metter grano, [sabbia,
Ch’ é tutto or ghiara, or pietra arsiccia or
0 in quel d’ Aversa e Capava c Giuliano
Piantar granata, amandole ed olive,
Ch’ é si fecondo, fora un pensìer vano.
La vite é quella che più rende e vive
iu POEMI GEORG1C1.
Su queste nostre terre a Bacco sacre,
S4an campi o monti o poggi o valli o rive :
Se non se alquante paludoso o macre,
Poco abili ed all’ uve cd alle biade.
Che l’une c V altre fan deboli e inacre.
Vorreste voi saper delle contrade
Ch’haquid’ intorno, qual miglionni paia,
E intender la ragion perchè iu' aggrado ?
Ove adombra Yescvo e là ver Baia,
Oh i dolci colli, oh le campagne erbose,
E per le due fertili e per l'aia!
Le comparatoli sono odiose, [so,
E con quei maggiormente ch’hai) del gros-
0 che aman troppo le lor proprie cose.
S‘ io cerco l’altrui grazia il piùchepos-
Non vo’ con far dei luoghi differenza [so,
L’ira recanni de’ padroni addosso.
Una cosa dirò, chè coscienza
Mi sforza a non tacerla ; e con perdono
Di lor cui tocca e spiace ia sentenza.
Perdoni il Saugro,il Manso.il M acedono,
Egli altri tutti, o sian gentili o rudi.
Se in quel ch’io dico offesi da me sono.
Ogni uoiu tre luoghi di fuggir si studi,
Che son dannosi e disagiali ed egri,
L'Acerra c Fuoragrolla e le Paludi.
Per quella polve «quegli orror sì negri,
S’io avessi ver Cuma il mio podere,
lo starei a non irvi gli anni integri.
Oltre ai danni eh’ egli han delle galere,
1 cui spirti dannali a suon di ferro
A sradicar le selve vanno a schiere; cerro.
Svelimi gli arbusti, non che i’ornoc ’l
Sto talor nel balcon, sento le torme;
Per non vedergli o mi fo indietro, o ’l serro.
È pur gran fatto; e Napoli si dorme;
Nè si vkle uom destar, che cerchi mezzo
Da moderar licenza cosi enorme.
Ho corso quasi lutto il mar di mezzo:
Tutte risole ho visto e tutti i lidi
Ch’egli ha dai lati eche gli stanno in mezzo.
E in parte mai dar ancora non vidi,
Ovo la turba vìi di forca degna
Nel gire a’ danni altrui tanto osi e fidi.
Smonti in Sicilia, in Corsica, in Sardegna,
In Liguria, in Provenza c ’n Catalógna;
K coglia i frutti altrui, tronchi le legna.
Non vo* eh’ uom corra al ferro, o venga a
pugna ; [ti.
Ma preghili chi M può far, quei che dan v o-
Chc freni arpie eh* han sì rapaci l'ugna.
Che peggio potriau far Sv izzeri e Goti
Nc’ campi de* nemici e de* ribegli,
Che qui fanno oggi i nostri fatarti?
Non spero che In ciò Napoli si svegli.
Poiché in cosa maggior l’ aggrava il sooao.
«Le man le avoss’io avvolte entro icapegli.»
Torniamo al campo. I ricchi qualor von-
Econ la vigilanza e con la borza, [no.
Ogni aspro scoglio fertile far ponno.
Onde tastar bisogna olirà la scorza
Il termi clic a veder voi siete addutto.
Che sia buon per natura e non per forza;
E quando anco sia tal, che per far frutto
Non richieda moli’ oro, opra e fatica :
E questa parte grava a par del tutto.
Quella nobil romana gente antica.
Tanto lodata in prosa e ’n versoe ’n rima,
Qie fu dell'arte rustica si amica,
Questoera quei clic investigaran prima,
Se terra egli comprar volran talora ;
E questo de’ più scaltri oggi si stima.
Nè cerco gii nè vo’ che sia tale ora.
Qual fu la terra noti’ età dell’ oro :
0 fortunato chi nasceva allora!
Chè senza seme altrui, senza lavoro,
Per sè stessa abbondante e fertii era,
E dava a quei mortali il viver loro.
0 sia. qual degli Elisi la riviera.
Ove ogni anno il terreo frutta tre volte,
E v* ha perpetuo autunno c primavera.
Basti che sia ch’ella si fenda e volte.
Senza sudor soverchio d’uman viso;
Nè le spese sormontili le ricolte.
Da che gli uomini in cielo e in paradiso.
L’un furò *1 foco e l’allro colse il pomo, [so;
Volgendo in piantoli proprio e l'altrui rt-
Fe’ Dio compagni eterni al tniser uomo
1 morbi, il mal, le cure e le fatiche:
E fu 'I furto punito e l’ ardir domo.
Onde abbia quando v uol le stelle amiche.
Bisogna eh’ uom patisca in tutte elidi,
E con sudor si pasca e sì nudriclie.
Ma vi son poi le differenze e i gradi :
Cui più, cui men ne tocca; e tuttavia
Son color cheli’ han poco e pochi e radi.
V uol Dio che stato sono il ciel non sla,[te:
Ove uom s'acqueti e men chi ha miglior sor-
Nè scnz’affaimo abbia uom quel che desia.
Un saggio contadin venendo a morte.
Acciò che i figli in coltivar la terra
S* csercilasscr dopo lui più forte;
Figli, lor disse, io moro; ed ho sotterra,
E nella vigna il piu de’ beni ascosa;
Nè mi sov vien ilei cespo ove si serra.
Morto il padre, i fratei senza riposo
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IL PODERE. JSS
A zappare e vangar tutto il di vanno,
Ciascuno del Inoro desioso.
La vigna s'avanzò dal primiero anno :
E i giovaneili inleser con diletto
Dei provvido veccliion l' utile inganno.
Aveva un buon Ramano un poderetto.
Dal qual traeva più frutto, die dal grandi
Non traeanquei ila cantoo di rint petto.
Si basta all’ altrui invidia die dimandi:
Orni’ è die tanto renda il poder tuo, [di?
Cbc è tal die un manto il copre, che v i span-
ila accusando! più d' uno e più di duo,
Dicean ebe con incanti c con malie
Le biade altrui tirava si terrcn suo.
Venne a gludicio il destinato die
Che si dovrà por fine alle tenzoni,
E scoprir l'altrui vero e le bugie.
Il buon unni per difender sue ragioni,
Al tribunal de’ giudici prudenti
Non menò ne dottori nò patroni :
Retò tulli i suoi rustid strumenti,
E tulli i ferri onde il termi s’ impiaga.
Ben falli e per lungo uso rilucenti ; [ga :
Suoi grassi buoi, sua gente d’ oprar va-
Qucsli dice, giù posti in lor presenza,
Son gl'liicamcsmi miei, l'arte mia maga.
Le vigilie, il sudor, la diligenza
Trar qui non posso come fo di questi,
Benché dell'ima io mai non vada senza.
Subito senza dar luogo a protesti
Ed a calunnie o porvi indugio sopra,
Dichiararmi lui buono e quei sedesti.
E la sentenza fu, clic più può I opra
Nei terrcn elle 'I dispendio ch'ivi fassi ;
E tanto vai poder, quanto uotn v’adopra.
D'oprar dunque iu sul campo uont mai
non lassi.
Oliò 'I frutto ò il ver tcsor sotterra posto :
Non però tanto clic ’1 dover trapassi.
Terrcn fecondo per moli’ opra e costo.
Sembra uotn cbc ben guadagni e spenda
targo.
Cheafìn più ha speso, clienon ita riposto.
Qui bisognan, direte, gli occhi d* Argo,
Perchè del tutto a tempo tomi rav vegga;
Non gii quando aro o pianto, o li seme
Or io v'insrgnerò come si vegga [ spargo.
La buona terra e come si conosca;
E qual per grano e qual per vin s'elegga.
La miglior terra che sia negra o fosca
Vogliono o bigia : e in questo avvlen che
s’erre;
Chò ancor nelle lagune ella s’ Infosca.
Conoscer solo ne’ color le terre,
È proprio un giudicar gl i uoov ini al volto:
Non sempre al volto appar quel che’leor
serre :
Quei che importa , è saper s’è raro o folto
li terrei) ; grasso o magro ; dolrr o amaro;
Grave o leggier ; pria che da noi sia tolto.
Per farvi dunque a certi Itidizj chiaro
Qual e’ si sia c quando è da sperarne [ro ;
Che ubbidisca ai villan. quantunque ava-
Dirò qual prova voi potrete farne;
E s’ egli è pingue o secco ; raro o spesso ;
Salso o soave, alla certezza trarne.
Cavisi un pozzo : del terreno stesso.
Onde pria si votò, poi si riempia
Coi piè ila su ben adeguato e presso, [pia.
Se ’l terrcn manca e clic qual fu non v’em-
D’ esile e sciolto darò segno aperto
All'occhio ben accorto che 'I contempla.
Ma se ’l fosso ripieno e rlroperto.
Fuori n'avanza clic non possa accorto;
Cile denso e fcrtil sia credete certo.
E se ’l pozzo s’ adegua a par dell’orto.
Nè fuor cresce II terrcn nè dentro scema.
In grado di mozzai! potrete porlo, [ma :
Bagnata gleba noni con man tratti c prc-
Se invesca e tra le dita ella s'attacca,
Di terra magra non abbiate tema.
0 se avventala a terra, non si fiacca,
Ma tutta insieme a (fissa iti si resta,
Da vomer grave non sarò mai stracca.
Per prova del sapor, vii sacco o cesta
S' empia di terra e lò dove più avversa
Ella vi pare cd al fruttar men presta.
E d'acqua dolce ben da su cospersa.
Premasi il cesto o il sacco, onde trapela
L’ umor che fuora a larghe goccie versa.
Indi purgato da stamigna o tela.
In un vaso qual vin, fatene li saggio;
E il sapor della terra ci vi rivela, [saggio :
S' egli ha del dolce ; può comprarla uom
S' è amaro o salso ; al suo signor potrete
Dir : Frale, addio ; chè sete più non aggio;
Chè estinta m' ha questo licor la sete
Del poder vostro che m' atra si acceso.
Qual fontana d’ Ardcnna, o rio di Lete.
S’ ellaègravcnleggiera.al propriopeso
Conoscer puolc uom che non sia cultore,
die n'abbia alquanto in su la palma pre-
Lleta terra si scopre anche all’oilorc, [so.
Qualor si rompa, e il vento gii presti ala :
Ma che l’ odor sia suo, non d' erba o fiore.
Slmile a quel ch'ella ha quando il Sol cala
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POEMI GEÒRGIE!.
346
1.4’ve l' arco del elei pon Ir sur coma;
0 che dopo gran serra molle esala ,
Quando cessa la pioggia, c'1 sere» toma.
Cosi suole odorar nel novo solco
Terra molli anni d’ alti boschi adorna :
Poiché gli svelse ed arse II buon bifolco,
E in lei fece col vomero le piaghe
Che fe' Giasone in sul terren di Coleo i
E dove augelli e serpi e fiere vaghe
Avean lorcase , or nudo campo s'ara, [gbe.
Perchè il padron d'altro che d'ombre appa-
Daran le terre ed uve c biade a gara ,
Se ben partite elle saran tra i dui;
La spessa a Cerere ; a Lieo la rara.
Ma tante prove far sul campo altrui
Come si può, clic non sen rida o sdegni
Oli suo signore, o chi vi sta per lui?
Vorreste dunque eh' io vi dessi segni,
Che a torli 1’ occhio sol fosse bastante,
Sema tanti strumenti e tanti ingegni.
Mirate l' erbe, gli alberi e le piante.
Che per sè stesse in quel terren son nate ,
0 che altrui man le semini o le piante.
Ch'elle vi potran dir la verilatc;
E meglio assai che astrologo o profeta ,
Promettervi abbondatila o steriliate.
Se l’ erbe liete son , la terra è lieta ;
Steril la terra , se (ia arsiccia l' erba ,
E scemo ciò eh' indi si coglia o mieta.
Esc l' arbore è grossa, ampia c superba;
0 se ba picciol 11 tronco, i rami angusti ;
Mostra di’ è tal chi in sè 11 nutre e serba.
Equantopiù van verso il cicl gli arbusti,
Più vien giù l’ uva amabile e benigna ,
E più sinceri e generosi I mosti.
Il calarne, il trifoglio e la gramigna,
Il giunco, il bulbo, il rucco, terren grasso
Mostrano, e più da rampo, che da vigna.
Ove l' edera negra, il pcccio e 'I tasso
Appare, non curate di tentarla;
Ch’ è tema fredda, e steril più che sasso.
Terra simile a legno che si tarla.
Non purché non vogliate io vi consiglio ;
Ma che ’l piè non si degni di calcarla, [glio,
Terren eh’ ha polve d’or, terren vcmii-
E ghiara e sabbia e creta elofo e selce,
Non bisogna a schifargli altrui consiglio.
Il mirto, il rosmarin, l'ogliastro e l’ elee
Mostran terra amicissima all'ulivo;
L'ebulo al pane; al buon licorla felce.
Ogni terren.quantunqueasproecattivo,
E ad uso uman , purché nel suo si fermi,
E non si sforzi agli altri ond'egli è schivo.
Clic più, che nudi scogli arsicci ed ermi?
E cappero c bambagia vi si crea
Questa alle donne , e quel caro agl' infermi.
Unui eh' abbia vista la Pantalarea,
Coni' io talor, gli è forza che concluda ,
Che terra non ha il mondo che sia rea.
Pietra cinta di mar negra, arsa e nuda.
Dove non credo clic mai piota o fiocchi :
Eppur fa frutto, e quel secco osso suda.
i.a miglior terra die col piè si tocchi ,
Non pur s'apra col ferro adunco e greve.
Qual sia dirè con note esposte agli occhi;
Quella eli’ esala sottil nebbia c lieve,
Onde in sul grembo suo l' aria ne fuma ;
E bcc I* umore , e 'I caccia qualor deve ,
Nè la state vlen secca, nè la bruma
tìmida troppo ; e di sua verde erbetta
Sempre si veste come auge! di piuma;
Nè di ruggine salsa il ferro infetta :
Questa le vili liete agli olmi intesse;
Questa è ferii! d' olive, questa allctta
Greggi ed armenti, e loro fresche e spesse
Erbe ministra , c questa ai buon cultori
Eguale al gran desio reca la messe.
Tal soican terra il più degli aratori
Sotto questo cicl nostro sì felice ,
Ove son l' erbe eterne , eterni fiori ;
Ove Cerere c Bacco e l' inventrice
Dell’ ulive contendon di ricchezze ;
E dove è '1 paradiso, se dir lice :
Delizie di natura , ed allegrezza , [to
Di cui mai sempre 11 mondo in dubbio è sta-
Qual sia più, la bontade, o la bellezza.
Or entriamo alla villa a prender fiato :
Chè lo star fuora , c volger pietre e zolle,
V ha forse oltra misura affaticato :
E già vi vedo orinai di sudor molle.
CAPITOLO TERZO.
Basti che abbiam finor corso le terre ;
Benché a cercar gran parte sla rimase ;
Tempo è ch'uom dentro si raccoglia e serre,
E veduto il terren , veggiam la casa
IA dove si ristora ogni fatica ,
E si ripongon frutti , ordigni c vasa.
IL PODERE 357
Del mio poco avanza eli' io vi dica;
Ne dissi su , quando parlai dell' aria
Ond' uom continuamente si nutrica.
Sieda la villa in molte parti varia;
Imiti l' edificio il corpo umano,
Che qual negli usi, tal ne' membri varia.
Sieda aita alquanto, ed abbia innanzi il
E per piti maestade e per più pregio. ( piano,
Gii arbusti e i colti tengasi per mano.
Se atri dinanzi all' uscio cammin regio,
O via ebe intorno intorno la ghirlande.
Eia come a donna beila un giunger fregio.
E benché voglia autor famoso e grande
Che da pubblica strada ella si scosti ,
10 desio che la cinga a tutte bande;
Ancorché tanto o quanto più vi costi
L' aver talor de’ forestieri in villa :
Tengan gli avari i beni lor riposti.
E mi pare una vita assai tranquilla,
Ch’ uom non possa di passo a lite trarvi ,
0 di terra o di siepe che partilla.
E se volete a villa ricovrarvi,
Vi bisognati degli agi e de' diporti;
Chi alle donne non sìa duro lo stani.
Voi non siete de' padri c de' consorti
Alle femmine loro aspri e selvaggi.
Ma de' gentili c nati nelle corti.
Siete com' esser den gli uomini saggi.
Da cui s’ acquista onor, udì s' accresce ,
E né a strani né a suoi si fanno oltraggi.
Non imitate alcun cui non incrcscc ,
Pur eh' ci si goda, ch'altri piangaccrepi;
■ .ascia in prigìon le donne e di casa esce.
Non soli ic donne bestie da presepi ;
Bisogna che piacer lor si procuri;
Ch’altro vedan talor, eh’ arbori e siepi.
Oltra che fan più onesti e più sicuri
Gli alile rghi, vie di passo innanzi o acanto ;
Fanno anco i giorni men noiosi c duri, [to.
Se appresso avrà qualche maglon di san-
ili e ir possiate almen le feste a messa.
Vi dico eh’ ella vai quasi altrettanto :
E s’é tal eli’ ai suoi di vi si confessa ,
E vi si dà baltesmo, c talor cresma ;
È un tesoro , una ricchezza espressa :
Ché potrete abitarvi c di quaresma,
E d' ogni tempo e voi c la famiglia ,
Me’ che se fosse la cittì medesma.
In villa al gran dispendio si pon briglia;
11 più dell' ore in opra si dispensa:
E pochissima noia vi si piglia.
Poco mal vi si fa , men vi si pensa :
E se hanno le cittì piu passatempi ,
Hanno anco di perigli copia immensa.
Cercati gli uomini d'oggi it passar tempi;
Ed io che son d' opinion diversa ,
Vorrei cosa che fosse arresta tempi.
L’ ambizione ai viver santo avversa ,
Che 'I più de' nostri di fa nien sereni.
In villa raro alberga né conversa.
0 troppo fortunati se i ior beni
Conoscesser color che si stan fora
Tra colti, poggi e valli c campi ameni !
Cui dì benigna terra (l'ora in ora
Quel che altrui fa bisogno agevolmente,
Né suon di tromba i volti ivi scolora :
E se non han gl' inchini della gente ,
Né men han chi li turila e chi gli scuote
Dai riposo del corpo e della mente.
0 felice colui , che intender puotc
Le ragion delle cose di Natura ,
Che al più di que’ che tivon tono ignote ;
E sotto il pié si mette ogni paura
De’ fati e delia morte , ch'é si trista ,
Né di volgo gli cal, né d' altro ha cura!
Ma più felice chi del mondo vista
La parte sua, non vi s'appoggia sovra,
Aitato dai saper eli' indi s’acquista ;
Ma in villa cli'é sua tutta si ricovra;
E degli anni e dei di ch’ha speso indarno,
A sé stesso ed a Dio parte ricovra ;
Cosi potess’io tra Sebeto e Santo
Menare ornai la vita che ni' avanza ,
Con le ninfe del Tevere c dell' Arno ,
Dalle quai fei si lunga lontananza ;
E de' signor sgannalo di qua giuso ,
Fondar nei Re del cielo ogni speranza.
Deh sari mai, pria clic giù cada il fuso
Degli anni miei, clic a' pié d una montagna
Mi stia tra colti ed arbori rinchiuso ;
E con la mia dolcissima compagna ,
Qual Adamo al buon tempo in Paradiso ,
Mi goda l’umil letto e la campagna,
Or seco all'ombra, orsovrail prato assi-
Or a diporto in questa e in quella parte, [so.
Temprando ogni mia cura col suo viso ;
E pon gain opra quel ch'lian postoli! carte
Calo e Virgilio e Plinio c Colti mella,
E gli altri che insegnar si nobll arte ;
E di mia mano innesti c pianti c svelta
La spessa de' rampolli Inulil prole ,
Che fan la madre lor venire men bella ;
E con le care figlie, e sc'l Clcl vuole ,
Spero co’ figli, a tavola m’ assida,
ljt state al luoghi freschi, it verno al Sole;
E di mia man fra lor parta e divida
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POEMI GEORG1CI.
1,'uvr e le poma; e «’ lo mi desti o cerche.
Con loro io mi trastulli e schemi e rida ?
Bocche mi paian di balene e U’ orche
I*e porte de’ palagi e le colonne ,
[donne
E’I Vasto, e quattro o cinque Illustri
Ad Inchinar talor sol mi riserbe;
Cui serro In chiare ed in oscure gonne.
1 parimenti mici sien Aori ed erbe,
Rami I tetti, e negre elei I marmi bianchi,
E botti Parche, ore 11 tesoro io serbe :
Nè cori ire a palasse, o stare a’ banchi,
E dimandar che facci an Turchi o Galli;
Se armai; di nnoro, o se amblduo son stan-
Non sla obbligato a suonodi melali! chi.
Giorno e notte seguir plcciol scndado ,
Forbir arme e nutrir servi e carabi.
E qual si sia , contento del mio grado ,
Non cerchi di chi scende, o di chi poggia ;
Ochr altri m'abbia in odio, o gli sia grado.
E quando i di son freddi, o versan pioggia,
Con la penna io, le femmine con P ago,
Passiam quelle ore In cameretta , o in
loggia.
Se mai ri giungo , e' mi parrà già pago,
Ch’abbia negli arbnr miei maggior tesoro.
Che non atean quei che guardata il drago.
Non avesse altro bene, altro ristoro,
Che scostar I' uom dalla città corrotta ,
Comprar si dee la villa a peso cP oro.
Mi meraviglio (alai redo ridotta
La fera turba che qui dentro albcrga),[ta:
Come il terrei; non s’apra,e non ne inghiot-
0 come il mar (ani' alto un di non s'erga,
Che avanzi questi monti, e'n noi s’altulfp,
E in un punto ne affoghi c ne sommerga.
La poca fè, le ruberie, le truffe ,
Le proprie utilità, le alimi gravezze.
Le tante uccisici;, le tante zuffe;
Le pompe , le lascivie e le mollezze
Non me;; nelle berrette , che ne' veli ,
Le bestemmie , il mai dire e le alterezze;
E le zltre seelleraggiiii crudeli ,
Il Cai lezzo là su credo clic saglia ;
Non so come soffrir possano i Geli.
Ma quando d’altrui vis] a voi non caglia ,
Per fuggir molte cose vìe men gravi
Stimo la villa ogni alto pregio vaglia.
L' urtar de' giovanetti e cavai bravi :
L’ accompagnar signori ; il seguir cocchio;
11 far noi stessi in mille guise schiavi;
U visitar tenute ; il gir con occhio
Com'uom ch’abbia nemici e questi e quelli ;
Or salutar col capo , or coi ginocchio ;
li veder tanti e unti dotlorclli ,
CIP han si contrari al titolo gli aspetti ,
Che farian noia a statue il vedelli.
Vedo ir con toga mille garzonetti
Degni ancora di bulla e di pretesta :
E maestri degli altri vengnn detti.
Legge farebbe il re Mia ed onesu ,
Se ’l termine negli anni statuisse
Al tor di grado , ed al cangiar di vesU.
Senza caglon dal Tosco non si disee ,
Per mostrarche ’l saver venga col tempo,
• Nestorche tanto seppe, c tanto visse. »
l 'om che qual voi sappia partirsi il tempo,
Dico eh' ha in villa ognor mille sollazzi.
Ma fabbriccliiamlaomai, ch’egli è ben tem-
lonon vo’ clic le ville sien palazzi [po.
Clic ingombrin molto; echi vi vien,cheve-
Tcrreu dove men s’ari, che si spazzi, [da
Quanto In grandezza più la casa ecceda.
Più vi dà costo , c più men vostra fasse :
Chè or questi or quegli awlen che la vi
Salvo se tor palagio v'aggradasse ,ich leda.
Perchè ulvolta (e veramente il penso)
L’alta donna del Vasto ivi albcrgasse.[so:
S'egll è ciò, che sia regia io do il eonsen-
Cliè’l mal che un solo Incoinodov’adduca,
Col ben di mille glorie ricompenso ;
Chè averi i c lei c I suoi c T vostro duca.
Credo che a voi parrà, senza esser empio,
Che ’l terren vostro a par ilei Gel riluca.
Qual fiai piacer, Allora già ’l contemplo.
Veder correre il mondo, o caldo o gelo,
A casa vostra come a sacro tempio ? [Dclo
Esc Ischia un tempo a Samo, aCreU, a
Fece invidia, ed a Cipro ed a Citerà ,
La vostra lilla or farà invidia al Ciclo.
Oltre al diporto che da voi si spera,
Ella farà con gli occhi a mezzo II verno
Nel podcr vostro autunno c primavera.
Nè sia tanto il terren, clic al suo governo
Non aggiungan le forze di chi 'I prende;
Onde il vicin ne rida e l’ abbia a scherno.
Poca terra e ben colta , assai più rende.
Che molta e mal iratuta: ond’uom dovria
Tor men di quel cbe’l braccio suo si stende.
Benché alcun voglia che la vlllaosia[na.
In calda parte oin fredda oinertaoin pia-
li volto esposta al mezzodì si stia;
Nei luoghi caldi io vo' che a Tramontana
Guardie ne' freddi all’ Austro, ne’ tempnti
D’ ond' esce il marzo, dieoa , la Diana.
Sia graade pur si ebe vi stiano agiati
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IL PODERE. 359
Il «Alleo, il signor e gli animali ,
GII ordigni chiusi e I frulli conservali.
Chi se fan danno I letti ampie reali,
Qnalor la «illa di strettezza pecchi ,
Porta ancor degl'incomodi e de’ mali :
Chi avvìcn clie’l frutto o infracidisca o
secchi.
Scéma! riposto.o che r uni' altro s’urti;
0 che Terme sei roda , o ucccl sci becchi.
E rado giungon dal di lungo ai curii
Le fatiche degli uomini e de' buoi;
E spesso incontrati le rapine c i furti.
E se non ha l' albergo ì membri suoi ,
Comprate pur, se ‘1 loco non 6 angusto,
SI che possiate fabbricarvi voi ,
E farri delle stame a rostro gusto,
Or una or altra agli usi accomodata.
Qual di decentbre buona , o qual d' agusto.
L’ aver villa ben concia e bene ornata,
Ore per poca agevol ria si monte ,
Fa che sia dal signor più frequentata ;; te :
Che ogni giorno ti vada, ognor vi stnon-
E del padron le giova c giorno e notte ,
Via più che la collottola, la fronte.
Sianvi sue volte ove «'arringhiti botte,
E più del vino chc'l podcr produce :
E più m' aggraderian se fosse r grotte :
li vento, l’unian piè, l'aria c la luce [de,
Entrin perBorea.e 'I meli clic può Icguar-
Non che scaldi, il pianeta che ’l di luce.
Stanza non vi si appressi ore foco arde ,
Oche sporcizie accoglie, o fuor le scaccia :
E se vi ha , l' emenda non si tarde.
La corte spaziosa, ma non giaccia [rio;
Si, ch’enlroefuors' allaghi al tempo piu-
E fango eterno aria mortai vi faccia.
Sia larga assai, nè curi di Vitruvio,
Acciò che dentro più animali accolga.
Che non ne salvò l'arca dal diluvio.
Qui si veda il pavon die in giro sciolga
Sue vaghe gemme , e spregi ogni altro au-
E guardandosi'! piè talorsi dolga, (gello,
E'i pavon d'india, peregrin novello,
Augel , sebben non ha si notili coda,
Nonmen buon morto, clic quel vivo e bello.
Ili di di e di notte il romor s’ oda
Delle torme dell’ anatre e dell' oche ,
Guardia fedel contro a notturna froda :
E striduli pulcini , e chioccic rodio ,
E galline straniere , e del paese ,
Volte di queste, ma di quelle poche,
Vabbianlor piazza, ovedi mese in mese
Sul riraccialo, sul polvere e sull’ ala
Si trovin da beccar senza altrui spese: [baia
E'I bue clic stesomuggliia.c'lcancheab-
Le notti , e'i gallo che al villan dì legge ,
Un’armonia dolcissima vi paia.
E serrar vi si possa armento e gregge
Ad un bisogno, se Aqullon protervo [ge.
Fa che di neve il monte e '1 pian biancheg-
Qui cavriol domestico, li cervo.
Cui sonante monile il collo attorca,
Or coi fanciulli scherzi ed or col servo :
E si veda la grassa e stanca porca
Con più figli attaccati alle sue poppe,
Ch’ or sul letame , or sul terren si corca.
E’I fico e '1 pero che Austro c Borea rop-
Da rozza man cavati in varie foggio [pe,
Siati di questi animai 1' urne c le coppe
Abbia il cortile sue capanne c leggio ,
Che i maggior legni, scale, aratri c carro
Riparino dal caldo e dalle pioggie;
E l'aia dentro, acriò dic’l grano e’i farro
Si scotan dalle paglie ; e fuor non trove
Da involar il villan ladro bizzarro ;
Ed ampi tini e laghi a tetto, dove
L’ uva si prema ; e . se gran sol l’ aggiunge,
Non arroghi o marcisca qualor piove,
il granaio dall' aia non sla lungo;
Nè dal tin lunge la cantina voglio :
Buono architetto sempre li rongiunge.
Siavi loco da farsi e servarsi oglio,
Da quel diverso die del vln gii dico;
Sia, s' esser può, sotto alcun tofo o scoglio.
Esposto ( acciò cito sia caldo ed aprico,
Senz' accendervi foco ) al mezzo giorno;
Perchè ’l fumo è dell’olio gran nemico.
Ampia sia la cucina , ed ampio il forno,
Cile pascati molli , c le sere aspre e gravi ,
Il rozzo stimi seder vi possa attorno
A volta , non a tetto, ancor che gravi ;
Cbe non temati di pioggia che li bagne ,
Nè di favilla che s’ attacchi a' travi.
Goda la villa , i monti c le campagne ,
E parimente il mare e la riviera.
Se ben non ode quanto freme e piagne.
Sia fabbricata c sieda in tal maniera.
Ch'abbia di verno il Sol, di state l' ombre
il più del di, se non da mane a sera.
Muro non tema incontro cbel' adombro;
E stavi glardin pubblico e segreto.
Ove uom talor sue gravi cure sgombre :
E benché angusti , vigna, orto, oliveta
E prato ; e vi desio qualche selvetu
Che faccia il loco via pio Tresco e belo.
Se selva avrà ; che ferro Ivi si metta
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PORMI GEORGICI.
Non ho timor che piè le tronchi o chiome :
Tanto il veder di selva a voi diletta.
Ohe fate? Oimè, sili di qua veggo come
Vi siete lutto scolorato in volto
In udir solo della selva il nome !
Vedo il pallor che in riso s’è rivolto;
E vi si fan vermiglie ambe le guancie , [to.
Come uom che in fallo all'improvv iso è col-
Soffrite eh’ io con voi mi rida e ciancie :
Panni d’ udir che voi tra’ denti dite :
Le mìe piacesse a Dio che fosser ciancie.
Ed io vi dico : Kratel mio, seguile,
Seguile amor, che sebben »’ arde e sface ,
Men noia è il far l’amor, che l'aver lite.
Seguite pur amor quanto vi piace; [ze,
Che sembra un' alma , dove amor non stan-
Casa di notte senza foco o face :
E un di vi mostrerò certe mie stanze ,
Li dove io provo appien che un cor gentile
Più deve amar, eom’più in eli s' avanzo.
Agl'ipocriti falsi, al vulgo vile.
Lasciate questi scrupoli di fama;
E voi seguite il vostro antico stile.
Vergognisi d' amor citi vilmente ama,
Ed arde e langue di lascivo amore ;
Non chi sol gloria alla sua donna brama.
Olirà clic a sempre amar v'inclina il core,
Tutte le leggi voglion eli' esser deggia
Tale il buon corligian , qual è il signore.
E se anzi il di la barba vi biancheggia.
Basti die 'I corpo ha le sue usate tempre.
E morbida è la guancia e vi rosseggia, ipre.
Ardete e 'I vostro ardor mai non si tem-
Chè '! nome suo che Venere a voi diede ,
Di ragion vi condanna ad amar sempre.
Poiché parlando, ch'uom non se ne avve-
Dove alla villa lo mi credea d'andarnc,[de.
Alla selva d' amor portonne II piede
Qui già tant'anni avvezzo di portarne;
Qui vo' clic si Unisca il cammin nostro :
Chè in miglior parte uom non potria la-
sciarne. [stro.
Qual il poder si compri io v' ho giù mo-
A consiglio d’antichi e di moderni.
Perchè sia buono e degno d’ esser vostro.
Se gli affanni domestici o gli esterni
Non tu' impediscon ; forse un di di questi
Dirò come si tratti e si governi.
Intanto i’ pregherò ch'ella vi presti
Il suo favor Fortuna nel comprarlo ;
Si che da desiar nulla vi resti ;
Nè pur vengan sovente ad onorario
Fiora e Pomona c Cerere e Leneo
Ma non possan mai punto abbandonarlo.
E quanto scrisse il Mantovan, l'Ascreo,
Il Grecoe I Moro e chi'n su'ITcbro nacque.
Di buon vi venga, e fugganedi reo : [que;
E piaccia sempre a voi piu clic non piac-
Ed al produrre ed al servar de' frutti ,
Propizie egli abbia le stagioni e l’ acque,
L' aure e le stelle e gli elementi tutti.
BA RUFFALDI.
IL CANAPAIO.
LIBRO QUINTO.
Trasformazione di Canopia e del Bgiinolo
L' ultimo alibi segno verace e fide ,
Con cui par che Natura si trastulli,
K giuochi come fa , pascendo ogni ora
Con nuovi parti gl' intelletti umani.
Sari quando vedrai che lascia H nido
Il canapino beccafico, dopo
Allevata di figli una nidiata
Atta a volar , non che a mover le gorghe ,
E a canticchiar nel inezzoaquegii arbusti.
Ch'ora usiguuol, or capinera il credi.
Or cannerino, o augello altro soave.
Quando adunque sari, che 1 primi figli
Non più nidiaci, ma sien franchi ai volo.
La canape, di pur, matura è anch’essa.
Natura gran maestra , un tale instinto
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IL CANAPAIO. 361
Diè i quest’ auge! il' hi nidificarsi
In tempo , che nessun turbi '1 suo parto,
Con sicurezza lai , di veder prima
Pennuti i figli, che villano ferro
Tronchi gii arbusti dov' è ’l picclol nido.
Na Natura non fu semplice c bassa :
Da più alto principio origin ebbe ,
E con più alto, incognito mistero,
lisci di la , dov'uom giugner non vaie,
Questa, non so ben dir, se industria, o
Giova qui rammentar caso funesto [cura.
Atto a scoprir ciò che da pria si fosse
La pianta , eh’ è de’ versi miei soggetto ,
E l'augellin che dentro vi s' imbosca.
Donne, tenete il pianto, c non vi dolga
Sentir la deplorabile avventura,
A cui la sconsigliata libertadc
Trasse una ninfa degli antichi tempi :
Ansi da voi con ciò le figlie vostre
A ben guardare c a custodir s’ impari,
Per non pentirvi poi fuor di stagione.
Vergini Muse , voi , che dell’arglve
Memorie in mente ogni volume avete;
Ditemi voi di questo auge! canoro ,
E della sua filaginosa madre,
Cbe a lui fa nido, la fatale istoria.
Fu giò (se ’l greco relator non mente)
Fu gii in Atene una leggiadra schiera
Di verginelle , ad offerir canestre
Di spiche piene e di mature frutta
Nei di solenni alla Cecropia Dea ,
(Panatene! già coli detti) elette ,
Onde perciò Cancfore appellarsi.
Una d’ esse , ( meschina ! ) e fu Canopia ,
(Di Lamio figlia, eponimo in Atene)
Sopra quante donzelle Atene avea ,
La più onesta e leggiadra e la più beila,
Non nel bel volto sol, non ne’ begli occhi,
Ma nella chioma d' oro , che facea ,
Non che le stelle, il So! parer men belli ,
Allor che sciolta per l' eburneo collo ,
E per gli omeri , e ’l candido alabastro
Dell' acerbelto sen , l' aure battea.
Vaga d’ offrire un di frutta più rare,
E più mature spiebe alla sua Dea,
E sopra ogni altra ninfa aver ghirlanda ,
Fuori d' Atene , sconsigliata , e sola ,
Di bel mattin , nella slagion più calda,
Succinta usci , di campo in campo tratta
Dal superbo desir che l' invasava :
(Vano destre, cbe la fe'men saggia ,
Quant'era più dell’ altre onesta e beila)
Tal che senza por mente a) suo periglio ,
Tutta a raccoglier frulla c spiche intenta,
Allontanossi , o lusingossi almeno
D'allontanarsi da ogni vista umana.
Quando, ahi meschina! c clic ti dice il core?)
Quando un pastore, anzi un tadron sclvag-
Sotto mentite spoglie di pastore, [gio
Importuno, sacrilego, lascivo,
Con tutta in sè di tradilor l' immago,
Benché d'amor con la follia dipinta ,
Fuor d'un agguato, tutto all' improvviso
Sboccando, ardito la donzella assalse,
Che a tuli’ altro ’1 pensicr tenea rivolto :
Nè Tassali per spaventarla solo,
Ma volle ancor, per saziarsi appieno.
In compagnia dello spavento il danno.
Giovinetta , donzella , inerme e soia ,
In solinghe contrade, in man d’ un mostro,
Colta si d’ improvviso, e die far puole?
Ahi, che l’assalto d’ogni senso c d'ogni
Spirto privolla , nè ’1 gridar le valse ,
Nè ’l pregar, nè la forza giovenile,
Nè ’i correr disperala a braccia aperte.
Ei la raggiunse , ed arrcstolla a un punto,
E deile sciolte chiome un fasici fatto
E annodalo alla man barbara e cruda ,
(Cbè ben far Io poteo, tanto eran sciolte)
La trasse a piè ritroso ove più volle
In folto, ombroso loco, e semiviva,
Ed ahi , sdraiolla al suo voler supina ,
Esca del suo desir furente e vile;
Poi lasciolla satollo, e sen foggio,
Seco portando il suo brutal trionfo,
E In mar d’angosce lei lasciando immersa
Senza quel fior clic in donna ogni altro
Di candidezza, di bel tàc di pregio, [avanza
Infelice Canopia , e come’l passo
Al tempio della Dea rivolgerai ,
Carca d’ un frutto cosi amaro e greve ,
In cui colpa non ave altri, chc'l caso?
Haminga allora , vergognosa e afflitta ,
Errando andò per campi e per foreste ,
Dei suo dolore e della sua sfortuna
Seco portando il testimonio occulto,
Che ognor crescendo, ognor si dlscoprla,
Fin cbe la prole già matura fatta ,
Del grembo usrì con dolor doppio, ema-
Dopo ’l lungo girar di nove lune , [dre
La feo , eh' era da pria vergili sì pura.
Inquel momento, al Ciel rivolta, ed alla
Dea sua tutrlcc : Ah , disse , adunque vivo
li rimprovero ognor vedrommi Innanzi
Del lungo obbrobrio mio, della mia pena?
Deh, se pietà di me ti move alcuna,
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JC2 POEMI GEÒRGIE!.
Tu, che di Giove sci figlia , e dal padre
l.a forza avesti d' oprar quante vuoi
Stupende e non più intese maraviglie ,
Fa ch’io non soffra, più vivendo, eterno
Quel disonore in cui mal cauta io caddi,
E che a me più di morte 6 duro ed aspro;
E fa , che meco la mia prole ancora ,
Benché del disonor , non della colpa
Misera erede , e non puuibil mai ,
Si disperda , s’ annulli e si dilegui.
Dafne era pur ninfa fuggiasca aneli' essa
E d* Apollo al furor Giove la tolse;
Tolse Siringa ancor da Pan lascivo,
E Driope e Loto ed Grilla la bella ,
Cangiando in meglio il lor destin perverso :
E Canopia sari sola infelice , [da.
Che viva sempre col suo obbrobrio in fac-
Senza impetrar dell' error suo pletalc?
In così dir (poiché di rado sono
Sordi i Numi al pregar di noi mortali)
In cosi dir, si vide il pargoletto,
Chealsen teuea , rimpicciolirsi a un tratto
Mettendo piume verdibrune e miste.
I.c braccia in all, c ’l labbro in sollìl rostro
Cangiarsi , e un augcllin lutto comporsi.
Che la lingua sdogliendoin dolci canti.
Lamentevoli si , ma pur soavi,
Rapido saltellava , e son fuggia ,
Rapido ritornava sorvolando.
Rapido s’aggirava, ed incostante
Ritornava alla madre , né sapea
Dove tornar, dove fuggir cantando.
Se a lei sul crin, sugli omeri , o «1 seno ,
0 sul materno braccio non posava.
Senza saper quai sicn le poppe, o’I gremivo.
Né qual la bocca dai soavi bad ,
Ché nulla più della primiera immago
Vedrà, né di sua madre ombra apparta :
Poiché Canopia in quei mcdesino punto.
Da un obblio di sé stessa sopraffatta.
Sentissi il pié fatto radice, e tutto
Vide (se a veder più valeano gli occhi)
Assottigliarsi il corpo in verde cannargli»
Le mani in foglie , e ’l crin converso in li*
Né più aver fronte, ma un cespuglio misto
Di frondì minutissime, e di fiori
Verdastri , c d' un odor grave e sonnifero
Spargersi tutta , e cosi viva starsi
In arborea sembianza, e sentir spesso
Vicino il figlio garrulo e canoro
Farsi suo nido ov' essa pria giiel foce ,
Essa canape fatta , ci canneruolo;
Essa ilei figlio consolando i lai ,
Esso alla madre rammentando U fallo.
Clic in si varia natura trasformoUi,
Fin che la falce a lei tronchi le piante,
E metta in fuga lui dai grembo amato.
Che al caldo Austro a narrar voli i suoi casL
SPOLVERINI.
LA COLTIVAZIONE DEL RISO-
LIBRO PRIMO.
Pernicioso diboscamento dei mond.
Ornai negletta
Del culto pastora! la nobilartc.
Poco spazio o terren resta agli armenti,
E già, toltosi il più, gli ultimi avanzi
L’aratro vlndtor de' paschi agogna ;
Nè tra brevi ristretto erbose macchie.
Ai bifolco il pastor ragion contende.
Ma (quel ch'ignoto esser un tempo o strano
Solca) de’ giogbl alle più eccelse dine
Co’ vomeri per Ilo a' è giunto : e dova
Con mirabil lavor Natura cinse
D’altissime foreste e boschi annosi
(Insuperati siepe) i monti e Palpi,
Per difender i coiti aperti piani,
E ’l difetto adempir di travi e legna;
Dove mille e mill’ altre erbe e radici,
Di sapor,di virtù, d’ aspetta varie,
E di fere e d'augei popolo immenso
Ripose ed annidò, per vitto ed agio
Nostro c piacer e vestimento ed uso
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3 SI
LA COLTIVAZIONE DEL RISO.
f uoro solo ( oh sempre al proprio danno e
sempre
Contro 1 rcro olii suo disposto e pronto
Umano ingegno!) l’uomo solo, o sia
Di notiti piacer, o ingorda brama,
O mal nato del core impeto, il vecchio
Costume e ’l naturai ordln, sconvolto.
Non con le scuri solo, o con le Taci
Via s' apri coll sn (di riseli} c a [Tanni
Nulla curando) a desolarne i vasti
Selvosi tratti e I smisurati dorsi
Di cenere a coprir, con onta e atroce
Ira e dolor della gran madre Idea ;
Ma con la stiva inoltre e con la grare
Moie de’ tardi buoi, con vanghe e tappe
A franger glebe e sbarbicar radici
Tutta Intorno a squarciar l'aprica terra
Sali lant'allo, nuova forma, nuovo
Uso e lavoro ad accettar forzando
Le superate alpestri cime c altero
Altra norma lor dando ed altra legge.
Di che molto crucciosa o da dispetto
Punta e da sdegno, sè vedendo e ’I sacro
Stuolo deir alme vergini compagne,
Oreadi, Amadriadi c quant’ altre
Ainan boschi abitar e tender arco.
Co' seguaci Silvani e con le Intere
De’ selvaggi quadrupedi e volanti
Disperse legioni esser costrette
Lunge dal natio regno e dalle sante
Proprie sedi antichissime ricetto
Tranquillo altrove a procacciar, Diana
Molti prieglii c sospir, molti lamenti,
Contro Cerere e Racco innanzi a Giove
Ch’ un di portasse è faina, e acerbamente
Molte cose movesse : O giusto Padre
(Alto gridando) se non t’è men cara
Di Cerere Latona e di Saturno
Se alla prole la tua pospornon ami;
Me figlia, dal tuo figlio e dall" ingiusta
Tua sorella difendi e certa e salda
D’or innanzi pon legge, cui non vaglia
Caso o tempo a mutar. Sin che rapace
li mio impero usurparsi e quegli stessi
Confo! violar che di tua mano
Por volesti qua giù sacri al mio nume
L’una e l'altra com’or presuma ed od,
Tal k> possa nei loro : e come alteri
Vati degli onori a me dovuti, lo pure
Vagli» t loco a turbar. Si disse e rati
Fece lai pregivi il grnltor, l'eccelsa
Testa piegando, onde tremò l’Olimpo.
E da quei di tolto ogni freno, dove
Lor fu aperta la via rapidamente.
Sospinti dalla Dea scesero al piano
Venti, turbini e nembi, onusti i vanni
Di grandini e procede alto sonanti.
Miste a folgori e tuoni (che contrasto
Non trovar più nelle recise braccia
Degli atterrali frassini, dei vasti
Divelti abeti, dei gii tronchi faggi,
Degli aceri, degli orni) a versar quanti
Pon volando rapir da gorghi e stagni
L’ ampie nubi e dal mar diluvi d'acque,
A inondar le campagne, a render vane
De’ pii cultori le speranze e l’opre;
Anzi a un tempo medesmo intere balze,
E antichissime selve e rupi e sassi
E dure zolle giu rotando e ghiaie,
Con orribll fragor a poco a poco
I monti a trasportar nel salso fondo.
Incominciare ador ricchi di tante [co.
Spoglie a gonfiarsi e ’l molle dorso e ’l flan-
Di di In di a sollevar torrenti e fiumi,
E predando essi ancor, superbi c insani.
Letti e freni a sdegnar, ripari e sponde.
Allor del regno suo geloso c incerto
Cominciò a farsi e a paventar Nettuno ;
E vedendosi in seno Isole eslrane.
Ignote sirtl e non più viste sabbie.
Col germano si dolse, e minacciante
Prese ad armarsi e farsi a tutti incontrai
Tosto cessar gli antichi patti : I fiumi
Maggior gli altri minori e quanti mai
Sccndon di Nereoin grembo a cercarpace.
Ne provar le prim’ire e a dietro spinti.
Rispingendo essi ancor chi venia sopra.
Fiumi, fonti e ruscel volsero a gara
Con la forza medesma ond’ eran volli.
Mulò leggi Natura, altro di cose
Tener successe; gii depresso l’alto,
Sollevnssi Tamil e d’anno In anno
Più s’ accrebbe cagion, onde pesanti
I prescritti confin rompesser Tacque,
Giù piombando nei pian dalT alle rive.
Dove II vomere pria, l’ erpice, il rastro
Colti feano I terreni , ivi novello
Di rami e sarte e pescatrici barche
Bisogno apparve : e si potco con strano
Cambio palustri augel veder sul ramo,
E nel prato guizzar squamosi armenti.
Non per altra cagione un cosi vasto
Allagamento e momorabl! scempio.
Quasi a punto sul fin del quarto lustra
Di questo ahi troppo a noi seco! funesto;
Copri di lutto, di sciagure e danni
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Z0\ POEMI GEORGICI.
I.e mie dolci contrade e te, diletta
Inclita patria mia; poiché soffiando
Dall' arso clima degli Etiopi adusti
Più giorni un vento austral, indi traverso
Valicato il Tirreno, i gioghi al fine
Retici invase e sì cocenti sparse
Sopra d’essi il crudel le rabbios’ale,
Tal di quei s'indonnò, che tutte a un tratto
Le pruine stemprò, le noi e 1 ghiacci,
Che raccolto v’avea Borea pur dianzi.
Nè qui s'arrestò il mal : rotte e disciolle
Del ciel, cred’io, le cateratte c scossi
I cardi n degli coli orrendi claustri.
Tanti sui colli e i sottoposti piani
Versar torrenti e sì n* empierò i fiumi,
Che cozzando col mar, sospesi in alto,
Più di dubbia fra ior fu la vittoria.
Quindi torbo e spumoso e d'ira gonfio,
Non rapendo ornai più nel soli l’alveo
Da disusata piena c a destra c a manca
Traboccandola fuor l’Adige altero,
Ratto a scorrer sì diedeea inondar campi,
Crollando argini c ponti c in ogni parte
Ad aprirsi orgoglioso a forza il passo.
L* umide, alpestri e boscherecce ninfe
Non più qual già solean, liete ed adorne.
Ma insane, minacccvoli e feroci
Furiando qua c là, tai grida c pianti
filano spargendo e cotal urli c strida,
Cui nè Rodopc mai, nè i bianchi gioghi
Udiron del Pangeo, fra gii Orgi o l'Ento.
Esse prime l’orrendo infausto carme
Feralmente intonaro, esse dall’ alto
Diero il primo segnai di tanta guerra.
Videi m allora abbandonar fuggendo
Pale, furore c Pan in preda all’ acque
I Ior lieti soggiorni e '1 pampinoso,
Col barbato figliuol, dell' India Nume.
Nè 'I buon vecchio Silvan, nè ’l vacillante
Silcn con l’ asincl restossi a dietro,
Ma pungendogli ognora i lombi e Tanche,
Di fuggir aflrettossi e addursi in salvo.
Tutto doglia in quel tempo era c spavento,
Lagrime e orror. Attonito c smarrito
II bifolco, il cultor, ogni più accorto
Di grcggl'guardlan o pur d' armenti.
Il più avvezzo ai malor colono antico,
Traendo in fretta a più sublime parte
I suoi poveri arredi, ognun beato fte.
Già chiamando colui die alberga in mon-
Miser! che ovunque il piè volgesse o ’l
Dalle ondose voragini, la Morte [guardo,
Minacciante vedea venirsi incontro.
Ma al terribile suon di bronzi c d’armi.
Al scintillar d’accese umide canne,
Fra *1 vento e fra le tenebre c la pioggia.
Terra e zolle recando e legni e paglie
E rustici stromenii e scuri c vanghe,
I più robusti giovani, i più audaci
Esperti abitator (nulla curando
1 vicini perigli c la dolente
Attonita famiglia e i Dei Penati)
Accorrean d’ogni parte a far riparo;
Mentre pallide intanto e lacrimanti
Le suocere, le curve avole inferme,
Le fanciulle, le spose, i vecchi slancili.
Di voti e doni le domestici!' are
Coprian, snosi e frate! chiamando a nome.
Chi potrebbe ridir T angoscia e i danni
De’ tuoi mesti figliuoli, or gioia c speme,
Doglia allora e tcrror, almo mio Fiume,
Mirandoti portar spumoso e irato
Tanta mina in su Torrìbil corno?
Chi potrebbe adeguar, piangendo, tanti ,
Alma diletta al Ciel mia patria antica,
De’ tuoi borghi più bei , de’ miglior campi
E di dentro c di fuor, scempj funesti?
Atterrati edifici, argin disciolti.
Inondati cammin, sommerse piazze.
Querule voci . alti lamenti e strida ,
E vagir di bambini, e urlar di cani
Ne' rapili tuguri al mar travolti.
Fiera scena a mirar! funesto atroce
Spettacol lagrimoso! entro vaganti
Schifi a sorte ghermiti, o aggiunte travi,
I grami cittadin, le vergin chiuse,
Solo a salvar la cara vita intente.
Ogni arnese miglior posto in obbiio,
Dagli accorti vicini in salvo addursi ;
Mentre la plebe vi restava, ahi lassa !
Colma d’ orror ai dubbj casi esposta.
Quale mercè nel gran periglio, c quale
Procacciando salvezza in seno all’ onde.
<k)sì avvenne del pian ; ma d'altra parte.
Dove il suolo vie più s* aditila e abbassa ,
E all’Eridan più braccia c all’ Adria stende.
Tutto fessi un sol fiume, anzi un sol lago,
0 più tosto un sol mar ; gli altri compagni
0 figliuoli, o germani usi versargli
Le ritratte da lui ricchezze in seno,
li giuncoso Menago, il buon Piganzo,
li Plissetto, il Tregnon, il torbid'Alpo,
Con la Dclga sua sposa, ad altri rivi
Torsersì altrove; nè a tc punto valse,
Tartaro paludoso, umile e pago
Ir fra l’Adige e’1 Po del proprio letto;
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LA COLTIVAZIONE DEL RISO. 365
Nè che’l primo tu fossi , i cui soggetti
Campi innaffiati da tue placid' acque
Dessero a esterna gente amico albergo,
Che di si nobll gran lieti ci feo.
Tu pur con gli altri dumi un* egual sorte
Avesti, e ugual timore il cor ti punse,
Non tomasser di Pirra i gravi giorni.
Quando apparirò nuovi mostri, e tutta
Cacciò Proteo la greggia in cima ai monti.
E tal cose accadean mentre da un lato
Contro il barbaro can ribelle a Cristo,
Già Corcira d'assedio e timor sciolta,
Il veneto leon posava a pena :
E dall' altro l’atigel sacro di Giove,
Non ancor dal pugnar raccolte l' aie,
A Carlo ofTria gii allor colti sull’ latro.
Ma poi che al/in d’ alto rifulse II lieto
Avventuroso d) , che seco addusse
la tanto ai popol pio diletta pace.
Che fu stabile all’ uno, e all' altro or torna,
Principi e regi , voi eh’ avete in mano
Di possanza e pietà da Dio le chiavi ,
Ne togliete tal danni e tante stragi ,
Onde i popoli affiitti, e incolta e mesta
L’ arte rustica langue , ed osa a pena
Di commetter al suol gli usati semi,
E le terre impiagar col ferro acuto,
Sol per giusto timor che d’ anno lu anno
A rapirli non scenda o turbo, o fiume.
Per voi 'I primo lavor, lo stilo antico
Ripigli II buon villan , restisi al piano
Il vomero, il marron, la vanga, il rastro
Col faticoso bue; si renda a) monte
li lanifero armento, ed II barbuto
A pascolarle rivestite zolle
Porgli erbosi senlieri-.ergaedispleghi, di
Qualgià un tempo, l'allier tronco eie fron-
La ghiandifera quercia, il corro, il faggio,
li foltissimo pin, il tasso, l’olmo.
Il frassino, l'abete, utile all’ aste
Quello, e questo a solcar il regno ondoso :
Rieda a' gioghi la selva : ad essa torni
Qualunque ita piuma o vello, e più non cali
Fera o lupo a predar agnelli e capri ,
Ma l’ insidie c'i furor oprando in alto,
Ivi del fallir suo paghili la pena;
Si ricaviti da sè l' antico fondo
Dentro I loro confin ristretti i fiumi ,
E scendendo, qual pria, placidi c piani
Quel ili che abbonda» più portino ai mare.
Tutto in fine il primiero ordin riprenda;
Evedrassi ben tosto, a vostra laude,
A salvezza comun, d'erbe e di piante,
D’ogni frutto miglior, di vili e grani
Rider i poggi ed esultar le vaili.
LIBRO QUARTO,
lai Trebbiatura.
Qui di fretta è mestier, d’ ardire e forza ;
Qui di por mano agli scudisci e a'Iacci ; [no.
Oh' ora comincia il più ; nessun stia indar-
Questi accoppil fra lor, quel volga in giro
Le animose cavalle, e i lunghi intorti
Lievi capestri alla sinistra av volti ,
Con la destra le punga c al corso inciti.
Bel veder le feroci a paio a paio
Pria salir l’ alle biche, e somiglianti
A' festosi dellin , quando ondeggiante
Per vicina tempesta il mar s’ imbruna.
Or sublimi, or profonde, or lente , or ratte
Sovra d’esse aggirarsi, arditamente
Sgominate avvallarle , in ogni lato
Gli ammontati covon facendo piani :
Poi distese e concordi irsi rotando
Con turbine veloce in doppro bailo,
E smagliando ogni fascio, e sminuzzando
Col cavo piede ie già tronche cime ,
In breve ora cangiar l’erto spigoso
Clivo, d’ inulil paglie, e reste Infrante,
E di sepolto grano in umil Ietto.
Ferve li giro, e'i pestio : s'ode bisbiglio
Di si cupo tenor, qual se cadendo
Fischi e ’l duro terren rara c pesante
Senza vento percola estiva pioggia.
L’ unc e 1' altre s’ Incalzano, c a vicenda
Prendon stimolo e ’l dan ; talor diresti
Flagellato paleo ronzar d' intorno,
0 di naspo legger versata ruota,
Dal cui mezzo II rettor delle fugaci
La pieghevol cervice c ’l piè governa.
Pur lo sforzo, I’ ardor, l’ Impeto, ii corso
Ila qualche pausa : indi ritorna il primo
Volteggiamento c l’ interrotta danza
E l’ anelito c ’l suon ; tal fuma e spira
Flato, anzi foco dalle aperte nari;
Tal distilla sudore, escon tal spume
Dal collo, per le spalle e per li fianchi ,
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3UG POEMI GEORGICI.
Con si grave resplr, che le prlnuic
Dal sorcrcliio sbulTar delle seguaci
Molli ed umide n'hauno 1 lombi e Tanche.
Non con forza maggior, baldanza c brio,
Con più leggiadro portamento c sguardo
Per li tessali pian corsero errando
Del Centauro le figlie ; e non diverse
L'erte orecchie vibrar, nitrendo ali’ aure ,
Di Saturno e Nereo le false spose.
Ma nel tumido sen, rana correndo.
La madre il prigionier feto trasporta,
E col moto c col suon de' piè veloci
Lui dal career nativo al corso addestra;
Tal che il decimo mese al terraiu giunto,
Le materne non pur bellezze e 'I moto.
Ma le stesso carole in tutto atteggia.
Bello Istinto per certo, c di Natura
Mirabil dono! Ed lo, s’ altri pensieri,
Altre cure più gravi c la stagione
Poco del canto e delle Muse amica,
Nou mi chiamasse a quel , cui lungamente
Di piegarmi sdegnai paterno incarco ;
Volentier canterei del generoso
Sacro a Marte c a Neltun cavai feroce
Il governo, il valore, i pregj e l' uso;
E come dal guenrier fecondo armento
Escano si leggiadri alteri parli.
Si alle pompe, ai latori abili c all’ armi,
Che In voi destar polrian, (con vostra pace)
Bel corsieri del Sole, invidia c scorno:
Nè più vago e gentil, rapido c destro
Fu, gran padre del mar, nè più vivace
Quel che tu producesti allor che Palla
Venne, giudice il Gel, loco a contesa :
Nè i famosi Amiclei, nè quei che al cocchio
Giunse quattro destricr, figli del Foco,
L’animoso garzo» dai piè di drago.
Ma fra quanti son più lodati c in pregio
Angli , Barberi , Ispan , Tedeschi , o Traci
Canterei volonticr, trailo dal dolce
Del natio clima amor, dei nobil tanto
Nostri ausoni destrier, di quei che nati
Per le adriache spiagge, e per le losche
Fra 1* Eri da no c I* Alpi, o lungo i piani
Del sonante Yullurno, o di Galcso
Errano sciolti : c al Liri e al Tebro in riva
Pascon P erbe campane e i fien falisci.
Nè di quei tacerei P ìndole e *1 core ,
Nè la forza e P ardir, o nelle dure
Servan opre di Marte, o in feste, o in caccio,
0 In equestri spettacoli , o nel corso
Sotto cocchi pomposi, o lievi biglie,
E in cento altri meslier sempr* egualmente*
Come l' occhio e *1 pensicr, docili e pronti.
Chiaro fulmin di guerra, altero Invitto
De’ Sardi regnator, qual mai ti diede
Altro armento, o termi quel bellicoso
(Tuo sostegno rcal) destrier feroce
Nel memorai»! di, che in rosso tinse
Del re de’ fiumi, e della Secchia i flutti?
Ma tu certo d’ altronde e non già d’ altra
Schiatta scegliesti il tuo, se non da quelle
Clic nel basso Arrian , fra stagni e valli*
A tc fecondo il reai Po iiudriscc.
Glorioso signor, del bel Panaro
Sovrano arbitro c mio, quando dall’ alto
Natio valor sospinto, ove l’ ibero
Regio erede attendea mal fermo ancora,
Ad accorlo volasti in fin sufi’ Alpi;
Mentre intanto l’Allobrogc, il Germano
Giù da’ uiouli scendea, quasi torrente,
A distrugger i paschi, a corre il frutto,
E la speme a guastar de’ nostri campi ;
Nè contenti di ciò, I' Anglo feroce
Fin nel ligure sen , fin nel tirreno
Seco traendo in lega unito, intorno
Tutto empiean di lerror, di doglia c lutto.
Qual fu allora il tuo cor, Yjualc il consiglio ;
Qual il pianto e’i dolor, Genova beila*
Quando tanta vedesti armata gente
Minacciar le tue porle, e imporli acerba
Dalia terra c dal mar leggi c tributi?
Cui poteasi eguagliar tuo tristo stato,
0 qual porger conforto al tempestoso
Più del mar che ti serra , aspro cordoglio?
Qual più v’era per tc speranza o scampo,
Donna altera de’ gioghi , aulico seggio
Di ricchezza e splendor, di gloria e senno:
Ognor avendo (ahi lassa! innanzi agli occhi
L’ alma tua libcrladc aulica c chiara
Già vicina a piegarsi, c alle catene
Di stranieri gucrricr stenderli piede?
Se non che lai di mezzo al foco e all’ armi.
Ai rìschj, alla vergogna, allo spaveuto
Per te nuovo rifulse ordì» di fati
Che da’ tuoi mali la tua gloria, e dalle
Stesse tenebre tue nacque il tuo li-mc.
Deh chè m’arresto io qui? chè più nf aggiro
Con lo stridulo suon d’ incitila agreste
Alla solo alle valli utiiil zampogna.
Su tai cose funeste e altere tanto.
Degne di gonfiar tromba, e ornar coturno?
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POEMI DIDASCALICI
BERNARDINO BALDI.
LA NAUTICA.
LIBRO PRIMO.
Costruzione delle navi.
Prima , di varie sorti e di più guise ,
Fatta dal tempo scaltra e dall’ inopia.
Forma 1* arte i navigi : a questo Immense
Tesse le membra , sì che nelle selve
Materia alle grand’ ossa il fabbro suole
Impor sudando alle stridenti ruote
Robustissimi pini , c faggi intieri.
Altro fa poi mcn vasto, altro compone
Picciolo in tutto c breve, e *n ciò Natura
Sembra imitar, che nell* ornar di Unte
Forme la terra e ’l ciel, distinguer volle
Di grandezza fra loro, o di figura
Stelle, pesci, erbe, fiere, augelli e piante.
Ma perchè ciò sia ver, de’ legni angusti
Nulla ragionerò, contento solo
Di dir di quei che sovra gii altri grandi
Dell'adirato mar, quando più fei\e,
Temono a pena le minacce e’I risco.
Di questi maggior pini altro le merci
Porta d’ estrania parte agli altrui lidi.
Altro d’ armate squadre ornato e carco
Sen va per I’ onde imperioso, e muove
Alle nemiche annate orrido assalto.
Questi, perchè fra loro e di sembiante
Siano diversi e tl’ uso, in dò concordi
Esser veggionsi almen , che non ci è alcuno
Gli’ alio spirar dell’ aure i pin non spieghi.
Pari non son però; perchè ’l maestro
Che 4e navi governa , oprar ricusa
Le Bau quadrale vele ; ove chi regge
Le veloci galee , te tele allaccia
Ch’hanno tre lati alle tremanti coma
Della sua aulenna , e sol quadrate adopra
Le due vele minor, che rhiamar piacque
Al volgo de’ nocchier trinchetto c treo.
Capacissimi sono e gravi c tardi
Quei che porlan le merci, e lor fra Tonde
Non spinge al corso mai forza di remo;
Ma d’ Invisibil vento, onde rassembra
Gravido il sen delle gonfiate vele
Ampio debbono aver, debbon robuste
Questi le membra incontro all* onde irate,
Che ior movendo impetuosa guerra,
Sogiion far opra, urlando, a quella eguale
Del bronzo, che tonando a terra sparge
Eccelse torri e ben fondate moli.
Debbon curva e tagliente aver la prora ,
A fin che spinti da ventosa forza
Meglio fendan del mar I’ umido seno.
Sian dall’ acque elevate , e più d’ un tetto
Aggian le nati, acciocché *1 del irato
Indarno versi in lor grandine e pioggia.
Aggiano alto la gabbia, onde il sereno
Del dei mirando, Il vigilante seno
Sorger reggia e cader le stelle ardenti.
Di quercia dee, famosa arbor di Giove,
Aver la nave Tossa, e d’ infecondo
Olmo reciso in sua stagion la parte ,
Che con picciol poter lei grande affi ena.
Aver di saldo pin fasciato intorno
Dee la poppa, la prora, il fondo e’I fianco.
Di pin, che, perchè mcn Toffcse tema ,
E ’l mordace poter dell’ onde salse.
Di tenace si asperge e negra pece.
Curasi ancor, che dove legno a legno
L’ arte non giunse in fabbricando il fiaoco,
Di linosa materia intona fuco
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POEMI DIDASCALICI.
3GS
Empia, e chiuda cosi, che indarno chicg-
Benché tutte le vie tenti e ritenti [già,
Di penetrar per le fessure Tonda.
Ogni legno più lungo è più veloce
Del più breve c più largo; e quel maggiore
Carco sostiene c men di sé sommerge,
Che di fondo è men curvo, ancor che tardo
Poscia al corso si mova, e l’altro quasi
Di prestezza il delfin trapassi c ’l vento.
Saggia maestra ad imitar propongo
Al fabbro mio, maestra che non suole
Fra Topre sue maravigliose mai
Cosa locar che dir si possa indarno.
Costei per far eh* alle fatiche invitto
Fosse il feroce toro, il collo c ’l tergo
Gli diè di nervi c di grand’ ossa forte,
E quando volle poi che lieve il pardo
Agguagliasse veloce augello e strale, [che
Schiette membra gli diede, e *n tutto scar-
Di grave intuii pondo. Or che non sembra
Ogni legno a veder marina belva
Che 1 liquidi scnticr varchi notando?
Forse non è, se pareggiar mi lice
Cose si disuguali, il picciol pesce
Alle navi simil, eli’ a sè medesmo
Arbor vela nocchier timone e remo
Trascorre il mar nella natia sua conca ?
Cosa non dee lasciar, che non osservi
Uom saggio, ancorché vii ; perchè sov ente
Aprir veduto abbiam picciol esempio
Strada a grand’ opre ; e chi noi crede, miri
L’ingegno di colui che ’l cavo albergo
Mirò, che ’n tesse ai pargoletti figli
La vaga rondinella, allor che adduce
Garrula seco la stagion de’ fiori.
Questi di fango pria, di frondi e giunchi.
Quell’esempio imitando. Il primo umile
Tugurio fabbricossi, onde con gli anni
Appreser gli altri poi d’ alzar al cielo
Torri, palazzi, anfiteatri c tempj.
Duce sìa dunque la Natura, u’ l'arte [ma.
Ancor non nacque, od è fanciulla o infer-
L1BRO SECONDO.
Segni di fortuna o di calma.
La Luna c ’l Sol mirasti : or volgi il guardo
A' più minuti lumi, e i segni impara
Che ti mostra fedcl l'amica notte.
La notte in cui piotale allor si desta,
Che gl’infelici naviganti scorge
Fra Tonde errar dispersi, e il mesto suono
Le fere il cor de’ lagninosi accenti.
Se dunque osserverai eh* ella ti scopra
li suo stellato aitar dì nubi scarco,
Ove l’altro seren d’acquoso velo
Sia ricoperto, affretta al fido porto.
Mentre cede al governo ancor la vela ,
Bledl; chè se noi fai , del mar, che a scherno
Avesti, andrai misera preda, e ’ndarno
Dirai felice e fortunato a pieno
Quel cauto marinar che allor non sciolse
Nè por si volle a si palese risco.
Ma se mentre è il Centauro in mezzo il cielo
L’omero avrà di breve nube carco,
E sìa l’aliar come gii dissi ardente;
D' Austro non s’abbia tema : anzi da’ regni
Della lucida aurora Euro s’ a*, tenda.
Fle ancor d’ irato ciel non dubbio segno.
Quando le chiare stelle a poco a poco
Perdendo andranno i luminosi rai;
Esc quando la terra abbraccian l’ ombre.
Cadere altra di lor ve tirassi, seco
Lungo traendo c sfavillante solco :
Da fieri venti intempestivo assalto
Da quella parte (noverassi, dove
Segnò cadendo il lucido sentiero.
Anzi il soffiar de' furiosi venti
Si commove Nettuno, c col muggito
Fa lunge rimbombar le curve sponde:
Fuggedal mar clic minacciar già sembra
Tempesta, l'airone, e più che puotc
Procacciando sì va tranquilla parte
Per lo sereno ciel ratto volando •
Yeggionsi incontro al vento irle palustri
Fotichc a schiera, e per l’eccelse cime
Degli altissimi monti in lungo filo
Distendersi le nubi, e frondi c piume
Volar per l’aere errando. Il vento acquoso
Destasi allor clic ’i ciel lucidi lampi [slro
Ver gli alberghi di Borea o d’Euro o d'O-
Subiti accende, e quando a’ laghi intorno
Progne veloce vola, e mormorando
Le loquaci anitrelle in su le sponde
Degli stagni e de' fiumi in strana guisa
Bramati lavarsi, e van tuffando il capo
Entro le geiid’ acque : in secca arena
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LA NAUTICA. 300
Spaila allor la cornice, e l'onda chiede
Dal elei con roca voce : i bassi Tondi
Del mar lasciando 11 polpo in su le rive.
Alle rotonde e picciolctte pietre
Co' suoi tenaci pie saldo s’attiene :
Le pietose alcioni in su gli scogli
Coi pargoletti lor distesi i vanni,
Del Sol godonsl i rai tepidi e chiari :
Mostrano ad or ad or guizzando il curvo
Dorso I lievi delfin ; perchè presago
Dì tempesta il nocchiero o Tugga o s’armi
Contra il marlnoorgogllo. Orchi potrebbe
Narrar I segni ad un ad un, che il Cielo
Ne mostra pria che'l mar si turbi, ed anco
Dopo ch’egli è turbato, a fln che surga
Del bramato seren ne' petti altrui
Verde la speme? Di tranquillo c piano
Aver segni possiam, quando le nubi
Struggendo vansl a poco a poco, e chiare
Scopronsi in eie! le più minute stelle:
Quando la grave ed importuna nebbia
Nelle valli si posa, e ’ntorno al mare
Giacendosene umil, lascia serene
Degli alti monti le selvose cime :
Nè raen lucido celi laro il tempo adduce
La figlia di Taumante, il ricco lembo
D’ardenti ornata c colorili TregJ.
Son alto indizio ancor di certa pace
In mezzo alle tempeste orride e nere
I due Tigli di Leda, amiche stelle;
Si che se quanto a te mostran cortesi
La Luna, il Sol, le stelle, il mar c ’l ciclo
Contemplerai, rare fiale incerto
Sarai di quel eli’ Eolo e Giunon prepari.
Felice te, se navigare allora
Sapesti, o mio noccliier, che di Citerà,
D'Amatunla c di l’aio i sacri tempj
Lascia Ciprigna, e fra le spume scende
Delle salse campagne , ove pria nacque ;
Perchè mentre ella in aurea conca assisa
Col molle avorio della bianca mano
Allenta e stringe alle colombe il morso,
Lietissimo le fan plauso e corona
Le vezzose del mar candide ninfe.
Ivi mentre Galene acqueta Tonde,
Cimodocc danzando in giro mena
Erato, Galateo, Primo, Pelori
Dì rose il volto colorite, c ’nsicmo
Glauco, Teli, Cidippe, Opi e Llgea,
Cui ricca gemma il ventilante velo
Sull'omero sinistro in nodo accoglie.
E cosi baldanzose, altra di loro
Di coralli alla Dea vermiglio ramo
Cortese porge, ed altra a piene palme
Ricchezza orientai, lapilli e perle.
Folgora ella dagli ocelli, c mille intorno
Fiamme avventando, i pesci in mezzo Pac-
E T acque accende, e col celeste riso [qtie
Vestir fa liete in disusata foggia
Di smeraldi le piagge, c ’n dolce coro
Doppiar non fìnto alle Sirene il canto.
Tutti vedresti allor gli umidi Numi
Scherzar lascivi e lieti ; il re superbo
Deposto il fasto c l’alterezza, in gremi i)
Sedersi ad Anfltrito, c Mclicerta
Vezzeggiar dolcemente il suo Portuno.
Vedresti il vecchio Proteo in vie più vago
Aspetto clic non suol, regger l’armento
De' veloci delfin, delle balene.
Forco e Glauco vedresti il verde manto
Di limo asperso c d' alga, e ’l lieto arringo
De’ cerulei Tritoli, che innanzi vanno
Spargendo il suon delle canore conche,
A cui s'acqueta si, che ne rassembra
Il mar non mar, ma liquido zaffiro.
Zaffiro innamorato, che bramando
Di baciar della Dea l'ignudo piede,
S’ alza spumoso c ne divlen d'argento.
LIBRO TERZO.
Condizione dell’ Agricoltore o del Navigante.
Taccia dunque il cultor, nè si querele,
Giudice me, nè misero si chiami,
Perchè il suo faticar correndo in giro
Per T istesso sentier sempre ritorni,
E perchè spesso al Soie ed alla neve
Fra soverehj disagj el geli e sudi,
E che talor di sue fatiche estreme
Il frutto caggia e la speranza indarno :
CIP a gran torto si duo!, se T occhio volge,
E dritto mira il periglioso stato
Dell' audace nocchiero : egli se ’l giorno
Suda premendo il faticoso aratro,
0 d'arboscel di questa in quella riva
Translato tronca i troppo audaci rami;
Respira alfine, e quando il Sol si parte
Per dar loco alla notte, 1 buoi disciolti
Dalle arate campagne, all' umil tetto.
Glie gii vede fumar. Torme rivolge:
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370 POEMI DIDASCALICI.
Ove col cibo che apprettato Rii «ve
1,3 sua casta compagna, egli riprende
Il perduto vigore, e 'manto in seno
GII ripartali scremando f dolci figli
Le pargolette membra, onde egli obblia
Le passate fatiche; e benché d'oro
Non splenda il suo ricetto e non s' estolla
Sovra colonne di lucenti marmi;
Benché sovra alti pié di sculto argento
Candidissime faci ei non accenda.
Il cui splendor delie superbe sale
Agli occhi scopra le riccheaae e l’ arte ;
Lieto è però; si le corone e l manti
Ricco In sua povertà sprrzia e non cura.
A lui ridono I prati, a lui sol versa
Giacinti e rose la surgente Aurora :
A lui dolce cantando i primi albori
Salutati gli augrllclli, c i fonti c I faggi
Porgon chiari i cristalli, opache l'ombre,
Ove Paride labbra immolli, ed ove
Posi dormendo il faticalo fianco.
Altramente a colui vivendo avviene.
Clic ricchezze adunar brama fra l'onde;
Perché, lasciata la mogliera e I Agli,
Quasi dal patrio nido a fona spinto.
Sé stesso esposto a volontario errore,
Erme penetra c sconosciute arene :
D’ognl nube paventa, e mai non donne
D'altissima paura il petto scarto.
Arde all'estivo tempo, c benché d'acque
Sia d’ogni intorno cinto, indarno brama
Fresco rimedio alla focosa sete.
Da' colpi della Morte un piccini legna
Gli è frale scudo, e quel eli’ é viepiù grave.
Rare fiale avvlen, eh' ei ne riporte
Merce che sembri al gran travagllocgualc.
Non vo' però che tu, benché d’estrema
Fatica sla quest’arte e di periglio t
Perciò patemi, e neghittoso viva
Tutta Pelate tua povero e vile :
Perché spesso in cangiar contrada e parte
Cangia uom fortuna, c ’n reginn lontana
Trova tcsor, che nel paterno nido
Avria forse aspettando atteso indarno.
Sii pur saggio e prudente, e col consiglio
Rompi Fortuna rea; perchè a colui
Solo il pregio si dee, clic ardilo c forte
Hiedc supcrator d'ogni periglio.
Non vedi tu che i celebrali eroi
Per fabbricarsi gloria ebber tenzone
Co' mostri e con P Inferno, e clic la fronte
Solo a colui l’illustre fronde cinse.
Che sudo vincitor ne' campi elei t
Pon mente al Lusilan, che ben che 11 regno
Aggia colà 've T Sol cade nell' onde.
Tal col proprio valor calle s' aperse.
Che cerne addietro e '1 carro degli Del,
Mete non degne all'animoso corso.
Di gran lunga lasciato, incontro al giorno
Volo cosi, che fra gli estremi Eoi
Potè spiegar le vincitrici insegne.
LIBRO QUARTO.
TiCierive i varj prodotti della Natura.
Poi chea! nocchier già dispiegata avento
L' arte ond’ egli le navi abbia in governo
0 iian tranquille o tempestose l'onde;
A narrargli verremo, ultima parte
Delle nostre fatiche, ove la prora
Egli debba drizzar, se tornar brama
D'oro, di gemme e d'altre merci carco.
Ardisca dunque, e meco il Nume invochi
A suo favor, che ne’ guadagni scaltro,
É prodigo agli audaci, e non ascolta
Chiunque è nell' oprar timido e vile.
Di nature diverse, e di più tempra
La gran Madre produce e pietre e piante
Pur come awien che 'I suo marita Cleto
DI non ogual virtute occulti semi
D’ alto in lei sparga, e le fecondi il grembo.
E quinci avvicn die i preziosi odori
Il Tartaro non ave, Il duro Scila,
Il bellicoso Daco, il forte Alvino,
Genti naie a soffrir perpetuo gelo,
Che il Perso, l'Indo, e l’Arabo felice
Là nelle apriche arene, ove si frange
Nel vieta mar di Febo il raggio ardente :
Nè per altra cagion l’ amena riva
Che del puro Deliaco a specchio siede,
Eterna gode primavera, e sempre
D’aurati pomi e d'altri frutti ha carchi
Delle pregiate piante i verdi rami.
Diede Natura la sacrata verga,
Onde l'incenso alia stagione estiva
Liquefatto dal Sol lucido cade,
Solo a’ ricchi Sabei, che d’ ogn* Intorno
Impiagando col ferro il nobll tronco,
Sogiion raccor le lagrimate stille.
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LA NAUTICA. 371
Nelle «elv* panchee rorida scoria
Cinge le membra di colei eh* ardio
W donarsi notturna al padre in grembo,
Mirra dico io, ebe rimembrando ancora
L* abbondiamo incesto, a terra spande
D’ amarissimo pianto eterna fonte.
Nasce il bianco cipero ove I* un corno
Bagna del Nilo II fortunato fianco,
Borra cui presso al mar siede Canopo :
Bel!’ arbore pari’ io, non di quel giunco
Di eoi spira l’odor là neH* estreme
Parti della Olirla, ove I gran monti
Vanno a giungersi in un Tauro ed Amano.
Ma panni di veder che mentre io scrivo
E de’ succhi e dell’ erbe ond’è fecondo
Quel verde suol cui fertil fiume allaga,
Tu brami di saper qual loco apporti
Del balsamo il licore, e sotto quale
GW pianta cosi cara erga i suoi rami.
Saper dunque dei tu, che chiusa valle
Fra monti giace a Palestina in grembo,
Che letico s’appella, ove frequenti
Dolce cantan gli augelli, e i freschi rivi
Porgon ristoro all’ avide radici
Degli altissimi cedri c delle palme.
Colà, dono del Ciel, si nobil vrrga
Viver solea, mentre felice impero
Ebber gli augusti invilii regi ebrei
Di Solitila potente, e ’n piede giacque
Grande albergo di Dio l'aurato tempio.
Ma poi eh’ estinta la virlute antica
Restò di questo popolo, e fuggendo
Dlleguossi da lui la vera gloria :
In volessi al Giordano, e fc’ suo campo
Non lunge a Menfl il coltivato Egitto.
Nasce negli alti monti onde l’ebreo
Paese è cinto. Libano e Carmelo,
L’eccelso terebinto, che sudando
Versa più degno umor di quel che il pino,
Il lentisco e l’ abete a terra sparge.
Mentre il tuo legno incontra il lido è fermo
D’Idume, prender puoi quel dolce frutto
Che scosso vlen dalle feconde palme:
Quinci dico io, non già perchè mi creda
Solo in questo tcrren crescer tal piante,
Chè non è ignoto a me come n* abbonile
L'ultima lberla, l’Africa, l'Egitto,
Qualche parte d* Italia, e Cipro e Creta,
E Siria di Scleuco antico regno :
Ma sol perchè non Infeconde quivi
La terra le produce, e dalle frondl
Non pende il frutto lor, sì come altrove
Suole avvenir, di gusto acro ed acerbo.
Mentre poi lunge a te si scopre II lido
Di Tiro e di Sidon, fa che sì folle
Tu non sii, che negletto oltre Io varchi ;
Perchè ’l non salutar sarebbe oltraggio
Quei monti, quelle rive e quelle mura.
Ove abitar color che M breve giro
Di Callisto osservando, ebber nell' arte
Clic d’ insegnarti intendo il primo vanto.
Nè il tempo pitterai, s’ivi ti fermi;
Poi ch’ivi il pescator le conche aduna,
Il cui sangue colora c ’n rosso Unge
Le ricche vesti onde solean le membra
Ornarsi i prischi regi e quegl’ illustri
Che Roma vide gloriosi al tempio
Di Giove trionfanti innanzi al carro
Condur, pompe e trofei di lor vittorie,
Incatenati duci e spoglie opime.
Se poi d’investigar curati punge
Alcun ramo olicor, che già gran tempo
Il hai baro nocchier più non adduce;
Chiedi, mentre tu sci là 've l' Orante
Di Libano lasciati i sassi alpestri
L* Assiria fende, il sarmcn toso arbusto
Del prezioso eresisceltro, e ’l dolce
Al gusto elcomrle ond'è fecondo
Tronco che vive entro 1* ombrose selve.
Delle palme di Siria, il cardamomo
Elettissimo, c pieno In copia miete
Chi suol di Comagenc i larghi campi
Curvo solcar col faticoso aratro.
Ha V Assiria il mctopio, erba felice.
Il cui stelo risuda in quella guisa
Che suol l’Incenso, il galbano, potente,
Risoluto in vapor, discacciar lunge
Dall’ umili capanne c dagli armenti
I velenosi c gelidi colubri ;
Succo d’alto valore In far che rleda
II solito vigor nell’ api Inferme
Si che tornin di novo a predar vaghe
Col placido susurro I fiori aspersi
Di mattutino e rugiadoso gelo.
Fra le altissime piante onde la fronte
Cinta ha Ubano eccelso, al vento porge
Le fronde il cedro c gli elevati rami,
Il cedro, dal cui tronco esce la fonte
Di quel nobil licor.e onde le faci
Nutrir solea sotto I superbi tetti
Circe, figlia del Sol, famosa maga :
Quel clic conservar puote I corpi estinti
Incorrotti gran tempo, e le vergate
Carte, vostre fatiche, anime rare,
Alla rabbia involar del Tempo edace.
Poiché col legno tuo passato avrai
37J POEMI DIDASCALICI.
D’ Isso l'angusto seno» e le gran porte
Lasciate a destra del nevoso Amano ;
Il dolce amaro agarico potrai
Prender da quelle rive, ove tributo
Saro, Piramo, e Cidno, umidi figli
Delle fonti di Tauro, al fluito danno,
Che già stanchi dal corso in sen gli acco-
Dalle scoscese pietre ove si rompe f glie.
Il pelago di Licia, e dalle grotte
Profonde ove del Sol non giunge il lume,
L'avaro pcscator, preposto l’oro
Alla salute sua, col ferro adunco
Le molli spugne miete, in cui Natura
Parte infuse di senso, ed esser volle
Incerto mostro, a fin che fosse ignoto
S’avcsscr d’ animai vita, o di piante.
Nasce di spine armato al busso eguale
11 pallido arbuscello, a cui dà il nome
Il paese di Licia, in cima gli alti
Monti ardenti di Crago, c nella valle,
Ove già la Chimera, orribil mostro,
Versar solca dì foco atre faville.
Pari a questo in poter quinci si prende
Dell'erba ancor del buon Centauro il suc-
Onde ci tentò l’ immcdicabil piaga (co,
Saldar dal ferro a lui nel piede impressa,
Che nel sangue dell’idra Alcide tinse,
Succo oprato talor nell’ alte selve
Dal cacciator, perchè si stagni c chiuda
La ferita clic a lui fervida sanna
Di spumoso cinghiai lasciò nel fianco.
Dalle rive di Troia e di Sigeo
La pece aver si può, che 'I Erige imlustrc
Col foco suol dalle fumanti tede
Trarre, c dal pin, che forse piange ancora
Di Marsìa audace il memorabil caso.
Il durissimo acciaio avrai, se varchi
Dall’ Egeo nell* Eussino, ove sudando
Sotto eterna fatica, c ’l ferro ardente
I Calibi trattando ignudi e scabri,
Al frequente alternar de* gravi colpi
Fan rimbombar le ripercosse incudi.
Se poi velrn tu chiedi onde t'aggrade
Saetta medicar, che certo seco
Porti in guerra al nemico eterno sonno :
In Ponto il troverai, poscia che abbonda
Ponto d* erbe mortifere, di cui
Le dannose virtuti opran sovente
L'empie matrigne c le profane maghe.
E ben dee di veleno ivi cosperse
La terra partorir l'crbe c le piante,
S’Ivi l' eterne tenebre d’ A verno
Lasciale Ercole invitto, il can trifauce
Trasse dall' ombre alla nemica luce,
Che palpitando ed anelando indarno
Incontra ’1 Sol per le campagne sparse
Dalle tumide gole amaro tosco.
Che più, se di veien meschiato e tinto
Ivi dall' alte querce il mele scende.
Il me! che l'api agli altrui danni industri
Soglion libar dagl’infelici fiorii
In Cappadocia troverai, se chiedi [cbio
Dell’ immortale ambrosia, erba, onde cer-
Far già soleansi al crin negletto e sparso
Quelle feroci donne, a cui diè ’l nome
La vergine mammella al petto adusta ;
Quando deposte le secure e gli archi.
Vincitrici tornar carche di gloria
Le vedea baldanzose il patrio fiume.
Da chi ne' monti vive, e nelle valli
Della fertile Armenia avrai l'amomo;
Poi che vie più eh’ altrove eletto nasce
Colà, dove ha le spalle e l'alta fronte
Di bianca neve ognor carca Nifate.
Se poi di gemme brami c di lucenti
Margarite adunar ricco tesoro;
Me prendi in duce, e navigando meco
Volgi l'audace prora ai regni Persi,
Che l'Invitto Alessandro al mondo noti
Fece allor clic vincendo in tempo breve.
Il nome e l’arme in Oriente sparse.
Qui non lunge ad Ormussc, incontra il seno
Che ii perso c l’indo mar confonde c mesce,
Il notalor dalle più basse arene
Suole all' onde involar candide c chiare
Perle, onde ii manto e la pomposa chioma,
Per far di sé superba altera mostra,
Soglion ornarsi c le gran donne e i regi.
Sardonici, piropi, e crisopazi
Porgon I* indiche arene, c nelle selve
Spiega ivi al vento i rami il denso c nero
Ebano, onde formar capaci vasi
Il fabbro sud sovra il volubii torno,
Perchè di gemme sparsi, c cinti d’oro
Siano alle ricche mense ornato regio.
Odorifero quivi il grave tronco
Dell' agalloco nasce, onde conduce
Copia rapido il Gange, allor che pieno
E gonfio vicn per le distrutte nevi
De' monti inaccessibili d'Imavo,
Tronco, onde soglion poi con altri rami
Di care piante il rogo alto e funebre
Preparar gl' Indi alle infelici amate
De' loro estinti duci, iniqua legge, [sta
Fiero ed empio costume, allor clie appre
Il ministro le fiamme, ond’ egli incenda
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373
LA NAUTICA.
Dell’ esangue marito 11 freddo busto :
Le misere consorti accolte in giro
D' intorno al negro e flebile feretro.
Dopo aver gli col pianto e con gli estremi
Baci condotto a fin gli ultimi ufllcj,
Corron verso la morte, e par che a vile
Aggiano il paventar : si può la speme
In lordi dever poi, fattasi strada
Per P orribile Incendio e per la morte.
Scender ne’ lieti campi, ove l' attende
Ne’ boschi giù degli amorosi mirti
Dello sposo fedel la vedov' ombra.
Nell’isola di Zela, che non lungc
Di Gommar! ventoso all'alta fronte
Verso II Sol giace, I lucidi lapilli
Trovansi In ogni piaggia, in ogni seno
D’alpestre monte, c le volubili onde
Spesso n' ha ricche il rapido torrente.
Orpoi che con la nav c ornai slam giunti
Dove Slna gran mar gli ultimi lidi
Abbraccia di quei regni onde l' Aurora
Dall’aureo albergo in sul mattili si parte :
Dritto (■ ch'io mostri a tedi quel che abbon-
Questo lontan paese, e le già ignote [de
Isole di Maluro e Tapobranc.
Saper dunque tu dei, clic a questi regni
Di garofani, maei, c d’odorate
Noci fu iargo il Cielo, e che se quinci
Tu non le prendi, invan Ila che ne cerchi
Da quanti altri paesi il mar circonda.
Anco il muschio ìndi vien, di cui non porge
Più grato odor fra tanti ond'è ferace
Del tepido Oriente il ricco suolo :
Odore, onde sovente il velo e ’l guanto.
Ed altre sue più preziose spoglie
Amorosetta vergine n'infonde.
Vive animale in quelle parti estreme
Del mondo, che di nardo e d'altre rare
Soavissime frollili ngnor si pasce,
Di cui fora il sembiante in tutto eguale
A lieve capro, se non che la fronte
Egli had'un corno armata, e di selvaggio
Cignale in guisa, dalle labbra spinge
Due bianchissimi denti. Or questo tale,
Qual udito hai, col proprio sangue cria
Cosi pregiato odor, pur come vuole
Amor ch’a dò l’induce, e la Natura
Che tal poter gli diede, il tempo giunto.
Che gli uomini, gli armenti e quanto vive
Muto inonda, ermo in selva, e pintoin ra-
Dolcemente ad amar muove ed invitammo,
Diviene anche egli amante, e poi che ’l foco
Senlesi dentro fossa e nelle Interne
Midolle acceso, furioso errando
Di desio si consuma, e più non cura
Pasco, riposo od onda, infin che ’l sangue
Ch' in lui nudre f ardor bollendo insieme
Nel ventre gli si aduna, e doglia a doglia
Crescendo arroge, ond'egli Impaziente
Dalla fiamma edal duo), ai sassi, ai tronchi
Ruvidi si ravvolge, infin che face.
Perchè l’ ardor col sangue in parte esali.
Crudele a sé medesmo acerbe piaga.
Col sangue che è corrotto, allor diffonde
Non piacevole odor : ma poi che ’l tempo
E la virtù del del purgato l'hanno,
Dal eaccialor che diligente spia
Delle ferci covili, insieme accolto,
Di caro dono in vece ai duci, a' regi
Porger si suole, od a colui che chiede
Cangiar merci od argento in tali odori.
Poiché condotte abbiam dell'Oriente
Le lontane ricchezze ai nostri lidi,
Rimali che vediam or s' altre ne danno
Di Libia I regni e le gelide arene :
Benché da piaggia inabitata ed erma
Scarso altendesi frutto: erra mendico
Il pastor african per le montagne
Aride ed infeconde, e spesso vede
Ne’ polverosi paschi e d’erbe ignudi
Assetali languir greggi ed armenti.
Colti non vedrai tu qui di feconde
Larghe campagne, non vedrai bifolchi
Accoppiar torri al faticoso giogo :
Uoni non vedrai, che diligente adopri
Bidente c rastro, o giri adunca falce.
Né mcn d’api susurro, o dolce canto
Udirai tu d'augelli in queste piagge:
Ma d' iraconde, immansuete fere
Voci d'alto spavento, urli e ruggiti.
Pur, benché si solinghc e si selvagge
Slan queste parti, non però Natura
A lor fu scarsa in tutto. Ove il vetusto
Tempio fu giù d’ Aminone, in mezzo l’ alte
Arene cireneo nasce virgulto,
Onde cade llcor, che ’l nome prende
Dal cognome di Giove, c molto vale
A confortar le membra afllilte ed egre.
Manda l’Africa ancor quel che di drago
Sangue s'appella in rubiconde stille;
Nè so ben dir se dalla incisa scorza
Di qualche arbore scorra, o dalle vene
Del drago pur, cui vincitore opprima,
Vinto cadendo l'elefante esangue.
Non debbo anco tacer, benché disgiunta
Dal nostro mondo sembri, i pregj eh’ ave
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374 POEMI DIDASCALICI.
L’ America, e qual mercé Indi P Ibero Di quel buon vecchio, a cui Verona riebbe
Avventuroso aatiganrio apporti. NonmenciiediCjlulloall'ossa.aironibre
Oltre le gemme e l’oro. In folle selve Quando poi di lasciar le salde mete
Cresce ivi il rosso tronco, e ’1 sacro legno Ch'agli audaci noccliier prefisse Alcide,
Del durissimo Iliaco, onde le genti A te aoa desse il core, al porto giunto
Di non solila peste inferme e statiche Della città ri lllisse, o di Sibilla,
Sogliono ricovrar l’antica fona. Tulle le merci avrai che addur solca
Felice legno, i cui dovuti onori >V già passali tempi ai nostri lidi
Non sdegnò di cantar lì sulle rive 11 veneto noerhier dal verde Egitto.
Del tranquillo Benaco il raro ingegno *
VALVASONE.
LA CACCIA.
CANTO SECONDO.
ARGOMENTO.
De* bracchi e de’ paesi ove Natura
Supera sè per dar lor forma e vanto ;
E della medicina c della cura
De' ravai si ragiona in questo Canto :
I n beltà de’ cavai poi si misura
Co’ k»r paesi ; e al Un si scopre quante
Sien quei del corso e valorosi e viri,
E reccelicnia loro onde derivi.
È poco avere un can di chiare prove,
Che la fera raggiunga c che 1* uccida.
Se bracco anror non hai che la ritrovo
Nel sen de* folti vepri ove s’ annida :
E molte piagge troverai tu, dove
Riceverai dal bracco opra più fida:
Per tutto il bracco annasa ;ilr veltro solo
Corre ove ha largo c tutto sgombro il suolo.
Basta il bracco e la rete, che si tende
Dove a passar hau le cacciate belve :
E la falica invan raro si spende
O sia in campagna aperta , o tra le selve :
Ma II veltro, ancor che ratto, indarno
Il corso ove la fera si rinselve, [stende
Se dal bracco non ha compagno aiuto.
Che la ritorni a ritrovar col fiuto.
Dunque se forse (ancor eh* ove Natura
Bracchi produca di valor pregiato
Non tl si tacque pria) tu la tua cura
Non posi ancora , e ti parria più grato
Scegliere un loco sol dove secura
Mente lo studio tuo fosse impiegato;
Ecco, ed io non ni' infingo , ed in qual deio
Abbi tu pago a rimaner non celo.
Nobii città d* un bel monte alia cima
S* innalza già, Ccnomani, di voi
Chiara sedia c regai , ma stati prima
Erano Etruschi i conditori suol :
È Bergamo il suo nome, e in molta slima
In tra Romani c tra Lombardi poi :
Da piò l 'irriga il vago Brcmbo c scorre
Fin che quindi sen va ncll’Adda a porre.
Fanno la reglon lieta ed amena
Fiumi, laghi, ruscci, fontane vive,
E di vaglie castella adorna e piena:
Ha selve, ha valli cd ha feconde rive:
Ha quel eh’ ancor la fa via più serena
D’ ogni altra dote che dai Ciel derive,
Gente d’alto valor e che s’avanza
Ovunque il pcnsicr volge e la speranti.
Non ha parte 1* Occaso e l’ Orlcute ,
La Tramontana o l’Austro sì remota
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LA CACCIA. 8TS
Ore i pani non mova , ore la mente
Non levi , ove non sia famosa e nota :
Noni terror si duro ed evidente.
Che r arditezza sua conturbi o scuota ,
Del riposo nemica, e all’ una e all’ altra
Fortuna sempre sofferente e scaltra.
Ebbe ella in ogni etade uomini industri
In tutte Tarli che più il mondo pregi :
Nell’ arme n* ebbe , ed oggi n’ lia d' illustri
Graditi da gran prìncipi e da regi :
Nelle Lettere n’ ebbe, e in questi lustri
N’ ha fra tutti altri di splendor egregi ,
Atti altrui far d’ immorlal gloria lieti
Osi bramili istorici o poeti.
Fede il Tasso ne fa, ne fa il Malici
Mentre quei canta il glorioso acquisto
Del gran sepolcro, c questi a’ falsi Del
Gli ultimi Indi rapiti c dati a Cristo.
V’ è l' Unicorni che da' monti astrel
Scopre ogn* influsso da lontan previsto,
fi misurar con picoiol sesto puote
Le gran moli del ciel tutto e le ruote.
Che dirò delle porpore c degli ostri ,
fi delle mitre c d’ altri sacri onori ,
Che negli antichi secoli e ne* nostri
Furono in Hotna riveriti e fuori?
Lungo tempo sarà eli* altrui dimostri
Con umil stile e ruvidi colori
Tutte le dignità ch'avesse od aggia
Nel popol suo questa felice piaggia.
Lungo sarà, nè sarà forse grato,
Le parche lodi a chi più merta udire.
Ora tu , cacciator , che consigliato
Da’ miei precetti ad aver bracco aspiro ,
Che ti trovi le fere, e nell’ agguato,
Ore le reti avrai teso, le gire ,
Quindi passando ammira il sito, onora
La gente , e poi scorri più oltre ancora.
Poi che pasciuti avrai gli occhi tuoi vaghi
Di questa vista, entra tra monti e arriva
Perchè T intenso tno desire appaghi
Là ’vc in gran valle il Serio si deriva :
Quivi posto net sen di varj laghi
Sovcr fronteggia la sonante riva (scende,
D’ un chiaro fiume , e II fiume ovunque
Ricca c gioconda la contrada rende.
Mille diversità di rari obbietti
Ti dà quivi anco d' ammirar Natura :
Macchine mille ed edifìcj eretti
Esser vedrai degli uomini fattura:
Natura ha dato il fiume , onde s'alletti
Amile InvenzTon I' umana cura :
L’ umana cura ha derivale T onde
A ben mille usi per tutte le sponde.
Natura ha dato i laghi, a' laghi il pesce
CIT ogni mensa regai brama e commenda:
L’ Industria d’or in or s* avanza e cresce
A trovar varie frodi , onde lo prenda.
Natura lia dato il ferro, Industria mesce
Al foco l'acqua , onde purgato il renda
Natura ha dato i boschi ; Industria fassi
Ricca de’ boschi , che riduce in assi.
Natura ha dato il bri verde al terreno:
L’ Industria suda a pasturar gli agnelli.
Suda il latte a compor; suda non meno
In varie fonne a colorar i velli.
Natura iia dato all'aria aimo sereno ,
Ed al sereno i peregrini augelli:
L’Industria vi poli l'esca, asconde i nodi,
Tende le reti, onde gli alletti c frodi.
Natura hit dato alfin vivace ingegno
Agli abitanti in membra alte e possenti:
Industria il volge 9einprc a nobil segno,
E Io fa singoiar fra 1* altre genti •
Così nulla si perde, anzi più degno
Fanno il don naturai Taccone menti,
E nasce quasi una concorde gara
Tra chi dona , e chi il dono usar impara.
Or quivi a le convien drizzar ii piede
Quinci la speme tua render sicura,
Per conseguir di non dubbiosa lede
L* inizio della tua razza futura :
Vavvi , il bisogno tuo cosi richiede ,
Nè dell’ albergo aver temenza o cura :
Tu vi verrai, senza dimora, accolto
Con pronto core e con sereno volto.
D’ allo animo e regal cortese invito
Vcrranti a far i Nicolini tosto.
Di cui non vede il Sol per alcun lito
Oiul’ esce infili dov’ ci si sta nascosto ;
Altri che serbin per antico rito
Più magnanimo oprar, o più disposto
Ad acquistar de* peregrin T affetto ,
Facendo lor comune il proprio tetto.
Cavalier rinvi c principi sovente ,
Cui la bellezza c la gran copia tragge
Di mille cacce , onde lontan si sente
Ch’abbondan sempre le felici piagge:
La lepre v’ è, v *è *1 caprlol corrente,
Altre vi sono ancor fere selvagge
Da poter far prima che il giorno manchi
Il cacciator contento e i cani stanchi.
Yanvl ancor molti per aver T augello ,
Che di rapina vive ingordo e fiero:
Chè più di tutti gli altri in pregio è quello
Ch’ abita della Coma il monte altero :
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POEMI DIDASCALICI.
Il forte Astor, lo spara* ler i snello ,
E il cadente dal del falcou starniero.
Ch’errando van d'intorno a questo monte,
Fan di certa virtù prove più conte.
Vannovi , c son con signoril maniere
Accolti dentro delle stanze e fuori :
Il diletto han di fuor di mille fiere.
Dentro di mille cortesie e onori i
Arrogo poi eli’ altrove Invan si chere
Per aver bracco , che gli sparsi odori
D’ orma in orma raccor sappia più certo,
0 sia tra’ folti boschi o in campo aperto.
E s’cgli è tutto ver quel che si scrive
Del tempo antico c degli antichi Dei ,
Che la bella Diana e quelle Dive
Ch* eran per castità si care a lei ,
Amasser tanto le disposte rive
Alle silvestri cacce , io crederei
Che nò Cinto nò Menalo lor caro
Fusse giammai di questi monti al paro.
E Francesco Bassan quando lavora
Il verde e il bianco, e misti altri diversi,
Onde paesi poi finge c colora
Di mille forme di vaghezze aspersi,
Qui forse n' ha l’ esemplo ad ora ad ora,
E tutti i suoi pensicr qui tien conversi,
Onde riescon poi varj sembianti
Incontro agli occhi altrui vivi c spiranti.
Fortunato Bassan clic col pennello
Frode alla vista fa leggiadra c grata;
E In picciol quadro può distender quello
Che la Natura in gran spazio dilata : [stello.
Qui un bosco, qui una fonte e qui un ca-
E qui guida un paslor la greggia amata :
Mille cose in un groppo unite vedi,
E le distanze ancor veder ti credi.
Ortu quivi Pluvia, quivi t'arresta
E non cercar di miglior razza altrove;
Chò quivi avrai tu can , che la foresta
Farà sonar d* incomparabil prove;
Come una volta sia la fera desta ,
Cerchi pur quanto vuol spelonche nove,
Lungo pur quanto v uol corra o cammine,
Sccura ella starà tua preda alfine.
Sia pur presta di piò , forte di schiena,
Le doni ale il liiuor , e serbi al fianco
Per lungo spazio , senza ansar la lena.
Clic innanzi al bracco tuo scn verrà manco:
La stessa volpe , eli’ è d’astuzie piena,
Lo stesso cervo , di' ò nel corso franco
Più di lutti altri , ovunque i passi stenda,
Sempre al tergo 1' avrà fin che si renda.
Solo da sè con ostinate voglie
Senza il levrler, senza le reti tanto
Di questa razza il can coglie e ricogiie
L'odor fugace, che l’acquista il vanto:
Tu perdi’ ei cresca d’animo e t’ invoglie
A far per l'avvenir sempre altrettanto
Dagli la parte sua , fa eli* cl divore,
E si trangugi le minugia e II core.
Cosi buon capitan consente e gode
Che 1* esercito suo parte si teglia
Delle nemiche spoglie e della lode,
E di sua mano a molti anco n’ assegna :
Cosi lo fa più coraggioso e prode
A seguitar la sua vittricc insegna.
A correr a’ perigli , a stimar poco
Gli aguzzi ferri e le rulnc e il foco.
Ecco tu sai la patria , ove tu volga
Per aver can , clic ti compiaccia, il calle:
Ma nè quivi voglio io clic tu lo tolga
A caso : spesso anche il paese falle :
Della sua stirpe ancor quel che divolga
La fama, intendi, c quanto pregio dalle:
Mira poi se beltà degna in lui splende
De’ padri e della patria onde discende.
Fa eli’ abbia larga faccia ed occhio rosso:
Lunghe I' orecchie sian. pendali le labbia:
li naso situo; c come a tauro grosso
E toroso gli cresca il collo; cd abbia
Doppia la spina, che gli parte il dosso,
E spazioso il piò stampi la sabbia:
Le gambe setolose ; e senza pondo
Raccolto l'alvo c il casso abbia rotondo.
Vuoisi anco aver non poco il guardo in-
Aquel color, onde gli luce il pelo ; [tento
Chi negreggia in alcun qual carbon spento,
Fiammeggia in altri di purpureo velo:
Il bigio in altri par tinto d’argento
Opposto a’ raggi del signor di Deio ;
E questo ò quel eli’ a sceglier ti consiglio.
Se due macchie di rosso ha sovra il ciglio.
Yid' lo chi due n* avea d’ una catena
Ambo consorti , ambo di tal sembiante,
E vita si vive* lieta c serena
Sempre tra' boschi cacciator errante;
Facca, senza comprar pranzo uè cena,
Ogni sua mensa ricca ed abbondante
Con poca facoltà; erano i due
Cani c le reti le ricchezze sue.
Avea le reti c i cani, ed avea V arco
Bugio di ferro, che bombando strìde,
E caccia il fuoco il piombo ond’eiviencar-
Eciò die tocca immantinente uccide, [co,
Con questo se ne stava ascoso al varco ,
E con percosse ognor secure c fide
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LA CACCIA. 377
Ficea nel suol cader le fere stese
Qualor non davan nelle reti lese.[presso
Or lepre , or damma , ora cinghiale op-
Venia recando al suo povero ostello ;
L’istrice, il tasso, c talor l’orso, e spesso
Cogliea l’Iniqua volpe e il lupo Tello;
Con la stcss'arte ancor, col foco stesso ,
Or ne' laghi , or su' rami il vago augello
Toglie! di mira , e per le cime alpestre
Sali spesso a ferir gallo silvestre.
Ma de’ due cani , e delle reti assai
Più larghe e fortunate eran le prede;
Chè non movea dall’ alte selve mai ,
Non carco di ferino acquisto, il piede;
E quando alluma II Sol co’ chiari rat
La terra, e quando sotto terra riede
Con la lor scorta all’uno e all’altro lume
Cacciar le fere avea spesso costume.
Nè sol fresco il sabatico animale
Facea le mense sue nobili e gravi ;
Ma ne indurava parte anco col sale,
Da' tetti appesa all'airumatc travi :
E la serbava alla stagion brumale,
Quando le lunghe piogge e i venti pravi
Gl’ impedlano I’ uscir de’ tetti : o vita
Sovra la regai sorte anco gradila!
Dunque se a te darà destra ventura
L'na coppia sortir che a quei somigli ,
Ed un veltro anco di gagliarda e dura
Persona, che le fere in corso pigli.
Tu potrai far gran fatti : ma la cura ,
Che del tener di lor stessi e de’ Agli
Che nasceran , non tralasciare ancora ;
Gran speranza svanisce in picciola ora.
CANTO QUABTO.
ARGOMENTO.
Ciovin che brami in caccia acquistar iodi,
Senti i suoi pregi e gli esercizi suoi;
Nè vedrai perehè ’n selva aspra si godi
Men darti donna i cari baci suoi :
Di varie fere il vario stile, i modi
E Parli ascolta onde predarle puoi;
E quel che a seggi i
Al gran re Arturo, i
lo non ho tutta ancor trascorsa l’arte
Delle silvestre pugne ; ancor mi resta
Quel che più vale, o cacclator, per farle
Ritornar vincitor dalla foresta.
Vieni ed attendi ancora a questa parte,
Musa, e del tuo favor tanto mi presta,
Ch'io possa Ira le fere e I boschi errante
Sicuro a' tetti ornai volger le piante.
Se degnamente per T Incolto suolo
Germogliar faccio il tuo divino alloro;
Se il Nume tuo divoto Inchino c colo,
Se a te più d' uno aitar ergo c lavoro;
Se dal volgo mi toglio c schivo e solo
Ricorro al sacro Monte e al sacro Coro,
Quivi mi spazio; e quivi il corc acqueto
In mio sollngo onor superbo e lieto.
Dona, Musa, al mio dir si nuovi fregi ,
Si dolce suon, ch’ali' aspre selve allctti
Le vaghe ninfe e I cavalieri egregi,
Cb nan pieno il srn di non vulgati alTetti :
Forse anco alcun sarà tra gli alti regi
Che gradisca ascoltar I nostri detti,
Nè stimerà, benché silvestri accenti,
Che sieno indegni dell’ eccelse menti.
Murgana occorse
c cacciando scorse.
Gradite, o regi, con serena fronte
Il dolce suon dell' apollinee Muse
Che iiivolan le bell' opre al negro fonte
DI Lete, ove starian sepolte e chiuse :
Esse a farle girar celebri e conte
Ne’ secoli presenti, esse son use
Nei tempio della Fama a farne voto.
Che mai più non dissolva Atropo o Piolo
Puon le Muse,o gran re,con dolce canto,
Con dotto stil tra tutte l' arti sole
A’ vostri nomi tlar quel sommo vanto,
Che splenda c duri a par a par col Sole :
Chè se per farsi eterno altri amar tanto
Lna immagine suol senza parole;
Quanto più dee stimar nobile e bella
L' effigie che di lui scrive c favella.
I bronzi e i marmi impressi c i bei colori
D’ industriose man mirabili opre,
Son brevi glorie, sono incerti onori,
Chc’l tempo rode, il fumo anneraecopre:
Muti sembianti, taciti lavori.
Ove il miglior di noi l’occhio non scopre:
E qual fama è lasciar le facce acuite
Ai mondo, e l' alme e le virtudi occulte?
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378 POEMI DIDASCALICI.
So <1 queste cose, con caduche e flussc :
Sallo il Tempo e uc fa ben ceri» fede,
Che tante nc distrugge e oc distrusse,
Che di mille una a prua ora seti vede :
Chè se 1* umana ambiztou si fusse
Ritolta al ver, fondala in subii sede,
Quanto più progeria quel ebe figura
L’oprc della virtù eli* eterna dura.
Non puon, studino pur I irne e pennelli,
La virtù ti in bei quadri esser distese :
Descriver puonsi, e i versi sono quelli
Che immagini ne fan dal vivo prese.
Estinte sou de’ Gracchi e de’ Marcelli
Le sUluc e vi von ie famose imprese :
Vivaci queste c non quelle, perché i carrai
Vincono il Tempo, e il Tempo viucc i mar-
ciò che A pelle c Tiraagora dipinse, [mi.
Ciò che scul.se Prassitele c Minine,
Marte oYulcan distrusse c il tempo eslinsc,
A pena ornai rimali chi nc ragione :
Vive e vivrà ciò clic cantando finse
Omero, Orazio, Pindaro c Marcine :
E questi bau mille nomi a morte tolti
Di cui non furori mai dipinti i volli.
Vive Enea, vive Achille, Olisse vive,
Vive Argo, Atene ed lllon combusto:
E benché le romane altezze prive
Si vcggiiin d’ ogni loro onor vetusto,
Nessuna età, nessuno obblio prescrive
L’ i muto rial fama del felice Augusto :
L’ ammirali tutti; e sovra il vero forse
Per chi nc scrisse la sua gloria sorse.
Chè se alcuno è tra voi che attenda ed ante
L’onor che ad ogni onor vola sovrano,
Che padre della patria il momio il chiame,
Siccome Augusto il popolo romano.
Vestasi l'arme, c le comuni brame
Adempia, adempia l' obbligo cristiano :
Tenti di render con di vota impresa
11 gran Sepolcro alla romana Chiesa.
Se l'impresa gli par forse più dura.
Che non possa portar questa stagione,
0 che nou sia negli ordini matura
Di dii lutto dal Cict regge c dispone;
Dell' Litigherò abbia, abbia del Grecocura,
A cui giogo crudele il Turco impone :
Pur dianzi era» con noi membra di Cristo,
E non cale ad alcun fame racquieto.
0 chiara aulica nobiltà gennaua,
Indomito valor, possanza iuvitu
Che cerchi nova Fede, c la romana
Che osservar gli avi tuoi ne tieni afflitta ;
Non è gloria maggior, non è più piana
Strada di gir al Clel forse e più dritta,
Porlar la Croce là verso 1* Aurora,
Ov’è chi Cristo in nessun modo adora?
Ma che dirò di voi, principi franchi
De’ cui progenitor la virtù rara
Potoo già far niiiie poeti slancili,
Che cantar quasi nc solcano a gara? [chi
Qual furia, otmè, v i pon quell’ ariui •' fias-
che al Nilo parve ed all’ Eufrate amara.
Perchè pur delle vostre proprie vene
Faccia sanguigne l' infelici arene?
£ quella voglia ornai del tutto estinta
Che vi fé* meritar titolo santo?
Voglia che si solca mostrarsi accinta
Sempre a difesa del papale ammanto?
Delle sue forze or dissipata e vinta
Cade la Francia U'ogni antico vanto.
Astretta, ahi lassa, di chinare il dorso;
E quinci c quindi mendicar soccorso.
E perchè meno d’ora in or si spere
Di lasciar il senlier falso ed obliquo,
E rivolgersi a far opere altere
Ch’abbian sembiante del valore antiquo.
Il gran Britanno con le genti ibere,
E con la Chiesa esercita odio iniquo,
Quanto da quello ornai novo e diverso,
Che di sè feo tremar l' Egizio c il Perso.
Già'del franco valor emulo ardilo
Mille prove lasciò, mille vestigi
Di sè, là del Giordano al sacro Ilio;
Mandò mille alme morte a’ regni sligi
Or d’altra fè cultore c d’altro rito
Al vicario di Dio mover litigi
Gode; c chi della Fè vera è seguace
Non lascia a lei servir libero in pace.
Non nc traggo ancor te, popolo ispano.
Dal Cicl diletta avventurosa gente:
Chè se per l’ampio puoi dell’Oceano
Stender a par col Sol la vaga mente.
S’aspetta ancor della tua stessa mano.
Cui tanti scettri il sommo Dio consente.
Che col favor di cosi gran fortuna.
Si come agguagli il Sol, vinca la Luna.
Dalia mia, ned in te inolio raggio
Rimiro più del tuo va.or primiero.
Volta a far a’ slranier umil servaggio.
Già nobil donna di colatilo impero:
Intanto passa il tempo a nostro oltraggio.
A nostro danno : oh s' un viri) pensiero
Ornai si desti in alcun petto regio.
Che degli avoli nostri invidii il pregio;
E faccia tremolar la santa Croce
Nelle disvolle iusegne altera a* venti.
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LÀ CACCIA.
Onde chi contri noi (icn sì feroce,
L’orgoglio almeno un poco e i passi ailenti ;
Chi ita che in onor suo lieto la voce
Non scinlga c non insiti a' novi accenti
Pìndo c Parnaso e il bel fonte, «1 alloro
Con tutti i Nuoti dei famoso Coro?
K ben creder sì dee che il giusto Fato,
Ch’ eseguisce di Dio gli ordini santi.
Chiunque egli sarà, gli abbia segnato
Citi di lui dolci modi informi e canti;
E quanto il mondo avrà ferntcrta e stato,
F accia stendere il suon de’ suoi gran tanti :
Con onor faccia e con invidia udire
Il suo bel nome a’ secoli avvenire.
Per l'eccelso cittadi agii alti regi,
Ai duri annali, a’ popoli di Marte
Sterni endo questi andrà de'suoi gran pregj
La somma, mastro di più nobil arte :
Noi con umil lavor di minor fregj
Tenteremo vergar le nostre carte,
E desteremo, a riverirlo intente,
Le vaghe ninfe, boschereccia gente.
Ned ei lo sdegni ; e chiari regi antichi
Tra’ boschi s'acquistar celebre nome,
E non sdegnaron de’ nodosi intrichi,
Delle reti lalor portar le some :
N* di ruvida polve a' soli aprichi
I bei volli offuscati, e l' auree chiome,
Ristorandosi all’ombra, ebbero a schivo
Terger col dolce d'un corrente rivo.
Quinci prese gli auspirj ilgranChirone
Di far la chiara stia fama Immortale ;
Quinci i nomi di Pclco e di Giasone
Dalton si larghe per lo mondo l'ale;
Un crude! tauro vinto, un gran lione,
Dna gran cerva, un orrido cinghiale
Son tra le prove più nomate e belle
Che ad Alcide donar fcron le stelle.
Nestor rhc tanto seppe e tanto visse
Fu caeclator ; fn eaeciator Teseo :
Fimi il figlinol che lacera rivisse,
Ed or maschio ed or femmina Geneo :
Fuvvi il possente Achille c il saggio Ulisse,
Per cui soli distrutta Asia cadeo :
E i due figli di Leda, alme indivise :
Cefalo Incauto che la moglie uccise.
La cacria t con sudor trastullo degno ;
È degno studio del regai valore,
Che la fona inamidi, lo stanco ingegno
Ravviva ed empie d’ arditemi licore;
Ma non arriva gii ciascuno al segno,
Ch’ acquista nelle cacce eterno onore :
Quel che dal vulgo U cacciator sublima
E litica maggior ch'altri non stima.
Lungi, oh lungi da' boschi, animi molli
Ch'ailcttan le delizie a vita pegra;
Che lauta mensa suol render satolli;
Cui non basta a dormir la notte integra.
Per voi non fa salir rapidi colli,
Dure pietre calcar : ansante ed egra
Turba sedete : a voi più torna a grado
Troncar del luogo di parte col dado.
Altro animo, altra ardir, altra possanza
Voglio io per far un caeclator che sagfla
Spedito c destro a quella somma orranza,
Che di farlo a tutti altri esempio vaglia :
Su dunque ogni timor, ogni tardanza
Romper ai nobil giovanetto caglia
Fin da' primi anni, se robusto c duro
Farsi, c passar tra’ boschi ama scettro.
Se meco vuol per discoscese rupi,
Per aspre selve, per fangose valli.
Per rapidi torrenti ed antri cupi
Superar faticosi orridi calli :
Se vuol seguir orsi, cinghiali e lupi.
Damme e lepri fugaci ; c che non falli
Lo studio suo, se stesso spoltri c gli anni
Suoi primi doni a virtuosi afTaoui.
Signoreggi egli al sonno, c mai noi trovi
Nascente Sol nell’ oziose piume;
Le sue fatiche, I suoi sutlor rinnovi
Tosto die in cicl rosseggi il primo lume:
Nessuna ora passar pigra gli giovi; |
Senza lavor nessun giorno consume:
È lieve ogni altra perdita, e s'emenda [da.
F uor che del tempo quando inv an si spen-
Inipari a maneggiar rete contesta
Di duri nervi ed ili un cerchio tesa,
Con la quale ei picciola palla investa
F, con gli eguali suoi faccia contesa:
Talor di cavo legno il braccio vesta
Atto al grosso pallon far vaga offesa :
Quanta è la piazza, con gran colpo il mandi
Ov'è chi 'I ripcrcota e gliel rimandi.
Nessuna requie sia : vote e rivole
Di qua, di iì spesso percossa e spinta
Del notili disco la tonante mole.
Ch'ha molt’arla nel sen di cuoio cinta :
Util fatica, che lassar non suole
Giacer la forza da pigrizia vinta;
Che sano il corpo fa, gli spirti desta,
E ticn sembianza di battaglia oneata.
Cosi faccia anco la persona destra
Contendendo ora al salto ed ora al corso i
Sappia far, vlnrilore alla palestra.
Battere in terra al suo nemico al dorso :
380 POEMI DIDASCALICI.
Sappia Tare a man manca ed a man destra
Volteggiar un dcatrier reggendo il morso :
Correr lo faccia ; e sappia immobil sopra
La man, lo spron a tempo por in opra.
Sappia passar a nuoto aspro torrente
Quando cade da' monti ondoso c roco :
Sappia ne’ lunghi giorni al Sol cocente
Divenir fosco c non ansante e fioco :
Sappia quando Aquilon fa l’ aria algente
Esporsi al Sol, non rifuggir al foco :
Sappia col nudo pan vincer la fame ;
Soccorra li fonte all’ assetate brame, [to
Non sia chi 'i vcggia mai dubbioso olen-
Sorgcr alle fatiche ; e quanto stanche
Senta le membra ancor, viva il talento,
Viva il desir, l' animo mai non manche :
Breve il riposo sia ; picciol momento
In lui la forza, in lui l'ardir rinfranche :
Possa perche poter vuole ; c soileve
Col cor la lena tremolante c greve.
Tra cosi rigorosi ed aspri studi
Crebbero quei che i fondamenti alteri
Gittar di Roma, di delizie ignudi,
DI fama e di valor ricchi guerrieri :
Queste son dell’ eroiche virtudi
1 lodati prlncipj, i semi veri :
Questi i sentieri son, queste le scale,
Onde di grado in grado al Ciel si sale.
Poiché 'ii tal guisa il giovanetto ardente
Fatte le membra avrà valide e sode.
Vestasi l'arme ed animoso lente
Per gli ermi boschi la seconda lode.
Per alzar aita terza indi la mente,
E farsi a Marte ancor disposto e prode,
Siccome Alcide fece, e fe’ Polluce,
Ch’ora splende dal ciel con doppia luce.
Al carclator non una volta avviene
Nel suo studio patir disagj mille :
Nasce talor occaslon die il tiene
Luitge da tutte l'abilalc ville;
Or sotto a piante, or sulle nude arene
Quando di stelle il ciel puro sfaville.
Corcar le membra, ed aspettar li Sole,
Clic gli mostri 1 cammin smarrito suole.
Spesso il vento soffrir, spesso la pioggia
Avversa e ricercar d'ascoso speco.
Che gli sia In vece di marmorea loggia
E compagna abbia sol la garrula Eco :
E spesso quando il Sol più alto poggia
E il Cancro ad albergar l’invita seco,
Passar per lunga c solitaria via.
Che di forni e di piante ignuda sia.
Non pud nodi-ito tra delizie cd agi
Avvezzo a lunghi sonni, a laute mense
Gli uni o gli altri soffrir lemp malvagi
De' freddi verni, e delie stati acccnse :
Restisi pur ne’ ricchi alti palagi,
Ch'hanno ecclle rinchiuse c logge estense,
Quel le a v letar, queste a raccor In mezzo.
Comunque giri il Sol, l’artico rezzo.
E l’arte nostra rìgida e severa.
Domatrice de’ sensi c degli amori.
Che non hanno per fin la gloria vera,
Nè tengon volti alle virtudi 1 cori.
Tu robusto garznn, sudando spera
Più larga fama e più sublimi onori ;
Nè creder gii di |K>lvcroso aspetto
Mcn tra le vaghe ninfe esser diletto.
Incubo il crine, in abiti selvaggi
Piacque il figliastro alla Cretensc rea;
E non tra gli ostri, ma tra gli omle i faggi
Accese Adone l'amorosa Dea :
E se di faticosi ardenti raggi
In volto rosseggiar ella il vedea,
Allor cresccano i vezzi, allora i baci
Erano c più frequenti c più tenaci.
ila fanciul, clic seguitava Torme
Del forte Alcide, d’una irsuta pelle.
Tolta a un forte leon, solca conforme
Al suo maestro ornar le membra snelle :
L’arco c la clava con le stesse norme
Portavano le man robuste c belle;
E cosi tutto in vista orrido piacque
Alle ninfe d’ Ascanlo in mezzo Tacque.
Selvaggio cacclator Cefalo scosse
All’Aurora si forte II cor nel seno.
Che il suo caro Tifone ella scordosse,
Ed a lui sol mostrò viso sereno;
E il feroce Orlon, se stato fosse -
DI voglie, com’el debbo, ardite meno,
Poteasi star sempre a Diana a lato,
Senza temer lo Scorpione armato.
Non avete a temer molto nè poco,
Giovani franchi, nel cui sen s’accende
Scintilla forse d’amoroso foco,
Clic in magnanimo cor faci! s' apprende,
Clic si smarrisca per selvaggio loco
Quell' alato fanciul, che dolce offende:
0 che presso o lontan con voi non vegr.a ;
Non è dell’ armi sue la caccia indegna.
Piena di strali ha la faretra, ha T arco ;
Ha lacci mille, c mille reti pronte-,
E sa dove le appiatti, e dove al varco
Meglio si ponga in piano.in vallo, in monte;
Verrà con voi, nè vi sarà mai parco
Del suo favor ; e svelerà la fronte,
LA CACCIA.
Perché meglio ri segua, e meglio intenda
Il voler vostro, dell' usala benda.
Con voi verrassi, e da begli atti rostri,
E dal guerriero volto, invitto arderò
Saetterà non pur le fere e I mostri
Oh’ bau nelle selve il loro albergo vero:
Ma tra le ninfe ancor qual più si mostri
Di ritroso voler, d'animo altero:
Nulla sari che 1 vostri passi miri,
E dietro non vi mandi alti sospiri.
Quell'aspetto che par rigido e duro
Lassi nella campagna al ghiaccio e al Sole,
Sodo e forte chiamar con più sicuro
Nome tra donne di valor si suole :
In bel volto rigor nativo e puro,
E che mille arti, che l' adorni e cole, [bra
Splende assai piùchc molle faccia all’ om-
Nodrita e di lascive industrie ingombra.
Quel bel giov ane piace, c quello accende
L’ oneste donne d' amorosa face.
Che con guerrier costume alto risplende
Dal dorso d' un dcslrier ginnetto o trace :
Che al destinato segno il colpo Intende
Della sua lancia ove spezzar la face ;
E clic di sé fa nobil mostra fuore
D'ardito cor, di marciai valore.
Tra gli Dei tutti dell’ etade antica
La stessa Dea, eli’ amor dal Cielo inspira,
Di Vulcan moglie fu, di Marte amica.
Ambo rozzi, ambo Dei d’ incendio e d'ira :
D'uno in altro sudor, d'una fatica
In altra la matrigna Ercole tira ;
Ed indi lui, non Ganimede molle
Stringer con Ebe in matrimonio volle.
E nelle selve mille rolte e mille
Vagante cacciator beiti ritrova,
Onde colpo d’ amor scocchi e sfavillo
Fuoco, che più che in mezzo agli agi giova:
Né con gioia volgar per l’ aspre ville
Fortunato aniator imprime c cova
L’erboso letto, o pur al ciel sereno
Con la sua dolce amica accolta in seno.
E quali ancor nelle eliti più lieti
Sperar si puon, che bella ninfa seco
Aver, ch’or guidi i ean per li secreti
Del bosco, c sappia ogni ferino speco;
Or sieda al varco e le nodose reti
Tacita osservi in loco ascoso e cicco.
Dell' ozio e del lavor sempre compagna,
Ch’ al cacciator può dar l’ erma campagna.
Cosi gii per le selve antiche d' Ida
Al troiano pastor lunga stagione
Dokc consorte fu, seguace 6da,
Care delizie la selvaggia Enone :
Ned ci recato avrla l'ultimo strida
Del suo gran padre alla regai magione.
Se contento di lei, pompe ed onori
Sapea fuggir di cittadini amori.
Su dunque .amante, non schivar l'oscurc
Selve piene d' orror, d'uomini vote.
Ove abbia errando a far le membra dure,
E brune forse le vermiglie gote :
Impara quivi a farti c le nature
Delle fere, e le patrie e Torme note' :
Sappi quali armi ponnn, c qua! ponnoarti
Di varie cacce varie palme darti.
Varj nemici sono ; c vario * l' uso
Delle battaglie, c vario il sito c il suolo
Degli steccati ; c se restar deluso
Non vuoi, serbar non devi un modo solo :
Chi vi va d’armi c d’animo confuso,
Or con vergogna riede ed or con duolo :
E molle soli le cacce, ardito intendi,
Che contengono in sé perigli orrendi.
Fuor che il cinghiai, ogni animai che 'I
Ha bipartito, con le corna offende : [piede
Ha le zanne il cinghiai; con queste fiede.
Con queste a terra il suo nemico stende ;
E sol l' indico onagro altero lncede[fende:
D’ un corno in fronte ; e pur l’unghia non
Di quel che piantati poi più dila in terra,
Soglion co' denti soli altri far guerra.
L'astuta volpe e il lupo empio e vorace,
E la lontra e il castor usano il morso ;
Poco morde la lepre, c poco face
Difesa fuor che col veloce corso :
Altri son poi che l' unghia hanno pugnace
Non men che il dente ; 6 tal lo stolid’ orso.
Tal la lena c il ccrvicr d’acuto sguardo,
E tal 6 col Iron la tigre e il pardo.[acutc,
A questi eh' unghie bau torte, o zanne
0 dalle tempie il corno esce sovrano.
Non può talor bastar nobil virtude
Di ratto veltro, o di feroce alano :
Coni icn ancor a te, perchè l'alute,
Di noderoso spiedo armar la inailo,
E quando il forte can l'orecchio afferra,
A parte entrar delta dubbiosa guerra.
Usano alcuni 11 cavo ferro e il foco
Che, come folgor suol, lampeggia e stride
Per l’ alle selve con un mormor roco,
E con la palla da lontano uccide :
Ma noi devi tu usar in ciascun loco.
Per nou far le tue man stesse omicide
De’ tuoi stessi compagni e della folte
Turba de’ cacciator che vanno in volta.
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38} PORMI DIDASCALICI.
Altri fan cava fossa al lupo fèllo
Ch' una ribalta lira sovra la borra,
E per ai uovo «'appratir un «ivo agnello
Alto si che sallando egH noi tocca;
Vavvi il ladro ermlel tratto al siathelto,
E lue din- prende il salto, entro trabocca ;
Chè la uhi lui ribalta al peso cede,
E poi sgravata a rlsserrar si riedr. [co
Altri un lece lo gli asconde a meno il var-
Là dove il cibo Insidioso pende;
Il laccio, cobi' è tocco, a guisa d’arco
Scocca tosto, e ai stringe e II piè gli prende.
Altri Invece d* un laccio nn Pastori carco
Con una adunca falce anco gli tende.
Che co» percossa ridurr sa e cieca
Scarca in due parti ovunque coglie. Il seca.
Ecci altri ancorché del salato grasso.
Che l’opimo malal ha sulla schiena.
S’unge i coturni, onde rii passo in passo
Ne ritenga l’odor l' impressa arena :
Indi s' immarthia, e tieii nascoso e basso
L’arco . che al suo scoccar scoppia e balena:
Segueh) Il lupo, e mentre l’orme fiuta
Fassl ecco segno alla mortai feruta.
Là dove suol passar l’orso alle piante,
Che son earche di pomi, alcuno addetta
L'na statua eh’ ha tf uom membra e sem-
biante,
E poi non Itmge a saettar s'appiatta :
Vira l’orso, eri alla statua ch’ha datante
Imputa ogni ferita che gli è fatta ;
Con lei s' affronta, e il vero arderò affretta
I colpi Intanto fin che a terra II getta.
All’ uro è chi cava la terra, e face
Sovra la cava di graticci un tetto,
E copre il tetto poi <T erba fallace
Si ehe di prato tira verace aspetto.
L’ uro al passar rompe I gralied e giace
Tosto In ascose Insidie avvolto e stretto;
E mugge e fa dal sotterraneo speco
Tutta muggir la negra Krdnia seco. [Feda,
Ma se alcun tra l’armento a evira che
Move toste al soccorso ; e spesso accade
Che frettoloso nella stessa froda,
A fargli compagnia, mina e cade.
Allegro il cacdator corre alla proda
Servirò ornai dalla lor feritade.
Nè fin che d* atto m lor spirito senta
D'Ira o di vita. Il saettar allenta.
La volpe è ladra, di natura astuta ;
È sospettosa, è timida, è guardia ga :
Ascoila intorno ogni rumor, rifiuta
Ogni gioco, ogni mostra, ogni lusingai
Sovente I suoi consigli or lassa, or mata.
Comunque più l’ occaslon l’ astringa ;
E pure al furti suoi si spesso riede
Che talor pon dentro agli agguati il piede.
Quando presso al cortil ,dov 'ella intendi
Il vigilante gallo e la consorte
Aver l’albergo, un lacrio tu le tenda
DI canape che sia corrente e forte;
La sua gola farà che Iti l’ appenda
Come scherma, e la condanni a morte :
Ne' boschi schiva ella più scaltra i lacci ,
Se non ha can che la persegua e cacci.
Ha la sua casa attorcigliata e scura;
Cento bocche all' entrar, cento all’ uscire.
Se cacciar ne la vuoi, tutte le ottura
Di fumo e fuoco che là dentro gire r
Una aperta ne lascia, e potivi cura,
Chè tosto la vedrai quindi fuggire,
Ed Istordita dalla fiamma accesa;
La rete non scoprir ehe le avrai tesa.
Debboli ancora dir con qnai consigli
Potrai tu far che l'elefante cada.
Onde sema contesa in terra il pigli,
Poich’è priva di lor questa contrada?
0 conte rubi all’aspra tigre I figli
Tenendole gli specchj in sulla strida.
Perchè nella sua immagine che mira.
Frodi sè stessa, e I passi allenti e l’Ira?
Mille altre Insidie sonci e mille modi
Che usar potrai.quando ingannarti caglia.
Più che vincer le fere, e mille modi
Di poterle pigliar senza battaglia ;
Ma II cieco ooor delle nascoste frodi
Quel dell' aperto ardir già non agguaglia :
E il piacer vero delie cacce è quello
Che chiama l'aspre fere a far duello.
È diletto plebeo gravar il dorso
Al tuo destrier di copiosa preda,
Se non vedi anco il veltro tuo eh’ al corso
Segua la lepre, e tutti gli altri ecceda ;
0 il forte alan, die con possente morso
Il feroce cinghiai t’arresti e il fletta;
0 il can sagace ehe con alto grido
Segua il eapréo legger di lido In lido.
Avean gli antichi contra i cervi un modo
DI caccia, eh’ or la nostra età non usa,
0 l' usa In poche parti ; un dolce frodo
Onde la tema lor ne vico delusa ;
Sema reti adeprar, nè tender nodo.
Nè di reti tener la selva chiusa.
Si toglie a* cervi timidi <f uscire
Fuor d' un cervo eoa fin, tutto l'ardire.
Conte all' orecchie al trut la fanvaapporWt
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LA CACCIA. 383
Esser di ceni il gregge In alcun Uto,
Escori senza tardar fuor delle porte
I cacciatori ad un comune invito;
E legge è che ciascuno un fascio porte
Seco di verghe col medesmo rito;
D’ aggurzo ferro l' tuia punta armata
Tutte le verghe; c l’altra hanno forata.
L’aguzzo ferro va piantato in terra;
Per 0 fori si fa eh' un fune passi
DI mano in man ; e come s' usa in guerra
De* Atti pali uno steccato fassi ,
Che tutto il campo in scn si chiude e serra,
Ove de’ ceni ascoso il gregge stassl ;
E tra l' un palo e l' altro hanno le tese
Corde di penne un mostruoso arnese.
Le verghe, dalia punta die discende
Nel suolo, han cinque piè fino alla dma;
E l’ intervallo lor diree ne prende,
0 quanto al silo più destro si stima :
Dall' una all'altra il canape si stende
Fin che ritorna, onde parti da prima;
E lo spazio die resu in mezzo volo,
Empion le penne di continuo moto.
E di queste il color delle viole
Altre ne tinge , altre il purpureo inostra:
Tremano ai venti , e con tra a’ rai del Sole
Splendendo fanno una tcrribil mostra.
Che spaventar de' cervi il gregge suole,
Se vengon per uscir fuor delta chiostra ;
Mentre cacciali son d’ alti rumori
Che fan U dentro i cani c i cacciatori ;
Perù che dentro a quel fallace parco
Parte de’caeciator entra e trascorre;
E parte si dlspon di varco In varco
Ove meglio si possa al cervi opporre;
E ciascun porU le saette e I’ arco :
E mentre il cervo 1 piè ferma , ed abborre
La strana vista , ecco egli mira e scioglie
L’ arco, e di colpo non pensalo il coglie.
L’arte non è vuigar, leggiero il gioco,
Poca la preda che se n' ha sovente ;
Chè raro nn cervo sol da loco a loco
Si move mai, se i cacclator non sente :
Forniti di grandi arme e d’ardir poco
S'adunan essi In numerosa gente, [ paschi,
Quando vogllon cambiar gli alberghi c i
Tremando ad ogni foglia anco che caschi.
Alcuno è, eh’ a pigliar II caprlo snello,
O la picdola lepre avvezza I pardi ;
E domar lenU il naturai lor fello
E brìi all’ Ira neghittosi e tardi ;
Ma d’ uopo è di moli’ arte , e d'usar (quello
Che più si stima) ognor mille riguardi;
Ch’ ogni picclola offesa 11 foco irrita
Delia superbia lor, che par sopita,
E perciò non è par questo diletto
A quel de' can, che' I cor bauno di tempre.
Che ad ogni tuo voler si sta soggetto.
Pronto e disposto aseguiurti sempre:
Nè grave offesa è , die ’l lor vivo affetto
Verso il proprio signor malspegoa o siem-
Soffrono ad or ad or minacce e gridi, [pie:
E percosse anco ; e sempre son più fidi
Fra tutti gli animali che Natura
Produce sotto ia girante Luna,
Scorri , e le vite esamina , e misura
Le virtuli , i costumi e la fortuna;
Nè troverai tra' boschi o tra le mura
(Ch'amislA dentro il mar non hai tu alcuna)
A cui per unni fede, utnil servaggio
Abbia obbligo maggior l'uman legnaggio.
Trovato s’è dii per le selve antiche,
Per le petrose c solitarie grotte ,
Clic mai raggio di Sol non rende apriche.
Nè rompe il denso dell’ oscura notte,
S' averi fatto una o due fiere amiche,
E le native lor ire interrotte;
Orsi , lupi , leon , perchè si taccia
La brutta simia a noi simil di Taccia.
L’ industria umana tanto oltre s' avanza
Tra l’ empie fere che n* asconde il bosco,
Che fin draghi nudrir altri hanno usanza ,
Di fiera vista c di terribil tosco :
Custodir delle vergini la stanza
Vien dato lor con guardo orrido e fosco ;
Stan sulle porte in sé stessi rivolti,
E tengon gli occhi in ogni parte volti.
Han l' ale a sollevarli alti da terra,
E farli agili e presti . alti e possenti :
Eresiata hanno la fronte , e per far guerra
Gli artìgli da germir curvi e pungenti!
Mostra la bocca, quando si disserra
Tre lingue acute, e tre schiere di denti:
Di color verde , e pallid' oro splende
Il duro usbergo delle scaglie orrende.
Strane vigilie , e guardie orride c nove,
E che a pensarvi sol la mente abborre;
S’ avesse avute di si dure prove
Custodie già ia sua ferrata torre.
Tardato avria lo stesso amante Giove
Venirsi , o Danae , nel tuo seno a porre :
Nè di ricco oro avria nembo sereno
Fattogiammal,ch'ei non temesse almeno.
Ma che? nè lupi , nè leon , nè draghi.
Ned altra fera, che da! bosco toglia,
Fia mai che di servar teco s' appaghi
Di
384 POEMI DIDASCALICI.
Lunga amicizia di sua propria voglia :
Ned è amor che la spìnga o clic l' invaghì
Di far la guardia alla commessa soglia,
Ma sol costume , e che per forza apprende,
E van spesso natura o sdegno rende.
Conobbi io un caralierdi molta lode,
Abitator di questi alpestri monti ,
Onde il Tiroavo Ira sassose prode
Manda tributo al mar da nove fonti :
Nobil era , era ricco , ed era prode ;
E i suoi fatti a gran spazio erano conti:
Accresceva la sua felice sorte
Sovra ogni grazia la fedcl consorte.
Ella era come bella onesta e saggia,
E cara a lui come la vita stessa :
Aveva un orso ancor clic la sclv aggia
Ira mostrava aver tutta dimessa :
Da sè sol giva alla frondosa piaggia
(Ch’ ogni ampia libertà gli era concessa}
E poi quasi un del gregge, al fin del giorno
Tornava al letto dell’ crìi soggiorno.
Quandoecco plcciol moto e lieve offesa,
Che contra lui da bassa mano uscio,
Gli fe' scordar I’ obbedienza appresa,
E ritornar nel suo furor natio :
Nè contra l’ offensor avendo presa
Vendetta a modo suo, clic gli fuggio;
Posesi a ricercar per tutto il tetto
Dove sfogar l’ imperversalo affetto.
Con le labbra bav ose e con le ciglia
Che parean vive bragia e con muggito,
Che intronava non pur quella famiglia,
Ma i vicini a gran spazio, ov' era udito;
Verso la stanza alfiii la strada piglia,
Ov' eran soli allor moglie e marito,
Ed al proprio signor strappa repente
Fuor delle braccia la moglier gemente.
Il cavalier immantinente il guardo
Gira alta spada che pendea dal muro,
E siccome guerriero era c gagliardo,
Corre al soccorso intrepido c securo :
Ma non può tanto che non giunga tardo ;
Chè il bel volto che dianzi era s) puro,
E fatto ornai tutto una piaga sotto
La crudel bestia , e tutto il petto rotto.
Il cavalier dall' ira c dalia doglia
Babbioso più rhc la rabbiosa fera,
Mille volte la spada, ovunque coglia.
Caccia nell'orso infino all' elsa intera :
Ma quanto piu 'I percuote c più l’invoglia.
Come la donna sia pur che io fera,
D' incrudelir in lei ; ni pria si sazia.
Che morendo ci, tutta non l' apre c strazia.
Sovra il lacero corpo e sanguinoso.
Che mentre visse egli ebbe In tanto prezzo.
Lo sventurato, non ornai piu sposo,
Restò muto ed attonito gran pezzo :
Ma poi che l' aspro duo) dall' angoscioso
Seno trovò d’ uscir la via da sezzo,
Si fcr di pianto due profondi rivi,
Gli occhi d' ogni conforto estrani c schiv i.
Pianser di lui, pianser di lei la sorte,
Sorte maligna, a molte miglia intorno,
Gli uomini tutti; e paventose e smorte [no:
Le nlnfccheinqiiel monti hanno sogglor-
E parve di quel duol fatto consone
Tutto anco II montuoso aspro contorno ;
E con un’ ampia sua tristezza oscura
Del reo caso imitò l' empia figura.
Questo accidente si diverso e strano,
E dell’ uni versai pietà si degno,
Dovria scaltrire ogni intelletto umano,
A non far sovra tal bestie disegno,
Ch' accese spesso da furore Insano
Di sè stesse non hanno alcun ritegno.
Alcuna potestà ; ma sfogati l' ira
Pur contra chi primiero a tor si gira.
Le fere eh' han per patria erma foresta,
Son di natura ben parli ed effetti :
Ma non per questo, che 1' umana gesta
Le accolga sotto a' suoi medesmi tetti :
Hanno contraria a noi voglia ed infesta ;
Nostri esercizi son, nostri diletti
Dati per farci nelle guerre accorti ,
Invigilando alle lor cacce e morti.
Ma se pur forse alcun prende vaghezza
Di mansuete far fere selvagge,
Nell’ elefante avrà maggior certezza.
Clic soggetto gli stia , che non l' oltragge:
Ma s’el si sdegna poi , maggior fierezza.
Maggior superbia dentro al cor attragge ,
Maggior desio di vendicar I’ offesa.
Miser chi contra lui piglia contesa!
Fra quadrupedi lutti , onde mcn sole
Sono d' abitator l'enne foreste,
L’ elefante scordar più facil sole
Tutte le voglie sue dure c rubcsle,
E si come in si vasta e grave mole
Pur qualche lume di ragion s' Innestc
Fede intera serbare al suo maestro.
Ed a’ precetti umani esser più destro.
E forse torto assai gli fe’ Natura
Che perfetta non è mal sotto il cielo,
A non por il suo gregge infra le mura ,
Con l’ uom che ne prendesse amor e zelo.
Siccome regger con continua cura
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LA CACCIA. 38S
•Suole il cavallo e l'asino e il camelo: Ma poi clic incauto egli restò sul lido
li fargli albergo I boschi incubi e strani 1)’ Ilio per man di Diomede steso.
Rende ferini i suoi costumi umani. Essi tosto voltar l’ animo Infido
Ma de' suoi modi e della sua amlstade, Dal vinto al vincitor : né grave peso
Clic lien con Tuoni, qul'l ragionar è a voto; Lor parve il giogo, e l’omicida stesso,
Chè noi soglion produr queste contrade, Clic avea di furto il lor signore oppresso.
Ma peregrino vicn dal cicl remoto : lo non dirò dell' inumano Trace
Vieti condotto alle volle, ma sì rade, Che usava invece di scagliosa avena
Che si può dir che ne sia quasi Ignoto : Alla fame de’ suoi destrier vorace
Ed è sol cosa degli re sublimi : Di carne umana far lauta ogni cena.
Non convien tanta mostra a popoli imi. Chè la garrula Fama ancor non tace
Gii altri animali poi , che teco uniti L' empio suo fin , la sua debita pena ,
Fanno il peculio tuo, le lue ricchezze , E l' alla Infedeltà de’ suoi destrieri ,
Che lavoran le ville umili e miti. Che ancor lui si mangiar ingordi c fieri.
Degni son ben che tu gli regga e prezzo : Ma forse a voi, nobll Signor, non giova,
E giustizia, è pietà che tu gli aiti ; Che d' animai sì generoso c regio,
Ch’essi soffro» per te mille gravezze: E clic vicino a vincere la prova
Tirano i carri e i duri aratri questi; D’Alene fu, si scemi il chiaro pregio :
Quegli II latte li dan , danti le vesti. A voi , eh' armato a Tar che a tempo mova
Ti portano I destrier lì dove freme Un buon destrier non sete meno egregio.
Tra spade e lance il furibondo Marte: Cli’a sostener di porpora vestito
Fi potino, ove si spera, ove si teme, L’onor di Roma e il suo celeste rito.
Spesso or la vita, or la littoria darle: A voi , che quando il popolo fedele
Dell’ util che ne traggi amor e speme Si disponesse a passare oltra il mare.
Ben puote verso lor proclivo farle : E tor con l'arme a gente aspra e crudele
Ma (se il vero s’ ha a dir) non puro affetto, La gran tomba di Cristo c il sacro altare.
Che lor s'accenda verso te nel petto. Foco spavento non sareste de le
Sono d’ ingegno stupidi , e il servaggio Piagge ove il Sol nel primo giorno appare;
Che fanno a te , lo fanno altrui non meno : Nè poche schiere vi trarreste dopo
Non è distinzlon nei lor coraggio. Di guerrieri cavalli a tanto uopo ;
Dallo strano, a colui che lor dì 'I fieno. Chè 11 pastor che dal santo Vaticano
Il destrier leva il suo signore e il paggio, Pasce la greggia , ove adorato alberga,
Eilnemicoanco,comehain bocca il freno: A voi solo daria l’ onor sovrano
I-a pecora dì 'I latte a chi la munge. Di regger la sua vece c la sua verga
E il bue tira l'aratro a chi lo punge. Nè consiglio miglior, nè miglior mano
Fra tutto il numeroso equino gregge. Trovar potria , perchè si pianti ed erga
Clic superbisce tra il rumor dell’ armi , La sama Croce in quei famosi lidi ,
Di tre forse , o di quattro anco si legge Gite a Dio furon si cari c poi si infidi.
11 chiaro nome negli antichi carmi; Fra tanto sotto voi socura vive
Che si fecer nel cor immobil legge, Romagna e lieta il valor vostro ammira ,
Lì dove schiera bellicosa s' armi, Che purgate per lei tutte sue rive
Mai non levar, fuorché quel sol, sul dorso, Vede , e de’ masnadier levate all' ira;
Cile lor prima insegnò cedere al morso. Siccome ancor del gran Pompeo si scrive
Un tal n’ ebbe Alessandro ; e se si crede, Che purgò ’l mar di gente infame e dira:
Nella fronte egli avea corna di bue : Ei per mar , voi per terra avete aperto
Osare un tal , a cui segnato il piede II passo a Roma , ch’era pria si incerto.
Anterlor d' umane dita fue : Nè pur incerto, anzi ornai fatto un duro
Cillaro al suo Castor mantenne fede , Varco di gir a morte ; ornai non era
Ad Adrasto Arlon : forse altri due Franco riparo altrui fossa, nè muro
A questi aggiunger cercheresti invano, Dall’ostil rabbia trascorrente e fera.
Cile distinguesser dal signor lo strano. Molto Roma vi deve ; e se mal furo
Di nobll razza, di famoso grido, Degna mercè di qualche Impresa altera
Di gran beiti furo i cavai di Reso: Le statue e gli archi, a voi fian parchi onori
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POEMI DIDASCALICI.
I bromi o i marmi e gli argenti anco e gli
ori.
Ma dove non potran gli ori egli argenti,
Ei bronzici marmi, opred' in tenne manii
NC torse i carmi ancora e i dotti accenti.
Che il tempo non può far debili o vani.
Supplirà la gran mitra e gli eminenti
Fregi, eh' ecceduti tutti i gradi umani,
Ch’ a voi destina il Cielo, a voi devoti,
Pregan lutt’i mortali e ne fan voti,
A voi duuque, cui il Cicl largo consente
Delia religione e della spada
Gemino vanto, a voi schermo possente
Della Chiesa di Dio, comunque accada,
Dei feroce deslrier con cui sovente
TI faceste tra l’ arme aperta strada.
Non piace udir ch’altri ragioni e frodi
li merlo suo delle dovute lodi.
Io noi frodo. Signor, e so che l' arte
Dell' arme, senza lui, poco si prezzar
II destriero è ’l maggior pregio di Marte,
E l’ onor del guerriero e la salvezza.
Ma se alla fè si mira, hi questa parte
Sola dico io che ’l cauc ha più fermezza.
Ha maggior gratitudine, e più pronto
A cenni del padron in ogni conto.
Serve col dorso il can, serve col fiuto;
Caccia la fera, e ite investiga i’ornte:
Guarda le case;ed Ita T udirsi acuUydorme.
Che sente e quando ei veggltia e quando
Porge al signor anco co’ morsi aiuto.
Nè lo puon spaventar ben folte torme :
Se d’ uopo anco è morir, morte non schiva.
Pur che ’l padron nc sia difeso e viva.
E se sortito da Natura avesse
Quest’altea dote ancor fra tante e tante,
Glt’ovc guarda le porte, ei conoscesse
Qual fosse del padron oste od amante.
Non credo elle bramar l’ uomo potesse
Più dolce compagnia, nè più pressante;
Gli altri animali soli dell’ uman seme
Seri I, ma il canservoecompagno insieme.
Nè t’ è d’ uopo di giogo o di capestro.
Di pungolo o di spron, perchè li serva.
Ei serve per amore umile e destro.
Nè scorgi ili lui giù mai voglia proterva :
Segueti per camniin piano ed alpestre.
Per valli c boschi, o geli il cielo o ferva.
Nè tra via fera mai, ned uomo scontra.
Che a darteli segno, lor non latri incontra.
Lungo fora a narrar tutti gli esempi
Dell’alta fè, dell’alto amor de’ cani,
Chè per tutte le storie e in lull’i tempi
N’ han mille e i nostri popoli e gii strani.
Altri de’ lor padroni i duri scempi,
Ch’ erano ascosi, han fatto aperti e piani,
E querelali i taciti omicidi
Agii altri re con flebili urli e stridi.
Altri ne’ roghi de’ signori estimi,
Ch’ arder vede ano c ne’ sepolcri stessi
Per grande amor si son cacciati e spinti,
E s’ hanno eletto di morir cou essi.
Che maraviglia poi che ’l del dipinti
D’ ardenti stelle in sen se gli abbia messi,
E ne vaglia serbar memoria eterna.
Che U mondo lutto riverisca e scuoia?.
Or poi die sai, ch’altro animalco' denti'
Altrocou l’ unghie, altro col corno neoce;
Abbi e tu nelle mani arme possenti
Da farti loro incontra aspro e feroce :
Abbi appresso i tuoi cani anco istrouenti
AI daino, al cervo ebe sen va veloce,
A I verro e all’ or» ebe ti viene a fronte,
E da lungi e da presso atti a far onte.
E tu di litui, se vorrai por mente
Alle vestigia, onde s’ imprime il loto.
Sempre indizio vedrai, che facilmente
Di qual spezie oguun sia si fari nolo.
Ch'altri fa Torma stretta, altri patente;
Tra l' uno e T altro dito Miri di voto
Nulla vi lascia, altri vi lascia molto.
Ed altri ha lungo il piede, altri raccolto»
Altri grave cammina, e nell’ acena
Stampa col piè lutto il calcagno ancora ;
E così lieve altri sen va che a pena
Là dove il piè ripou, la terra fora.
Ma ned io spero già uotizia piena
Dartene in podii versi, od in breve ora ;
Ed alcun segno osserverai tu spesso,
Cile non può fare ogn’ idioma espresso.
Mancali sovente le parole all’ arti,
Cile d’insegnare altrui T uomo si prende ;
E ci son cose, c delle cose parti.
Cui proprio nome ancor T uso non rende :
Ma nolo può !’ esperienza farti
Uò che nou bene in carte altri distende :
L'occiiio, maestro del saper umano.
Basta a scoprir quel che s’ ascolta invano.
Nestor, che visse tre secoli e ii cìglio
Girò per molle parti, a molti oggetti.
Molto anco seppe ; e di Laerte il figlio
Non fu si scaltro ne' paterni letti.
Come si fece nel suo lungo esigilo
Col veder varie genti, abiti, affetti.
Leggi, religion, cibi e costumi.
Lidi, selve, moutagne e mari e fiumi.
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LA CACCIA. 3*7
Tu dunque, o vigo cacciator gagliardo,
Quel che prima non vai dentro le selve
Imparando verrai col proprio sguardo.
Della natura dell’ erranti belve.
Solo fa, che non sii scordato o tardo
A gir mirando, tosto che t’ inselve,
Questo c quel segno ; ed affatica e stendi
Le luci a quello ancor che non intendi.
L'Intenderai dopo una volta o due
Che tu ne vegga uscir conforme effetto.
Tu non conosci ’l cervo alT orme sue;
Seguile Infin che tu n'arrivi al letto :
E s! farai l’esperfenxe tue
Selenio divenir sema difetto.
Pognamo II caso : una gran lustra, e vota
Tu vedi in meno all* erba ; ella t’è Ignota.
Pon mente intorno intornoa tutto 11 loco;
Osserva tutti i segni e tutte Torme :
Se poi tu trovi II cervo, a poco a poco
Imparerai eom’ei cammina e dorme;
E U farai del boscareccio gioco.
Tra molte prove indubitate norme :
Cbè d’ogni fera il terren molle, e Feria
Alcun partirolar vestigio serba.
Con tutto il ventre in giù steso si corea
Il cervo, e sulla schiena appoggia il corno :
In lato si ripon l’immonda porca,
E gode mollo fango aver d’intorno :
Vedi come in sè slesso il can si torca?
Tal il lupo si sta nel suo soggiorno :
Da mine ambagi Intorniato e cinto
La volpe ha sotto terra il labirinto.
Co’ piè davanti si solleva e monta
Dalla sua cova in aito II fier maiale :
Le ginocchia datarne in terra impronta
Il cervo e prima con le groppe sale :
La lupa lascia e lascia T orsa Inconla ,
Quando sorgono in piè, noto segnale :
Chè questa e quella dell' unghiata zampa
Diversa effigie vi dipinge e stampa.
Il lepretlin di passo in passo nn piede
Per lo semier eh’el lìene alto sospende;
Onde dell’ orme sue dovunque incede,
Una triangolar forma si rende :
Ma non di passo giù sempre procede
Fino alla cova ove s' adagia e stende :
A salti va dove si vuol ripone,
Chè ’l segno non ne possa altri r ac corre.
Fa che lo miri ancor ciascuna fera
Quel che dall' alvo grave in terra mande,
E tragger ne potrai scienza vera
Se sia presso o lontan, pkciola o grande ;
E di qual specie ancor; chè dall’altera
L’ iimll belva diverso il fimo spande :
E tra F umili e tra F altere stesse
Sonvl non mcn por differenze espresse,
Seall’altequereeancovonai por mente.
Vedrai se II cervo o se il cinghiai vi passa i
Chè quei vi frega II tergo, e questi II dente
Aguzza, e il segno c questi e qoei vi lassa :
Dove cammina il cervo anco si seme
Che le tenere frondi urta e fracassa
Con le ramose corna, e tolte muove,
E strepitar vi fa le selve nuove.
E il porco, dov’ et va la terra incava,
E le dolci radici estirpa e rode :
Le fosse vi si scorgono, e la bava
Talora, e spesso anco il grugnito s’ode.
Kompì pur, rompi ogni pigrizia ignava,
E frequenta le selve ardito e prode,
Chè scoprirai di mille fere e mille
Secreti con le tue proprie pupille.
Vedrai se cangia la feroce Iena
Sesso dopo ciascun anno finito ;
E s’egli è ver che si discerna a pena
Dall' umane parole 11 suo muggito :
Vedrai se sia F adultera leena
Conosciuta all’ odor dal suo marito :
E dove usi passar la volpe pregna.
Che In man del cacciator si raro vegna.
Vedrai s'è ver che dalla immonda urina
Che spande in terra la macchiala lince.
Nasca l’elettroed una gemma fina [vince.
Che di lnce II carbonchio agguaglia e II
Vedrai se così drillo ella cammina
Per la via, eh’ a tener prima comince.
Che mai nè ’l piè nè gli ocelli indietro volga
A rosa che dal suo cammin la tolga.
Vedrai se II Inpo, che d’ avere intende
Dietro i pastor, perchè non si quereB
La pecora, eh’ ha in bocca, non l’offende.
Fin che da lor non s’allontani e celi.
Astuto ladro nel fuggir sospende
Da' duri morsi i suoi denti crudeli.
Perché co’ suoi lamenti ella non dia
Segno a’ nemici suol della sua via.
Vedrai, se dentro il termine compresa
Tra due volle sei giorni, abbian costume
Tutte le lupe di mandare II peso
Del lor ventre a goder F aereo lume :
Vedrai se il cervo dal veleno offeso
Corra a mangiar i duri granchi al fiume;
E se masticar suol le serpi felle,
Che eoi Dato da’ buchi attragge e svelle.
Vedrai di ebe nodrir Torso si suole
Mentre egli sta nella petrosa tana;
POEMI DIDASCALICI.
388
Che mentre cede all'aspra brama 11 Sole,
Mai non esce a veder l’aria sovrana :
Vedrai, s’ci nasce, una carnosa mole
Chenon ha membra, quasi informe e vana;
E se la madre poi mentre lo lambc
Gli forma c capo c busto c mani e gambe.
Vedrai di più, se vorrai star riposto
LA dove s’incrocicchino due vie,
Le streghe far i loro incanti, e tosto
DI lupe prender l’ apparenze rie :
E tosto anco, che ’l Sol non più nascosto
Al mondo rende il luminoso die,
Rimettersi l'unian sembiante attorno,
E fere esser la notte, uomini il giorno.
Ed oh se tl traesscr mal le stelle
A ritrovar la gran cerva d’ Arturo,
Ch’ha tutte di rubi» le corna belle,
L’ unghie di ferro risonante e duro ;
E simile al monton di Frisso e d' Elle
Il vello d'oro rilucente e puro!
Oh se dal elei gii mai ti fosse dato
Passar dove si cela, o te beato! [giorno
Cacciando dentro una gran selva un
Artù si ritrovò smarrito c lasso.
Sovragglunse la notte, c d' ognintorno
D’uomini il loco era e d’ alberghi casso.
Ecco la cerva dal lucente corno
Si vide innanzi errar di passo in passo :
Maravigliossi prima, c poi si mosse
Per farne preda se possibil fosse.
La seguitò per lungo tratto invano
Tracndol sempre il luminoso lampo.
Ch'or presso si mostrava ed or lontano
Li dove il bosco meno avea tl’ inciampo :
Ecco e girando gii occhi a destra inatto,
Vide nel mezzo d' un piacevo! campo
Sorger dal piano un monlicel sassoso,
Cli' avea nel cupo ventre un antro ascoso.
Tra sasso e sasso in giro iva un sentiero
Stretto ed occulto a ritrovar il foro :
Quivi sì mise l' animai leggero,
Che ’l corno avea di gemma c il tergo d'oro.
Sceso allora il gran re dal suo destriero
Legollo al tronco d’un frondoso alloro,
Cheombrava in su l' entrata, epoi si mise
Dentro allo speco per le pietre incise.
Per sotterranea e faticosa via
Seguendo ognor per folte ombre la luce.
Che dal ricco animai splendendo liscia,
Tanto in giù scese l'animoso duce,
Ch’ornai non lungi aver la magion ria
Di Dite si pensava, c Caroti truce :
Quando ecco traversare innanzi 11 calle
Vide una ninfa dell’ombrosa valle.
Pieno un canestro, e della vesta pieno
Tutto avea ’l grembo di gelate stille.
Che quinci e quindi gocciano dal seno
Dell’ umida spelonca in forme mille,
E diiengon cristallo, ove sereno
Raggio di Sol non è ctye inai sfa v illc :
Lusingando la cerva a lei pervenne.
Ed umile a' suoi piedi I piò ritenne,
Qual cagnoletto suol, elle in strani lidi
Lungi dal suo signor vagò gran pezzo.
Quando il rivede poi co’ piò, co’ gridi
E con la coda fagli onore e vezzo.
Cominciò allora il re : Donna che annidi
Qui teco fera di si nobil prezzo,
E che me vago trasse in questo speco.
Qualunque se', sia la tua grazia meco.
Dimmi, ove lo sono, e sin dove s’interna
Nel ventre giù della terrestre mole
Questa del tuo soggiorno ampia caverna.
Clic si nasconde il suo sembiante al Sole :
Compiaci al mio desir, fa eli’ io discerna
A qual gente prestar albergo suole :
Che poi che, bella ninfa, io te qui veggio.
Nò vota altrove ancor creder la deggio.
Ma tu chi sci , c he coraggioso lassi
Del vago giorno le fiorile sponde.
Per cercar della notte i regni bassi.
Ove I secreti suoi Natura asconde?
Chè gii senza il voler tu qui non passi
Di chi le grazie sue dal Cielo infonde :
Nò suol la cerva essere scorta, fuorc
Cii’a rogai gente e d'animoso cuore.
Cosi disse la donna, c il re sicuro
Nelle sue molte c gloriose imprese.
Che dal elei chiaro infoio al centro oscuro
Per tutto il nome suo fosse palese :
Figlio di Pandragonc io sono Arturo,
In brev I note la risposta stese ;
Ed ella : 0 chiaro re, gii non ò vana
La scesa tua; tu vai dritto a Morgana.
Tu passerai da questa in altre cave,
Chè più che non potresti creder, molle
Nell’opaco suo sen la terra n'ave
Sovra varj strumenti alle e suffoltc.
Ed atte a sostener l’ immenso grave ;
SI come muro fa, di' in forma volte
Di mezza sfera nobile architetto,
Sovra cui tutto si riposi II tetto.
Passerai d’ una in altra, es’ or decline.
Converri poi che tu l'elevi e monte
Tanto, clic giunga a riveder aitine
Il chiaro dì sull'apice d’un monte,
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389
LA CACCI. 1
Di cui nullo è clic tanto s’awicine
All’ auree stelle con l’eccelsa fronte:
Quivi la tua sorella ha la sua sede,
Che quasi il mondo sotto a’ piè si vede.
Mostrerotti la via, se n’hai desire;
Vien meco, e cose percainmin vedrai.
Che non ti spiacerà forse all’ uscire
Tcco portar, e non scordarteli mai.
Disse e si fc’ la cerva innanzi gire,
Chè fosse scorta, e co* lucenti rai
Romper potesse la perpetua notte.
Che si rivolte in quelle chiuse grotte.
Non molto andar, e l’ aria anzi le ciglia
Si mostrò lor da chiara luce acccnsa :
E dentro a larga stanza ampia famiglia
Vlder di ninfe a varie opere intensa.
Ristette, c disse il re con maraviglia
Alla sua scorta : In questa ombra sì densa
Qual Sol penetra? e quale è questa gente,
Che tra lauto lavor fremersi sente?
Tu cammini, disse ella, assai più basso,
Famosissimo re, che tu non credi :
li Sol dì qua passar non trova il passo :
D’altra natura è il lume onde tu vedi.
Nasce questo splendor da più d ’un sasso.
Che ingemmar suolsi in queste occulte sc-
In queste del terreo viscere tetre [di:
S’affìnan mille preziose pietre.
Non ha, non ha Natura in queste cave,
Benché del del, benché del giorno prive,
A produrre ogni dì le mani ignave
Cose degne d’uscire all’ aure vive :
Ciò che più pregia il mondo, origine ave
In queste cicche c sconosciute rive :
Vien dentro e gira gli occht,e vedrai quello
Che *1 vostro mondo fa splendido e bello.
Terrene ninfe son, che n’hanno cura :
E con diverso studio s’ affatica
Ciascuna di mandar qualche fattura
Quìitcì delle sue mani all’ aria aprica.
Disse , e della terrena ampia natura
Condusse il re nella fucina antica,
Ove i semi cominclan , che produce
Con varie forme poscia il tempo in luce.
Àrtù girò le ciglia, e tutto il loco
Vide a ben mille gran lavori intento.
Forma 11 vario negozio un mormor roco
Qual talor face per le selve il vento :
Non v’ è silenzio mai molto nè poco,
Nè sì ri fina mai picciol momento :
E quando l’ una pur si stanca e siede ,
L’ altra la vece sua prende e succede.
Questa semina l’or, l’argento quella,
E l’uno c 1’ altro poi per varj calli
Esce nel mondo, c ’l fa ricco e l’ abbella,
E così fanno ancor gli altri metalli.
Mandan por ninfe ancor da questa cella
Bianchi adamanti e crisoliti gialli ;
Ed altre gemme , ond’ è sì I* uomo avaro:
Non pure i marmi c i porfidi di Paro.
Altre ministrali da perpetua vena
A* laghi , a’ fiumi , alle fontane Tonde :
Altra il gesso, altra il zolfo, ed altra mena
Il nitro o il sale alle diurne sponde :
Per empir questa e quella piaggia amena
L’ umor alle radici altra risponde,
Onde sorgo» le piante; ed altra serba
Cura , onde il verde si rinnovi all’ erba.
Le ninfe al re delle famose prove
Fecero onore , e 1* invi taro a mensa ,
Gilè n* avea d* uopo ; e di vivande nove
Feron queta restar sua brama acccnsa ,
Quali al terrestre re, fratei di Giove,
L’occulta reglon dona e dispensa.
Ristorato egli accommiatossi c pose
Quindi ’l piè vago in altre tane ascose.
E vide onde abbiali da perpetui fonti
La lor materia quelle fiamme ardenti,
Ch* Etna erutta c Vesuvio, ed altri monti,
Che qua su fan maravigliar le genti :
E vide onde il vapor nasca c sormonti
Tanto per T aria al fin , che ne diventi
Terribil lampo, o folgore o cometa,
Che ai re non lascia aver la mente queta.
Ode un muggito orribile a sembianza
Di quel che ’l toro minacciando face,
E ne ricerca il ver con molta instanza
Dalla sua fida scorta : ella non tace :
Questa è, dice ella, la secreta stanza
Del terremoto, che non ha mai pace :
Mormora , e spesso, quando più non puote
Questo career soffrir, la terra scuote.
Oh , le replica il re , donna , e' mi pare
Anco un altro rumor sentir altronde :
Tu ben lo senti , disse ; è questo il mare
Che precipita giù con tutte Tonde
Nelle cave terrene : elle tornare
Ripercosso a ferir le vostre sponde
Lo fanno poi , mentre or l’assorbon , ora
Lo mandan con ugual vomito fuora.
Passan per una cava umida, oscura,
Ch’ha di muffa grommoso il suolo e il tetto*
E tra la riverenza e la paura
Un re vi sta di sconosciuto aspetto :
Questi è Demogorgone , e la Natura
L* alberga In questo torbido ricetto;
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Di«i> la ninfa , intendi gli occhi e mirti
Che fiere coma e che sembianza dira !
Ma gli , se III non sei lassato e stanco
Per lo lungo cammino, a te conviene.
Quanto scendesti in giù , risalire anco
Da te stesso a trovar P aure serene.
Io mi trovo, disse egli , ora più franco.
Che quando entrai nelle terrestri vene ,
Si m’ invoglia il deslr, ma de* miei passi
Chi sarà scorta ornai, se tu mi lassi?
Segui la cerva e il luminoso lampo
Delle sue corna ; c non temer del fine :
In lei pon mente , e non fia duro inciampo,
Che tu non vinca : 6 questo il mio confine.
Tu perverrai nel fortunato campo,
Là dove di maniere pellegrine
Sorge la stanza , ove la nohtl Fata
Lungi dal volgo se ne sta celata.
Da tei non partirai senz’ alcun dono,
Che fia de! tuo cammin larga mercede :
É diffidi la stanza , e pochi sono,
A cui la cena di trovar succede ;
Ma se chi propria industria o Nume buono I
Vi tragge mai , giammai non quindi rìedc
Senza onor, senza premio : I passi affretta;
Va lieto ; ella ti sente , ella t’ aspetta.
Disse ; c nel raggirar che fé' le spalle.
Sonò la vesta di cristalli adorna.
Il re dietro alla scorta, che non falle,
£ d' ombra luce può far con le corna ,
Tanto poggiò per la notturna ralle,
Che si condusse alfìn dove %' aggiorna.
Oh che giorno! oh che luce ! il più giocondo
Loco non ha , nè più sublime il mondo.
Muse, o silvestri Muse, a voi non spiaccia,
Ch’ un poco sovra U mio proposto i’m'alze:
Non è, non è, che nel seguir la traccia
Ove cerva trascorra, o damma sbalze,
Non si trovi talor cosa che farcia
Grate anco a’ re selve, montagne e balze :
10 canto fere e selve; e selve e fere
Di regi ’l canto mio far degno spere.
Sovra un eccelso monte un largo piano
Ricco d* eterni fior Natura stende :
11 monte è tanto a' nuvoli sovrano,
Che nè vento, nè gelo unqtra l’ offende :
Quivi via più , die d* artifido umano,
Levato in alto un edificio splende ,
Al cui pareggio poco esser celebro
Mena qual già più pregio ebbe sul Tebro.
Piramidi famose e mausolei ,
E tutte le belle opre e 1 ricchi tempj ,
Ch’ eresse ad onorar gli antichi Dei
Grecia ed Egitto, son deformi csempj.
Di qual materia sla dir non saprei,
Chè già non se ne vede a’ nostri tempi :
Ha color d’ oro ; ma più eh’ oro irraggia ;
Nè tal credo io che dal terrea si treggia.
Se ogni sala , ogni camera , ogni loggia.
Gli archi e le statue e le colonne e tulli
Vi vo’ descriver gli ordini e la foggia.
Onde entro c fuor i muri era» costrutti.
Quando il Sol per lo ciel rotando poggia ,
E poi dedina ne* marini flutti,
Fia breve spazio ; ed io scelgo quel tanto,
Ch* ha maggior maraviglia e maggior
vanto.
Quadro è*l palagio, ed ogni faccia mira
Ad un de* quattro terminf de', mondo:
Un gran vcron d’ Intorno si raggira.
Che scopre in giù tutto il terrestre pondo:
Sovra esso il colmo incontra il cielo aspira
Una cupola eccelsa , un lavor tondo
Fatto dì gemme scintillanti c rare.
Nel cui lucido il ciel tutto traspare.
Ad incontrar il re venne la Fata
Fuor delle porle; c quiri ella raccolse,
E riverì come persona amata,
E come re , come fratello suolse :
E poi che dentro ad alla stanza aurata
Degna di sè, degna di lui lo tolse.
Lo ristorò con odoralo bagno,
E degna mensa d’ un signor si magno.
Lungo fora a ridir di passo in passo
Tutti i ragionamenti c le parole
Clic seguirmi tra lor ; r.d io tralasso
Quel che taciuto ancor pensarsi suole.
Il re clic disi scuro antro e si basso
Era salitosi vicino al Sole,
Rompendo ogni altro dir, il tempo colse,
E il sno desir alfin dal petto sciolse.
Dimmi, sorella, ornai, che loco è questo.
Che mi par delle cose eccelse e rare?
Fammi saper s’ io sogno, o s’ io son desto ;
S’ io veggo cose vere , o se mi pare.
Tu vcgglii, disse, c mai si manifesto
Non si fu’l ver : vlen meco, e vo’che imparo
Quel che forse ti fia di maggior pregio
Tutti i tuoi giorni, che lo scettro regio.
E fatto il re salir là sovTa il letto,
Onde di gemme la gran loggia sorge ,
In cui tutto del ciel l’ immenso aspetto
(Cosa, che pur gran maraviglia porge)
Ed ogni influsso, ed ogni vario effetto.
Ch’esca de* moli suoi chiaro si scorge :
Qui, gli soggiunse , tu con gli occhi vaga.
POEMI DIDASCALICI.
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391
LA CACCIA.
1S di quoto piacer F animo appaga.
Abbagliato rimase e stupefallo
Il re nei sen di tante gemme accolto
Quando con tutt' i suoi lumi ad un tratto.
Il del gli lampeggiò dinanzi 11 volto :
Come chi dorme al buio in loco astratto,
Ed è dal Sole alia sprovvista coito.
Ch'alti ove tosto si rivolge, o schermo
Fa con ambe le mani all' occhio infermo.
Sa come dal primier grave barlume
Furon le ciglia sue libere e vote ,
Ed avvezzossi a sopportare il lume,
Cli' immenso uscia dalle celesti rote ;
Come si mira in unjimpido fiume
Il Sol, che mai nel elei mirar si puote.
Tutte vide ei nel diafano di quelle
fiorenti gemme fiammeggiar le stelle.
Vide come al passar che fanno sempre
C una in altra magion le stelle erranti
Bonino alf anno con diverse tempre
Di stagi on in stagion varj sembianti :
Come or P induri il gelo ed or lo stempre ,
Il caldo,andeorsi spogli, od ors’ammanti :
E vede come e (fi pace c di guerra
D'odioetfamorcadarinnussolnteiTa. [te
Perche altra forza ha ilSol quando si par-
lisi Cancro, cd altra quando al Capro arri-
EcoSl ancor Giove, Mercurio e Marte, [va :
Saturno antiquo c F una e F altra diva
Danno al loco, e dal loco apprendon parte
Della virtù , clic poi qua giù deriva ,
Siccome d'ora in ora altro si pone
I □ tauro, ed altri in pesci, altri in montone.
Però che scorre tra le fisse stelle,
Un obliquo sentier ehe’l ciel divide
E stan sovra II sentier dodici celle.
Ed in ciascuna un animai s' asside.
Alberga nella prima il monton eli' Elle
Mal ardio trasportar per F onde infide :
Indi il taora d' Europa; e poi riluce
Con doppia face F amideo Polluce.
Il granchio si ritien F altra magione
Che *1 grande Alcide ardi ferir nel piede :
Scuole la chioma il Q ronco leone ,
Pien di sdegno anco dalla quinta sede :
La sesta è della vergine Erigone ;
E la Libbra alla vergine succede ,
Che gode di spartir dal suo soggiorno
Un ugual spazio tra la notte e li giorno.
L'ottava stanza lo Seorpion si prende ,
Ed oltre al suo con fin stende le branche :
E prt sull' arco la saetta tende
Chiron sotto destrier, uom sovra I’ anche :
Il Capro nella decima risplende;
E fuor d’un’nrna poi,ehe mai non manche.
Versa di Giove il Ilei Pmrerna un fiume,
E di duo Pesci è alfin F ultimo lame.
Quindi pigro Saturno c Marte Irato
Giove benigno, fi Sol caldo e lucente.
Venere amante , ed a mille arti dato
Mercurio, e sotto a lui la Luna algente
Passando, agli elementi varian starlo,
E al mondo fan cangiar farcia sovente.
Influendo or le piogge, or le tempeste,
Or le guerre , or lo sterile , or la peste.
Ma poi ch'Arturo de’ celesti lampi
Scorse gli aspetti, c le virtù motive-,
Onde si gran diversità si stampi
Tra le cose di senso ornate e prive.
Scese al verone , onde i terreni rampi ,
Pian , monti c selve, e valli ascose e rive,
I fiumi , 1 fonti , e le paludi e i laghi
Con tutto il mar vederpuon gli occhi vaghi.
Abbassò 1 ciglio e vide legni arditi
Gravidi il cavo scn dì genti avare
Passar mcrcando per estrani liti
Cose di pregio peregrine c rare ;
Ed ecco i sersi poi d’ Eolo usciti
Dal fondo , lutto sollevar il mare ,
Crollar 1 legni , e in mezzo al volgo stolto
Star l'Avarizia impallidita in volto.
E vanità gli parve essere e ciancia
Delle grandi ricchezze il vario acquisto,
E da non poter star sulla bilancia
Col timor che ne fa l'animo tristo.
Volscsi , e con non men torbida guancia,
E d’affanni non men seco aver misto
Vide dò die si pensa e che si face
Sovra il terren , se bene hnmobil giace.
Gli amami accender di sospiri 1 venti.
Ed tu mezzo a’ favori ed a' diletti
Non poter anco a pieno esser contenti ,
fi* cacciar mai ìa gelosia da’ petti :
I pochi risonar d’ire e lamenti.
Larghe perdite aver, guadagni stretti ,
Tutto esser pien di falsità, d’inganni,
E gli stessi piaceri essere affanni.
Dolersi I cortigian che nella corte
La servitù non sia gradila e il merto;
Ma tutto regga una volubil sorte
Con occhio cieco e con giudici» Incerto :
II soldato d'aver via più alla morte.
Oh’ alla mercè sempre il cammino aperto;
L' agricoltor, che con continuo affanno
Suda c render non può mai fedii l'anno.
I Fori strepitar senza riposo
giti M.
392
POEMI DIDASCALICI.
Tra continue querele e duri piali.
Qual è 'I rumor che dentro all'antro ascoso
D’Eolo soglio» far gli Euri sei rati:
Il giudice seder ansio e dubbioso :
Accusar le fatiche gli avvocati:
E I litiganti impoverir con spene
D’un acquisto che tardi, o mai non viene.
Tutti alfìn gli esercizi e tutte Parti
Trascorrendo con gii occhi il re britanno,
Della terra e del mar tutte le parli
Ingombre mira di perpetuo affanno:
Rari i diletti , e dissipati e sparli
Come le foglie ai maturar dell'anno ;
Spesse le pene, e resistenti c sode,
Nè sincero già mai quel che si gode.
Ma fra tutte le sorti altra non vede
Penosa a par della regale altezza :
Quella ove il mondo più s' affisa e crede
Essere il sommo e il fin da ogni allegrezza;
Quella stessa purpurea e ricca sede
A ricever onor da tutti avvezza ,
È più dura sovente c più malvagia
Del nudo seggio , ove basso uom s'adagia.
Vegghia» nel cor dei re perpetue cure,
E tra il vago degli ostri e delle sete
li sonno mai non sa le notti oscure
Fino all’alba condur tranquille e liete.
Dentro alle gemme rilucenti e pure
Dolce non beve mai l'arida sete :
Nè siede a mensa mai si lauta ch’aine
La timorosa ed interrotta fame.
Guerre, sedizlon , consigli incerti.
False rclazlon, ministri avari,
instabil lealtà, seguaci inerti
Non moderate spese , esausti erari ;
Insidie in mezzo a' tetti, odj coperti,
Importuni maggiori, invidi pari,
Son quasi velenosi c ciechi vermi
Ch’ognor rodo» de’ regi i cori infermi.
Grave è lo scettro , c la corona grave,
E grave il manto a chi governa e regge
L’ instabil v ulgo, eh’ or ardisce , or pavé ;
Vuole c disvuoi, nè serba ordine o legge;
Se quel pensier, se quella cura n’ave
Che ’1 pastor vero delle proprie gregge,
Ch’a’ lupi, a’ ladri le contende e scherme,
E corregge l’ erranti, unge i* inferme.
Cauto nocchier clic a torbide procelle
Ha fatto nell’Egeo lunga contesa.
Quando poi vede il cicl splender di stelle,
Nè più l’aria da’ venti essere offesa,
Del limon grave e delle cure felle
Lassa la soma alfin che più gli pesa,
Stende le membra , c sovra il legno duro
Per breve spazio almen posa sicuro.
Ma de’ duri pensier Tonde modeste.
Clic solca il legno del rcgal governo ,
Non acquetan giammai l'atro tempeste.
Nè san giammai scordar Torrido verno :
Man scogli, han sirti, hanno Cariddi infeste
Nel seno , han Scille di latrato eterno :
Sempre stare al timon con certo avviso,
Sempre all'Orse con vien l’occhio aver liso.
Solo un piacer, solo una requie suole
Troncar tante fatiche a’ regi lassi ,
La dolce caccia , e le contrade sole,
E l'aspettar le snelle fere a’ passi :
Quivi di ciò che più s’attrista c dolo
L’alma, spogliando la memoria vassl ;
E il follo delle selve e la stessa ombra.
Il fosco delle mentì estingue c sgombra.
Qui più clic altrove Artù s* affisa c parte
Gode che I boschi e T aspre cacce intende,
Ov’egli mentre ottien tregua da Marte
L’ozio de’ giorni suoi castiga c spende.
Esser de* regi convenevo! arte,
E nobil pace che sanguigna splende;
S’avanza nel sudor, dalla fatica
Dolcezza tragge; è di viltà nimica.
Ma poi ch'egli ebbe alfin trascorso tulio
Con gli occhi ’l bel dello stellato polo.
Ed agitato da continuo flutto
Di Fortuna vide anco il basso suolo,
U’ delle umane condizioni instrulto
Nulla scevra ne scorse esser di duolo.
La Fata dal \cron seco lo tolse
In chiusa cella , ove la lingua sciolse.
Re, che per T ombra d’ mia chiara notte
Passando a questo mio nohil soggiorno.
Quel clic si fa nelle terrestri grotte
Vedesti, e quel che ’l cicl voi ve d’ intorno,
E poi facesti anco le ciglia dotte
Nel breve spazio d’ un felice giorno
Di ciò che dentro a uno eniisperìo sopra
La terra c ’l mar Tulliana cura adopra;
E tempo ornai ch'io ti rimandi dove
De’ tuoi compagni sconsolati e lassi
Cercando vanno con diverse prove
Nè trovar orma ancor san de’ tuoi passi :
Ma se cose veder superbe c nove
S’appaga l’uomo, ed avanzando vassi.
Nè te, nè lor si brexe affanno attristi,
Chè x’ anelerai miglior che non venisti.
Tu non sapevi dianzi, ora tu ’l sai.
Quel eh’ ha ’l terrei! nelle sue chiuse vene:
Intendi come de' celesti raì
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LA CACCIA. 393
I) corso per lo ciel girando viene ;
L’arti e gli studj umani veduto hai
Esser nel mondo vanitadi o pene :
Ecco, e quinci trai puoi securc norme,
Onde i disegni tuoi regga ed informe.
Ma quel che tutto di gran spazio eccede
(Vedi quel che n'avrai, quel che t*importc
L' esser tu giunto alla superba sede ,
Ove la tua sorella ha la sua corte;
Vedi se a caccia mai movesti '1 piede
Per altre selve con si lieta sorte)
Prendi in do? questa spada , e la sua rara
Virtù da' delti miei veraci impara.
L’else ella ha fatte delle ricche corna
Ch’alia gran cerva fan gran selva in fronte:
D'anno in anno c le pone c le ritorna
A rinnovar non sempre in questo monte :
Ma dove qual si sia Fata soggiorna
E che seco in quel tempo s; raffronto :
Ile non ne cinse mai si ricca al fianco,
Ma c'è maggior \ irtù da prcpor anco.
Qui ie tue luci tu fisa ed intendi,
E tutti scorgerai , come in un speglio
I tuoi difetti , e come anco gli emendi
E te stesso riduca ognora in meglio.
Or col pensicr l’arretra, e tutte prendi
Al paragon l'arme del tempo veglio:
Credi tu mai clic Tcti o Cilerca
Si bene armasse Achille, ovrer Enea?
Altra non ne cercar di miglior tempre
Per vincergli osti tuoi : basta che spesso
Tu ti rimiri dentro, e farà sempre,
Clic tu trionfi e d'altri c di te stesso:
Farà ch’or t’avvalori, or ti contempre,
Ed or proceda altero, ed or dimesso;
E ti farà saper sempre verace
II tempo della guerra e della pace.
È di gran pregio bene ; è ben regale
11 don che tu mi fai, nobil germana ,
Disse alla Fata il re, nè tanto vale
Alcuna in terra potestà sovrana :
E fin che avrò nel seno aura vitale.
Nè fia la carne mia di spirto vana , [glio
Specchierommi ogni giorno, c tutto il ci-
Ci terrò dentro a trarne ulil consiglio.
Ma s’a te, ina s’ a questo altero ostello,
Ove*, o nobil sorella, or tu dimori,
E che mi par il più giocondo c bello,
Che mai vedessi o nel mio regno o fuori,
Mi verri di tornar desio novello.
Chi mi fia scorta in cosi lunghi orrori ?
In quai solve cacciando, od in quai lidi
La cerva troverò che mi ci guidi ?
A me non sempre, omin Fratello, è data.
Disse ella al re, questa magion felice ;
E star sempre in un loco a saggia Fata,
Ohe sue scienze accrescer vuol, non lice :
Di qua, di 11 lo per la terra lata
('.creando sempre vo nova pendice,
Ov’io m'asconda dalla turba sciocca,
E cerchi quel eh’ a saper alto tocca.
Nò questa stanza in questo locoè sempre,
Ma segue il mio sapere, o 'I saper mio
Dell' altre se ne fa di simil tempre,
0 pur quesla riface, ov’io m'invio :
Mi dò Natura stessa, ond'io contempre
Altre fabbriche aneor, quali desio.
In cui lavor si luminoso splpnde,
Clic fa maravigliar chi non l’ intende.
Ma se simil diletto il tuo cor ama,
Fuor questo albergo ancor die tanto luce.
Potrai tu soddisfar alla tua brama
Quando la nobil cerva abbi per duce :
La cerva clic di gemme il corno ìnrama,
A qualche Fata l’ noni sempre conduce :
E se scoperta vien senza altro Indugio
A qualche Fata ella ha tosto rifugio.
La cerva ò delle Fate ; e le soli nate
Quante ne stanno tra l'Occaso e l'Orto,
Fra il fervld’ Austro e le gelate rote;
E vaga quinci e quindi a suo diporto :
S’è chi la trova, non alle rimote
Ma se iic va per lo eammin più corto
A quelle, eh' ha più presso ; e non appare
Se non a nobil gente e d’alto affare.
Tu quante volte a lei ti porrai dopo,
Nulla Fata sarò che non li pregi :
Oliò la tua faina a guisa di piropo
Splende fuoi tutti i cavalieri c regi ;
E ne riporterai sempre a tuo uopo
Doni dall’ oste tua ricchi ed egregi :
Ma come l'avverrò di trovar poi
Il vagante animai sempre che vuoi? [ra
Prendi questo ragnuol eli 'annasa in ler-
Dov’clla passa; c va per lungo tratto
D' orma in orma fin dove ella si serra
Segnando altrui la via festivo c ratto:
Come il senti latrar, egli non erra.
Tu l’hai vicina; il tuo voler ò fatto :
La troverai e menratt! ella tosto
Di qualche Fata al tetto mcn discosto.
Ciò detto, perchò gìò col fosco aspetto
Correa la notte, ed a gran spazio stese
Clntia, e le stelle per l’azzurro letto
Mille lauipadl d’oro aveano accese,
Artù giò stanco fu condotto al letto.
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POEMI DIDASCALICI.
m
(He gran sonno immantinente il prese ;
E se ne Me' senta aprir gli occhi mai
piti al tornar de' mattutini rai.
Ma poi che bianco il rolto.e’l crine aurato
In Oriente il novo di mostrassi.
Ecco e 'l proprio destrier nitrir a lato
Sentissi, ed a quel suon desto lerossl;
E seppe pur di non aver sognalo,
Sebben nel verde prato egli trovosai.
Onde entrò pria nel sotterraneo speco.
Perche 1 don di Morgana avea pur seco.
MENZINI.
ET0PED1A.
LIBRO PRIMO.
Natura del vero bene.
E quegli ancor dal vero beu son lunge,
Che fanno del Piacer Nume a s è stessi.
Questa è la sirti «ohimè! questo è lo scoglio,
Che arresta e lega e in cui urta e si frange,
Con le radenti il suol picriole fustc.
Ogni ben corredata eccelsa nave.
Chi *1 crederia? In feminil figura.
Che miste abbia al candor purpuree rose,
Sparsod'ani brosia il labbro, aurato il crine.
Mostro è la Voluttade orrendo e fiero.
Armato il fianco di saette acute.
Ha due grand' ali al volo agili e preste.
Nè sovra quelle sta mai ferino : e sempre
Da un polo all’altro si rivolve e gira.
Va tra le militari audaci schiere,
E per le reggie illustri e per le selve,
Tra le semplici ninfe e tra’ pastori.
Nè gente v'ha sì barbara e feroce
Coli nella remota ultima Tuie,
0 pur nell’ africana ardente sabbia.
Cui non assalga e non ferisca e vinca.
Nè vai corazza adamantina c salda.
Per fare a lui riparo e non solingo
Albergo, o parte inospita c selvaggia, [co.
Per tuttoaggiunge ed ha negli occhi un fuo~
Che dolcemente alletta e poscia in grave
Incendio scoppia e incenerisce ed arde
Del cuore uman la mal guardata rocca :
E benché nelle dotte illustri carte
Mille v’abbia salubri aurei precetti
Di tanti che n’ uscir, sublimi ingegni
E di Roma e d’ Atene; un'ora atterra
Ciò che in lungo girar d’anni e di lustri
Edificò la disciplina : e quello.
Che parve inespugnabil fondamento.
Questa furia infernal svelle e distrugge.
Quind’è, che de’ famosi almi licei
Ogni dottrina è qual pittura al cicco.
Qual cetra al sordo, o qual fomenta lieve
Alla podagra pertinace c dura.
Chi ne dà penne a sollevar dall' ime
Paludi il dcbil fianco; c chi risveglia
L’alme da si mortifero letargo?
Oh santa eterna fiamma, oh puro c vivo
Del piacer vero incssiccabil fonte :
Tu sei che ’1 cuore uman ruvido e scabro
Della ruggine rea di mille c mille
Affezioni al sommo Bene avverse.
Di nuovo il tempri in immortai fucina;
Ed all’ incudc, ove il tuo santo Amore
I colpi alterna, lo pulisci e tergi.
Tu la nebbia crudel, che si constipa
Al guardo intorno, ne dclivri c struggi.
Togliendone dagli occhi i duri veli.
E tu fai si, che de’ tuoi raggi ardenti
Al forte folgorar l’alma divegna
Qua! specchio, che per Sole arde c sfavilla.
Onde poi schiva del terrestre limo
Scorge, che sol Fclicitadc ha il regno
Nell’ Intelletto, e chi la cerca altrove.
La cerca indarno c sè medesmo inganna.
Ma noi qui forse troppo in alto il volo
Spiegammo c mentre è de’ mìei carmi og-
getto
Mostrar, che in terra ancora esser felice
ETOPEDIA. 395
Può V «iddio ; c «il mezzo a questi beni c a
Donitchcda Fortuna a noi comparir, [questi
Può goder santa del suo cuor la pace;
Sembra poi clte dal detto io parta e Cuore
Del mondo U tragga e un più sublime e
nuovo
Senti e r gii additi e per la mano il prenda.
Pur vuol ragion, ch'io parli e apertoescla-
Noo avrai posa e non sarai felice, [mi ;
Quand' anco a te serbi 1* arene il Tago,
Le gemme Uri tra, il Potosì miniere.
Ed abbi a Creso antico egual fortuna.
Se non valgi ad ognor pensieri ed opre
A far, che in mezzo alle mondane cose
Tu sii mai sempre a piò bel segno intento,
E creatina al creator simile.
E com’ esser dò puote?e come un verme
Imiterà l’alto Fattore eterno? [giorno
Uom, tu non puoi da donde nasce il
Sin dove posa all' Occidente in seno.
Rivolger la stellata eterea scena;
Nè come face luminosa, ardente,
Che da veloce man si ruoti in giro,
Al suo moto animar la febea lampa, [te,
GheJ’ ore tragge al suo gran cocchio avv in-
Ed illustrando il destro lato e *1 manco.
Sin dentro al seno della terra oscura
Fa penetrar le fervide faville :
Ond'ella cangia al variar dell* anno
Volto e costume e in giovinetta ctadc
Di .fiorì e fi ondi il suo bel crine adorna ;
E con sembiante, che iunamora il Cielo,
Invita le superne accese rote
A guidar seco vezzosetti balli.
Uom tu non puoi alla purpurea luce
Tal dare impulso, die librati in alto
Per lei si stirai globi diversi ed ella
Si faccia al corso lor cocchio ed auriga;
Senza temer, che in riva al Po le suore
Del misero Fetonte, ancor che avvolte
In duro legno c ’1 crin converse in f rondi,
Yeggian rinnovHlarsi il fiero esempio
Del troppo ai danni suoi giovine ardito.
Non puoi far, che d' Atlante 11 gran nipote
Si ruoti per lo ciel veloce stella ;
Nè che ’l pigro Saturno, odiato veglio.
Che più tardo d’ogn ‘altro i I corso adempie.
Vago di fieri strazj e acerbe morti
Sulla misera terra a guardar prenda,
<ion fosco ciglio e con ferrigna faccia;
Nè clic Venere bella al Ciel diletta.
Che fuor del rugiadoso argenteo velo
Ridendo empie d’amor la terra c ’l mare,
Ai vetri industri del gran saggio etrusco
Or piena in giro ed or falcata assembri,
E sia di Cinzia emulntricc aneli' ella.
Non puoi stendere il cielo e non dar leggi
All’Immenso oceano e non la terra
Librata sul suo peso apporre in lance.
Nè tante altre produrre opre ammirande,
Di cui gran libro è l’ universo aperto.
Ed in clic dunque imi irretii quel primo
Sommo Fattor, ebe la Natura e ’l Fato
Tiene al suo seggio imperioso avvinti;
Della cui destra ogni grand’opra è scherzo,
E gli elementi sol tempra col cenno?
Or odi ciò, che ad illustrar la niente
Un più saggio liceo aperto insegna.
Uno è l’alto Motore ed uno è il fonte
Del sommo Bene : e tu serbar l’ imago
Ben puoi di quello e in te ritrarla appieno ;
Sicché nell’ opre uno il tuo ruore ed una
Sia la ragione al suo bel Sol rivolta.
LIBRO SECONDO.
La Prevaricazione.
Oh qual spicndea sovra il paterno soglio
Del buon Rancide il successor famoso !
Più della gloria sua, più del suo regno ,
Di genti c d’ armi e di grand’ or possente,
blaraviglìoso a’ popoli lo rese
L’alto intelletto : onde disciorre i nodi
Ei sol polca delle question profonde;
Ed in questo ammirabile volume
Dell’universo, «i fu , che aperto vide
L’altc cagioni all’ uni il volgo ignote.
Oh lui felice , che tant’ alto ascese.
Non già per dialettico argomento.
Ch'altrui trar certo il conseguente insegni*
Non le rette formando e oblique liste.
Od altre pitagoriche ligure.
Chè d' uopo a lui , per discoprire il vero
Non fu di lunga esperienza ed arte;
Non le fibre tentar, non delle vene
Spiar gli usi e gli uffici c i varj affetti
Onde Natura in tante specie, e tante
È diversa in diverse , ed una in tutte.
POEMI DIDASCALICI.
306
Nè sol ili quanto a contemplar s* affissa
Nostro intelletto, I chiusi arcani intese:
Ma dalle più sublimi alle tra noi
Cose ridotte all* esercizio e all' uso.
Quasi di grado in grado discendendo,
El vide quel clic possa Amore ed Odio
Ne* popoli soggetti ; e ciò che scioglie ,
O I aline avvince in santo nodo, e seppe
Tutte del comandar le uobil arti.
Però clic in lui d' alto s'infuse un puro
Celeste lume, c gl' illustrò la mente ;
E più gliel' illustrò l' essere unito
Al suo Fatlor, della cui destra è dono
].’ umana sapienza e la divina.
E pur, chi 'I crederla ? tante del Ciclo
Inclite doti , altro non Tur, che accesa
Face, ond altri scorgesse in chiaro giorno
L’altc mine, in cui sen giacque oppresso.
Ma chi l'oppresse ohimè! Egli al suo tronco
Frondoso e grande e d’aurei frutti carco
Calò di propria man la scure, e il vide
Giacer per terra inonorato e basso.
Cosi quantunque l'intelletto al vero
Tendesse , c poi la volontade al buono ,
Sottcntrò la malizia ; c ancorché nota
Fosse la non concessa c torta via ,
Di gir per quella elesse, e In quella pose,
Dietro al falso piacere il piede errante.
Ecco aì profani ed esecrandi altari,
Olire gl’ incensi , e fé in imi vaghezza
Il vince sì, clic più del Ciel non cura.
A hi clic funesto errore! Egli . che un tempo.
Qual di prima grandezza inclita stella,
Splcudea sul trono, e di virtute adorno
Spargea di luce un largo effluvio immenso,
Perch* ei sì volle, in tenebre converse
li sovrano suo lume ; e ’i Cielo istesso
Mirò, di duolo e maraviglia pieno
Di si bel Sol la portentosa eclisse.
LIBRO TERZO.
Descrivesi 1* Ignoranza.
('«ostri per entro alle cimmerie grotte
Ebbe l’ Obblio per padre ; e a lui consorte
La Negligenza partorilla; e i vili
Suoi genitori, in paragou fur vinti
Da questa più di lor figlia deforme.
Mostra veder, mostra di udire, c pure
E non ode e non vede , cd è l’ irsuta
Orecchia un’indigcsla c rozza carne.
Che non ha cavitadc , c non raccoglie
Entro ’i suo nicchio aere verun clic possa
Dall’ esterno ambiente esser rispinto.
L* occhio parche scintille; c pur qual vedi
Qui tra di noi un , clic d’ acuto sguardo
Sembra dotato, c pur è. cicco in tutto ,
Perlo sì grave umor, che oppila c lega
La visiva potenza ; ella ancor sembra
Aver pupille limpide c serene:
Ma son più inferme, c più languide c frali,
Che quelle dell* augel sacro a Minerva.
K perchè mai non è cupida c vaga
D’Interrogare altrui , per fame acquisto
0 di notizia, odi scienza, od' arte;
Il giusto Giove vindice severo
Di questa colpa , la spungosa c molle
Lingua le tolse ; onde qualor la bocca
Spalanca sbadigliando, altro non vedi
Che cupo , osceno c cavernoso fondo.
E che dirò dell’ altre membra, in cui
Nulla ha di proporzione ? Ha angusto il
petto.
Ma pingue e vasto il ponderoso ventre;
Le man corte e le braccia, e breve il passo.
Fuori non esce, c per le sue natie
Tenebrosi raggira ; c ’l suo viaggio
É d’errore in errore e d’antro in antro.
Chi non abborrirà questa deforme.
Se l’hanno i Cieli giustamente in ira?
Ed all’incontro, )’ immortai bellezza
Come non amerem dell* Intelletto,
Ciica Ciclo, a terra, cd ai profondi abissi
Ruota veloce, e perspicace il ciglio,
E vìnce in paragone occhi lincei?
E per mitrarti egli trascorre e mille;
Vede cd osserva; c volentieri ascolta
Nell* accademie il favellar de’ saggi ;
Per da’ lor ben purgali e chiarì fonti
Sugger licor, clic dia conforto all'alma.
Interroga sovente, ed ha il diletto
I)c’ ben soluti nodi , onde talvolta [gradi.
Più che *1 saper, parche dubbiargli ag-
Poi per passare all’ opre, il tutto libra,
E seco si consiglia , ed indi elegge
Ciò che prescrive la Ragione ; e in somma
Fa di stesso, c della Volontade,
Qual ne’ misteri suoi solca I* Egitto
I na guardinga ed occulaia mano.
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ETOPEDIA,
3T
Prudenza e Giustizia, figliuole della Sapienza.
Di questa madre gloriosa e chiara,
Nascon due belle ed indite eroine ,
Ambo pari in bellezza, ambo eccellenti
Sovra l’ altre Virtù, qual Cinzia suole
Splender del Cie) nell' immortal zafiro,
Cui le Stelle minori In lieta danza
Guidan d’ intorno vezzosetli balli.
Ed è fama , che un di mosaer contesa
Di lor pregio e valore. In pien consiglio
Venner 1’ altre Yirtudi ornate il crine [lo;
D’ aureo diadema , ed in purpureo amman-
Glorioso senato! e fur d* entrambe
La nobil gara e le questioni udite.
Parve ragion, che alla Prudenza il primo
1-oco di favellar si concedesse.
Perch’ ella in vero è d’eloquenza il fonte.
Per cui tanto si alzaro Atene e Roma
Sovra le toghe senatorie e i regi,
E senza quella ogni orator diviene
Mastro dì fole c tessi tor di ciance.
Ella al primo rotar degli occhi in giro,
Di gravitade e di modestia pieni,
A ciascun parve d’ogn’ onorben degna.
Ristette alquanto insè medesma e aiquan-
Come cogitabonda al suol si adisse ; [to
E poscia incominciò : S* altri è più illustre
Quanto ai primo Motor più s’ avvicina;
Chi mai più della mente ha tal vantaggio,
Che all' uom fu data per sì degno effetto.
Di sollevarsi dal terreno incarco,
E gir con ali generose e forti
Al Cìelo e farsi al suo Signor simile?
Me dalla mente I* erudita Atene
Denominar pur volle ; ond’ è , che questo
È pregio In me, eh* ogni altro pregio avan-
E quegli , il di cui nome alto risuona [za.
Per le bocche de’ saggi , io dico Plato,
Tesoro della Fama , e clic per sempre
Batterà per lo cielo eterne penne ,
Mi dichiarò sovra dell’ altre tutte
Virtudi alta regina; e giurar fede,
Lorfemmi in prima,e m’investì del regno.
Perciò non stonimi neghittosa c lenta.
Nè seggio in coltre; ma a maniera appunto
De’ provvidi monarchi, a ciò che giova
Io stendo l’adiutrìce, occhiuta mano.
Ma non per questo attendo onore, o laude
Dalle voci del volgo. Ampia mercede
È l’ opra buona a sè medesma ; cd io
Di questo solo volentìer m’ appago.
Chè non ambiziosa, avara voglia
M’ induce all’ operare ; io solo ho l’ occhio
All’ oprar bene , e di ciò solo ho cura.
Nè per ciò conseguir mi volgo a quella
Astuzia , che in mal uso ognor converte
Quella , che per Natura a noi vien data
Facultà d’ operare. A questa rea
Ah non fia ver, che di Prudenza il nome
Pe’ gran saggi s* ascriva ; ella a mai fine
Sua potenza indrizzando e suo consiglio,
Del tutto è indegna d'onorata laude.
Abbia pur ella entro le inique corti
Il suo covile, e insidiosa attenda
I semplicetti al varco; abbia la frode
Per sua ministra , c al valor vero insulti :
E di calunnie armata erri per entro
Ai gran palagi , e sulle altrui mine
In allo ascenda c sè medesma avanzi.
Io no, che mondo ho il cor, monda ho la ma-
fi quello, clic in mal uso altri ritorce, [no,
lo lo rivolgo in buono ; c benché a mille
Spesso io ricorra al volgo ignoti modi;
Altri non mai, nè me medesma inganno.
Son molte in vero, e son diverse strade.
Per cui sagace il mio pensier si porla ;
Ma non son già , qual del famoso in Creta
Antico laberinto i lunghi errori.
Nè già in mezzo di lor la Morte alberga,
Ma la cara a ciascun Salute c Vita;
Che pure esposta alla diversa e grande
Schiera de* Mali, anche diverso attende
II suo rimedio e 1* opportun conforto.
Perciò quella son io, che tra le molte
Cose soggette al variar del caso,
E alle diverse opinioni umane ,
Ben cauta eleggo quel chc’l luogo e’1 tempo
Mostra per lo migliore. Io per lung’uso
Tal ho nel braccio mio perizia e forza ,
Sicché raro, o non mai erro dal segno.
Perchè in me stessa mi rinf ranco, e sempre
Ho me stessa d’ avanti. In obblio porre
Ben puossi un’ arte , che talor si lascia ;
Ma Prudenza non già , che della Mento
È sempre indivisibile compagna.
Per questo, io son , che la diritta norma
Dimostro al giusto,al temperante, al forte,
Che senza me , senza I consigli miei ,
Son come nave in mar senza governo.
E come non avrò scettro e corona ,
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3M POEMI DIBOSCAI. IC.I.
Se nulla manco a me, per cui l' uom possa E qual felicità può mai del paro
Sul miei conforti esser felice appieno? Girne con quella , che in esilio manda
Ciò detto ; T altra , elle le lanci eterne Ogni reo v ilio, e sol Virtute arruola
Libia dall' una, e In l’ altra man sostiene Per cittadina nella patria sede?
La formidabil scure e i sacri fasci. Concedo io ben, che *1 savio tuoconsigiin
Ripigliò a dir, tra placida e severa : Molto ha di foraa; ma se dritto io mino.
Gii non ered’ io, che invidioso dente Con questo tuo sovrano, inclito pregio,
Il cuor li ininga , che s' io bella sono. Tu per lo più solo a te stessa giovi.
Tu per la mia beiti , non sei men bella ; Alla famiglia , alla consorte , ai figli.
Nè la mia chiara luce a te fa eclisse, lo non in chioso ed hi privato albergo
Anzi gli splendor tuoi nel mio splendore Sol mi ritengo; ma cUtadi e regni
(.resemi mai sempre. Or dimmi, se odi' D' die riguardo, ed a ciascun soccorro.
Tu aerili peso e numero e misura ; (opre Per me la Libertade alza il suo ciglio
Ciò non provini da me ? che disuguali Secura e lieta , ed ba la Pace al fianco.
Le parti adeguo, e più di te rimuovo Quanto dunque i! ruscello all' ampio mare,
E l’ ingiurie e gli oltraggi e i gravi danni, E quanto cede al Sol picchila face,
E in quella vece i lor contrari induco! Tu pur ceder dovresti ai pregj nostri,
lo nella Volontade ho proprio H seggio. Gbè se ne'pìù famosi, almi licei
E posso e voglio ; chè 'I voler non basta Tc dissero regina , il detto approvo.
Per esser giusto : e ciò, ebe v iene all' atto. Ma vedi ancor cnme sull' arpa d' oro
Del regno mio è sol potenza ed anni. Il gran Cantore ebreo, che mille e mille
Io degli avari la nodosa mano Inni tesse di lodi al Urge eterno.
Frango con ferrea mazza; io delle leggi Di nuli’ altra virtute ampie favella.
Soc vindice severa ; io dal mio cuore Quanto della Giustizia a lei sovente
Un doppio spargo inessirrahi! fonte Intirizza i colpi dell'amabil arco;
Del legittimo insieme e dell'uguale. E mostra , ebe per lei 1 alto Monarca
Ohe se tu forse con ragion ti vanti Tempra le umane e le divine cose.
Di render l'un in felice ; e chi può meglio Tacque; e delle Virtù l' almo consiglio
Far ciò dell' alme e sacrosante leggi, [ra Rivolgendo in peosicr quanto d’aia
Chevoglion che l’ uom forte In aspra guer- Cuna porgesse all' altra, e quantnaaziche.
Non si tolga dai posto, c clic non piti Ambo figlie del Ciel (ossee tra loro
I.’ anni rivolto a vergognosa foga ; E Giustizia c Prudenza : usci decreto ;
Voglion , che 'I temperante al sen pudioo Che l' una senza i' altra nnqua non gisse;
Di casa verginella , al santo ietto Ma con perpetua, invioiabil legge
Dell' altrui sposa mai non faccia oliraggio? Fusser mai sempre all' operar concordi.
LIBRO QUARTO.
Gioventù e Fortezza.
Ben tu . fiorita giovinetta Etade , I.' internoincemlio.enon sastare in posa.
Formeresti al tuo petto aureo monile , E citi mai del Vesuvio estinguer spera
E di corona adorneresti il crine ; I.c fiamme formidabili , atlor quando
Se le beile Virtù , che dianzi foro Dentro le spaziose, atre caverne
Argomento a' miei carmi, avesser loco L' istessa onda marina il fuoco avviva,
Dentrol tuo sen, cui troppo ardore offen- E fermentando la sulfurea massa ,
Ma quelle minutissime faville, [de. Fa , che poi fuor delle squarciale gote
Che scorrono pel sangue, e nei verri’ anni Kscan voluminosi, ampi torrenti ,
Son più , che in altra età rapide al moto, Edi fumo e d'ardor, che l'aria ingombra ?
Se ti fanno alla colpa esser proclive , litsmmi ò da temer , che negli eccessi
Pur iìa , ebe presso alle discrete genti Non trabocchi mai sempre , e che non pie-
fi cortese e pietoso altri perdoni Là dove violento impeto il tragge. tgtn
Al giovenil fallire. Arde e div ampa Un giovinetto core. Oh quanti, oh quanti
ETCÌ PEDI A. 399
Sono gli aggiramenti ei lunghi «Tori
Della novella età ! Chiudergli in versi
S’ io pretendessi , anco sperar potrei
Di annoverar quanti a’ più caldi giorni
Per si l*mgo del mare ampio tragitto ,
Lasciando l’ africana, ardente sabbia ,
Volino aagelli all' Anato lido intorno.
Pur non t mio peosier di strali armato
Gir contro Gioveutudc ; e gii non voglio
Col pungente mio dir muoverla a sdegno.
Ansi , perché la lode a lei sia sprone
Di generoso oprar, le prime mosse
lo prenderò da quella. Altro sembiante
Non han , che gioveuil, Mercurio c Febo;
A chiaro dimostrar , che le bell' Arti ,
E la forra d'ingegno, e i sacri Studj
Delle vergini Muse, ai più verd’anni
Debbon le lor più illustri, indite pompe ;
E veder puoi , che tenerrih pianta
Non abbonda di frutti , e quella ancora ,
Ole al variar de’ lustri è giunta al senio,
Scabra nel tronco c no’ suoi rami squallida.
Ma quella si, cui per le fibre ascende
Un giovine vigor, che poi si sparge
Di vena in vena alle frondose membra ,
Porta di pomi un copioso Autunno.
Non altrimenti il ben ferace Ingegno,
Cbe per etade il suo ’ncrcmento acquista,
Allor veloce egli si ruota c tutto
Scorre con chiaro lume; c quinci acato
Passi all’ investigare , c a scioglier pronto
Ciò, di' egli apprese , in nobile favella.
Serbale a Giuvcaludc , aonie Dive ,
La ghirlanda gentil de' lauri vostri;
Perch’eiia può di sue canore voci,
Cougiunlc ai suon d'armoniosa cetra.
Far lieta rimbombar Cirra e Permesso.
E perditi sempre nel gentil cimento
De’ bei carmi non sol , ma in ogni cosa ,
Dove raggio spuntar reggia di laude ,
Tende veloce il ver le palme prime,
E correr vuole in più onoralo arringo ;
Quirid’è, ch’ella il suo core ognor correda
D' un’ audace speranza. Oltre si spinge
Ove è più risco, ov’è più lìer contrasto,
E in suo valor, confida, e alle vittorie,
Disdegnando viltà , ferve e s' accende.
Quindi veder si pnò, che buona è l’ Ira,
('.he in petto giovanile alberga e regna ,
Più che in ogn’ altro; ed è come scintilla,
Ghe leva in secco legno accesa fiamma.
E buona è l’Ira, perchè grande aita; rende
Somministra all’ uom forte , c pronto il
A quelle imprese, ebedi Aerperigtio
Hanno gran parte. Ma veder bisogna,
Qual sia vera Fortezza c qual sia l' Ira,
Che vanta esser ili lei fedel compagna.
Cliè già forte non è per monti e selve
L’orrida belva, allor ebe irata U ferro
Del cacciatore addnita , e per le crude
Aspre ferite più s’ irrita c freme.
Perchè è il dolore, ed è l’accesa rabbia.
La qual d'armar lehtsegnaartigiiezannc.
Ma noi parliamdi quel valor, die specchio
A sè fa deli’ onesto, e in guerra muove
Per nobil fin , coi conseguir disegna;
E per lui sol mettersi all’ opra elegge.
Or (piando l' Ira è alla Ragion consorte ,
Allor per lei cresce Fortezza , e fassi
li braccio e ’l cor più poderoso e destro.
E ehi di forte il glorioso nome
Tra noi fla, che consegua ? e chi di frondl
Mitrici andar potrà cerchiato 11 crine;
Più che di Grecia ne' teatri illustri ,
Cii' altro nondiede al vincitor che nuda ,
E in breve tempo al suol caduca oliva?
Tu ne' mici carmi ben vedrai , che eterna
L’uom forteaver potrà ghirlanda e palma.
Se meco divisar non ti rincresce.
Chi sia colui, clic a tanto pregio ascende.
Se dunque la Virtù come regina [chi
Siede nel mezzo, anche l'iiomforteai Dan-
ila Fiducia cTimor. Quella al pensiero
Par clic gli delti non vi aver possanza.
Che a lui sovrasti e le sue forze agguagli.
Dove clic questo è di sua possa in dubbio,
Allor che contro luì sorge e si leva
Cosa che invitta e insupcrahil erede.
E pur, chi 'I crederla? più nrl Timore,
Cile nell’ Audacia alto Valor consiste.
Chè se proprio è d' uom forte i fiiTci menti
Da lungi prevedere e eoi coraggio
Da Ragion mosso, andar Incontro ad essi;
Ben suole ai precipizi esser vicina
L’ Audacia ; ond' è , che temeraria gitta
Talor la vita , ove il gillarla è vano.
Non ha termine e meta , e non richiama
La Ragione a consiglio ; ed è qual cicco
Arder , che mentre all’ arco suo la corda
Allenta e volar fanne acuto strale ,
Non sas'ei si ferisca uomini , o fere.
Onde 1’ uom forte attende!! quando e'1 co-
Equal schiera di mali ardilo afromi. [me,
Chè già dir non si dee vile c codardo
Quegli, che ha giusta di temer cagione;
E giusto è di temer quel eh’ è riposto
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400 POEMI DIDASCALICI.
Fuor del nostro potere. Irato il Ciclo
De’ suoi fulmini orrendi arma le nubi ;
E i rinchiusi talora aliti Interni
Fan che lltcrren vedili : e spesso adduce
I.’ aere corrotto irreparabil morte.
Or non saria, cld non temesse, insano?
Può temer dunque e pud soffrire II forte,
Con cuore invitto , ovunque il male avven-
E s’ egli C tal, eli’ ogni tcrribil cosa [ga.
Pronto sostiene e a sè di sé fa scudo ;
Qual cosa v’èpiù orribile di morte?
E pur dir non si dee , clic questa sia
L'unico pregio ove Fortezza ha laude.
Quanti Tonde omicide e quanti il ferro
D' empj ladroni , In solitario bosco :
Quanti la povertà , quanti T infamia
Sovente attrasse a un lacrimoso line!
Pur questi in ciò soffrir non furon forti ;
Perche Necessltadc, od altro affetto
Perturbator dell' alma a ciò gl’ indusse.
Forte è colui, che un’ onorata morte ,
Non solo non patema , anzi Tallendo;
O per le sante c venerande leggi
Custodir della patria ; o per gli altari
Serbare a Dio e a' cittadin la vita.
Sai di Itlza ozio il lagrimoso eccidio ;
E come di Liguria un uom polca
Arghi far del suo petto al Acro Trace.
Qual dato non gli avria premio di laude
Ogni canora cetra? e adesso andrebbe
Di poema degnissimo c d’ Istoria-
Ma perche visto in caldi riti il sangue
Uscir dal fianco, ci volontier rivolse
Al si superbo assalitor le spalle;
Pcrdeo di forte il glorioso nome ,
Eia sua fama e ’l greco imperio afflisse.
Ecco dunque il Valor, qual esser dee,
Sol per bella Ragione a morte esposto ;
Lungi dal vii Timore c dall' Orgoglio,
Che mal per gioventù s'affrena e tempra.
DELL’ ARTE POETICA.
LIBRO PRIMO.
Farto è il giogo di Piudo ; anime eccelse,
A sormontar la perigliosa cima
Tra numero influito Apollo scelse.
Chè la parte lasciar terrestre ed ima
Sol quegli può, clic per natura ed arte
Sovra degli altri il suo pcnsicr sublima.
0 tu clic prendi ad illustrar le carte ,
Deli guarda In pria come *1 tuo cor s 'ac-
cende ,
Dì quel fuoco, che Febo ai suoi comparte.
Però che invano un nome eterno atten-
di! di grand’ ali ha disarmato il fianco, [de.
Nè, qual aquila altera, a ciclo ascende.
Di paterno timor pallido e bianco
Gridò Dedalo al figlio allor clic il vide
Per T etereo sentiero venir manco.
E quei del folle ardir tosto si avvide,
Giovinetto infelice allor che in pena.
Preda c ludibrio fu d' onde omicide.
La favola è per te che adegui appena
L’ umil colomba, c credi aver le penne
Cinte d’ invitta, infaticabil lena.
Come se la barchetta , che sostenne
Un picciol flutto, andar voglia del pari
Con 1* alte navi e l’ olandesi antenne.
0 quanti credon d intelletti rari
Sortire il pregio, c poscia in lor paraggio,
Son ('.olino e Cluvieno assai più chiari !
Meglio saria, se luminoso raggio
Non scende in te di più propizia stella
Lasciar le Muse, c nuovo ordir viaggio.
Ma forse basterà limpida c bella
Aver la mente ? Ali questo sol non basta
Senz'arte che le forme in lei suggella.
Sappi , che la Natura ella sovrasta
Qual nobil regina ; e I’ arte aggiunge
Un tal contegno, clic beltà non guasta.
Anzi T accresce c 'I suo valor congiunse
All' alma generosa , c rappresenta
A lei vieta ciò, clic saria da lungc.
Pria con le rozze travi il mar si tenta.
Poi la vita commise a un cavo legno
L'antica gente al Vello d’oro intenta.
Mostrò dunque Natura al vago ingegno
DELL* MITE POETICA
Come un tronco sull’ onda si sostiene ,
Poi l’ arte oprovvi il suo fabbrile ordegno.
Poi disse : Andiamo alle pcruv ie arene,
Cerchiai» la più remota, ultima terra,
Ricca di preziose argentee vene.
Or vedi come I’ arte è, che disserra
Le dubbie strade, e come dal profondo
Pelago uscendo, il porto alfìn si afferra.
Apollo oricrinilo. Apollo il biondo,
Se dir bastasse, ogni poeta il dice,
E nel suo dir pargli toccare il fondo :
Oh di senno c di cuor turba infelice,
Ogni raggio, clic a Febo il crin circonda,
Aspra Tassi per \oi folgore ultricc.
Pur, se ti piace di solcar quest’onda,
Osserva meco, se le sirli e i flutti
Sclmiam per arte ai desir tuoi seconda.
Siccome soli degli edifici eslrutli
Prime le fondamenta , il parlar bene
Ha miir altri bei pregj in un ridulll.
Oggi il Sabino c ’l Nomeutan seu viene,
E pretende il primato; e dii dal monte
Scende, per puro il suo linguaggio tiene.
Come vuoi, che dilette e che s’ impronte
In delicata orecchia un che spavento
Mette alle Muse e n’ avvelena il fonte?
Pria conoscer bisogna il puro argento
Del toscano Parnaso : e ’l pronto acume
Fissar più che al di fuori, al bel eh' è den-
tro. [me
Dolce d’ ambrosia e d'eloquenza un fiu-
Scorrer vedrai dell’ umil Sorga in riva
Per quei, eh’ è de* poeti onore c lume.
Nè chieder devi ond’egli eterno viva;
Perchè ’l viver eterno a quel si debbe
Stil puro e terso che per lui fioriva.
E se per grotte e scogli ir gii rincrebbe.
Pensi , che non avesse il piè gagliardo{be?
Di montar dove ogni aito ingegno andreb-
Orort’ intendo : uopi illuso e tardo
Stimi chi come te non {strabalza.
Sena* aver del costume altro riguardo.
E non pensi s’ è proprio e se v i calza
Un detto più che I* altro ; e sferzi e sproni
Il puledro mal domo in ogni balza.
Perchè per poetar non ti proponi
L* esemplo di coloro, ond* è, clic in pregio
Italia vince l’ europee nazioni?
E tu segui color, che son di sfregio
Alle nobili Muse; e orpello e tresche
Credi, che sien paludamento regio.
Ciò che mandi il Perù, ciò che sì pesche
Nel mar di Arabia, in un deforme oggetto
401
Non farà mai clic gli altrui sguardi adcsche.
Anzi quel , che di ricco, oppur d* eletto
Gli metti intorno, viapiù al vivo scuopre
Della bruttezza il repugnante effetto.
Qui un saggio spirto la prudenza ado-
Cliè modesta beltà talvolta appare, [pre.
Meglio qualor sfugge sè stessa e cuopre.
Vedi, clic la pittura illustri c chiare
Fa resultar le parli allor, che sprezza
0 adombra quel , clic si polca mostrare.
Tronca ciò clic ridonda : c la chiarezza
Sia compagna a tuoi scritti ; oscuro carme
Talorsi abborrc e poco ancor si apprezza.
Combatte con la polve e con le tarme
Libro, che non s' intende, e da sì acerbo
Fato sol può perspicuilade allarme.
Dea vedi, come in un congiungoc serbo
Nobiltadc c chiarezza : ambo son poli
D’ un scritto illustre : or fa di ciò riserbo.
Purché all’oscurità mentre t’involi,
Non dia nello smaccato, clic dimostra
Ccrvel che non si scaldi e che non voli.
E con l’ oscurità ben spesso giostra
Chi vuol esser conciso : ed il diffuso
Nel contrario taior troppo si prostra.
Altri sortirò un naturai confuso
E vorrcbhon dir tutto. Un buono stile
In mezzo di du’ estremi sta rinchiuso.
Taior mi fai troppo del dotto , e a vile
Temi d* esser tenuto allor che lassi
Un parlar piano, un verseggiar gentile.
Ciò non conviensi, allor che Paure e i
Invili a risonar Leucippe e Filli, [sassi
E per le vaili idee cantando passi.
Nè creder dei , che Febo a tutti instilli
Vigore eguale : or vedi al maggior Tosco
Come nettare ibleo Amor distilli
Non sempre chi cantò le greggi c’I bosco
Saprà sonar tromba guerriera ; e alcuno
Che vicin vede , da lontano è losco.
Perciò le forze sue pesi ciascuno,
Grida da lungi dì Venosa il Cigno,
E di prudenza a sè non sia digiuno, [gno
Marsia credea, clic ’l Monte e che ’i maci-
11 facesser poeta; e l’ardir folle
Fe’sl, che Apollo a lui non fu benigno.
Pazzo chi sovra il suo poter s’estolle,
Chò indarno appella delle Muse il Coro,
E Febo in ira agli occhi altrui si tolte.
Del gran Torquato alte memorie adoro;
Egli è re di Permesso e*I Ferrarese
Siedegli al fianco : e di chi è l terzo alloro ?
Quel , clic del Costanti!! per noi s’ intese
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402 POEMI DIDASCALICI.
Gl ut ti par che prometta? Ah qnaiito io
temo [se !
Che tromba egual non abbia all* alto iitipre-
E *1 Colombo eh ? giunse al lido estremo,
Or ac' poemi affoga , e la sua nave
Ei mira infranta e la sua Tela e’1 remo.
Esamina in tuo cuor s egli non pavé
D’ Eolo e Nettuno il rio furor congiunto,
E poi ti fida alla spalmata trave.
A teubbidir debbo la rima appunto [ga
Qual buon destrierrh'all'ombra d'unaver-
Volge senza esser mai battuto e punto, jga.
Ma il tuo ve' che si arretra e che si atter-
E che si lo strapazzi , che la bocca (ga.
Ha guasta ; e fia che *1 fren di sangue asper-
Chè se tu di' che l’ arco tuo non scocca
Si facilmente, c che per dar nel segno
La tua rima sbalestra e non imbrocca;
Anco a questo ci vuoi fervido ingegno;
Forte immaginazion fa, che si trova
Ciò, che in lasciar trovarsi, avria ritegno.
lrn buon poeta inusitata e nuova
Forma darà , che in guisa tal si assesta
Che a tutta regger può critica prova.
Onde avvien ciò? se non che in lui si desta
Si forte apprenslon di quel ch’ei tratta ,
Che mai nulla d'improprio a lui s'appresta!
Ma già non pensi aver copia si fatta ,
Chi per fare in dieci anni un madriale,
Si morde l’ unghie e nel pensarsi gratta.
Lungo esercizio in guisa tal prevale,
Chè poi viene a trovarti in larga vena
La rima e *1 verso andante e naturale.
Suda il lettor, quando con stento e pena
Ti vede andare avanti, e la barchetta
Hcstarc in secco In su la morta arena.
Ma per facilità non sia negletta
La grandezza del verso , chè altriinente
Ciò eh’ 6 virtù, tc nel contrario getta.
Nè basta il dir che della prima gente
Tal non fosse il costume : altri pur piaccia
All’ unii volgo, e tu restane esente.
Non vedi che si sdgnc e si dilaccia
Un basso stile, e se pur piacque un poco.
Va poi di scherno e del dispregio in traccia.
fiè ciò , che ha del buffone aver dee loco
Nel tuo serio poema : or che farla
Se al par di te fosse poeta il cuoco ?
Siccome basso , cosi ancor devria
Tal non esser lo sili eh’ egli trascenda
Dove aerea i Giganti aprir la via.
Tu l'un con l’altro cautamente emenda,
E tale il tempra, che alla saggia orecchia
E facile e severo in un si renda.
Della novella etade e della vecchia
Scorri in pria gli scrittori o buoni , o rei.
Fatto di mele a serro inclita pecchia.
Perchè Ira tutti lor sceglier tu dei ,
Goni’ io trasceglto in tra le acerbe poma
Quel ch'è maturo e grato agli occhi miei.
FaxioeGuittonnon più tra noi si noma.
Non dico che gl* imiti ; irta ed incolta
Era in quei tempi, or va più giù la chioma.
Vedi , che 1’ onda in picciolrio disciolta
Scende dalla sua vena c poscia ingrossa ,
Indi chiamarsi ed ArnoeTebro ascolta.
A poetar sin da principio mossa
La rozza gente , olir’ esserne derisa ,
Spesso il lettor per lo scrittore arrossa;
Come fanciulche di parlar s’ avvisa
E appena snoda la sua lingua ; e n'esce
Sconcia la voce, o pur tronca e concisa.
Poscia con gli aimi il caldo studio create
E quella che spumò tenera pianta ,
Al campo che nn trilla, onore accresce.
Non tosto il suolo de’suol fior s’ammanta
Ma a poco a poco , come vuol Natura,
Delle sue pompe in faccia al Sol si tanta.
Nel sen de' monti a poco a poco indura
L’ onda raccolta : e poi su regia mensa
Risplcndc in tazza cristallina e pura.
A poco a poco in sua virtute intensa
Diverse tempre ed i color diversi
Al zafiro e al smeraldo il Sol dispensa.
Cosi per lunga età potè vedersi
Chi fabbro fosse alla pieria incude
De’ canni suol c risonanti e tersi.
Perchè le Grazie semplicette e nude
Mostrarsi al maggior Tosco; e quei com-
parve
Cigno gentil , eh’ ogni paraggio esclude.
E al comparir di ini tosto disparve
Quella nel verseg&ar turba infelice,
Qual sogno od ombra oqual mentite larve.
Da si ricca miniera uom saggio elice
Gè che resister pnò del tempo all’ira,
E a crii la Morte mvan sua guerra indice.
Perchè noi segui? e colf eburnea lira
Tra gli odorati ed amorosi mirti
Non osservi qual ride , o qual sospira?
Tu credi andar tra i pellegrini spirti,
Quaior cinguetti al vento , ed aver credi
Serto febeo sui tuoi crin rozzi ed irti.
Fontina i tuoi scritti, osserva e vedi ,
Se san le tue parole e i tuoi pensieri
Di tal vaghezza e nobiltade eredi.
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DELL' ARTE POETICA.
Certo i gì udii j paventar severi
Dcbbe chi scrive; e ancor die’ I volgo appro-
Non gli si vooi già creder di leggieri, {ri ,
Lodo Ular, che muli c che rimatovi
La loggia antica ; ma Tedrai che in (leggio
Quella poscia malata non li trovi.
Non esser di te stesso; e qual far desgio
Favore a te più grato, che condurti
Per ia censura all’ apollineo seggio ?
Ma tu contrasti pertinace ed arti,
E mi guardi arrabbiato e col ripiglio,
Qualor ti (Metro i tuoi difetti o i fiuti.
Se ti spiaoe da me prender consiglio ,
Ben più d’ una è tra noi critica penna ,
Che pwote al vero disserrarti il ciglio.
Non aspettar Boriò che dalia Senna
T' additi il buon sentiero e a lui sol basti,
S' or Pellettieri ed or Colino accenna.
Chè ’l Parnaso loscan fia, che sovrasti
4M
Agli altri tutti , qual per senno ed armi
Tutt' altro un tempo Italia mia domasti.
E più che in bronzi o in intagliati mar-
In memoria vivran l’ anime beile , [mi
Cli* esempio a noi fer <1* onorati carmi.
Inaia iterili di luminose stelle
Gnu e le Muse Intorno a lor si stanno
Chiuse In candido tei vergini ancelle.
Questi io propungo ; e al par di lor non
vanno
Quei, per etri d'Ascrasiperturban Tonde,
E sul rial Tolgo ingiusta laude avranno.
Tù cui di poetar desio s’infonde.
Se eleggi il peggio e non trascegti il fiore,
Odi ’l mio dir , che qui per te si fonde ;
Prima che ’l suo scrittor lo scritto muore
E per lai deca notte si ronstipa :
Stassi sepolto, o con maggior disno re
Le barche det salame aspetta a ripa.
LIBRO SECONDO.
Cornea Fiorenza il giorno dd Battista
Vedi correr cavalli al Drappo d’Oro
Tra ’l popol , eh’è diviso in doppia lista :
E vedi , che diversi son tra loro
Qistodj delle genti, ed uno applaude
A Vegliammo , ed altri a Rrigliadoro ;
Cosi talun tenie d' invidia c fraudo
Pel gran Torquato; ed altri al gran Luigi
Vorria ebe stesse la primiera laude.
E chi decider può questi litigj.
Se diversi di sili son ciascheduno.
Quanto dai Greci son diversi i Frigj ?
Vedesti mai di due palazzi l' uno
Yastoed immenso, e che gran sale ed archi
Ed abbia più di quei die in carte aduno ?
Abbia teatri, e di grand' or non parchi
E fregj e statue a sostenere il peso
Dell’ alte travi e de' più eccelsi incarchi;
Pur il tuo sguardo resteranne offeso
Per qualche imperfezione ; e tal vedrai
0 non finito, o non ben anche inteso.
Dove nell’ altro ’n minor moie avrai
Orditi più giusto , e rispondente al segno
De' latini architetti , o pur de' grai.
Anche nei poco havvi il sublime Ingegno
Chè, perch’d volle, ei circoscrisse in bre» e
L’ampia materia, c fece a aè ritegno.
Tal d’esti due farsi giudizio deve
Incliti e grandi; e che perdoppia intanto
Strada mossero il piè disciolto e lieve.
Or basti il dir che al gran canlor di Man-
Torquato asside; e l'altro al nobil saggicelo
Del cui natal Smirna pretende il vanto.
Questi in più spazioso, ampio viàggio
Guida il suo carro, ancorché rumi) stile
All' epica grandezza faccia oltraggio.
E quegli al suo Maro» sempre simile,
Sparge per tutto di prudenza i lampi ,
Schifo d' ogni pensier basso e servile.
0 tu , che scorri ne’ pierii camp)
Tra il compresso dell' uno c tra 1 diffuso
Dell* altro , del tuo piede orma si stampi.
Nè per mio avviso aver sidebbe In uso.
Che cominci ogni Canio per sentenza;
Chè questo panni un puerile abuso.
Nè men quando |>roponi all’ udienza
Quel che tu tratti , de' febei furori
Sparger dei tutto il foco in lor presenza.
Però che v’ ha de' rigidi censori ,
Coi forse quel non piace tutto a un fiato
Le donne , icavalier. Farmi, e gli amori.
Le cortesìe , T audaci imprese. A lato
A lui sembra Virgilio un fiumicello.
Che lento scorra , e pi adito e posato.
E quegli suona a cosi gran martello:
Ch’ e* par , che vada a sacro la contrada ,
E eh' agl’ ìncendj suoi chiami II bargello.
E chi vuoi gir per terzo? Or via, sen va-
losevnpreebbiper me paura e gelo (da:
Di calcar col mio piè si dubbia strada.
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POEMI DIDASCALICI.
Ha non per questo il buon sentier li celo
Come colui che ti disegna in carte,
O l’ umil terra od il profondo cielo.
Se fai poema, osserva ch'ogni parte
Risponda al lutto, come pianta annosa
Stende da un tronco sol le braccia sparte.
Chè v’ha lalun, che ad ogni Canto posa
Un intero poema; e poscia al vento
Rapire il lascia c più su lui non chiosa.
Varia sia la materia, un l’argomento,
Cui vadano a ferir per ogni banda
Del tuo grand'arco, e cento strali e cento.
Sofronia e Olindo che dal cuor tramanda
Ter la sua donna i suoi sospir focosi ,
Coppia felice insieme e miseranda;
Potean gli stessi e forti ed animosi
Comparir poscia in marzlal conflitto
Gildippc ed Odoardo amanti e sposi.
Eccoti il fine a’ tuoi pensicr prescritto.
Eccoli il cerchio, eccoti il centro, dove
Tender dei per traverso, o pur per dritto.
Poi fa , clic nel poema non si trote
Nulla d'improprio, c non sia pigro Achille,
Nè Paris pronto a militari prove.
Vibri dagli occhi suoi lampi c scintille
Pallade irata , ed alle frigie nuore
Mostri qual odio dal suo cuor partille.
Con maestà religiosa implore
Calcante aita, c poi sul campo argivo,
Per lui pietoso il Cicl versi furore.
E per il forte Ettordl vita privo.
Di canizie c di dunl carco la fronte [vo.
Priamo rassembri un uom tra mortoevl-
Oll di clic forze e generose e pronte
Fa dì mestieri al fin che in versi e in rime
Stuol di diverse immagini s' impronte!
Nè dei tra le seconde o pur tra l'irne
Parti locar, che nomi ingiusti o vani
l.’idol non abbia clic per te s'esprime.
E tu gl’ induci capricciosi e strani.
Appunto come disse un ser poeta ;
Nomi da fare spiritare i cani.
So ben anch'io che l’indo non decreta
Questo per legge fissa ; ma bisogna
Cn nome a cui l' orecchia almcn s'acqueta.
Tu conia barbaresca tua cianfrogna
Cerchi il disprezzo, anzi l'accatti appunto,
Come colui che va cattando rogna.
Su via ; torniamo nei primiero assunto,
Perchè appena scappato dalle mosse,
Tu non mi creda al fin del corso giunto.
Sempre il diletto alma gentil commosse
E per questo la provvida Natura
Volle, che a noi sempre compagno fosse.
E s* uom si volge a una beltà non pura,
Sè stesso inganuae un falso bene apprcn-
E per li falso al vero ben si fura. [de;
In somma ogni diletto in noi discende
Dalla beltade; e questo in noi rinasce
Per ogni oggetto in cui beltà risplende.
E se l’ aima lalor si nutre c pasce
Di stragi e morti e di superbe, altiere
Aspre sventure e lacrimose ambasce;
Quindi al vago lettor nasce il piacere.
In veder qual per te furon dipinte.
Ed ban beltà le cose orrende e fiere.
Per questo aver tu dei le voglie accinte
A far ch’abbia evidenza il tuo poema.
Come pittura per diverse tinte.
Chè se presso al'a tela il braccio trema,
Lascia il pennello; perchè Calandrino
Di tuv follia riderassi estrema.
Pensa quel che faria quel, che d’ Urbino
A noi refulsc italiano Apellc,
Od il Cortona o Tizlan divino.
E se vuol, che le rime abhian con elle
Un qualche brio, volentier concedo,
Che tra lor sparga Antor le sue fiammelle.
Ma per giusta ragion anco ti chiedo
Chcciò.chc torce in vizio, Il mostri in guisa
Che d' onta e biasmo abbia con sè corredo.
Arde d' amor la sfortunata Elisa,
Ma ’l gran cigno romano aperto addila
La di lei colpa dall'onor divisa.
Un dolce suon,ehel’aure cì’ondc invita,
I.' incaute orecchie di Rinaldo alletta,
E quei s’assonna all'armonia gradita.
Ma quel suon, che cotanto a lui diletta,
Vien detto empia lusinga e Iniqua frode,
E dolce mcl, che rio velen prometta.
Or, se per te retto consiglio s’ ode.
Fa’ die ’l vizio abbonir tuo carme insegni.
Ed abbia la virtù premio dì lode.
Nè racconti farai osceni e indegni ;
Ma del tuo cuor bell'armonia concorde
Prescriva al canto d’oncstade i segni.
Oggi al temprar delle toscane corde
Tiugonsi in Pindo di vergogna il viso
Vergini Dee, eh’ esser vorrebbon sorde.
Ma su via concediam, clic di Narciso
Si canti o di Giacinto In-fior converso,
0 d’ Ercole per Ila arso e conquiso.
Il faran forse in stjl polito e terso?
Dell'eloquenza di Mercato Vecchio
Ben veder puoi più d' un I ibraccio asperso.
Questi di veritade odian lo specchio ;
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deli; ARTE POETICA. 40S
Ond'io non serbo lor questa vivanda,
E questa megsa a lor non apparecchio.
Or se T grande e T decoro è clic tramanda
Luce per ogni parte alma e serena;
E tesse eterna ai buon cantor ghirlanda;
Pensa di qual sincera e larga vena
Debba uscir di facondia argenteo rivo,
Allor che calcherai tragica scena.
Ne sarai gii di grande esempio privo
In veder Solimano e Torrismondo
Girne in paraggio del coturno argivo. [do
Non mi biasmar.se prima io fermoc fon-
Sull’epico poema arte e precetti,
E la tragedia un luogo ha qui secondo.
So, che lo Staglrita orna i suoi detti
Sovr'essa : e so che lei mostrar procura
Possente Dea sopra gli umani allctti.
Di (ier sospetto e di gelosa cura
Palpita il cuor de’ regi, e la corona
£ vacillante e mal di se sicura. [na
Odioe vendetta II sen le accende e spro-
A1P orribll matrigna ; e già la reggia
Di strida e di lamenti alto risuona.
Gii sul marmoreo pavimento ondeggia
Sangue innocente c per veleno annegra
Coppa reai, che di grand’ or fiammeggia.
Di regnar cupidigia insana ed egra.
Inique frodi ordisce e franger tenta
Il santo nodo d'amicizia integra, [lenta
Deh vedi un po’, se a tanto oprar non
Hai la tua forza ; e se ’l tuo spirto acceso
Sa dimostrar quel eli’ in si stesso ei senta.
Se l'oltraggiato onore e vilipeso
Per te sa indurre anco spavento ai regi ;
E '! santo e 'I giusto per viltade offeso.
Chi queste son le gemme e gli aurei fregi
De’ quai tragico ammanto è in sé contesto.
Perchè vedano I grandi i lor dispregi.
E sappiati come di pallor funesto
I.a porpore si tinge e che la Fama
Per loro indice opprobrioso arresto.
Siccome dunque la tragedia chiama
Al convito del pianto, un lieto fine
Talia ricerca e lo gradisce ed ama. [fine
Ed ambo in questo hanno un comun con-
Di ben trovargli aggiuntile mostrar vaglia,
H carattere suo Lucrezia o Fri ne. [glia,
Oh quanto, oh quanto lo scultor trava-
Perchè tosto lo ’l ravvisi, allor ch’io miro
Ercole o Adone, che per lui s’ intaglia!
Come al primo voltar degli occhi in giro
Coooscea Roma nell' amica orchestra
Agli atti, al portamento, e Davo e Siro;
Cosi la penna per temprar maestra
In questo lieto e popolar cimento.
Guarda pria se al costume ella si addestra.
Piùd'unvi fu che a ben oprare intento.
Osservò pria dell’umil nlebe ì modi,
E poi gl’ indusse in comico argomento.
Ben è ragion che un tal consiglio io lodi ;
Ma tu rettoricando alla rinfusa.
Vedi ch’esci dal rigo e che trasmodi.
Vedi ch'altro non è che una confusa
Massa la tua commedia c non si scioglir,
E più del gordio nodo è in sè rinchiusa.
Ben pria del maggio conterai le foglie,
Clic i tanti intrighi, di che ’l secol guasto
Nel teatro toscan fia clic s'imbroglie.
lo vedo che al toccar d’ un simil tasto
Più d’ un s’adira, lo l’ ho già detto sopra.
Che al lor palato io non largisco il pasto.
Tu fa'chc Plautoa tcTscntierdiscuopra;
Egli sia ’l tuo maestro, il tuo dottore ;
Ei porga aita; ei tl dia mano all'opra.
Quando tu avessi tutto quanto II fiore
Dell’eloquenza, in somma una ragazza
Dee farla da sofista, od oratore? [piazza
Ti par che il servo od in mercato o in
La debba disputar con don Fernando
S'egli perdona o se ’l rivale ammazza?
Eh non andar coi tuo cervel ronzando
Dietro a queste chimere ; e schietto e piano
Eia quel , che nel pensier vai commentando.
E quel, eli’ è d’ incredibile o lontano,
E dentro a breve spazio non si chiude.
Noi cercherai, perchè ’l cercarlo è insano.
Un ch’ai prim'atto Icsue guance ha nude
Di pelo, al terzo poi me ’l fai barbuto
Quale il nocchier dell’ infernal paludc.[lo
Qualche scritlor d'annali av ria compiu-
Plù d’ima deca a lutto quel che ammassi
Per entro al breve comico statuto.
Equi nonsi convlen che addietro lo lassi,
Ch'oggi senza la lettera o T ritratto
Non par che alcuna per commedia passi.
Quando don Cucco appare e mostre in
Che simil cosa egli ha nella bisaccia, [atto
Per non veder nel mio manici m' appiatto.
Nè dissimil da questa è l’ altra taccia,
Di sempre terminar negli sponsali,
E tener sempre una medesma traccia $
Quasi la dubbia vita de' mortali
Sia scarsa di si fatti altri accidenti
Or funesti, or felici, or buoni, ormali.
Nè forse avrai ben saldi gli argomenti
Per provar tua ragione, ond' òche in prosa
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4M POEMI DIDASCALICI.
Da te si «criva e poi si rappresenti.
Sempre coi carmi poesia ai sposa :
Nè questa può da loro esser disfiunta,
Qual per natura inseparabìl casa.
Ma che direni se in ofgi a tale è fi anta
I a corruttela comica, clic un fallo [ta.
Maggior del primo anche dai carmi spon-
Pier. d’ anodine e canaonctlc a bailo
V edeai «gii' atto e a qual ragion ri stieoo.
Vice l’ autore ; a lui ’l domanda ; ei tallo.
Domandalo a Colino e Cluvleno;
Dico» che scoia queste le lor scene
Molto d’antica insipidezza avrieno.
E che sta tutto il dolce d’ Ippocrene,
Dentro a quei salterelli;? che i grand'uomi-
Fan talor l arie e non le fanno bene. [ni
Io non foglio, che l’ ira mi predomini.
Nè stare a dirti qual visaggio sconcio
T abbia in Parnaso e come tu ti nomini.
So che un giubboa cattivo ioqui ntcs»
Ricucii da una parte e quei si scuce Feto;
Dall' altra ; e so che pigli meco il boncio.
Ma tu rispondi, che a’ tuoi scritti è duce
l.a musica armonia e che alle note
Tal di servir necessiti t' induce.
lo mi credea, che sull' istesse rote
Gisse ii poeta e ’l musico e l' istessa
Arte avesse maniere a lor ben note.
Perdi’ una è l’armonia e bene espressa
Nei carmi invita la gentil sorella,
0 a lei servire o gir di par con essa.
Vuoi forse dire in tua miglior favella.
Che azzardi al vento I carmi c le parole.
Nè curi più questa sentenza o quella.
Povero spirto ! altro per le ci vuole
Ad emendarti. Or via questo capitolo
Sari coni’ esser la commedia suole, [in.
Che nulla ha di commedia fuor che ’t ùoo-
LiBRO TERZO.
ite lungi, o profani ; ignaro c stolto
Volgo, gitene lungi, ecco a ine stesso
10 son rapito e a’ sensi miei son tolto.
Con gli occhi della mente Aaera c Per-
itarmi veder, d’ inusitata c nuova [messo
Pompa vantarsi e dame segno espresso.
Parrai veder che da ogni tronco muova
La sacra vite e d'ederacea fronde
Serto straniero al crin tesser mi giova.
Gii nuovo entusiasmo ia me s’ infonde
E gli con le Bassaridi sorelle
Voglie nutrisco accese e furibonde.
Ecco varcano il rio leggieri e snelle;
Ecco la selva, ecco che '1 monte ascendono
E Satiri ed Egipani con elle.
Voci d’alto mistero l’aria fendono
Voci alte e fioche; e per l' Emonia balza
Lungo rimbombo ed indistinto rendono.
A te quest inno, o buon Letico, s innalza
Ebrifestoso, altier, liamni ispirante,
E le Menadi tue punge cd incalza.
To sei, che ai carro pampinoso arante
Le tigri avvinci : nè quai pria crudeli
Su vestigio d’ orror fermai! le piante.
Parmi che tremi il suol ; parati che veti
Sè stesso il Soie ; e che per polve e vento
11 chiaro giorno mi s' asconda e celi :
È presente il gran Nume, io’lvedo, io’l
Deh tu perdona al tuo poeta : c sia [sento.
Del tue furore il flagellar più lento.
Bastiti, amici, che precetto io dia
Dei carme ditirambico e straniero,
Qual per le penne argoliclic si lidia.
Certo non ha si glorioso impero
La losca lingua; aè con lor s’accoppia;
E non ha stile al par di lor severo.
Nè insiemei noto 1 unisce, o si gii adoppia.
Conte fa il greco, od il latino, in guisa
Ch’ uno sia ’l detto e la sentenza doppia.
Ma por dai buon voler non sia divisa
L’ ostinata fatica, chè vicino
Forse vedrai quel che lontan s’avvisa.
La fatica tirò dal giogo alpino [gfo
I sassi e t marmi ; e l’ uomo industre e sag-
Poi simulacro ne formò divino.
La fatica Insegnò, l'abete e '1 faggio
T rar dalle selve ; e poi pel regno ondoso
Tra le sirti e gii scogli aprir viaggio.
T ulto può la fatica : alto orgoglioso
E l’ utnan genio ; e se la Gloria il desta.
Cerea lieto il travaglio, odia il riposo.
Giù nulla più d’ audace a te si appresta
Del ditirambo, che col forte piede
L' alto giogo eirreo preme e calpesta.
E tale in lui furore esser si vede.
Che puoi chiamarlo in stia gagliarda Iena
Lo scotitor della pieria sede.
E se discendi in questa dii bilia arena.
Vedi, che sia d’alto furor capace
li personaggio che produci m scena.
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DELL’ ARTE POETICA. 407
Achille avvezzo ad odiar la pace.
So a M Briseida rapirai diletta,
Fara del proprio sdegno asta pugnace.
Sul presente argomento il guardo getta;
E. si vedrai che ’l mio pemier propose
Di faror piena ampia materia eletta.
Alle navi spalmate alinevose
Orvada.or torni ; e sulle greche squadre
Volga torre le luci e sanguinose.
Parai lo notti tenebrose ed adre
La sua chiamando con querele e roti
Del salso mar scettripotenle madre.
Confondigli, sommergigli, ad Ignoti
Licfi spingi i navigli ; e a’ danni loro
Fulmin del Cielo orribile si ruoti.
Tal, quai Baccante deh' emonio Coro
Fingimi Achilie : e la sua donna ascolte
Dirsi una furia e non del cuor tesoro.
Di mostruose voci aspre • stravolte
Non sarai parco ; chè in tal caso avranno
Arte maggior, com’ più parranno incolte.
Segui f alma rapita , e a te verranno
Fuor dell’ uso cornuti sensi e parole,
Che in discorde concordia uniti andranno.
Eccoti detto ht le toscane scuole ,
Che non sol serve H ditirambo a quella
Di Scmele e di Giove inclita prole ;
Ma anche dove Amor le sue quadretta
Vibra possente ; e dove intensa voglia
Accende inestinguibile facella.
Chènielteson ieformeacvii si ammoglia
E se non sei si risentito e forte,
Di men feroce stil già non ti doglia.
Non sempre è il’ uopo infuriar di sorte,
Che al nerboruto cello ed atte braccia
V’abbisognin tenaci, aspre ritorte.
Piaccia il tnocantoauco alle Ninfe e piac-
Agll allegri conviti ; e tra’ bicchieri [da
Il nome <F AmarHIt non si taccia.
Odia Bacco i pensier foschi e severi ;
Eson compagni suoi loScherao e T Riso ,
Di lor baldanza giovenile altieri.
Maque!,che là mi guarda alterno e fiso.
Ceri’ è vendemmiatore , io il riconosco
Alle mani, ed al piedi mosto Intriso.
Fuggiamo, amici; olà, fuggi amo al bosco:
Ascootliamci da lui ; chè motti esali
Ha pie» d’ amaro e velenoso tosco.
Certo quindi sortitine i suoi natali
La satira pungente -, e quindi tolsa
Maniere ardite , c le converse in strali.
Un tal costume volontier s’ accolse
Dalla plebe insolente, indi ’l timore
D’ esser chioccati, quel collegio sciolse.
Non Falerni fama e non sporcar P onore
Nelle satire tue : chè da cartello
Non è il sacro di Ptndo almo furore.
Perrliè quantunque fur Lupo e Metello
Dipinti al vivo in satiresco ludo.
Vuol più rispetto il secolo novello.
Ciascun, che vede farsi aperto e nudo,
Ciò che vorrìa nascosto , arma la mano
Alla vendetta ; e a sé di sè fa scudo.
Tu s’ hai fior di giudido Intero c sano,
E s’hai la penna di prudenza armata.
Dai veri nomi ti terrai lontano.
Senza nomare alcun della brigata ,
Ben vedrai dove in un girar di ciglia ,
Anche di finta giunga la sferzata.
Vedi Curcuiton, che s’ accapiglia
Coi letterati ; c con le dure zampe
Sciupa il fien di Parnaso c Io scompiglia.
Vedi a Trimalcion girne le vampe
Delta crapula al cercbro, che bolle,
E 7 poeta digiun bada alle stampe.
Vedi Crtspm , clic delicato e molle
Dcbbe al-astauro, se arrirchi repente,
E poi carrozza c bei ginnetti ei volle.
Vedi clic sempre a rallegrar la gente
Vuoivi qualche fantoccio ; onil’è clic al ba-
Yad’Ippocrrnc anche Colin sotcntc.[gno
Vedi ch’è gentiluoni sol nel vivagno
Bondeno, c nel suo cor rinchiuse ha dentro.
Berline e forche e di schiavacci un bagno.
Vedi Serrano come va scontento
Per povertade, e stima a gran vergogna
S’ ei pranza di Pontormo in frale argento.
Questi argomenti a te batter bisogna,
A te di spirti c di ferocia pieno.
Nè balbettare a guisa d* uom che sogna.
Ecome già ne’ rostri amichi avieno.
Auree lingue, feconde , imperio e forza
Pallidi gii empi ad ascoltar ti stieno.
Fa’ che passi tl tuo dire oltre la scorza ;
E nel cupo del cuor baratro Interno,
Il fier de’ vizj orrido incendio sitiorza.
Sin qui dentro a’ tuoi scritti Io non di-
che tu razzoli a fondo; e di giocose, [scemo
Burle sol pieno io vedo il tuo quaderno.
Io dirai , eh’ esser drbbon rispettose
Le salire alla fama; c non che deva
Al vizio farsi un tal guandal di rose.
Ma già detto è abbastanza : or via tl leva
Dalla condon satirica , chè forse
Nulla a Crispln , nulla a Bonden rileva.
Poi vedi come a più dolce uso torse
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4ftS PORMI DIDASCALICI.
Parnaso! carmi; e all’alme illustri c chiaro,
Di più lieta armonia materia porse.
Nutrissi un tempo di querele amare
La piangente Elegia , c poscia prese
Forme piu dilettevoli e più care.
Indi al foco d'Amor tutta si accese,
E poleo celebrar dentro al suo regno
Del figlio di Citerà armi ed imprese.
Dole’ ire degli amanti , e dolce sdegno
Sono gti strati , che dall’arco d'oro
Suol sovente librar (lurido ingegno.
Talvolta ammette al nobil suo lavoro
Le lodi degli eroi; c unisce insieme
Col lorde mirto il trionfale alloro.
Piena di generosa, ardita speme
Imita alle battaglia, e grida il viva
De’ vincitori alle fatiche estreme.
E quale in Campidoglio allo si udiva
Festoso applauso , aneli’ ella in regio am-
manto
Vicn ghirlandata il oriti di bianca oliva.
Talvolta ancora sconsolata in pianto
L’ uso antico ripiglia ; e in benda negra
Presso al funereo rogo innalza il cauto.
Scinta il scn, sparsa il crine, afflitta ed
egra
Dice a sè stessa : Ahi sfortunata, ahi lassa!
Non fa per tc di star fra gente allegra.
E poscia grida al peregrin che passa:
A questo freddo mar ino , a queste note
Deh, se non sei scortese, li ciglio abbassa.
Or , come io dico , 1' Elegia ben puotc
Vagar per tutto ; perchè ormai non sono
Di Pindo a lei le varie strade ignote.
Don ha diverso , e più dimesso il suono
L’ Egloga umile : e una sampogna eletta
In don vuol darmi , se di lei ragiono.
Questa rozza fanciulla e semplicetta
Ode le valli , ode le selve argute
Risponder spesso all’ armonia diletta.
Guida a pasco gli armenti , e le lanute
Greggi al cantar di Coridone e loia,
Miran F ’auno chinar le orecchie irsute.
Vedersi lascia un poco e poi s’invola
Agli altrui sguardi Galatea gentile.
Dolce scherzando in amorosa scola.
E Tirsi il pastorcl dal chiuso ovile
Specchiati, dire, al virili fonte, al rio,
Ed abbi alla beltà pietà simile.
Io pur dianzi mi vidi, e vidi il mio
Sembiante ; e così brutto esser non panni,
Che tu debba , crudel , pormi in obblio.
Quest’ è l’idea che a’ tuoi silvestri carmi
Propor tu dei: e non cangiare in provarmi.
L’umil sampogna in tromba avvezza all'ar-
so , che talor la selva esser si trova
Anche degna d’ un principe , e talvolta
Forma di carmi indusse altera e nuova.
So , che C.lrra talor vede, ed ascolta
Per Ferme valli celebrar gli eroi ,
E girne i cocchi trionfali In volta.
Nobil strada apriranno ai carmi tuoi
Tiliro nelle selve ; e in Tonde salse
11 gran Sincero c i chiari accenti suoi.
Mergillina gentil , se mai ti calsc
D* un nome eterno , ah che Tumil Sebeto
Tesserti ai crin serto immortale ei valse.
Di Pindo T odorifero laureto
Dopo lunga stagion non udì unquanco
Per altri risonar carme si lieto.
EGIauco anch’egli il sen spumosoe bian-
Più non fende la salsa onda marina , [co
Qual pria soleva, nolator non stanco.
Nè Prnchita e Miseno c la vicina
Ischia non T ode in su gli algosi scogli
Produrre il canto infin clic ’l Sol dechina.
Più non s’ ode Licon : Dal lido sciogli ,
Sciogli dal lido , oh piccioletla barca ,
E la mia speme in questa vela accogli.
Prendi dell’ alto , o costeggiando varca
Queste rive pescose, e queste arene,
Indi ritorna di conchiglie carca.
Ninfe del mar, partenopee Sirene
Dite, che a Filli questi doni io serbo.
Filli crudel , che tanto a vii mi tiene.
Misero! a che cantandolo disacerbo
Il duro afTanno 7 Ed oh, perchè si adesca ,
All' amo della speme il duolo acerbo.
Odimi , o Filli , e poi di me t' incresca ;
Io voglio or ora in questo mar profondo
Farmi d’ orridi mostri e gioco ed esca.
Vedi , lettor , che largo e che fecondo
(^anipo si appresta : e non saria già vano ,
Se non sei ’l primo, esser almen secondo.
Gilè se d’ un stil più casalingo e piano
Vuoi gir contento, come verbigrazia :
Udite Fracastoro un caso strano
Io te ’l concedo ; e’ non s’appaga o sazia
Ciascun d’ un cibo : e qualsisia vivanda ,
A chi ben la condisce ha la sua grazia.
Perchè a diversi Calderotti manda
Apollo; e su In Parnaso un barbagianni
Grida: Qui c’è per tutti la bevanda.
Nè vo’ che per ingordo si condanni
('hi tufTò il muso in tutto; come fece
Benché a suo danno, monsignor Giovanni.
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400
DELL* ARTE POETICA.
Basti , che qualche maestro Lavacccc
Non pretenda di aver le dieci parti ,
Quando n' ha una mezza delle diccc.
Io dico tutto questo per mostrarti
Quanto color tu debba ater in stima ,
Sopra de' quali a te non lice alzarti.
Dalia più eccelsa parte irsene all' ima
£ facile a più d' un ; ma raro è quei ,
Che sé da basso luogo alza e sublima.
Tu che dell’umil sili contento sei,
Gl' Idiotismi ed 1 proverbj e 1 motti
Pur della plebe in mente aver tu dei.
Chi nelle liete cene e nelle notti
Estive, allor che l'aura invita al canto,
Di simil cose gli uditor son ghiotti.
Al giocoso poeta applaude intanto
La gioventude , e forse ancor Licori
Ride accorciala il crin , succinta il manto.
Vedi , eli’ io non son un de' barbassori.
Che voglia , che ’i mio dir tanto ti noccia
Che sulle tempie tue sfrondi gli allori.
Tutti crediam ber l'Ippocrene a doccia;
E s’ io gli dico che l’ è posatura ,
Colin noT crede, e più e più s' incoccia.
Ha di fargli mutar mente e natura
Nessun s'ingegni; perchè ciò parrebbe
Invidia aver di questa sua ventura.
Colui , che giù la sanità riebbe
Per la 'n mezzo alla fronte incisa vena,
E per il purel lo elleboro, che bebbe;
Armò la lingua di disdegno piena
Contro 'I medico, allor che l' allegria
Si vide tolta: e gli fu afTanuo e pena
L' esser disciolto dalla sua pazzia.
LIBRO QUARTO.
AI risonar della celeste lira,
Lieto risponde in armonia concorde
Ogni pianeta , e Intorno al Sol s’aggira.
Ah menti umane , se non foste sorde
Al dolce suon , eh' ha di rapir costume.
Non saria '1 vostro oprar dal Ciel discorde.
Nè In questo basso e paludoso fiume
V immergereste ; ma sareste in guisa
D'aquila, che alle sfere il volo assume.
Guardate il Cielo, ivi l’ istoria è incisa
Delle stupende maraviglie eterne :
Dio le segna in quel libro e le divisa.
Esc tanta bellezza ha nell’ esterne
Sembianze il Ciel, quanto più grande c vaga
Quella sarà eli' occhio mortai non sceme ?
Quella elle in Dio I raggi suoi propaga ,
E coll' effluvio di sua luce Immensa
I.’ anime elette e fortunate appaga.
Squarcisi ornai questa si folta c densa
Nebbia cbe'l guardo olTuscae intanto aspiri
Noslr'alma al Ciel colla sua brama intensa.
Ogni spirto gentile ormai si miri
Farà lira celeste ; e sia la mano
L'altomotnr che I’ auree corde inspiri.
Oh quale avrebbe onore alto e sovrano
Se degli eroi del Ciel vittorie e palme
Prendesse 11 plettro a celebrar toscano !
De' forti eroi , che nel gran di le salme
Più non vedranno di lor sangue asperse.
Ma doppiar nuova luce alle grand’ alme.
Quando sarà , eh' io veda a tal converse
Le studiose v Igilie ; e che a tal segno
Tendan le rime e i carmi inditi e terse 1
Ben v' ha talun, che ’l generoso ingegno
Sprona; ma il nuovo e si diffidi corso
Dlniega ancor l'intera palma e '1 regno.
Chè in la selva amorosa è ormai trascor-
Tantn lo stil , clic a disusata strada, [so
Mal può con destra man torcere il morso.
Ma via; per noi d'un buon consiglio vada
La face avanti ; ed il scnticr disgombri
Di questa a molti incognita contrada.
Prima un sacro argomento non s'ingoni'
Di favole profane: e sol s’ impronte [bri
Di sacra Istoria , che mistcriu adombri.
Quei , che d’Alv ernia in soli tario monte
Da Cristo prese l’ ultimo sigillo,
V" è citi cuti Anniballe il mette a fronte.
Se qui la mia sentenza lo dissigillo,
Certo trovò nella mia mente intoppo
Si fatto paragone, allorché udillo.
E chiodo di ragion non valse doppo
A fissarmelo in mente ; c al sacro allato
Sempre 11 profano è difettoso e zoppo.
Ampie vittorie Gedeone armato
Mercò con poche squadre ; e v ide al cenno
Ubbidienti e la Natura e T Fato.
Questi esempi da te seguir si denno ;
E nella sacra pagina gli addita
In larga copia la prudenza e '1 senno.
Vuol tu nel mal oprar femmina ardita?
Ecco Dalila iniqua; e nel garzone
18
410 POEMI D1D
Ebreo , V Amore , ecco la Fò tradii».
Vuoi veder, che inobbiio H Gel non pone
Un si vii tradimento? Ecco a vendetta
La minora mano arma Sansone.
L* alta mole superba a terra getta ;
Ed in vlitù del rinascente crine.
Strage fa dell' Infida femminella.
E veder vuol , che fabbro è di mine
L* umano orgoglio ; e che non mal poteo
Coll* al te forze contrastar divine?
A che l'assalto rimembrar Flegrco,
Se di confusione c d’ crror piena,
La torre babilonica cadrò?
E se non sai «piai per Ira vaglio e pena
Yassl poi di letizia all’ aureo albergo
Guarda Gfoseffo in su I* egizia arena.
Quel poco, che del mollo In carie lo vergo
Arrogo a quel che ti mostrai pur dianzi
Mentre i tuoi sguardi al ver disserro ed
Indi bisogna, elio le stesso a \ nuri ergo.
D* arte e ti* ingegno ; ed un lascivo amore
Tra le. vergini Dee non scherzi c danzi.
Altro foco , altre fiamme infonde al core
L’amor col te; e quel elici volgo appella
Amor , sovente è un micidiale ardore.
Così per le la penitente e bella
Di Magdalo, non sia qual cipria Dea
Al passo, al guardo, agli atti, alla favella.
Non sia no, quale un tempo esser solca;
De* cui begli occhi al folgorar possente,
Hù d’un* alma gl* incendj egra bevea.
Ma se del carro tuo la ruota ardente ,
Sol si rivolge al corso Eleo d’ intorno ,
E sol palme caduche hai nella mente;
Allor potrai senz* alcun biasmo e scorno,
Tutto adoprar quel che di vagoo finto
Portò la Grecia al suo più lieto giorno.
E quale in Atte udissi, o in Aracinto
Per tutto risonar l’erculea fama,
Tal per te andranno il vincitor sul vinto.
E dir potrai, che il coro elisio il chiama
Novello Alcide; e eli’ egli assalsc e vinse
L' angue Ionico In paludosa lama.
Ed uom die i vlzj a debellar s’ accinse,
Nel tuo carme sarà l’alto guerriero ,
Che sull’empia Medusa il brando strinse.
Poi seguirai per non cornuti sentiero
Il gran cantore alla cui patria amico
Fu quel di Grecia domatore altiero.
E qui, lettor, non mi ti far nemico, [do
S’io trincio e scorcio e se mostrarti io ’nten-
Qual tu vai lungi dal buon senno antico.
Via cominciarli. Col fulmine tremendo
I.YSCAUCL
Mandò in pezzi di Fiegra la montagna ,
! E ’l baratro a’ Giganti aperse orrendo*
Giove, clic spunta ancor con le calcagna
Dell* auree stelle i solidi adamanti.
Clic son cerchi , a cui ’l ciel fa di lavagna.
Oh che bel fraseggiare, oh che galanti
Pensieri ! Aspetto ancor , che sien le stelle
A forze d’ armonia palei rotanti.
Donde imparaste mai sì vaglie e beile
Maniere ? E tu rispondi : È piudaresco
Lo stile : or paragona e questo c quelle.
Pindaro cosi parla ? lo cedo ed esce
Di questo arringo, e la (ropp’alla inchiesta
Lascio ed altre parole io non ci accresco.
Glie tracotanza e che superbia è questa
(ani un parlar spropositato c malto.
Con Pindaro volere alzar la cresta !
Gilè s'egli gira , e per immenso tratto
Guida il suo carro , ci sa però quel punto.
Che quasi centro ai suo discorso ha fallo.
Escno’l sa, dovria saperlo, appunto
Come d* Euclide un giovanetlo alunno
Che in data linea a farue uiraltraègiuuto.
E se 1 suoi detti troppo arditi fanno.
Sappi , che ’l ricco, argolico linguaggio
Fa di sè i olontier Proteo e Verlunoo.
Di più Pindaro avea nel suo stallaggio
Certi cava!!/ generosi c forti.
Che d’ erto giogo non temean viaggio.
Ma voi cervelli torneimi e corti.
Alia parte del Ciel chiara e suprema .
Chi mai vi rende a sormontare accorti?
Non ogni galeotto ardilo rema
In pelago profondo ; ed umil barca [ma.
Rade 1* acqua d’ un stagno e quieta e $ce-
Pcr questo, dite v oi chel buon Petrarca,
Costanzo e ’l Casa dcll'ltaiia onore ,
A mensa stanno mediocre e parca.
Ma voi bevete le stemprate aurore,
Polverizzate stello e liquefatti
1 cieli, che d’ambrosia hanno il sapore.
Povero spirto, die in pensier sì fatti.
Credi il più vago di Parnaso accolto ;
E storta squadra a un si bei marmo adatti!
Tu quegli sei , che dal ferace e coito
Campo mieter non sai il buon frumento ;
E invece d’ impinguarlo , il rendi incolto.
So ben che un grande, armonico con-
cento
Convìcnsi all’ Ode e clic talor le aggrada
Un stile impetuoso e violento.
E v* ha talun , che per scoscesa strada
Sempre si porta; e maraviglia muove.
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DELL* ARTE POETICA.
Come tra I precipizj egli non cada.
Ma queste generose, ardite prove
Non son da tutti ; e non a tutti è dato
Crear le forme inusitate e nuove.
Su '1 Simocnta al fiero Achille irato ,
E tesser inno ai vincitor famosi ,
Con vietisi un plettro di gran suono armato.
Talor nutre pensieri alti, orgogliosi
La pindarica cetra ; indi repente
Par che si abbassi c che si adagi e posi.
E tal costume osserverai sovente
Nei ligure poeta : e in quegli ancora.
Cui Febo al crin promise ostro lucente.
Ma lo stil, die cotanto in lor s'onora.
Ve’, che per te non corre; e che al paraggio
Perde la tua moneta , e si scolora.
Sempre un tnedesmo mantener viaggio
Non per questo lod’ io ; quasi che sia
L’ uscir di strada un fare a Febo oltraggio.
Ma sempre fisso in la tua mente stia,
Che sebben t’ allontani , i carmi erranti
Tornin colà , d’ onde partirò in pria.
Nè sembrerà d'uorn, dica battuta canti,
L* Oda , che scrivi ; quasi la cadenza ,
0 fermar prima , o gir non possa avanti.
Mostra d’ esser di te padrone : e senza
Saltar sempre a piè pari , ora più lunga.
Ora più corta sia la tua sentenza.
Nè men la chiusa cercherai, che punga
Nel fin d’ ogni tua strofe; ma il concetto
Nobile e grande alle mie orecchie giunga.
Lascia che si tapini un ragazzetto ,
S* egli non trova un contrapposto all’ ora
Ch’ egli fa l’epigramma, o ’i distichetto.
Ma tu, che sei de’dieiott* anni fuora.
Dir non saprd se non ch'hai morte e vita
E guerra e pace, e sudi c agghiacci ognora.
Se cosi non favelli, inaridita
È la tua vena ; c scarsa c angusta rendi
Quella d'amor materia ampia, infinita.
Tu non parli col cuore, c non intendi
Come l'ode gentil si muove in danza
E finto appare il fuoco, in cui Li accendi.
L’ allegrezze , i timori e la speranza
Esprimi degli amanti, e talor ferva
D’ira II tuo stile, e giovenil baldanza.
E l’ audaci repulse e la proterva
Rissa e di gelosia mordace cura,
A te di vago ampio argomento serva.
Il tutto agli occhi miei orna e figura
In guisa tal , eli* io riconosca aperto
La vera fiamma ancor che in finta arsura.
Ed ecco ai mirti io veggio un ramo inserto
Della palladia oliva e aggiunger fregj
Nuovi ed illustri ai verde, idalio serto.
Del Parnaso toscano incliti pregj
Questi son pur, che d* amorosa face
Fa chiara lampa agl'intelletti egregj.
0 famose città, con vostra pace,
Roma ed Atene, non alzaste a tanto.
Come i cigni dell’Arno il volo audace.
In pi ù superbe scuole apprese il canto,
Talor l’ode toscana ; e in dono ottenne
Pur di Minerva il prezioso ammanto.
Molti invaghì di sua bellezza e venne
In lor desio di chiaro esempio farse
Alle più sagge e gloriose penne.
Oh fortunati a’quai sì lice alzarse
Per sapienza e dimostrar le tempie
D’altri fiori immortali ornate e sparse!
Ornate c sparse, perchè mal s' adempia
Lìrica parte allor che di dottrine,
Senza velarle, 11 vario carme s’ empie.
Chè le Muse dubbiare anco latine.
Se mertassc Lucrezio, se ’l ver odo,
La corona poetica su ’l crine.
Ornale adunque e sì rintreccia in modo.
Che non il volgo, ma un sagace ingegno
D’ alto saver vi riconosca il nodo.
Vedi di che soave, altero sdegno
Laura s’accende e de’ begli occhiai rai
Distrugge in altri ogni pensicrmen degno.
Parti un senso comune? Or se tu sai
Seder tra filosofica famiglia,
Rcn più profonda, alla notizia avrai.
Sul platonico dogma apri le ciglia,
E vedrai, che ’l gran savio in lui dimostra
Cile Amore a un cuor gentil ratto si appi-
Ma son diversi amorÌ;uno si prostra 'glia.
Alle forme caduche c l’altro aspira
Al bel dell’ alma in la corporea chiostra.
Ed H secondo alla beltà si aggira
Pur corporale ed oltre poi non passa ;
K per vaghezza esterna ei sol sospira.
Una dotta materia è talor cassa
D'ogni ornamento; onde talor conviene.
Forma adoprar, che sia volgare e bassa.
Chi vuol filosofar, per me' s’ attiene
Al carme che non è da rime avvinto,
E ovunque vuole, in libertà si tiene.
E allor narrar potrai, se per suo instiate
li Ciel si muova o se d’ intorno ruoti :
QuaJ da maggiore il minor peso è vinto.
E perchè sicn della lor luce voti
Alcuni globi e come Cinzia in cielo
Diverse abbia le facce e tardi i moti.
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412 POEMI DIDASCALICI.
Come le nevi alpine o ’1 pigro gelo
Si faccia inrarcratlo-, e come possa
Notar sull' acque un ponderoso scio.
Come la luce dal suo loco mossa
Giunga agli sguardi miei ,se ’l volo e il sano
0 l’ impedisce o ne tralticn la possa.
E come In modo s) diverso e strano
Alcune cose addensi, alcune scioglie
Quegli del mondo illustralor sovrano.
Come l’alma Natura oprando soglia
Serbare in ogni specie ordin conforme :
Nè lor di somiglianza in tutto spoglia.
Cosi le Illustri e venerabll orme
Seguirai de’ gran savi, a cui la fama
Non è mai stanca e mai per lor s’ addormc.
Or via, passiamo ad altro : ecco dirama
Apollo un ramoscel, che In don vuol darlo
A un bel sonetto che gran tempo il brama.
Ma prima che si venga a coronarlo,
Vedo che di Parnaso all’ assemblea
Pria proporlo bisogna e poi passarlo.
Certo la prisca eli ben molto avea,
E molto giusta di temer cagione
Della bilancia d'erudita Astrea.
Questo breve poema altrui propone
Apollo stesso, come lidia pietra
Da porre i grand’ ingegni al paragone.
E più d'una vedrai toscana cetra,
A cui per altro il bel Parnaso applaude,
Che in questo cede c toleulicr s'arretra.
lnlungoscritloaltruisi puùfar fraude;
Ma dentro un breve, subito si posa
L’occhio su quel che merla biasmo o laude.
Ogni picdola colpa è vergognosa
Dentro un sonetto; e l’uditor s’offende
D’una rima che vengami po’ ritrosa;
0 se per tutto cgual non si distende;
0 non £ numeroso, o se la chiusa
Da quel che sopra proporrai, non pende.
E altrui non vai quella si magra scusa
Di dir che troppo rigida è la legge,
Che in quattordici versi sta rinchiusa.
E che mal si sostiene e mal si regge
Per scarsezza di rime e l’ intelletto
Talor quel, che non piace, a forza elegge.
In questo di Procuste orrido letto.
Chi II sforza a giacer? Forse in rovina
Andrà Parnaso senza il tuo sonetto}
Lascia a color che a tanto il Gel destina.
L’opra scabrosa ; o per lung' uso ed arte
ViapiU la mano e plU l'ingegno affina.
Ma forse io che pretendo di mostrane
La strada, più d' ogn' altro erro il sentiero
Per non Intesa e sconosciuta parte.
Lettor, m’accorgo, che tu dici il vero;
Ma se meglio tu trovi, intanto attendo.
Clic tu prenda un po' tu questo mestlero.
Ed un tal poco la mia cetra appendo.
LIBRO QUINTO.
Te, Roma, io v idi c le tue pompe illustri;
E vidi clic risorgi assai più bella,
Dal cencr tuo, al variar de’ lustri.
Certo il favor di più propizia stella
M' addusse alle tue mura ; c assai mi dolse.
Che in te non fui dalla mia età novella.
Ch'io vidi Amor, che distia man m’accol-
E al chiaro Sol deU’immortal Cristina, [se ;
Nebbia di duol dagli ocelli miei si tolse.
E del genio reai l'alta e divina
Luce lo mirai, che in ogni cuor gentile,
Gli spirti illustra e gl’intelletti affina.
Deb fosse un giorno il mio purgato stile
Prossimo al gran Torquato ; ed ai canori
Cigni del Mincio il mio cantar simile.
A voi, donna reai, ben d’altri (lori [te
Farci ghirlanda : e andrirno in un congiun-
Le vostre palme e i miei pierll allori.
Alme felici a sì bel grado assunte,
Le vostr'alle memorie amando onoro,
Non mai del tempo al variar consunte.
E quel felici ancor, cu’ i Ciel non foro
Parchi d’illustri cose esposte al guardo
Per farne ricco entro del cuor tesoro
Chè l'ingegno per al tra oppresso e tardo.
Per nobìl vista si risveglia e scote
Dal pigro sonno e muove il piè gagliardo.
Cosi al girar delle superne rote
Si seconda la terra ; e in sè riceve
Virlute a quel che far da sè non puote.
E poi d’ ogni sua pompa al Ciel al deve
L’alta ragione; ella per lui rinfranca,
E di v igor novello in lui s’ imbeve.
Tal se l' ingegno sotto il fasce manca
Della propria fralezza ; alta porge [ca.
Un grande oggetto all' alma affilila e stan-
E mille farsi a lei d’ avanti scorge
Vaghe, sublimi idee, in cui la mente
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413
DELL’ ARTE POETICA
Lieta si appaga a a nuovo oprar risorgo.
Dove, che la volgar, misera gente
Quasi posta in oscura, orrida valle
Torpe In sè stessa e se svegliar non sente.
Oh della gloria luminoso calle!
Felice quel che in te vestigio imprime,
Nè a’ rai dei tuo bei Sol volge lespanc.[inc
Orchibrama che'lgrandeeche’l subli-
Rlsplenda ne’ suoi scritti e si consiglia
Correr di Plndo invcr le palme prime;
Giammai non torca dall’onor le ciglia,
Mai dalla nohiltadc; e 1 suoi pensieri
Servano a lei qual signori! famiglia.
E co'suoi spirti generosi ealticri[ traggio
Non mai s’abbassi a quel clic all’alma ol-
Può far co’ suol vapor torbidi e neri.
Tenga lungi dal volgo erto il viaggio
E le nebbie importune alto saetti
Dal suo bel elei col luminoso raggio.
E poi ben giusta , inclita laude aspetti
Da quegli che verranno. Ah si : verranno
Migliori al coro ascreo giudici eletti.
E quel che forse or sconosciuti stanno
Sin dagli elisii campi eccelso e forte
DI benché larda gloria II suono udranno.
Ver’ è, che al (Sei la lor beata sorte
Debbon spirti sublimi; e questo èil pregio,
Che sol pei grazia è fatto altrui consorte.
Esser l’ ingegno In nobiltade egregio
Mal puO per arte e sol del Ciel cortese,
E questi è di Natura unico fregio.
Ella da prima in le grand’ alme accese
ITn gentil foco : ed ella i semi sparse
E a lieto germogliar pronti gli rese.
In sterile terren non vedi alzarse
Pianta meschina ; e del su’ aprii si duole,
Che so! squallide frondi in lei cosparse.
Aneli' ella pur vorrebbe In faccia al Sole
Spiegar Oorlda chioma a’ suol verd’anni,
Sla ritrosa natura osta e no ’l vuole.
Pur non Da, che del tutto Invan si affanni
I.’ Ingegno umile allor che anela e suda
Pur di Natura a ristorare i danni.
E non ha, che del tutto a lui si chiuda
Il si diflicil varco e che del tutto
D'cITetto voto il buon voler s’ escluda. [to,
Cliè quel che pan e orridocampoasdut-
Per onda si discioglie e a chi ’i coltiva.
Dolce promette In sua stagione il frutto.
Non t’ accorar se v’ha talun che scriva,
Che iman si tenta ogni arteepurperarte
la piccola barchetta al porto arriva.
Nelle ciliare di Febo eterne carte
Mille vedrai indite forme e mille,
Clic potrai! del sublime esemplo farte.
E nel tuo cuor le tacite faville
A poco a poco sveglierans); e poi
Per tutto vibrerai lampi e scintille.
E al grande oprar de’ gloriosi croi,
\ edrai lo spirto in te farsi maggiore,
E gli angusti sdegnar confini suol, [cuore
Questo vuol dir clic a ciasclicdun nel
Havvl il talento; ma non sempre eguale.
Che grande è in altri e forse è in te minore.
Mira qual splende il cielo e mira quale
Ardon gli astri diversi; e la chiarezza
Spesso dell’ uno al suo vicin prevale.
E pur son paghi della lor bellezza no
Ciascun, benché diversi ; e ’1 guardo uma-
Tragged’ entrambi una gentil vaghezza.
Ma perchè a te chiaro si faccia e piano
Qual sia ’l sublime, or via!’ orecchlaappre-
Nè forse ai detti Inchinerassi invano, [sta :
Sublime è quel eh’ altri in leggendo de-
Ad ammirarlo e di cui fuor traluce [sta
Beltà maggior di quel che ’l dir non presta.
Ond' è che l’ alma a venerarlo induce,
E l’ empie di sè stesso e la circonda
D’ una maravlgliosa, amabil luce.
Equanto li guardo in lui più si profonda.
Più e più diletta : e per vigore occulto
I.a mente del lettor fassi feconda, [culto
So ben che puote anche In sermone Ri-
chiudersi un gran penslcro;c si apprescnta
Talvolta In creta anche un gran Nume in-
sculto.
E v’ha talun, ch’ebbe la cura intenta
Solo al concetto, e l’ornamento esterno
Sprezzò la mano e ncgliittosa e lenta.
Quindi sovente un tal costume ioscerno
In quei che ratto Immaginando al Cielo,
Vide far di tre giri un giro eterno.
Ma tu d'uii doppio e generoso zelo
Vorrei, che ardessi e che le grand’ idee
Ricco avesser per te pomposo velo.
Chi non ha l'auro o’i perde ,è ver che bee
li Chianti in vetro ; ma più lieto in vista
Spargerla di rubili gemme eritree,
É vcr.chc in massa ancor confusa e mista
Ila suo prezzo i’ argento, e pur novella
lin’ artefice man grazia gli acquista.
È ver che grezzo è l'adamante e In quella
Ruvida spoglia è prezioso ; e pure
Alla fervida ruota ci più s’abbclia.
Cosi le basse forme e sì l’ oscure
Fuggir tu dei c all’arte, all'ornamento
tu POEMI DIDASCALICI.
Volger l’ ingegno e le sagaci cure.
E far, clic splenda il non vnlgar talento
Ne’ gran sensi non sol, ma in quello ancora
Onde si spiega un nobile argomento.
Chè se l'un tu riserbi c l'altro fuora
Negletto lasci, non atrai per certo
La doppia palma, onde lo slil s'onora.
Quindi farassi alla tua mente aperto
Qual sia ’l contrario del sublime; iu cui
Alcun non è dei delti pregj inserto.
Talvolta udrai dentro gli scritti altrui
Alto rimbombo e strepitoso il suono;
Ma ve*, che inganna c non è fondo in lui.
Perchè l’alta del grande origin sono
I gran pensieri, e di febea faretra
Fulmine i sensi e le parole il tuono.
Alpestre e duro tronco, orrida pietra
Or non udisti giù dal giogo alpino
Trarsi in virtù dell’ apollinea cetra?
Gd indi farsi ai gran canlor vicino
La frondosa famiglia, aprirgli alante
Vaga selvosa scena il corro e ’l pino?
Tal di favoleggiar la Grecia amante
Finse le altere maraviglie nuove
Nelle seguaci ed animate piante. [muove,
L* aurea cetra, clic i tronchi c i sassi
E il naturale entusiasmo, ei solo
S’ha da Natura c non s' imprende altrove.
In ogni altro per arte alzar dal suolo
Potrai ; ma non d’ altronde ater le penne
Per questo, di eli' io parlo etereo volo.
E basterà, che sol di lui ti acccnnc.
Ch'egli è quei che rapisce e quei che inspira
L’ alma gentil , che a poetar sen venne.
E poscia in sua virtute anco a sè tira
Gli animi altrui ; e i moli in loro alterna
Per varie tempre dell’ eburnea lira.
E s) soavemente egli s' interna
Nell’ intelletto, che ubbidir conviene
A lui, che l’almc a suo piacer governa.
Ma con l’ entusiasmo anco sen viene
Pur da Natura il buon giudizio : oh quanto,
Quanto è l’imperio clic’n Parnaso ei (iene !
Ei di graud'oro il cria fregiato e il manto
Siede qual rege, e colisi glier fedeli
Senno c prudenza ognor statinogli accanto.
Nè possi bil fia mai , che a lui si celi
II buono e ’l reo ; ed al suo guardo acuto
Son tolti dell' inganno i duri veli, [muto;
Tu approvi un detto, ed io’l cancello e il
Stimi buona una forma, io la riprovo;
Quello a te piace, ed io ne fo rifiuto.
Che più? Difficilmente in me ritrovo
La ragion perchè quello o questo sia [v«.
Migliore; c pur migliore è quel che innuo»
Oh forza dell* interna alta armonia
Da pochi intesa! c qual liceo m'insegna
Come si formi c come in noi si stia?
Materia certo a Lanl'onor men degna
Non trascclse Natura: e quegli parve.
Clic gemma in oro di legar disegna.
Oude taluu più luminoso apparve
Nella sua mente; altri negletto e basso
Lasciollo in preda alle mentite larve.
Or chi guidommi al cosi dubbio passo
Di dar precetti? e come, ohimè, pretesi
Reggere altrui col fianco infermo e lasso?
Stolto dii spirti marziali e accesi
Non chiude entro del seno , e pur si veste
11 fino acciaro e i militari arnesi.
K stollo chi le vele agili e preste
Non sa volgere ai venti, e pur si fida
In mezzo dell’ orribili tempeste.
Oh chi se* tu, sento più d'un che grida,
Chi sei tu , clic di luce in tutto privo
Altrui vuoi far di luminosa guida? [vo;
lo’l mi so ben, che indottamente io scri-
E a toccar fondo entro ’l pierio gorgo
Col mio scandaglio malamente arrivo.
Ma pur , per quanto io posso aita porgo
Al buon volere ; c l’ onorala speme 1*0-
Benché a tropp'allo segno indrizzo c scor-
So che nel campo oguor germoglia in*
sieme
Con le sterili avene anco il frumento ,
Poi si trascegiie il buon dal tristo seme.
E so clic ’l braccio pauroso e lento
Stende alle spine giovinetta sposa.
Poi fior ne coglie al crin vago ornamento.
Non è (la lutti aver l’alma sdegnosa
Sull’ altrui penna : ed uomo a Palla amico,
li reo tralascia e sovra il buon si posa.
D' Ennio non fece il rozzo carme aulico,
Chc'l Cigno, per cui Manto in pregio asce-
A1 bel che in lui trovò , fosse nemico, [so,
Ma le picchile vele al vento stese
Tempo è raccorre ; ed è ben tempo ornai
Goder sul fermo lido aura cortese.
Picciola mia fatica a quegli andrai ,
Cui la Virtù sparge alle tempie intorno
Viepiù die d’ ostro e d'or, lucenti ì raì.
K sperar puoi che all’ inimortai soggior*
Ti guidi delie Muse , ove risplende [no
Un sempre chiaro, imperttirbabi! giorno.
Se spirto al ver presago il cuor m’accen-
de.
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LORENZO MASCHERONI
INVITO A LESBIA.
Perché con rocc di soavi canni
Ti chiama all’alta Roma inclito cigno,
Spargerai tu (Pubblio dolce promessa.
Onde allegrassi la minor Pavia?
Pur lambc sponda memore d’ impero.
Benché del fasto de’ trionfi ignuda,
Di longobardo oncr pago il Tesino :
E Icsuc verdi, o Lesbia, amene rive [ca?
Non piacqucr poi qiiam'altrc al tuo Pctrar-
Qui raccoglila gentil l'alto Visconte
Hcl torri to palagio, e qui perenne
Sta la memoria d’ un suo caro pegno.
Te qui Pallade chiama, e te le Muse,
E P Eco che ripete il tuo bell' inuo
Ter la rapita a noi, data alla Dora,
Come più volle Amor, bionda donzella.
Troppo altra volta rapida seguendo
Il tuo gran cor, clic l’ opere dell’ arte
A contemplar nella città di Giano,
E a Firenze bellissima ti trasse.
Di leggier orma questo suol segnasti ;
Ma fra queste cadenti, antiche torri
Guidate, il sai, dalla cesarea mano
L* attiche discipline, c di moli’ oro
Sparse, ed altere di famosi nomi, [la.
Parlano un suon che attenta Europa ascol-
Se di tua vista consolar le tante
Brame ti piaccia, intorno a te verranno
Della risorta Atene i chiari ingegni ;
E quei che a te sul margine del Brcinbo
Trasse tua fama e le comuni Muse,
E quei che pieni del tuo nome, al Cielo
Chieggon pur di vederti. Chi le sfere
A voi trascorre, e su britanna lance
L'universo equilibra; e chi la prisca
Fé degli avi alle tarde età tramanda;
E chi della Natura alma reina
Spiega la pompa trìplice ; e chi segna
L’origin vera del conoscer nostro;
Chi ne' gorghi del cor mette lo sguardo;
E qual la sorte delle varie genti
Colora, c gli agghiacciali c gli arsi climi
Di fior cosparge ; qual per leggi frena
il secolo ritroso; altri per mano
Volge a suo senno gli elementi, c muta
Le facce ai corpi ; altri sugli egri suda
Con argomenti che non seppe Coo.
Tu qual gemma che brilla in cerchi d'oro.
Segno di mille sguardi andrai fra quelli,
Pascendo il pellegrino animo intanto
E i sensi de’ lor detti : essi de' tuoi
Dolce faranno entro il pcnsier raccolta*
Molli di ior potrian tccu le corde
Trattar di Febo con maestre dila:
Non pelò il suon n' udrai ; eli’ essi di Pa fa
Gelosa d’altre Dee, qui temon l’ire.
Quanto urli* alpe e indie acric rupi
Natura metallifera nasconde ;
Quanto respira in aria, e quanto iu terra,
E (pianto guizza negli acquosi regni.
Ti fiaschieratoall'occliio : in ricchi scrigui
Con avveduta man lf orditi dispose
Di tre regni le spoglie. Imita il ferro
Crisoliti e rubili ; sprizza dai sasso
Il liquido mercurio; arde funesto
L’arsenico; traluce ai sguardi avari
Dalla sabbia nativa 11 pallid’oro.
Che se ami più dell* eritrea marina
Le tornile conchiglie, inclita Ninfa;
Di che vivi color, di quante forme
Trassele il bruno pescalor dall’ ondai
L’Aurora forse le spruzzò de’ misti
Raggi, e godè talora andar torcendo
Con la rosala man lor cave spire.
Una del colio tuo le perle in seno
Educò verginella; all'altra il labbro
Della sanguigna porpora ministro
Splende ; di questa la rugosa scorza
Stette con l’or sulla hdancia c vinte.
Altre si fero, invan dimandi come.
Carcere c nido in grembo al tasso ; a quelle
Qual Dea del mar d* incognite tarole
Scrisse l’ eburneo dorso? c chi di righe
E d’ intervalli sul forbito scudo
416
POEMI DIDASCALICI.
Sparse l'arcana musica? da un lato
Aspre e ferrigne glacclon molte : e grave
D'immane peso assai rosa dall' onde
La rauca di Triton buccina tace.
Questo ad un tempo è pesce ed e macigno,
Questa e qual pili la vuoi chiocciola o selce.
Tempo gii fu che le profonde valli,
E 'I nubifero dorso d’ Apennino
Copriano I salsi flutti ; pria che il cervo
La foresta scorresse, c pria che l’ uomo
Dalla gran Madre antica aliasse II capo.
L'ostrica allor sulle pendici alpine
La marmorea loc6 famiglia immensa:
Il nautilo contorto all' aure amiche
Apri la vela, equilibrò la conca;
D' Africo poscia al minacciar, raccolti [ho,
Gl’ Inulil remi e chiuso al nlcchioin grem-
Dcluse il mar : scola al nocchier futuro.
Cresceva intanto di sue vote spoglie,
Avanzi della morte, il fianco al moute.
Quando da lungi preparato e ascosto
A mortai sguardo dall' eterne stelle
Sopravvenne desilo; lasciò d' Atlante
F di Tauro le spalle, e in minor regno
( ontrasse il mar le sue procelle c l'ire :
' .ol verde pian l’altrice terra apparve.
Conobbe Abido II Bosforo; ebbe nome
Adria ed Eusin; dall’elemento usato
Deluso 11 pesce, e sotto l'alta arena
Sepolte, in pietra rigida si strinse :
Vedi cl.e la sua preda ancora addenta.
Queste scaglie incorrotte, e queste forme
Ignote al nuovo mar, manda dal Bolca
L’alma del tuo Pompei patria Verona.
Son queste l' ossa che lasciar sul margo
Del palustre Tesin dall'alpe Intatta
Dietro alla rabbia punica discese
Le immani, affriche belve? oda quest’ ossa
Già rivestite del rigor di sasso
Ebbe lor piè non aspettato inciampo?
Chè qui già forse Italici elefanti
Pascea la piaggia, e Roma ancor non era ;
Nè lidi a lidi avea imprecato ed armi
Contrarie ad armi la deserta Dido.
Non lungi accusan la vulcania fiamma
Pomici scabre c scoloriti marmi.
Bello è 11 veder lungi dal giogo ardente
Le liquefatte viscere dell' Etna,
Lanciati sassi al ciel. Altro fu svelto
Dal sempre acceso Stromboli ; altro corse
Sul fianco del Vesevo onda rovente.
0 di Pompeo o d’ Ercole già colte
Città comparse ed obbliate, alfine
Dopo sì lunga età risorte al giorno !
Presso I misteri d’ Iside c le danze
Dal negro ciel venuto a larghi rivi
Voi questo cener sovraggiunse ; in voi
GII aurei lavor di pcnnel greco offese.
Dove voi lascio innamorad augelli.
Sotto altro cielo ed altro Sol volanti?
Te risplendente del color del foco;
Te ricco di corona ; te di gemme
Distinto il tergo; e te mlracol novo
D' informe rostro c di pennuta lingua ?
Tu col gran tratto d' ala il mar traversi ;
Tu pur, esile colibrì, vestilo
D'instabili color dell'etra al campi
Con brevissima penna osi fidarli.
Ora gli sguardi a sè col fulgid’ ostro
Chiamali dell’ ali c con le macchie d' oro
Le occhiute, leggerissime farfalle,
Onor d’erbose rive : ai caldi soli
Uscir dal career trasformate c breve
Ebbero il dono della terza vita.
Questa suggeva il timo, c questa il croco.
Non altramente che dall' auree carte
De’ tesori dìrcei tu cogli il flore.
Questo col capo folgorante l'ombre
Ruppe all' ignudo American che in traccia
Notturno va dell' appiattata fera.
E voi non tacerò, voi di dolci acque
Celeri figli, e di salati stagni :
Te, delfin vispo, cui del vicin nembo
Fama non dubbio accorgimento diede,
E pietà quasi umana e senso al canto;
Te che di lunga spada armato ii muso
Guizzi qual dardo, e le balene assalti;
Te che, al sol tocco di tue membra inermi.
Di subita mirabile percossa,
L' avido pcscator stendi sul lido.
Ardirò ancor tinta d’orrore esporre
Al cupidi occhi tuoi diversa scena,
Lesbia gentil ; turpi sembianze e crude.
Che disdegnò nel partorir la terra.
Nè strane fiano a te nè men gioconde,
A te clic già, tratta per man dal novo
Plinio tuo dolce amico, a Senna in riva
Per li negati al volgo aditi entrasti.
Prole tra maschi incognito; rifiuto
Del dilicato sesso; orror d' entrambi
Nacque costui. Qual colpa sua, qual ira
Dell’avaro destino a lui fu madre?
Qual Infelice amore o fiera pugna
Strinse cosi l’ un contro l’altro questi
Teneri ancor nel carcere natale,
Che appena giunti al di, dal comun seno
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INVITO A
Con due respir che s' incontrare uscendo,
L'alma indistinta resero alle stelle?
Costui se lunga età veder potea.
Era Ciclope : mira il torvo ciglio
Unico in mezzo al volto. Un altro volto
Questi porta sul tergo, ed era Giano.
Or ve’ mlrabll mostro I senza capo,
Son poche lune, e senza petto uscito
Al Sol, del viver suo per pochi istanti
Fece tremando e palpitando fede.
Folle chi aitier sen va di ferree membra
Ebbro di gioventù ! Perché nel corso
Precorri U cervo, e T lupo al bosco sfidi,
E l’orrido cinghiai vinci alla pugna.
Già t’ergi re degli animali. Intanto
Famiglia di virenti entro tue carni.
Te non veggente, e sotto la robusta
Pelle, di te lieta si pasce, e beve
Secura il sangue tuo, tra fibra e fibra.
Questo di vermi popolo infinito,
Ospite rose un di viscere vive.
E tal di ior cui non appar di capo
Certo vestigio, qual lo vedi, lungo
Ben trenta spanne, intier si trasse a stento
Dai moltiplici errar iabirintel.
Qual nelle coste si forò l'albergo
Col sordo dente, c quale al cor si pose.
Nè sol dell’uom,ma degli armenti al campo
Altri segula le torme, c mentre l’ erba
Tornirà la mite agnella, alcun di loro
Limando entro 11 ccrvel, dall' alta rupe
Vertiginosa in rio furar la trasse.
Tal quaggiù dell’altrui vita si nutre,
Altre a nudrimc condannata, l’egra
Vita mortai, che il Ciel parco dispensa.
Ecco il lento bradipo, il simo urango,
U ricinto anpadillo, l'istrice irto.
Il castoro architetto, il muschio alpestre,
La crudel tigre, l’arniellin di neve.
Ecco 11 lurido pipa, a cui dal tergo
Cadder maturi al Sol tepido i figli :
L’Ingordo can, clic triplicati arrota
I denti c ’l navigante inghiottc intero.
Torvo cosi dal Scnegallo sbuca
L’ ippopotamo, e con l’ informe zampa
Dell' estuosa zona occupa II lido.
Guarda vertebre immani ! e sono avanzi :
Si smisurata la balena rompe
Nella polir contrada i ghiacci irsuti!
È spoglia, non temer se la Insolca
Lingua dardeggia, e se minaccia II salto
La maculata vipera, e i colubri.
Che accesi solcan infocate arene.
LESBIA. 417
Qui minor di sua fama il voi raccoglie
Il drago ; qui il terror del Nilo stende
Per sette e sette braccia il sozzo corpo ;
Qui dal sonante strascino tradito
Il crotalo implacabile, qui l'aspe;
E tutti i mostri suoi l' Affrica manda.
Citi è costui che d’alti pensier pieno
Tanta filosofia porta nel volto?
£ Il dlvin Galileo, clic primo infranse
L’idolo antico, e con periglio trasse
Alla nativa libertà le menti :
Novi ocelli pose in fronte all' uomo, Giove
Cinse di stelle ; c fatta accusa al Sole
Di corruttibll tempra, il locò poi.
Aito compenso, sopra immobil trono.
L’ altro che sorge a lui rimpctto, in vesta
lindi ravvolto, e con dimessa fronte,
£ Cavalier, che d' infiniti campi
Fece alla taciturna Algebra dono.
0 sommi lumi dell’Italia! il culto
Gradite dcll'Orobla pastorella
Ch'entra fra voi, clic le vivaci fronde
Spicca dal crine e ai vostro piè le sparge.
In questa a miglior geni! aperta Iure
li linguaggio del ver Fisica parla.
Alle dimande sue confessa II peso
Il molle, cedente aere : ma stretto
Scoppia sdegnoso dal foralo ferro,
Avventando mortifera ferita.
Figlio del Sole il raggio selliforme
AH’ ombre in sen rotto per vetro obliquo
Splende distinto nei color dell' Irl.
Per mille vie torna non vario in volto;
Nella Dollondia man docil depone
La dipinta corona; in breve foco
Stringesi, ed arma innumerahil punte
A vincer la durezza adamantina.
Qui il simulato elei sue rote Inarca,
L’anno divide, l’incostante Luna
In giro mena, e seco lei la terra.
Suo circolante anello or mostra or cela
Il non più lontanissimo Saturno.
Adombra Giove i suoi seguaci, e segna
Oltre Pirone c Calpe al vigil sguardo
Il confin d’oriente: in altra parte
Virtù bevendo di scoprir nel buio
Flutto all' errante marinar la stella,
Dall'amato macigno II ferro pende.
Qui declinando per accesa canna
0 tocca dall’elettrica favilla
Vedrai l’ acqua sparir, nascer da quella
Gemina prole di mirabil aure :
L'onda dar fiamma, c la fiamma dar onda.
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418 POEMI DIDASCALICI.
Benché, qual or ti piaccia in buoi i aspetti
Veder per arte trasformarsi l corpi,
0 sia che in essi ripercosso e spinto
Per calli angusti, odali' accesa chioma
Tratto del Sol per lucido cristallo
Gli elementi distempri ardordi fiamma;
0 sia eh' umide vie tenti, c mordendo
Con salino iicor masse petrose
Squagli, e divelle le nascoste terre
D'avidi umori viccndcvol preda
Le doni, c quanto in sen la terra chiude
A suo piacer rigeneri e distrugga
Chimica forza : alle tue dotte brame
Affretta» già più man le belle prore.
Tu verserai liquida vena in pura
Liquida vena, e del confuso umore
Ti resterà tra man massa concreta.
Qual zolla donde il Sole il vapor bebbe.
Tu mescerai purissi m’onda, a chiara
Purissiin'onda, e di color cilestro
L’utnor commisto appariratti, quale
Appare il ciel dopo il soffiar di coro, [ro,
Tingerai, Lesbia, in acqua il bruno accia-
E all' uscir splenderà candido argento.
Soffri per poco se dal torno desta
Con innocente strepito, sugli occhi
La simulata folgore ti guizza.
Quindi osò l' noni condurre il fuiminvcro
In ferrei ceppi e disarmò le nubi.
Ve’ che ogni corpo liquido, ogni duro
Nasconde il pascol dei baldi : lo traggo
Dalle cieche latebre accorta mano,
E raddensa premendo e lo tragitta,
L' arcana fiamma a suo v oler trattando.
E se per entro agli epidaurj regni
Poma già fu che di Prometeo il foco
Che scorre aii'uom le membra, e tutte scote
A un lieve del pensier cenno le vene.
Sia dal ciel tratta elettrica scintilla:
Non tu per soglio ascreo l’ abbi sì tosto.
Suscita or dubbio non leggier sul vero
Felsina antica di saper maestra,
Con sottil argomento di metalli
Le risentile rane interrogando.
Tu le vedesti suU’orobìa sponda
Le garrule presaghe della pioggia
Tolte ai guadi del Brcmbo altro presagio,
Aprir di luce al secolo vicino.
Stavano tronche il collo : con sagace
Man le immolava vittime a Minerva
Cinte d’ argentea benda i nudi fianchi
Sull' ara del saper gioviti ministro.
Non esse a colpo di colici crudele
Torcean le membra, non a molte punte.
Già preda abbandonata dalla morte
Parcan giacer : tua se l’ argentea benda
Altra di mal distinto, ignobil stagno
Dalle vicine carni al lembo estremo
Vcoue a toccar, la misera vedevi
Quasi risorta ad improvvisa vita
Ratlrarre i nervi, c con tremor frequente
Per incognito duol divincolarsi,
lo lessi allor nel tuo chinar dei ciglio.
Che ten gravò : ma quella non intese
Di qual potea pietade andar su;ierba.
E quindi in preda allo stupori! parve
Chiaro veder quella virtù che cieca
Passa per interposti, umidi tratti
Dal vile stagno al ricco argento, e torna
Da questo a quello con perenne giro.
Tu pur al labbro le congiunte lame.
Come ti prescrivea de’ saggi il rito,
Lesbia, appressasti, e con sapore acuto
D’alti misteri t’avvisò la lingua.
E ancor mi suona nel pensier tua voce.
Quando al veder che per ondose vie
L'elemento nuotava, c del convulso
Animai galleggiante i (binati
Slami del senso circolando punse;
Chiedesti al Ciel clic dall’ iudustri prove
Venisse all'egra Umanità soccorso.
Ah se cosi dopo il sottil lavoro
Di vigilati carmi, orror talvolta
Vano di membra, il gel misto col foco.
Ti va le vene ricercando, c abbatte
La gentil dalle Grazie ordita salma :
Quanto d’Italia onor, Lesbia, saria
Con l’arte nova rallegrarti il giorno!
Da questa porta, risospinla al lampo
Del vincitor del tempo eterni libri,
Kugge Ignoranza c dietro lei le larve
D* orror pasciute, e timide del Sole.
Opra è infinita i tanti aspetti e i nomi
Ad uno ad uno annoverar. Tu questo,
Lesbia, non isdegnar gentil volume
Che s’offre a te : dall'onorata sede
Volar vorrebbe all* alma autrice incontro.
D’ambe le parti immobili si stanno.
Serbando il loco a lui. Colonna e Stampa.
Quel pur ti prega che non più consenta
AH’ alme rime tue, vaghe sorelle,
Andar divise, onde odono fra ’I plauso
Talor sonar dolce lamento : al novo
Vedremo allor volume aureo cresciuto
Ceder loco maggior Stampa e Colonna*
Or degli estinti nelle mute case,
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„ invito
Non U parrà «piasi calar giù risa
Sull'esempio «li lui, dalla cui cetra
Tanta in te <T armonia parte discese?
Scarnata e<i ossea sull' entrar s’ avventa
Del can la forma : ah non C questo il crudo
•erber trifale cui placar tu decida
«•on medicata cialda : invano mostra
idi acmi den ti ; el dorme un sonno eterno.
ssce d'intorno a lui con cento aspetti
Uanno silvestri e mansuete fere :
Sta senta chioma il nerieoi., sull’orma
Immoto è il daino- è senza polpo il bieco
Unghia! feroce, senza rene il lupo,
Senza uhdato, e non lo punge fame
Belle bianche ossa dcll’agncl vicino.
Piaccia ora a te quest’ anglico cristallo
A leggiadri occhi sottoporre; ed ecco
Di ’erme vii giganteggiar le membra.
U>mc in antico bosco d’alte querce
Benso e di pini. Io cognate piante
I rami intreeelan, la confusa massa
Irta di ramuscel fende le nubi :
Cosi, ma con più bello ordin tu vedi
Quale pel lungo dell’aperto dorso
’* ,re mila muscoli la selva.
Riconosci il gentil candido baco
<-ura de’ ricchi Sericani ; forse
)i tua mano talor tu lo pascesti
Delle di Tlsbc c d’infelici amori
Memori foglie ; oggi ti mostra quanti
Nervi affatichi allor die a te sottili
E de! seno c del crin prepara I veli.
Ve la cornuta chiocciola ritorta,
Eui di gemine nozze Amor fa dono :
Mira sotto qual parte, OTe si sema
Troncar dal ferro Inaspettato il capo,
Ritiri I nodi della cara vita :
Perche, qualnr l'inargentate coma
Ripigli in elei la Luna, anch’ ella possa
Uscir col novo capo alla campagna.
Altri a destra minuti, altri a sinistra
Ch’ebbero vita un di, sospesi il ventre
Mostrano aperto : e tanti e di struttura
Tanto diversa li fc’ nascer Giove,
De sapienti a tormentar l’ingegno.
Ne! più Interno de’ regni della Morte
Scende dall’ alto la luce smarrita.
Esangue i nervi cl' ossa, ond'uom si forma,
E le recise viscere ( se puoi
Sostener ferma la sparuta scena )
Numera Anatomia ; del cor son queste
Le regton, ch’esperto ferro schiuse.
Non ti stupir se l’usbergo del petto
410
A LESBIA.
E l’ossa dure, n muscolo carnoso
Potò romper cozzando ; si lo sprona
Con tal forza l’allarga Amor tiranno’
Osserva gl’intricati labirinti,
Dove nasce il pensier; mirale celle
De’ taciti sosplr : nude le libre
Appalon qui del moto, e là de’ sensi
Fide ministre, c in lungo giro erranti
Le delicate origin della vita :
Serpeggia nelle tene» falso sangue.
L arte ammirasti ; ora men tristi oggetti,
Intento ìi tuo guardar, l’animo cerca.
Andiamo, Lesbia ; pullular vedrai
Entro tepide celle erbe salubri,
Dono di navi peregrine : stanno
Le prede di più climi in pochi solchi.
Aspettati tc, chiara bellezza, I fiori
Dell Indo : avide al son tuo voleranno
Le morbide fragranze americane.
Argomento di studio e di diletto.
Come verdeggia il zucchero tu vedi
A canna arcade slmile : qual pende
Il legume d’ Aleppo dal suo ramo,
A coronar le mense titil bevanda.
Qual sorga l’ananas, come la palma
Incurvi, prendo al vinritor, la fronda.
Ah non sia chi la man ponga alla scorza
Dell'albero fallace aivclcnato.
Se non tuoi eh’ aspre doglie a lui prepari
Rossa di larghi margini ia pelle.
Questa pudica dalle dita fogge;
La solcala mammella arma di spine
Il barbarico cacto; al Sol si gira
Clizia amorosa : sopra lor trasvola
L’ape ministra dell' aereo mele.
Dal calice succhiato in ceppi stretta
La mosca, in seno al fior trova la tomba.
Qui pure il Sonno con pigre ali, mollo
Dall'erbc lasse conosciuto Dio
S’aggira, e al giunger d'Espcro rinchiude
Con la man fresca le stillanti bocce,
Che aprirà ristorate il bel mattino.
E chi potesse udir de’ tordi rami
Le segrete parole allor che I furti
Dolci fa il vento sugli aperti fiori
Degli odorati semi, e in giro porla
La speme della prole a cento fronde :
Come ai marito suo parria gemente
L'avida pianta susnrrar! che nozze
Hai) pur le piante; c Zefiro leggero
Discorritor dell’ indiche pendici
A quel fecondi amor plaude aleggiando.
Erba gentil (nè v’è sospir di vento)
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4J0 lutili DIDASCALICI.
Vedi inquieta tremolar sul gambo;
Non vi ve? e non dirai che ella pur senta?
Ricerca forse II patrio margo e ’l rio,
E ducisi d'abbracciar con le radici
Estrania terra sotto stelle Ignote,
E in europea prigion bevere a stento
Brasi del Sol per lo spiraglio I rai.
Eancorcbi saette in suo linguaggio i germi
Compagni , di quell' ora non avvisi
Che II Sol da noi fuggendo, alla lor patria,
Alla Spagna novella il giorno porta?
Noi pur noi, Lesbia, alla magione Invita...
Ha che non puA sugl' ingannati sensi
Desir, che segga della mente in cima?
Non era lo teco? a te fean pur corona
Gl' illustri amici. A te salubri piante,
E belve e pesci e auge!, marmi e metalli
Ne' palladj ricinti iva io mostrando.
Certo guidar tuoi passi a me parca ;
Certo udii le parole : e tu di Brembo
Oimèl lungo la riva anco ti stai.
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SATIRE
ERCOLE BENTIVOGLIO.
L
A PIETRO ANTONIO ACCIAIOLI.
Sopra I bel colli che vagheggiati l’Arno,
E la nostra città ch’or ducisi ed ave
Pallido 11 viso e lagrimoso Indarno,
Son un di quei che con fatica grave
Al marzlal lavoro armati tiene
Quel chedi Pietro ha l’una c l'altra chiave.
Qui vivo in mille guai, disagj c pene;
Onde forza è di por Parti in obbllo,
Per cui famose son Corinto e Atene :
Chè Invece di Catullo c Tibul mio,
Del Mantovano e di colui d'Arpino,
La lancia tutto il giorno in man tcngh’ io.
In vece dell’ Albano e del divino
Trebbian che ber costi aolea, gusto uno,
Vie più che aceto dispiacevol vino.
L'n duro pane muffido e più bruno,
Che ’l mantel vostro amaramente rodo,
E non n’ avendo ancor spesso digiuno.
Se dormir spero , a mena notte I’ odo
La tromba clic m’imita a tor la landa,
E la celata dispiccar dal chiodo.
E i nemici talór con mesta guancia
Miro, Ti dico il ver tutto pauroso,
Che il capo mi si fori o braccio o pancia.
Quante volle dico io meco pensoso :
Saggio citi sussi dove non rimbomba
D'archibugio lo strepito noioso.
Nè suoli orribil d’ importuna tromba,
Nè di tamburo il sonno scaccia a lui,
Nè teme ad or ad or l’ oscura tomba.
0 voi prudente, o ben accorto, o vul
Fortunato Acciaiuol, che lontan sete
Dai perigliosi casi ove siam nui 1
Piaceli! i udir che in sanità vivete
Coi cari figli ; e vi dirò di queste
Nuove clic di saper desir avete.
Pochi denari e gran timor di peste
Ha questo campo e sol gli archibugi empi
Le scaramuccie fanno aspre e funeste.
Duoimi il veder che l begli, antichi esem*
Non seguan questi capiUn che vanno [pi
Sotto cosi vii peso a questi tempi :
Nè usan la modestia che usat’ hanno
Gli antichi capitani, che 1 palagi,
Le case non volcan ch’avesscr danno :
Chè Insino I templi qui, non dai disagi
Di legna astretti, gettati hanno a terra
Per porli al foco i barbari malvagi.
Solcasi usar che il vincitor in guerra
Spogliava solo il vinto; e tra noi oggi
Spogliasi c col pugnai di poi s’atterra.
Convien ch’io miri ovunque scenda o
poggi,
Malgrado mio fierezze acerbe e nuove
Per questi vostri già si ameni poggi.
Atti orrendi da dir colà già dove
Entrar la Sievc nel nostro Arno io vidi.
Forse d’ altr’ uom già mal non visti al troi e.
Da otto, e che Spagnuoll eran in’ avvidi
Dal parlar e dal volto, un villanelle
Legato fu non senza amari gridi.
Chè partito dal suo povero ostello
A vender biada e fieno Iva a Fiorenza,
Di eh’ era carco un piccolo asinelio.
Quivi il misero fecer restar senza
Membro vlril, che gli tagliar di botto
Sordi a mille mìei preghi in mia presenza.
Nè sazj fur di tal martir quegli otto
I jdri, del sangue italico sì ingordi,
Che l’arsero ancor tutti col pilotto,
Come fa mastro Anton le starne e Mordi
Nello sebidone, e non perù puniti
Dai capitani fur rigidi e sordi.
E veggo altri crudeli alti infiniti.
SATIRE.
422
Che d' onor privati le cattive donne,
Presenti I padri e i miseri mariti.
E tolte lor anelli e enfile e gonne,
Fannosi cuoche e meretrici tutte
Quelle che dianzi fur caste e madonne.
Se vecchie prendono stroppiate o brut*
Yi so dir clic le conciali col bastone, [tc.
Si che non hanno mai le luci asciutte.
Se bella è la prigìona, il suo giubbone
Le mette il tristo c una berretta in testa,
Poi l’usa in ogni uffizio di garzone.
0 fortunata c non simile a questa,
0 degna d’alti onori antica etade,
Mon acerba c crude!, vie più modesta!
Àllor che i capitan fur di boutade.
D’animo invitto e di virtù ripieni,
E ogni atto rio fuggir di crudeltadc!
Alma Pace, ri mena i di sereni,
E con le spiche c con l’ oliva in mano.
Col sen di pomi ornai ritorna c vieni :
Si che tra noi spento il furor insano,
L’Italia assai assai tinta di sangue
Riposi, c ’l tempio chiudasi di Giano.
Misera Italia, che sospira c langue,
E chiede indarno a’ suoi signori aita.
Più rigidi ver lei, che tigre od angue.
Chè s’ impetro io dalla bontà infinita
D'uscir di questi bellicosi affanni,
E che ritorni a casa con la vita ; [panni
Nè vuo', Acciaiuol, che più mi logri 1
Spallazzo nè che ’l capo cimo mi prema,
Ma con le Muse e con Apoi questi anni
Vivere in pace inslno all’ora estrema.
VINCIGUERRA.
il
Quando in esigUo povere e deluse
Veggio andar le Virtù ti c quando io provo
In vii guadagno mendicar le Muse,
Pien di mestizia a lagrimar commovo
Gli occhi languidi e Tonimene fra via
Dicendo : Ahi lasso, in che stato mi trovo !
Ove bo riposto la speranza mia?
Misera etade, secolo infelice,
Ove cosa non è che buona sia!
Dall’ una parte veggio la comico
Gracchiar per li teatri e Filomena
Pianger ne’ boschi il suo tempo felice.
Dall’ altra il tauro Fallerato mena
Sotto il giogo all’aratro i buon corsieri,
E questo è quel che il mondo tristo pena.
Cosi sen vanno 1* arti e i magisteri
Tutti in rovina c non è chi sollevi
Chiaro Ingegno, di cui fama si speri.
Fra storditi pensieri, inaliti c lievi
Trastulla il mondo e fra ghidlzj falsi,
Fra discorsi Imperfetti, avari e brevi.
Se mai del cicco error suo mi prevalsi,
Qui le pompe rinunzio e qui il suo orgoglio,
Che scrivo in onde ed aro In lidi salsi.
Poi eh’ io veggo picn d* ira e di cordoglio
Fuggirsi Apollo c pianger le pudiche
Sorelle die in Parnaso onorar soglio.
E M arsi a cìnto di loquaci piche
Trionfar c Minerva si distrugge
Godendo Arsene e l’ altre sue nemiche.
Con la siringa in man Cillenio fuggì*.
Gli’ Argo è già desto c contro lui s’ affanna,
Come leone che per fame rugge.
E Oberalo superbo siede In scranna
Lodato dal gran figlio di Filippo, [na.
Benché ogni altro giudizio il preme e <tan-
Rolto 6 il decreto c venga ornai Lisippo
Con quant* arte si voglia c venga Apclle,
Chè tanto è in prezzo buon quant’occhio
lippo.
Chi può stipar più il ventre e le mascelle
Di pubbliche rapine, oggi è più degno
D’abitar su nd Cicl fra F altre stelle.
Però con vie n ch’io canti per disdegno,
Ch’ essendo sul fetor della sentina,
Non posso contener 1* animo pregno.
Surga qui l’alta tuba venusina,
La citara d* Arunca c quel d' Aquino
Che il scettro tiene in satira latina.
Fulmini Persio ci' antiquo Cratino,
Susarion, Monandro e Filemone
Con stil chiaro sonante e pellegrino.
Poi che l’avara ed invida Giunone [Giove
Sbarrato ha 1* uscio e non vuol eh’ entri a
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SATIRE. 423
D' altro «elio manici, elle di montone.
E dalla reggia sua l’aquila move
Per annidarti r affamate arpie,
Ch’ arman gli artigli adunchi a tutte prore.
Fra lor toglie crudeli, atroci e rie
Siede l'Invidia di virtù nimica,
Tutta ripiena d’odj e gelosie.
Questa è la fera livida che intrica
Tutti i disegni gloriosi e ciliari ;
Questa è colei che i cor gentil fatica.
Pallida e marra siede fra i preclari
Scettri con gli occhi vagalmndi c torti.
Che a mirar dritto par che mai no' impari.
Denti scabri di ferro acuti c forti
Fan siepe a quella sua lingua di serpe,
Che molti ingegni tien sepolti e morti.
Fele c cicuta per il petto serpe ;
Nè ride s’ altrui doglia non l’ invita;
Brama l’error del mondo ed odia Euterpe.
In lei non regna sonno, ma vestita
Di vigilanti cure, sempre mira
Nell’ altrui bene con doglia infinita.
Questo è il supplizio che l' annoia c gira;
Questo è quell’ incurabile letargo
Che lei a morte distruggendo tira.
Dall' altro canto più desta che Argo,
Sollecita la madre d' ogni vizio, [go.
Che un mar nel ventre suo profondo e lar-
do abisso di gola, un precipizio
Apre quando la mira il scellerato
Danar, eh' è sempre d’ ogni male inizio.
Prede, Furti, Rapine, Usure a lato,
Servibile idolatra, ingorde Brame
Sono i ministri del suo iniquo Staio.
Qual più vago di ferro ebe di rame
Struzzo, costei d’or fin solo e d'argento,
Par ebe si strugga da rabbiosa fame.
Spirto ansioso, privo di contento
Per la fiera voragine che prende
Sue voglie ardite in ogni tradimento.
Il corso naturai sola contende ;
Chè quando ogui animai satollo dorme,
Lei dopo il pasto maggior fante accende.
Vigile sempre con sue crude voglie
Ringiovenisce, poi che il tempo invecchia
L'altro cose creale in varie forme, [chia
Questo è quel simulacro iti cui si spec-
L’ umana ceriti, che il sommo bene
Perverte sempre c a mal fin s’appareccliia.
Questo è ii velcnche serpe per le vene
Delie mitre superbe c de’ tiranni [ne.
Ch'hanno posto in ricchezze ogui lorspc-
Amaro scine de’ futuri danni,
Che Italia impregna e languida sul parto
Gii si comincia a torcer dagli affanni.
Per te grida vendetta ii sangue sparto
Della vittima orrenda che ’l gran manto
Squarcia e non trova ad emendarlo sarto.
il palazzo di Cristo, il tempio santo
Fallo è un maccl, che di si crudo e fiero
Non se ne dette mai Taitrica il vanto.
Fame d’or fin, cupidità d’impero
Adulteran la sposa casta c ignnda
Che congiunge II Flgliuol di Dio con Piero.
Fera superba indomita che suda
Sotto il gran giogo al carro de’ mortali.
Con la testa alta , disdegnosa e cruda,
Vicnsene ardita fulminando strali
Di vana ambizlou tumida c pregna
Per dominar sovra gii altri animali.
la sua faccia leonina par che sdegna
Ogni placatiti gesto, ogni atto umile,
Ogni affabilità soave e degna.
Due coma ha in testa altere c signorile
Qual cervo d’oro fino in rami sparte.
Cingendo ai collo un splendido monile.
Di ferro il petto crudo ha pi fiche Marte
Vaga di sè, come l’ ucce! di Citino,
Che v agheggia il tesor suo da ogni parte.
Questa insolente par elle mai alcuno
Lodar non possa e pertinace vogli
Farsi adorar con voti da ciascuno.
Vanità gloriosa, alteri orgogli.
Iattanza, clazion, fasto, alterezza,
Son delle corna sue tristi germogli.
Puzzale il muschio alimi , suo sterco
apprezza.
Cercando nelle pompe esser veduta
Risplender porporata in grande altezza.
Questa ignorante bestia non saluta,
Salvo con qualche maestà d’ un cenno,
Loquace in comandar, in pregar muta.
0 f.ibbro eterno, protettor di Cenno,
Fabbrica a Giove il corruscante dardo
Che fulmini la belva senza senno.
Lingua procace, petulante sguardo,
Gesti insolenti, rsistimar sè stessa
Sono le tube innanzi al suo stendardo.
Dolcemente all'orecchia se le appressa
Blanda Adulazlon, che ii cor titilla
Sentendola prurir soave c spessa.
Or vien colei che in delizie sortilla ,
Dolce velen fra il biasmo di coloro
Ch'arsero il cor di sua trista favilla: [oro,
Nudrila ili ozio, in seta, in gemme, In
Muschi , zibetti , acque adorate e fiori
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424 SATIRE.
D' ogni spirto genti) tristo divoro.
Morbida e lascivclla fra gli odori
Siedo cantando , spettorala a molle
Per invescar di geme vana 1 cori.
Come nei petto uman fervida bolle ,
Come vilmente in stretto groppo allaccia
Lo spirto cbe dal fango non si estolle.
Bianca e vermiglia la lisciata faccia
Volge, e quell’occhio capeslrello, e ghiotto
Ladro, che sempre a depredar procaccia.
U crespolctto crino sparso c rotto
in mille vaghe ondette, in mille nodi
S'inghirlanda di perle e d'or di sotto.
Carnalità , lussuria in tutti i modi
Par che con cenni e con le membra gridi
Costei ch'ha l'arte degl’inganni e frodi.
Nel petto meretricio par che annidi
Cupidine con l'arco e con la rete,
Come insidiati le mosche i ragni ai nidi.
Treccie ritorte in crespanti comete ,
Cindnnett! , riccielll e calamistri.
Sproni che accendon la venerea sete.
Stili e mollette son fidi ministri
Da inarcar ciglia , e dilatar la fronte,
Ov'lia il gioco di Flora i suoi registri.
Leampoilc, il specchio, le bussoielte on-
Di liscio , bambaeel , tenaci gomc , [te
Destri ruffiani alle faticale conte.
] carriaggi , le opulenti some
Dei suo peculio son fogge diverse
Da snudar petti ed increspar le chiome.
Circe ntai in tanti porci non disperse
1 compagni di quel cbe in sul tclaro
Lasciò la moglie, e dieci anni si perse;
Quanti costei conserte in lutto amaro ,
Quanti ne fa impaaxir , quanti balordi
Fa poi volar con gii stornelli a paro.
Lievi pensieri , desiderj ingordi ,
Mollmo, voluttà, lascivia e stupro
Sono i consigli suoi fetidi e lordi.
Se qui del dir la vena non rccupro,
Febo, col tuo favor, l'oro di' io prendo
Fìa di men prezzo , clic valor di cupro.
Qui non s' impara poetar dormendo
Nel monte ascreo : ma la mia cetra incorda
L’altra che surge, nuova trama ordendo.
Questa le labbra par che lecchi e morda
Turgide al mento torte e rubiconde ,
Delle quai mai l'Ingiuria non discorda.
Non si cerca onorar di laurea fronde
Quegli aspri crini d'ogni sorte inculti
Ch’ han sempre In odio le pegasid' onde.
Ma de' leccardi condimenti csculli
Sono conteste in nodi le ghirlande,
Ch'avrebber mosso Apisio a novi insulti.
Lucido il volto di grassezza pande ,
Come li cuoco de* frati In Padoliro ,
Che suda sempre fra le torte grande, [ro
Questo èli flagri, la strage, il gran marti-
ni starne, di cappon grassi e piccioni ,
Cbe struggono in le brage lor buttlro.
0 sfortunati e miseri pavoni.
Che non vi scampati le dorale penne
Da farvi in mensa sua ghiotti bocconi !
Quel che In gran prezzo a Roma già so*
Per diventarla contesa lampreda [stenne
il nome ha di costei eh’ allor ritenne.
Or vedi con quant' arte ella accoreda
La mensa carca di fumanti piati
Del suo trionfo coqulnaria preda.
Non fur mai, si solleciti pirati
In cercar ogni golfo porto e spiaggia ,
Come l' aere costei , mar, boschi e prati.
Nè d'altro studio par die mai cura aggia,
Salvo d' incrudelir nel tristo sangue
D' ogni fera domestica e selvaggia.
Ruggito di leon , sibilar d’ angue.
Non è di tanto orror, quant’è il suo fischio,
Che per terror ogni animante langue.
Con la vorace Ingiù via or non m’arrischio
Tesser più lunga tela: or volgo il subbio
Per tramar nuovo Gl stroppiato c mischio.
Amara più clic mal fele o marubbio
Sguizza con furia torbida e crudele,
Clic questo altrui fa star di vita indubbio.
Sue voci , suoi muggiti , sue querele
Tonan si orrende , che ciascun per tema
Par clic il sangue nel cor se gli congclc.
Due serpi fanno al suo capo diadema :
Clic se morendo insieme , e fuor dei petto
Gli esce un vapor cli'ngni altro foco scema.
Questa arde di disdegno, c da dispetto
Stride co’ denti , e sottosopra solve
La terra il elei con venennso affetto.
Le briglie di ragion spezza c dissolve
Quel maligno furor , che vive polpe.
Fa spesso convertir con poca polve.
Dell’ avoltor che Giove per le colpe
Di Tizio delle a roller gl’ intestini ,
Non meli vorace, che affamata volpe.
Cede a costei nel sangue de' meschini
Trasportata dall' ira che rinfiamma
Con levità de' suoi moti festini.
L' ultima bestia che sotto la mamma
Di pigrizia si pasce ignara c lenta ,
Clic mai d'ardir non ebbe in terra dramma.
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SATIRE. 425
Timida. Inerte, lorda e sonnolenta
Vietisene col color d' un polmonazzo
Flemmatico che sempre in morbi stenta.
L’accìdia seco, il sii torpor, che impazzo
Di tutti i chiari e peregrini ingegni
Tiene in delizie lei per gran sollazzo.
Del tardo moi I mento Intuito , e cegtii
Mostra l'ardir che in T oziose piume
Suol sbadacchiando far «ani disegni.
La forza di colei rhe nelle spume
Nacque del trista seme di Saturno,
Fervegli il sangue , e in le midolle lime.
Ora pulsando col mio plettro eburno
La lira d' Anflon, che disacerba
DI giorno li pianto, e 'I sospirar notturno ,
Fuggomi sol cercando i fiori e l' erba ,
Le campagne dipinte , 1 folti boschi
Per uscir fuor di questa vita acerba.
Tra cieca e vulgar gente, ingegni loschi,
Piango mia sorte, e veggio il mondo tutto
Tenebralo di vizj orrendi e foschi.
Chi potrebbe tenersi il volto asciutto
Di lagrime, vedendo II scettro In mano
All'Ignoranza eh’ ha ogni ben divinilo ?
Dall' indo idaspe e dall’ lbero ispano.
Dagl’ iperborei monti a quei d’ Etiopia,
Sentito aprir fu gìà'l tempio di Giano.
Italia , or piango la tua estrema inopia ,
Che trend al suoli delle barbariche armi
Che già domasti , e fur tua preda propria.
Mucida vetustà, rodenti tarmi
Copron l’ insegne tue di gloria spente,
Tal eh' io sento per doglia il cor scoppiar-
Italica virtù chiara e possente, [mi.
Del cui splendor già stupefatto il mondo
SI vide, or sci vergogna della gente
Avendo il tuo valor scacciato al fondo.
ANNIBAL CARO.
CORONA DI SONETTI
CONTRO AL CASTELYETIIO.
Dunque un antropofago, un Lestrigone,
l'n mostro cosi sozzo e cosi fero,
Un eh' è di lingua e d’ opre e di pensiero
Una Sfinge , un Rusiri , un Licaone j
Osa contra pietà, contri ragione.
Contri l' umani tate e contra al vero,
In dispregio del santo c del severo
Editto che la legge e Dio c' impone ;
Osa , dico , versare in faccia al Sole
Il sangue , olmi ! d'unsuo figlio innocente,
Ond'ha Parnaso ancor rose e viole 1
E l’ osa, e'I face, e vive, e non scn pente?
E c'èchl’l vede, echi’l pregia, eclti’l cole?
0 vituperio dell' umana gente !
0 vituperio dell'umana gente I
1 sacri studj , c I* onorate scuole ,
Ond’ha l'alma virtù perpetua prole,
Ond't simile a Dio la nostra mente,
Contamina un profano, un impudente
Veglio , imaglnator d' ombre e di fole :
Di cui lo sili, gl’ inchiostri e le parole
Son la rabbia e’I veleno e'I ferro e’I dente.
Questo empio veglio, per far empio al-
Coi caduti dal Clel nostri avversari, [trul,
E coi suoi vizj esce de' regni bui.
Quinci turba le cattedre c gli altari ,
E 1 puri c i saggi c I buoni. E tu da lui ,
Misera età, senno e valore impari?
Misera età, senno e valore impari
Da si malvagio c da si folle , a cui
Sembran follie da Cadmo Insino a nul
Quanti son, fuor de' suoi, scritti più rari.
Santi lumi del vero eterni e chiari ,
Qual fa nero destln, che si v' abbui ,
E vi spenga la nebbia di costui?
Tanto ne son del Sol 1 raggi avari?
426 SATIRE.
Tanto un cicco presume? un che la luce
Nc'nv idia ? un che da via si piana e trita ,
Per laberinli a Lete ne conduce?
E presume guidarne , e tor di vita
Chi non l' ha per un Argo e per suo duce?
Arroganza degli uomini infinita!
Arroganza degli uomini infinita,
Che la Natura iu servitute adduce :
E lei di’ a tutti eternamente luce,
lu un sol lume ha già spenta e finita.
Anima santa, al quarto ciel salita,
Fuor dell’ errar che’ l mortai velo induce:
Vedi quanta eresia qua giù produce
Questa furia, onde sei del mondo uscita.
Che per far vero il falso, e dubbio il certo.
Ha tc, spirto sì chiaro e si benigno,
A dira morte indegnamente offerto.
Or s’ io in* inaspro, e se da me traligno,
È perchè Paggio indarno assai sofferto,
Lingua ria, pensier fello, oprar maligno.
Lingua ria, pensier fello e oprar mali-
Foll’lra, amor mal finto,odiocoverlo:rgno:
Btasniar altrui , quando 11 tuo fallo è certo :
E dar per gemma un vetro, anzi un ma-
cigno :
Far di lupo e d’ arpia l’ agnello c ’l cigno :
Fuggire c saettar: lodar aperto :
Chiuso mal dir : grani ami epicciol morto:
E pronto in mano il ferro, in bocca il
ghigno :
Dispregiarquel che sono e quel che foro
D* onor più degni : c solo a te monile
Far di quanto ba’l gran Febo ampio tesoro:
Furori c frenesie d' ischio e di bile
Atra ; e sete di sangue c fame d’ oro :
Queste son le lue doli, anima vile.
Queste son le tue doti, anima vile,
Degne pur d’ altra mitra e d’ altro alloro ;
Che non vcslon le tempie di coloro,
Gh’oman d’ Apollo e di Gesù l’ ovile.
Già secca aragua : il tuo buio cov ile [ro :
N’ hai per tomba : e per pompa il tuo lavo-
Già ne sei, qual Penilo, entro il suo loro,
Nel foco di cui fosti esca e focile.
Già gufo abbomincvole c mortale
Augurio a chi ti vede cd a chi t’ ode :
Sol di notte apri il goizo c spieghi l’ale.
Ma, perchè il Uio dover non ti si frode ,
Chi mi dà tosco al tuo veleno eguale.
Di più lingue aspe e scoppimi di più code*
Di più lingue aspe c scorpton di più ca-
ldea di mille teste e d’ una tale, [de :
Che latra e morde c come sferza o strale.
Incontra a Dio par elle s* avventi e snode :
Chimera di bugie : volpe di frode:
Corvo, nunzio e ministro d’ogni male :
Verme che fila e tesse opra sì frale.
Che r aura e *1 fumo la disperge e rode :
Setaria di sangue putrido e di seme
D’orgogliosi giganti ; e vero e vivo
Crocodillo, che l’uom divora, c geme ^
E quanto abborrc e quanto ha M mondo a
schivo.
Sembra ed è veramente accollo insieme.
Il mostro di eh’ io parlo e di di’ io scrivo.
11 mostro di di' io parie e di eh’ io scrìvo.
Di nessun pregio e di perduta speme.
Non potendosi alzar, s’ altri non preme,
Spregia c spegne i mortali c sè fa divo.
Servo di vile affetto; fuggitivo,
E rubel di virtù; ben sci d’estreme
Tu pene reo : ben chi t’ onora c teme,
D’onore indegno e d’intelletto è privo.
Qual tratto dalle stelle c dalle tane,
E dal suo fango, in ciel ripose il mago
Nilo, un cercopiteco, un serpe c un cane ;
Tale c più fero c di piu sozza imago,
Con ceraste d' intorno orride e strane
La nobil Secchia ara per Nume un drago ?
La nobil Secchia ara per Nume un drago?
Che per far rospi d’ innocenti rane;
I ruscelli infettando c le fontane.
Fatto ha d’ Averno e di Mefite un lago.
Quinci rivolta al ciel 1’ empia vorago
Vomc: e fischiando, orribilmente immane.
Spira nebbie sì fosche c si lontane.
Che ’l Sol ne vela dal Ccfiso al Tago.
Febo, coni’ è che soffri il tetro c nero
Fiato di questo nuovo empio Pitone,
Se sci padre di luce e fai Tarderò?
Confò che tcco il gran Giove non mone:
Se d’ambi incontra al sacrosanto impero
Osa un antropofago, un Lestrigone i
SATIRE.
UT
SOLDANI.
m.
CONTRO 1 PERIPATETICI.
Or che ’l giorno e la notte in egual libra
Stanno sulle bilance e l'aurea chioma
Più temperata il Sol dispiega e vibra;
Altri pur s'incammini inverso Roma
A veder nel gran seggio il nuovo Urbano
Carico della grate e ricca soma :
F faccia prova ancor, se con la mano
Afferrar può lo sventolante ciuffo
Di lei che fugge e poi s* attende in vano :
CIP io che non posso al mio cappello un
tuffo
Più dare in grana ; ed ho gettate al vento
Così fatte speranze in un batuffo;
Me ne vo in villa e lì godo contento
Mia sorte scarsa si, ma senza rischio,
Agli spassi villeschi tutto intento.
Gii la civetta ho provveduta e 'I fischio :
De’ tordi ho in gabbia e tra' tosi fantocci
Porrò a mia posta in su i vergei li il vischio;
Chè chi m'uccella ho fermo : e di più
Pippin barbier a rassettar le ragne, [bocci
Che già più d’ un falche ito entro appari noc-
E benché dalle Muse tni scompagnc [ci :
Un coro più loquace di bambine.
Di cui sempre qualcuna o stride o piagne ;
Pur qualche solitaria piaggia al fine,
Benché da lungo, mi dimostra il monte
Che adombra il seggio alle Suore divine.
L'aura che muove dal sacro lor fonte,
Parche virtù nella mia mente imprima,
E le potenze sue renda sì pronte : [ma,
Chè ardisco sciorrei miei pensieri in ri-
fi 'n poetiche forme clic la sera
Poi ripulisco con più esatta lima.
Quel fuoco che Prometeo dalla spera
Ardente tolse e dentro a noi l’ ascose,
Cb'è la parte più nobile e sincera;
Gode dell’ aria aperta : e le ritrose
Gabbie della città schiva e disdegna ;
Perchè Natura il ciel sol gli propose.
Propose il cicloe ’n tal libro gl' insegna
L'eterno Artista che Io tempra e gira ;
Perocché onnipotente lassù regna.
Taccia e s’ acquieti il barbon di Stagira,
Quando questo volume si dispiega :
E taccia il gregge che dietro si tira.
Questi il filosofar rinchiude e lega
Tra I cordovani, ov* è stretto il maestro :
E quel che fuor rimane, esser ver nega.
Ors' io mi sento in gambe esser ben de-
stro
A varcar quei confìn, perdi' al mio piede
Poni il peripatetico capestro?
Dunque tua invidia impertinente chiede
Ch’io metta al mio intelletto le pastoie,
Nè più là scorra che il tuo occhio vede?
Chi si dà quest’ impacci e queste noie,
La verità non ha già per oggetto;
Ma vuol tener in prezzo quelle gioie.
Che essendo false, gli fa gran dispetto
Chi arreca delle vere e le sue smacca,
Mostrando al paragone il lor difetto.
0 mente umana e clic è quel che intacca
Tua natia libertade ? un sogno, un* ombra,
Un po’ di fumo, eh' a nulla s'attacca :
K una opinion, che ’l volgo ingombra
Di tua scienza c il ver seco ne porta,
Ed’ un più bel piacer l’alma ti sgombra.
Ardisci a non saper : quest’ è la porta
Che può introdurre in te quell’ aurea luce,
Che ’l vero gaudio all1 intelletto apporta.
Gilè se al popol vislbil non trahice
Il tuo saper ; non per questo s’ attristi
Tuo cuor, nia segua un più costante duce.
Di letterato il dottor Bozio acquisti
Il nome, col parlar per assiomi,
Ove sien de’ vocabol greci misti :
Col dir le cose co’ più astrusi nomi
Ch’abbia l’alchimia letteraria, e fare
Sempre confuslon con gl’idiomi.
Per energia talvolta bestemmiare,
Batter le mani, alzar la voce : Potta
Del nemico di Dio ! s* ha a comportare
Che si strappazzi Aristotile c a un’otta
SI tradiscan le Lettere, e In tal guisa
Abbia a restar la gioventù sedotta?
Quindi la via, se ben guardo, è precisa
A’ sacri sludj : quindi la favella,
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«28 SATIRE.
In che scritte Aristotile è decisi, 'bella,
l’ercliè studiando ognun come gli ab-
Per fuggir soprattutto la fatica,
Dalle più dotte scuole si ribella.
|j novità del ver sempre nemica.
Qual maligno vapor, gl’ingegni appuzza,
E in mostruose opinion gl' implica, [za.
Un (loppio velroaltrul gli occhi si agut-
oli'el vede nella l.una e monti e talli,
Ch’è tersa, e nulla autorità il rintuzza.
Vede anco per virtù di tal cristalli
Quattro nuove slrlluzze Intorno a Giove
Ruzzar con nuove tresche e nuovi balli.
Nè contento di questo, lite muove
AlSole, Il cui candor di macchie ha intriso,
Ammettendo so In elei nascile nuove.
Nè crede che piuttosto sla sorpriso
In vetro, e l’occhio d' alcun sudiciume
Che gli offuschi la vista e più l'avviso.
E chi è quel clic ’l puro c vivo lume,
Clie dcH’eterno è figura c suggello,
Dirch'è macchiato di nuoto presume?
Sari senza alcun dubbio/) Bozio, quello
Che vi vede le macchie : non le vegga
Chi crede che l’ occhiai sia quel puntello,
Ove il filosofar s'appoggi e regga :
K che colui clic per esso traguarda.
Il dottor sia che solo a scranna segga.
0 tu, che per provar falsa c bugiarda
Qualcosa in Aristotile, contrasti
E d' atterrarlo il tuo poter riguarda;
Pretendi forse che per pochi tasti
Che non ronsuonan bene al gran concerto,
L' organ del mondo $1 sgomini c guasti?
Natura II fe’, non è dubbio ; ma il morto
D’aver ben raggiustata ogni sua canna.
Si viene a lui, di tal musica esperto, [na
Tal biasma altrui, che sè stesso rondan-
ti poco avviso, mentre una pittura [na.
Grandissima contempla a spanna a span-
Da un'occhiaia all’intera figura
Dell’ universo, espressa in quel concetti
Ch' a sindacato tengon la Natura;
E impara poi da lui, che gli alti aspetti,
E i moti delle stelle all'altrui tracria
Lascia, e serba persè penslerpiù eletti.
Perù non li curar d'andare a caccia
Per certi forti dietro al geometra.
Che con minuzie il tuocammino impaccia.
Il fisico gentil suo passo arretra
Da que’ confini ; ma non altrettante
Cortesie da costor riceve o impetra.
Anzi par che qualcuno oggi sì vante,
Essendo le scienze In un connesse,
Un metodo l’abbracri tutte quante.
E chi le matematiche intendesse
Intere, sazierebbe quella brama
Cile nel nostro Intelletto Iddioc’ impresse.
Che siccome da quelle si dirama
Per ispianate v ie l’ Unica, e quella
Oli’ Il ramo informa, e Musicasi chiama;
Cosi con esse con diverse anelia
Qualunque altra scienza s’incatena,
E senza lor di nulla c’è novella.
Gli’ essendo il mondo un libro al quale
han piena
Ciascuna faccia triangoli e cerchi,
Con caratteri tal si legge appena.
E die tutti gli studj son soverchi.
Se non si mette mano all’ alfabeto
D' Euclide, a rilevar quel che tu cerchi.
Queste concluslon si tlran dreto
Poscia l' esorbitanze a ciocche a ciocche,
Oggi difese senz’ alcun divieto.
E par che viepiù largo li mal trabocche ;
Poiché le dialettiche saette [che.
Dagli archi nostri invan schludon le eoc-
Nessun nostro principio non s'ammette
Pur per pensiero: c un testo ha quella fede
Ch' in Ginevra han l' immagin benedette.
Ma il mondo malaccorto non s'avvede
Ove vada a parar questo veleno
Che serpe, e appoco appoco piglia piede.
Allor sen'avvedri, che verri meno
Per gli studj d'Italia quella scuola
Clic di sana dottrina 1’ ha ripieno.
De' Buonamicl e degli Strozzi vola
Per l'italico cicl la fama e II grido,
Ma niun lor successor Pisa consola.
Fiorirò un tempo al padov ano lido
Un Zaba rolla, un Malnetto, un Speroni :
Or da tal cigni è deserto quel lido.
L’ oro che par eh’ i filosofi sproni
A bene specular, oggi è intercetto
Da chi mostra le cose pe' cannoni.
Ricordila pure, c rimetti in assetto,
Diogen, la tua botte, c l' Etl locanda
Pomi, eh’ a torla Aristotile è stretto.
Un solo appartamento da una banda
Gli serve, che ridotto al verde, trema ;
E ’l geometra Euclide al Sole il manda.
Bozio mio caro, al patetico tema
De tuoi lamenti ho quasi lacrimalo;
Ma clic s'ha a far? Quella ruota suprema
Ch’ all' umane vicende cangia stato,
Par che le Sette ancora alzi e deprima,
C
SATIRE. 4»
Cbé nulla di qnlclc al mondo è dato.
Ma se, Dio guardi, la materia prima.
Chi sebbene un penacelo é di nonnulla,
50 nondimen quanto da voi si stima ;
Dimmi, ebe male è alfin, se si trastulla
Un nel suo studio, e calcula e bischlzza
Se la terra sta ferma, o s'ciia rulla?
Gii non per questo si disorganizza
Lassù nessuno 'ngegno. Il elei non prende
Suo moto da quel ch'altri ghiribizza :
Nè tale alterazion per modo il rende
Corruttibil,ch'ei bachi, och' ei marcisca,
S' alcun vapore entro di lui s’accende.
Qualche cosetta che lassù apparisca,
Non è di quel momento che tu pensi;
Tu bai pur. Borio, qualch' anno di bisca.
A menadito le fughe e i compensi
Trovar dovresti a certe stravaganze :
Non hanno le parole doppj I sensi ?
Un per te, un per accident, l’ istanze
Torrebbon tutte a quel che fanno il bravo
Con queste loro osservate sembianze.
Mi parrebbe aver ben l’ ingegno pravo.
Se tal filosofia, eh’ è camoscina.
Non consentisse a quel che da lei cavo.
Trattabile e benigna disciplina.
Che vai per tutti 1 versi, e segui franca
Dov' anche l’Ignoranza ti declina.
Mentre all’ umana alterezza non manca
Umor di sovrastare a torto a dritto.
Non sia la turba a seguirti mai stanca.
Tu se’ quel vento al cui spirar tragitto
Non solo il nocchicr fa che ti seconda ;
Ma quello ancor che contr1 a te s’ è dritto.
Perocché si o no ch’altri risponda
Ad ogni gran problema, non fallisce :
Tanto ne’ suol principj ben si fonda.
S’ alcuno afferma che l’alma svanisce
Al dipartir di questa spoglia frale,
0 l’esser suo immortai costituisce;
Ha detto parimente bene e male
In senso aristotelico : or lo spaccio
Non atri, Borio, mercanzia cotale?
Vedi all’ incontro in che intrigo, In che
impaccio
51 trovi un geometra che la sgarri,
E l’error se 11 provi in sul mostaccio?
Dica i ripieghi, I suoi partiti narri :
Mostri s’ha distinzion.che lo ricuopra :
S’ ha testo o chiosa clic T suo detto sbarri.
Sicché il timor che ti mandò sossopra,
0 Borio, e fé’ incettarli il bariglione
Clic T cinico di casa in vece adopra ;
Dipende da una falsa opinione,
Ch’abbian certe dottrine a pigliar piede,
Ch’ affatto son contrarie alla ragione,
Alla ragion di Stato, clic non chiede
La vcrìU, da pochi oggi gradila :
Ma l’utile e l’applauso che ne riede.
Ver é, che questa brama ha pervertila
La prudenza in alcun, che troppo audace
Contrasta quel clic la prova ha smaltita.
Salvando, odotlor Borio, la tua pace,
Tu sfiondi gran fandonie, mentre neghi
Con lant’ ardor quel eli’ al senso soggiace.
Se pura o se macchiala il Sol dispieghi
Sua luce : se la Luna é tutu in piano,
0 in colmi o in cavi il suo dorso si spieghi :
Son cose, o Bozio, che tu oppugni In va-
Nega piuttosto quelle conseguenze [no :
Che costor voglion tirar da lontano.
Di lor, che come nlun oggi in Firenze,
Eccetto il del sereno, e Paolsanti,
Può diacciar Arno; cosi le licenze
E 1 prlvilcgj de’ filosofanti
Antichi sugli effetti di Natura
Son dati ad Aristotil tutti quanti.
Ei dì le mosse a’ tremoti : egli ha cura
Della gragnuola: ed egli assegna i prati
Ove han da sur le comete In pastura.
A certi geometruzzi ha sollogati
Qualche moto lassù, qualche girella,
Ove si son con laude esercitati.
Ma che gli abbiati poi contro la coltella
A volger, impugnando II suo decreto,
Per cui la stessa Natura favella ;
Senza di cui ella non tira un peto
{ Se peti la Natura però tira ; )
È pcnsier vano, superbo, indiscreto.
Egli è quel maiordomo che rigira
L'economia del mondo : egli é il fiscale,
E T computista che 11 bilancio gira.
Egli é ’1 soprantendenle generale, [di :
Cui benconviench’ognuno osservieguar-
Egli é degli ofiziali l'ofiziaie,
Egli è l'ira di Dio, egli é tlRroccardi.
/
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SATIRE.
«0
MENZINI.
LA POVERTÀ DE’ POETI.
IV.
Mi domanda talun »' io studio In Marco:
E perché! a me non domandar piuttosto,
S’ i’ ho converso la toga In sanlambarco?
O se nella mia mente abbia disposto
Fare il barbiere, o di Tonton la sluffa ,
Non che il gennaio ire a pulir l'agosto?
E sai se al naso mio cresce la muffa ,
In veder qual si fa disprezzo indegno
Di chi sui libri a faticar si tuffa.
E in maggior pregio sale un ch’abbia
Il goffo capo d’asinesca fava, [pregno
Che un tal ben chiaro e Iwn pulito ingegno.
Pensa se il Migliorncrio intento stava
A farmi dolce alla vlrtude Invilo,
E se di me non poco onor sperava.
S'ei rinculasse un po’dnnd' egli è gito,
E potesse al sepolcro dar di cozzo ,
Vedrebbe il suo presagio Incivettito.
Perocché la treggea or fa singhiozzo,
E questo secoletto mlterino
Ha converso in sassate il berlingozzo.
O guaste chiappe dell' eroe Pasquino,
Dategli almeno voi qualche profumo
Che vinca l'ambra, il muscbioe’l belzuino.
Pcrch’ lomison divezzo, e non costumo
D’ imbalsamar furfanti, e di Parnaso
Infame barattiernon vendo il fumo:
Ma do la biada al buon destrier Pegaso,
Per veder se a costor dà delle zampe
0 in epa, o intesta , o in più notabil vaso.
Intanto ad Erculan vanno le vampe
Della crapula al cerebro che bolle,
E il poeta digiun baila alle stampe.
Vitupero in veder genti satolle
Ruttare in faccia anco l’esterna cena
Alle dotte persone ignudo e frolle!
Poco fi ruttar, poco II voltar laschiena:
Peggio é’I far sì che in chiedergrazie stie-
Con fronte afflitta e di rossor ripiena, [no
Ha ragion di hiasmarmi Cluvlrno :
Dice clic me’ saria fare 11 castaido ,
Or della paglia, or disputar del lìdio.
Ed io gli credo , perché audace e baldo
Si grogioia in sé stesso, e ha'n cui Virgilio,
Chè doble ed ignoranza il tengon saldo.
Perciò sull’ Aventino, e sull' EsquiHo
Tanti reverendissimi fattori
Alla vera vlrtude han dato esilio:
Che sanno ancor, che scarsi furglionori
Olle il buon Gampoli ottenne, e’I BraccioH-
Con quel lor rantìllar Fillidr e dori, [no
Se però scarso onore è del divino
Ingegno aver la lode , e tra 1 beati
Spirli corona, a cui non giunge or Ano.
Su via (dicon costor), pascete i prati
Del vostro Plndo, e l' eliconie rive
Dieno al vostro palato umor si grati
E se ciascun di voi felice vive,
Cile occorre fare adorazioni e voti
A noi, come alle sacre imagindive?
O menti, o cuori d' intelletto voti!
Quel che vi sembra adorazion, vi scorna.
Evi fa nella propria infamia noti.
Chi chi di dotto allor le tempieadorna.
Non 6 già tra i cervelli circoncisi
Adoratore d’orecchioni e coma.
F. quel che pretto ossequio esser t'aw isi.
Egli è un dirti talor rozzo marrano
Sotto la cuffia di moine e risi.
E questa foggia di parlare strano
1.’ impariamo da voi, quando ci dite
Che un cappel merleremmo in Vaticano.
Mal’ entrata d’ un pero , o d' una vite
Non dareste, e né meno un fico secco
A chi fosse in saper tutto clsirv Ite.
Se fosse un castra taccio awezzo al lecco,
E che 11 prosciutto casalingo affetta ,
Ruffiano , o pur Cnrcttlion Serbeeco:
Non avrebber gli scrigni la stanghetta:
Spandasi a lor piacer roba c danaro ,
E al libro delle spese non si metta.
Ma con gli altri si vuole esser più avaro
Del sudicio Ugolin , che gufi e panni
Ila in pegno dal sartor , dal pelliciaro.
Oh su dal eie! da quel beati scanni
Piovete per costor roba a bigonce
Che si ben la virtù iraggon d’affanni.
Poi dicon che ci giovi stare a once,
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SATIRE. *31
Ciiè cosi me’ risplcndon per le mura
Le invaginile’ poeti c magre e sconce.
Magri sian lor, chè il mulattìer misura
Il grano a moggia , e chi tagliava i calli ,
Copre con «mesta plebea lordura.
Ed ora ha messo su cocchio e cavali! ,
E beve in tana di /orbito argento,
0 di Murano in limpidi cristalli.
Crede* che nobiltà fosse al di drento
Generoso midollo: or io comprendo
Che senza doble è falso l'argomento.
Ma voi , poeti miei , io non intendo
Perchè sete si povera canaglia ,
E di tanto mistero incerto io pendo.
Se la Giannirca altri legumi vaglia ,
Che del suo giardinier , tosto il marito
Cangia in castoro il cappellin di paglia.
E se chi un tempo fea da ermafrodito,
Or fa da barione e torcicollo.
Sul ciuffo alia Fortuna è già salito.
E vedi come i meglio ufizj ingolla
Chi canta in qullio il Kirie cloisonné,
Senza veder quel che nel sen gli bolla.
Or la ragione a te , Ciulla , dironne ,
Perchè di povertade abbiano il peso
Questi amator delle pierie donne.
Non san fallir dopo che gli abhian speso,
Non chiffon sottocoppa , o candelllero
Dopo che stette in su gli altari acceso.
Non san mentir , non dire il falso vero
Non vali la notte a spieggiare a zonzo
Chi dia nello spiraglio, o in emisfero.
Ma io per me non son si freddo c gonzo,
Che creda santo un fraticel clic stia
A sbatacchiare un campane) di bronzo.
Ronipevan giovanacci all’ osteria
Con lo sparagio loro i deschi e I piatti
Quei cir oggi spiran lutti sagrestia.
Sotto i lor cappelloni umili c quatti
Seti vadan pur ; colonne, ponti e marmi
Putono ancor de’ lor nefandi fatti.
Oh santa fune , i generosi carmi
Non bastan qui del satiro Lucilio :
Per uccider costar vogiionvi altr’armi.
Chi detto avrebbe : Il garzoncin Mirtillo
S’ inefakierà di cotta , c da sermone
Farassl Automedontc , o pur Badilo ?
Poeta , or vedi ben che le persone
Ti disprezzan : tu scagli le sassate
Sotto titol di santa correzione.
S’ egli è così, deh manda un bando, o
Cbc la moderna ipocrisia s’ adori , [frate,
E poi scrivici ancor: Non ci pisciate.
Ma io m’ accorgo ben eh* estl dottori
Hanno in odio i poeti , perchè sanno
Esser di lor più saggi , esser migliori.
Badate dunque alla caviglia e al panno,
.Nè state a criticar Marsilio e Pico,
Se all’ ombre amene a poetar si stanna
E se ciascun di loro a Palla amico
Da sè lungi rimovc il volgo avaro ,
Che mal distingue il sorbo e’! dolce fico.
Intanto voi con artificio raro
Seguitate a dar scrocchi, e ’l cento a venti
Giusta ali* arte chei padri v’ insegnare;
E poi per quattro soldi assai vaienti
Voi da bottega passerete al Calcio,
Allegri di lasciarvi il naso, i denti.
Cosi di nobiltade il lungo tralcio
Dimostra con le chiappe in verde giallo,
Chi già le calze si legò col salcio.
Oh Grecia illustre, in tal trioceo e ballo
Saltella chi per far d’un giulio acquista
Peggio è d’un Sporo, o pur d’un frigio Gai-
Ma io gli compatisco: il secol trista [la
Inchina a povertade, e pur conviene [sta.
Essere al giuoco, in chiasso, o in criccar!-'
E se sul sette e I* asso il sei non viene,
Da una volta in su, addio Casino,
Gilè all’altro invito ii borsellin non tiene.
Or se il poeta e povero e meschino
Lungo le mura a poetare stassi,
E non batte le nocca al tavolino;
Con le Muse comparte il tempo e i passi,
E sa ben ritrovare altro diletto
Cile al trucco, o a massa ,o a simili fracassi.
Pcroceir ei pasce il nobile intelletto
D’ un’interna armonia da pochi intesa:
Perciò quel ch’ella sìa, pochi ci han detto.
Mette in capo argomenti , unisce e pesa
E sentenze e parole, e il tutto ispira
Bella virtù della sua mente accesa.
Ond’ io non posso rimirar seni’ ira
Quei che dicon che noi naschiara cotali,
E che nulla fatica ci martira.
Non intendono ancor questi animali.
Che può l’entusiasmo ad ogni obbietta
Voltarsi , c insino a' cessi , e agli orinali.
E se a formare un cesso o largo o stretta
Vuoivi il giudizio, c la materia e l’arte,
Pensa a far la canzone, o’I poemetto.
Io lascio a Buda schiccherarle carte
D' anagrammi , d’elogi e dell’ acrostlche,
E mill’ altre sciocchezze al vento sparte;
E mille cose indiavolate cd ostiche.
Gitesi fanno sentir lontano un miglio.
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SATIRE.
m
Di su* bestialità nunzi* e pronostichc. |
boriilo 11 berrettone c ’1 sopracciglio
bel Farinello corbacchlon, che insegna
Queste balucche al pargoli-ilo figlio.
Ma pianounpo',che con maniera indc-
Questi son che ciurmaro il Galileo [gna
Co’ punglgllon di ponlificia insegna.
Chi Tircsia nel corpo egli si feo.
Ma nell'alma non gii; nè far di peggio
L'altrui perfidia incontro a lui poleo.
Che ingiuria fa d’onnipotenza al seggio
11 Sol mobile, o fisso e chi ritrova
Di stelle intorno a Giove un bel corteggio?
Or chi Nlcela e Filolao rinnova.
Fabbro di matematiche ragioni.
Scherno per voi e pena e Infamia trova?
E questa è una delle dilezioni
Che il Vangelo vi detta ? andar giostrando
Per mera ambizione i dotti e 1 buoni?
Colui che in duro esilio e miserando
Di Patmos giacque in sconosciuta tomba :
Amatevi l’un l'altro, iva insegnando. [ba :
Ma nell' orecchie a voi mormora e rotn-
Perseguitiamo i dotti : c ’l popol matto
Sol per voi celebrar prende la tromba.
Oh.n’ahbiam dato gli scrittori e fatto
Di belle cose : e pur di belle cose
Han gli altri come voi fatto e disfatto.
Sotto sembiante umil, genti orgogliose.
Di parlar dolce e insanguinate zanne.
Qual dlarol fu che qui fra noi vi pose?
Se come gli la polve, ambe le spaline
Di Dante vi gettasser, Montecece
Non basterebbe alle bramose canne, [pece
Alto, opensler, che non l’ imbratti olm-
Di questa troppo altrui dannosa gomma.
Più eh’ a Gioitala ebreo il mcl non fece.
Chi se alle doglie del tuo capo aggrom-
Non Ila che nè men lasci il tetro odore, [ma,
Allorché le partite Atropo somma.
Contentati di star del cerchio fuore.
Lascia a costor di Salomon gii zoccoli,
E riditi del volgo ammiratore.
Che crede oche reali gli anilroccoll,
E che più stima fa d' un corpo estinto,
Quanti più vede a lui d'intorno moccoli.
Vago sepolcro e di candor dipinto
Pur chiude Fossa, abbomlnevol cena
D' un crudo serpe ad isfamarsi accinto.
Creda II volgo all’esterno, e tu la scena
Dell’ umane follie mira in disparte,
E sian per te teatro e olimpia arena.
10 ’1 mi farò ; ma tale ingegno ed arte
•Non ho.chegonfiinqualche gran libraccio
Del ventoso cervel te vele sparte, [paccìo
Perocché anch'iosaprei prendermi ini-
bì scriver quanti sien gli angeli in Cielo,
Chi stia alle porte e quali dieno il braccio.
Ch'egli è ben altroché saper se il gielo
Si faccia in rarefatto o per concreto,
0 perchè stia a fior d' acqua un duro velo.
Ma perù l'odorifero laureto
Di Pìndo a più bei sludj mi richiama,
E sol Ingo mi vuol, ma non già cheto.
Dunque dirù che amico mio si chiama,
Emel professa a viso, un ches’afirctia
Del mio buon nome ad oscurar la fama?
Fammi, o Giove, un piacer: costui saetta
Col fulmln tuo, c se la punta è guasta.
Sciagurato che se’, piglia un’accetta.
Se del sccol moderno al genio basta
Questo bufion, pur piaceragli un giorno
Anche un schiavaccio di più rea catasta.
Allor di lettre e letterali adorno
Vcdrassi il bel toscano almo paese.
Perchè gran copia ne darà Livorno.
011 boccacce di fogna, e chi vi rese
Si pronte a vomitar assenzio e fiele
In chi nè per pensier giammai v’ offese ?
Ha forse il Nilo il coccodril crudele?
Pcggìor son quei die spargono il veleno,
Poi dicon : Bevi d’ amicizia il mele.
Michele Scotto, or da' tuoi libri uscieno
Cotanti spiritelli, quanti io veggio
Lasciare in corte a maldicenza il freno?
L’aiutantc,il spazzino,!! mozzo e peggio.
San cinguettar come cornacchie e putte.
Di cui faccia il falcone aspro maneggio.
Per logge e sale, e per le stanze tutte
Vi lien concluslon qual baccelliere
Ogni vii loquacissimo Margutte;
E disputa se possa in un sedere
Socrate in compagnia d' un tal ragazzo.
Ed esser re delle morali schiere.
Cosi dipinge a chiaroscuro e a guazzo
Il maldicente, e quel ch'el dotto appella,
11 mostra In fine niquiloso o pazzo.
Bcllcrofonte, ch’or nel elei se’ stella.
Perch'io fugga da questi arcibricconi.
Dammi la groppa, se non puoi la sella.
Allor tra gli epicicli e quinquezonl
Del derisor Menippo unito al fianco
Io temprerò ribecche e colascioni,
E farò i grandi ancor venir a banco.
SATIRE.
411
V.
CONTRO I FALSI MINISTRI DI CRISTO.
Quanto meglio sarla tele di ragno
Veder pe' templi e ’n sugli altari e i suoi
Ministri puri c di migliore entragno!
Tanta feccia non han gli scolatoi
D'ogni più immonda e fetida cloaca,
Quanta, o buon Giove, esli sodali tuoi.
Tira pur su quel fumo e la triaca
Di nostre colpe entro a quei vino ingozza,
E dimmi poi come il tuo cuor si placa,
0 pur ti senti amareggiar la strozza.
Come se dessi verblgrazia un tuflo
In una d’aloè piena tinozza.
Falor, Padre del Ciel, qualche rabbuffo,
E mostra cbe sebben gli hanno lachicrca.
Tu pur gli sai arroncigliar pel ciuffo.
Vedi come piu d' uno e cambia e merca,
Per poi di Pietro In su la sacra lombata.
Comprar quel grado che lant' anni ei cer-
Al gelido Trion quindi rimbomba
I.' orribil suon che l’ eresia rinfranca,
Chè i benefizi vendonsi alla tromba.
E in questa ierarcbla ancor non manca
Più d' un prete minor che quel sentiero
Segue, che'I suo maggiore apre e spalanca.
E nel londuto, incamiciato clero
Ben veder puoi chi con berretta a spiccili
Giù siede all' altrui desco e squarta il zero.
E voglion poi che il popol si rannicchi
In baciar lor le fimbrie ; ed essi fanno
Per lor viltade, ch’c’ s'indugi c nicchi.
E qual di voi nobil concetto avranno,
Se non i sette disserrar sigilli,
Ma vi vedon trattar filato c panno?
Che temete? che fuor non izampilii
Velen dalle Scritture? e che’I cerebro
Per lo troppo studiar non si distilli?
Ella, clic giacque giù sotto 'I ginebro,
Se non lesse papiro o pergamena.
Al certo iuDìo fu tutto assorto ed ebbro.
Ma voi vi state in su deserta arena.
Come leon che fuor della spelonca,
Il pasto attende o qual rabbiosa lena.
Quando Sennuccio non aveva tronca
La speme d’ esser vesco, a fare il gruzzolo
Anch’el la mano gii non ebbe monca.
Ma gli diero un cappcl senza cocuzzolo
In vece delia mitra e tal fu giorno, [zoio.
CtT ebbe alle tempie troppo amaro spniz-
Chè quelle letterln, che fer ritorno,
Dov’ egli imprese a dir: ruba fratello,
Gli fecero alla chlerca un brutto scorno.
MaciA che importa? il dottorale anello
Ei porta almeno in dito e puole aneli' esso
Tirare Innanzi qualche mignoncello.
Peggio fa Burro : il debbo dir ? s’ è messo
A pisciar nel cortile. Oli gente santa,
Che non piscia 11 dove vede impresso
Segno di croce ! K di cbe più si vanta
llComunelli? Ecco eh' egli Ita un consorte.
Che con esso altro Kirie intuona c canta.
Se ciò fa Burro e qual sarà che apporle
Vergogna a' preti e ’l tavoliere e '1 dado,
0 d’altra In giuoco temeraria sorte?
Ecco die da' Decreti espungo c rado :
Non può un prete giuocar. Non puote? co-
nte,
Se questo aperse anco al papato il grado ?
0 col belletto, o con le tinte chiome
Donna veduta giù dal Vangelista,
Io non so chi tu sii, dimmi il tuo nome.
Alpuroargenlo troppa alchimia Amistà;
E la colomba dalle bianche penne
Del mutato color troppo m' attrista.
Or senti come sempre si manleune
L’avarizia di quei che al suol le poltre
S’infranse allor clic di volar sostenne.
Morto era Orsatto : or vuoi saper più ot-
(Istoria miserabile, ma vera) [tre?
Per lui non si trovò bara nè coltre;
Chè si povcr morio, che a far lumiera
Di quel suo corpo al livido carname
Non fu chi desse un nioccolin di cera;
E si pensò di darlo per litanie
Ad un piantoti di fico o alle funeste
Gole de’ nilibj a satollar la fame.
Oh de’ Filippi venerande teste!
Se di voi piena aveva la scarsella,
Non mancava gualdrappa o nera veste.
0 almen data gli airian la tonacella.
Nè mostrerebbe i sudici ginocchi,
Nè il folto bosco c l’ una e l’altra ascella.
Vo’ tu. Fortuna, ch'alia fin mi tocchi
Un po' di cimitero? oh dammi almeno
Tanto, che dopo me qualcuno scrocchi.
Perchè altrimenti io mi starò al sereno,
Benché la nobil fronte abbia coperto
19
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434 SATIRE.
D'alloro o pur doli’ apollineo Reno.
Senti Fra Battaglione prete Uberto,
Ohe gridai! : SVI non ha ne meno un soldo,
Stia dove el può, noi seppellisco certo.
E che peggio direbbe un manigoldo
Cbe non sapesse come Cristo esclama :
Perchè poteri siete, ecco io t' assoldo?
E forse questi da lalun dirama.
Che diedero alla Chiesa ond' ora è grassa
Quella giogaia cbe sarebbe grama.
E legge in marmo il peregrin che passa
Gotiche note in barbaresca foggia.
Che dicon come II suo altri ti lassa.
Vi lascia il suo e in quella tostra loggia
Forse di quel frumento ancor si taglia,
DI cui gli antichi ti largir le moggia.
Deh rendete a costui almen la paglia,
Sicché del non [star coti negletto
L' esser del ceppo de'Tegghiai gli taglia.
Qui si mette in consulta un cataletto,
Ilo palmo di sepolcro, ove ne giaccia
Con lo scheletro ignudo un poveretto.
Intanto Orsatlo in sul lerrensi ghiaccia,
E Ti sta 'mero e senza moto, quasi
Il vostro contrastar non gli dispiaccia.
Guarda chequalchc gatto non l'annasi,
0 qualche cane : intanto i preti e i frati
Quel che si drbba far studian su' casi.
Clic vi pappi la rabbia, sciauratl,
Dlss’ uno clic passava : in fede mia
Voi merlereste d’ esser bastonati.
Forse Impoverirà la sagrestia
A seppellir costui? o fia che accorci
Il guadagno alla vostra salmodia?
0 Caritè, se di costor non lord
l.a mente in meglio, io so che del lorcanto
Più grato 6 a Dio anco il grugnir de’ porci.
Deh mettetelo almen costà in un canto,
Finché '1 popol gli faccia una colletta,
E gli si compri un po' di luogo santo.
E voi pur siete quella gente eletta.
Quelle colombe che smeraldo ed auro
Avete ai collo e la beltà perfetta.
E questo è il farsi su nel Ciel tesauro
Con quella man che '1 adipe incruento
Offre, del vecchio Adamo almo restauro.
Certo aH'ccrlcsiastiro convento
Vi trasse avara fame, e non il cuore
Qual Samuele al santuario Intento.
Tal non ebber Carpir empio furore
Là de’ Troiani alla mendica mensa.
Quanta han costor quand’un tal ricco more.
E di cbe prima e di clic poi si pensa?
Che al nipote del Diffidi la broda
Si dia, cbe ’i cuoco a’ poveri dispensa.
Intanto inscritto In sua suprema loda
Si vede un elogietto, onde 11 meschino
Suo sangue poscia in leggerlo ne goda.
Senti quest' altre. Allor che sul confino
Fronton fu del morir el disse : Io voglio
Andar da gesuita o teatino.
Pigliate pur tutta la biada e ’l loglio
De' miei poderi io voglio la cintura, [gl io.
Vogiioiicoliettoevoglioognialtro imbro-
Come sta bene in quella positura![abMa,
Coovien ch'ogni altro qualche rolla egli
Se vuol far come lui nobil figura.
E Saliceppo a perorare è in gabbia,
E prima volge gli occhi tristi in giro,
E ponza un poco e mordesi le labbia.
Queste son alme che In bontà fiorirò,
Cbè le ricchezze disprezzar terrene.
Per girne al Ci -I sull' ali d’ un sospiro.
Ma voi se aveste ciò che d' India viene,
Piuttosto che donare un quattrfn marcio,
Dareste tutto '1 sangue delle vene.
Iodico il ver, nè paradossi infardo;
Bisogna cume questi aprir la mano, [do.
(die alle porte del Ciel fé’ un grande squar-
ti grande eroe, o cavalier sovrano!
Giungeran le tue lodi anco in Maremma,
Non che a Montui,non che al vicinTrespia-
Con entimemi arguti e con dilcmma[no.
Sai perchè Saliceppo i detti acconcia,
E di sentenze il suo sermone ingemma?
El monta a cinguettar nella bigonda.
Perchè Fronton gli ha fatti eredi e questo
Santa può far ogni opra, ancorché sconcia.
Se avesse a dir di me, chiosa nè testo
Non troverebbe, perché dalla vite
Patema io non Istralcio uva nè agresto ;
Ma per Fronton s' altaccheriano a lite
Chi debba il primo salir suso e mille
Di lui virtù narrar chiare e gradite.
E giurar che le pomicile Sibille
Avcan predetto, come alla sua morte
Da sè non tocche soncrian le squille.
0 d’ eloquenza gloriose porle.
Spalancale a Fronton, chiuse ad Orsatlo,
Perchè mi tocchi un po’ di lode in sorte
Già sotto 'I capezza! due soldi appiatto.
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SATIRE.
ADIMARI.
CONTRO L’ADULAZIONE.
MEN1PPO e TAUA.
■ENTFPO.
Tacciai) pur gli «Uri, lo più tacernon vo-
Convlensl ornai die aia palese a tutti [glio ;
La segreta cagion per cui mi doglio.
Se mal potea mirar con gli occhi asciutti
Eraclito a’ suoi di, benché prudente,
Cesto mondo i costumi, allormen brutti.
Giacché ’l ferreo mio cor non mi con-
sente
Lagrime asl grand'uopo, orm'oda almeno.
Contro il vizio gridar l'età presente.
Dì giustissimo sdegno avvampa il seno,
E di crude! rossor l’anima accende,
V altrui mal far, l’ altrui tacer non meno ;
TAUA.
Guarda che fai? Seia tua lingua or pren-
Oaschcduno a ferir, qualunque el sia [de
Novel Timone il tuo furor ti rende.
■ ENIPPO.
Lasciami favellar, mona Talia, [da
Qual chiede il genioeil tempo; c tusecon-
La bell’opra, che alfin piacer dovria.
Se all’ira di Timon fia che risponda
La mia pur anco, a questo mi trasporta
La gran viltà che In noi lant'oltre abbonda.
Vlrtude offesa a incrudelir m’esorta
Col reoche mal s'adopra e al par col buono,
Che noi corregge, e il mal oprar sopporta.
TALIA.
Parla dunque a tua voglia; io ti perdono;
Se a riprender l’ età dal vizio guasta
Perl’alta impresa avrai bastante il suono.
■enippo.
Socheglionord'Apolloa me contrasta,
0 sia demerto o sia rigor del caso
Piccol poter, che a gran voler non basta.
Non son dal vano ardir si persuaso
Ch’Io speri I labbri miei tuffar nel fonte
Che usci dal piè del volator Pegaso.
Veduta ho di lontan la doppia fronte
Di Parnaso immortai ; nè a me fu dato
Poggiar senz’ali al tergo, in cima al Monta.
Oh ! quattro volte e sei colui brato.f petto
Che dormendo in quel gioghi ha cinto 8
D’ edra tenace, e il crin di lauri ornato!
Ma se più volte II di, son io costretto
A sentir gli altrui versi, o buoni o rei.
Per le pubbliche strade e dentro il tetto;
Giusto esser dee, poiché flnor tacH,
Degli altri ascoltator, che alcun s' appratì
A soffrir la viltà de’ carmi miei.
Godan le Muse I seggi lor celesti
Di Pìndo all'ombra; a favellar qui meco
Di lor tu sola rimaner potresti.
TALIA.
Pronta a’ tuoi pregili il mio favor ti reco;
A tuo piacer m l’opra mia confida;
Di mio socco disponi, lo son già teca.
■ENI èro.
Verghi cortese, alto drslin mi guida
Ver l’eccelsa Sirene; e se il mio canto
Fia povero di suon, non fia di strida.
tigni mortai desio travia già tanto
Nel proprio mal, che la cnmiin vergogna
Mi sforza all’ira, se non puoteal pianto.
TALIA.
Hen veggio ornai quel che tua mente ago-
Satireggiartu brami al suon mortale [gna:
Di mal temprata rustica! zampogna. . guale
Pensar conv ien se al gran soggetto è u-
Col voler la possanza ; e ti rammenta.
Che non è faci! sempre II ben dir male.
Se !' ampiezza del voi non ti sgomenta
Cerio avverrà, elle ti ritardi i vanni
L'egro rossor di non arcr chi senta,
■mirro.
Non fia per questochei! pensiero1 affan-
Uniró nel disprezzo di mie rime [ni;
Con l'infamic degli altri i propri danninole.
Quando armonico Btil suoi carmi esprl-
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L'amoroso furor, che la trasporta
Disonesta e furtiva In braccioli vago.
Saprì ben oggi ogni donzella accorta
Servirsi del favor dell' ombra oscurarla.
Stringendo il drudo;e l’una all’altra èscor-
Se l’adultero il vuol, vedrem sicura
Porger nel vin la perugina acquetta
Al marito fedel la moglie impura.
Quest' arte il suol d' Italia ha si perfetta,
Ole in rammentarsi or di Locusta il Fran-
l'erquell'una che diè, renio ne aspetta. [co,
Quando giammai l'altrui peccar fu roan-
l)al tribunal punito? o la virtude [co
Più vilipesa, e non pregiata unquanco?
L età che dee venir convien clic sude
Se vuol d’infamia pareggiarsi a questa
Che 1 vii] della scorsa e i suoi rinchiude.
L’ avarizia nefanda I cuori appesta;
La sozza avidità d’ un sol guadagno
A mille inganni, a mille usure è presta.
Mei templi maestosi abita il ragno ;
I. 'accademie soncbiuse; a stuolo immenso
Spalancalo è ’1 casin, la bisca e il bagno.
Quivi Da noto al chiaro lume e al denso
Che può la tema, il duol, l' affetto e l’ ira,
L' ozio, Il piacer, la morbidezza e il senso.
Quanto II trascorso sia di chi delira
Nel dissipar l’ erediti degli avi
Dietro al cicco desio, che a forza il tira.
Come l’ onor del prossimo si aggravi
Di false accuse in maldicenze vere,
E il parlar sempre tinga e mai non lavi.
Con qual prestezza in perdite leggiere
Trascorra il labbro alla bestemmia orrcn-
Nc'giocltldi bassotte e di primere. [da
Di colai vizj e d' altri, che a vicenda
Tiranneggiano l’uom, ragion vorrcbbc[da.
Nell'uomo il pentimento e insiem l'ammcn-
Ha perchè grave al mio dolor sarebbe
Del tutto riformar gli aspri costumi
Di cui pulir, di cui sanar si debbe ;
Volger però m'eleggo attenti i lumi
Ver l'un rhc di viltade ogni altro avanza
Come in pienezza II mar sovrasta ai fiumi.
Parlo di quel clic placido in sembianza
Fier nemico è del mondo ; e pur gli è caro
Sla colpa vecchia, o sia novella usanza.
Malvagio adulator, per te restaro [bllo
Mili’alme immerse in seno aunmard'ob-
D! cui sarebbe il mondo eterno e chiaro.
TALIA.
Frate), tu In me risvegli ugual desio;
E se dir mal t’aggrada, oggi vedrai
SATIRE. 437
Che l’ Ire ho pronte, e so di r male anch’ io.
D' ammonirti poc’anzi invan tentai;
Ma la materia è tal, che mi conviene
Seguir tuoi passi e prevenirli ornai.
Mormora ognuno.e a me rossor ne viene;
Che la vii arte ad adular suol pregi
Prende in Parnaso, e clic da noi proviene.
Ch’ella di lauro in Piudo il crin si fregi,
E dal scn delle Muse ascenda al polo,
Sul vanni all' armonie de' cigni egregi.
■Ettiepo.
Giusto è'I rossor, sorella, e giusto è'1 duo-
Ciascunoil dice ; e chi per vero il crede [lo ;
La certezza non ha da un fatto solo.
Me fan le carte irrcvocabil fede;
E nei Ialini fogli e negli argivi
I.a rolli dell' adular si vede.
Quanti di v era fama e gloria privi
Non sol vi piacque di far noti in terra,
MainCiel riporrec numerar fra I divi?
Quante per vostre lodi il Clel rinserra
Alme di quei, le cui bcll’opre furo
Lascive in pace c ladronecce in guerra?
Coli nel soglio folgorante c puro
Della sfera Immortai siedon per voi
Numi, che il fannoal pardi Stige oscuro.
Dìscorriam brevemente in fra di noi
Qual degna opra d’ un Dio fece Satun.0
Dlvorator crude! de’ tigli suoi ?
Forse oggetto saran d’alto coturno
D’ un Giove I fatti, il qual molle e benigno
Mostrossi al folgorar d’ un petto eburoo?
Mobil mirarlo spesso al vezzo, al ghigno
D’un ritrosetto e luslnghier sembiante,
Depor gli strali e farsi or toro or cigno.
Stupì la Grecia allorquando il T minante
Sprezzò d' Europa le innocenti strida.
Rapita in mar dall’impudico amante.
Parla ciascun di Marte e ciascun grida,
Ch’el non ha maggior plauso; e 11 dicon l’ o-
Che di ribaldo, adultero c omicida, [pre.
Del buon Mercurio poi la famascuoprt
Ch'egli qual Dio del favellar più culto
Nel brutto ufficio di lenon s’ adopre.
Io non dirò che il rimanersi Inulto
Sia gran virtù, poiché Giunon s' affretta
Del pastor frigio a vendicar l' insulto.
Magnanimo valor nell' uomo aspetta
Dal perdon la sua gloria; e i sommi Dei
Speran messe d’onor dalla vendetta.
Or che dirò nel ragionar di lei,
Che madre in Ciel del trionfante Amore,
| Vuol di lascivie in terra alzar trofei?
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I
438 SATIRE.
Die* d’Arabia il giovili cacciatore,
Cbe ae la strinse lungo trinilo in braccio,
Se godè sue beltà, ae n’ ebbe il cuore.
Malia senno migliora II resto io taccio;
Chè degli amplessi suoi coi Dio robusto.
Abbastanza parlò Vulran col laccio.
Cbe piùMi beri mostri è T Gel si onusto,
Che II cerchio immenso del suo bel zaffiro
Per tante bestie è divenuto angusto.
Or chi lor diè sovra il celeste giro
Home di stelle, se non fu l' recesso
Del finger vostro, onde a ragion m' adiro?
Tali*.
T’avca per saggio in fatti, or ti confesso
Cbe nè pur sai cbe II foleggiare amico
E il moderno adular non è lo stesso, [co.
L’uno è vizio mortai, che aU’nom neml-
In ogni guisa offende, e non ha modi
Come a lui giovi o gli divenga amico.[godl
L’altro è tal, cbe ascoltando, almen tu
DeH’inventor bizzarro; e chi s’ingegna
L’allegoria scoprir, convicn che il lodi.
Col dilettar la favola è pur degna
Di qualche plauso; e grande il vuoi qualora
i D essa appar quei cbe fingendo insegna.
Ciove in augello e in bue cangiato ogno-
ra,
M. stracheamor.sescioglieilfrendc’sensi
L'iooi grande uguaglia al vii giumento
ancora.
Giunon.che spirti ha di vendetta accensi,
Spiega cbe donna di regale altezza
Sente aneli' essa 11 poter d'affetti intensi.
Vcuer,cheil vago Adon dolce accarezza,
Avvisa cbe di rado s’ accompagna
Pregio d'alta onestade a gran bellezza.
Quel Dio cbe uccide i figli e non sen la-
Del tempo II corsoe la fierezza addita,[gna,
Chi nuli’ opra di sè vuol che rimaglia.
In Marte abbiam cbe al troppo ardir va
unita
Stolta licenza ; e dal guerrler coraggio
Negli anni acerbi è la ragion sbandita, [gio,
Qlienio espon.che a non temer d’ollrag-
Dee fuggir l’onestà lusinghe e rime.
Velai e preghiere d’amator, eh’ è saggio.
E se del Cie! più mostri empion te cime,
Leggi quai furo, e in lor vedrai, cbe finto
t il vero premi» del valor sublime,
«siero.
Abbastanza dicesti ; ed lo convinto
Abbastanza rimasi ; or l' arco prendo
A fulminar l’ adulatore accinto.
È l' adulazlon vizio si orrendo.
Che sovra gli altri, a chi ben mira, ardisce
D' apparir più deforme e più tremendo.
Qualunque un vizio sia non mai si unisce
Col suo contrario, anzi ’l contrario uccide;
Ma l' adulazlon tutti nutrisce.
Ella con tutti baldanzosa ride;
A tutti serba Imperlnrbabll pace.
Nè per disdegno alcun l'umor divide.
Mapuòl' egro mortai dal suo vorace
Dente guardarsi, che II velen segreto
Dell’empia serpe In apparenza piace.
Leggiadro aspetto, occhio brillante e
Maniere accorte e favellar cortese ; [lieto.
Alma tranquilla In cor placido e quieto.
Mostra l’adulator sempre In palese;
Quindi è che ognun l' applaude e l’ha per
sorte
Di tenerselo al fianco a proprie spese.
Al temerario Impon vanto di forte;
Magnanimo egli appella e liberale
Chi prodigo darla fin la consorte.
Al misero dà nome di frugale;
Chiama 11 volgar timor cauta prudenza;
Fa gloria il bissino e fa vlrtude n male.
Spirto di bizzarria fa l'Insolenza,
Pienezza di facondia il ciarlar molto;
Pregio di cortesia l' incontinenza.
Arte di finger bene, oprar da stolto ;
Esempio di sagace avvedimento
L’aver diverso In petto il cuor dal volto.
S' introduce In tal guisa e cento e cento
Destramente adulando, e sa coprire
Col nome d'amicizia il tradimento.
Con l' arte stessa e con lo stesso ardire
Veggiamo il lottatnr, che In molle arena
Fa servir la destrezza al sno desire, [na
Lleveorpalpall coinpagnoedorcon le-
Lo stringe al sen; quindi Improvviso il
lassa,
E sembra che scherzandoli tocchi appena.
Poi destramente sovra lui trapassa;
Tenta nuove sorprese : e quando ei vuole
Più sicuro atterrarlo, allor s’abbassa.
L’ abbomincvol, scellerata prole
De’ vani adulatori è più nociva
Che la razza de' corvi esser non suole.
Questi vagando in solitaria riva
Pascon talvolta nella morta gente
L’ ingordo ventre e lasclan star la riva.
Quelli di satollar nell’iiom vivente
Cercan la faine , e ne' più cari a loro
Per le pubbliche strade usano II dente.
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SATIRK. 439
Dimmi, madonna Astrea.dov’èl decoro?
Cam' esser può cbe'l brando luo stia saldo,
E tanta fellonia soffra in costoro? [do
ogiion Barici, Giasone, Accursio e Bai-
Ch' altri uccidendo il suo nemico, in pena,
Dia de'cald al rosaio , e stenti al caldo.
Il solo adulator trafigge e svena
Lo Messo amico, e noi t ed iani punito;
Pur dorrebbe ogni forca esserne piena.
La tanta impuniti più il rende ardito;
Quindi s'avanza a far più grave II fallo.
Se più che il fallo è grave e più gradito.
TALIA.
Basta cbe il Ciel di sopra il vede e salto ;
E Provvidenza forse ora il permette
Sema gastigo, e poi maggior darallo.
Parche talvolta ei trascurando aspette
Tempo al panir; ma più che tarda è l’ira
Più fiera è allor che a fulminar si mette,
«siero.
Lo scaltro adulalor non mai s' aggira
Dietro al mendico , e so! gareggia i! Tizio
Li dove pieno e ridondante il mira.
Quest' arte deve aver frode e giudizio ;
E quando P ulil certo non appare ,
Non men che faticoso t van l' uffizio.
(Ina mensa imbandita il fa lodare ,
Di Mecenate al par, l’ autor di quella;
E tanto è largo indir, quant’ altri in dare.
Se prodigo garzone unqua favella.
Leggendo in parte orazfon discuoila,
0 vaghe rime , ed a sentir l’ appella ;
Ki con la faccia al suo parlar rivolta,
Quantunque i versi sian da staffilate ,
Tacito pria maravigliando ascolta ;
Poi prendendo a lodar le sregolate
Forme della ridicola canzone ;
E le voci mal poste e mal trovate ,
Vuol del maggior Toscan far paragone
Lol poeta nove), che più noioso
Ha U canto del lielar d' un vii montone.
Dice che non si grato e armonioso
Parve Arion, quando il ceruleo dorso
Kcndea del mar sopra il del fin sqtiammoso.
Che non pane si dolce al secol scorso
II dottissimo Orfeo, di cui si finge
Cbe fermasse col plettro all’ Ebro il corso.
Che In prosa poi col voi tropp’alto attinge
1 a gloria di colui , eh’ entro la cuna
(lol mel dell’ api in bocca atto ne pinge.
0 del saggio orator la cui fortuna
Chiara giù tanto al nascer suo redeste
Mire del Tcbro, ed al morir si bruna.
Cosi parlando il Inslnghler con queste
Voci scaltrite, ornala mente e il tergo
Di ricca gemma e di pomposa veste.
Ma lo scorno e 11 dolor vien poi da tergo
Ai solenne minchion che al plauso crede,
Di cui lieto risnona il proprio albergo.
Cbe mentre a Febo in melodia non cede,
Del presumer soverchio al fingl’incrcsce ;
E gii orecchi di Marsia aver si crede ;
Chi il tizio è tal che per dcstln riesce
Simile in tatto a quella sozza cosa
Che in sentirsi palpar s’indura e cresce.
TALIA.
0 maladetto inganno , o vergognosa
Reità , che ncll'uom tanto h più grave
Quant’all'altr'iiom si vede esser dannosa!
Se quando il vizio un riprensor non ave
Fassi pur troppo indomito e feroce;
Qual fia se ascolta il tuo parlar soave?
Vorrei d'orribil tuono aver la voce
E di fulmin la lingua , onde trafitto
Cada l’ adnlator cbe tanto nuoce.
Senti malvagio, ciò che in Cielo è scritto:
La pena avrai tu delle colpe altrui.
Se fai. h.' colpe altrui proprio delitto.
Se per malizia o error pecca colui,
Tu che scaltro fomenti il suo peccato,
Più grave il rendi e sei peggior di luL
ME VI* PO.
Riserba, o Musa, a maggior uopo il fiato:
Vcdiani , come alla donna i dardi scocca
De* vezzi suoi l' adulator malnato.
Elia che ognor per vanità trabocca.
Del plauso hisinghier tosto si appaga;
Chi? quanto è vana più, tanto è più sciocca.
E ben conosce dii per dritto Indaga
La più sicura parte, onde s'offenda,
Chè nasce ogni suo mal dall' esser vaga.
Onde I’ adulator , porcili si renda
Facile al don chi per costume t avara.
Loda il suo volto, e non vi trova emenda.
Viva lampa del Sol, splendente e chiara
Chiama le due pupille; e’ fior del seno
Pompa d'amor maravigliosa c rara.
Pareggia delle guance il bel sereno
All’alba mattutina, allor che spande
Nembi di perle e d’ostri in sul terreno.
Giura clic il portamento apparsi grande,
Che le regine mai del Termudonte
Non fur si maestose c sì ammirande.
Che forma il belcrin d’or serto alla fronte:
Che vergognar de’ labbri il bel rubino
Fa di sua pov ertà l’ indico monte.
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440 SATIRE.
Ben so che lo splendor d'un peregrino
Volto, è raggio del Sol , che ne conduce
AH' immenso splendor del Sol divino:
Chi la bellezza all’ noni mortale è luce
Per contemplar l'alta bellezza eterna,
La cui semplice linmago in lei riluce.
Dunque chi Torchio in un bel viso interna
Senza blasmo esaltar puotc il soggetto
Dove beiti più folgorar discema.
Poiché lodando In essa il sito effetto
Del valor sovrumano, ci si propone,
La possanza di Dio per primo oggetto.
Ma il vile adulator, ch'altro dispone
Nella sua mente, e il sordoorerchlo ha eh iu-
A quel che insegna Socrate e Platone, [so
Vuol la donna lodar seguendo I' uso
Dell'arte ingannatrice . abbia o non abbia
leggiadro il volto c delicato il muso.
Quindi grattando a lei forte la scabbia,
L’Improvviso piacer, che sente in atto
Compiuta l’opra, se le cangia in rabbia.
Divicn superba e imperiosa a un tratto;
La vanltade a suo piacer la mote;
L’Ira la Infiamma e la sorprende affitto.
Di sua beltà vuol palesar le prove
Nell’ aver mille amanti; e in si corregge
Le vecchie colpe con licenze nove.
Sprezza d'onor la mal servata legge;
Vende oncstade a prezzo di sospiri ;
E perch'è bella, esser lasciva elegge.
TALIA.
Oh come a tempo a rinnovar mi tiri
La fama di scrltlor, non anche oscura;
Kun suo bel mostro alla memoria inspiri;
Dicea costui , che per miglior ventura
Non dovrebbe mai donna il viso e il nome
Far noto al Sol, fuor delle proprie mura.
Contemplato il setor di bionde chiome
Ugualmente sospinge , e bocca c ciglio
A lodar, a stupir, ni sai dir come.
Lodar la donna buona è gran periglio
Di farla trista; e commendar la rea,
Fla grave error di pessimo consiglio.
Ma più sento infiammarmi, e noi dicea,
Chi l'adulazion fatta si vasta,
E giunta ad infamar l'arte febea ,
L'arte che ogni altra di beiti sovrasta :
L'arte che ascrive al Cielo 1 pregj suoi ,
L' adulator malvagio in terra ha guasta.
Del tributo de' versi eran gii eroi
Sol degni un poco ; ed or di nobil cetra
SI consacrano i carmi a vacche , a buoi.
S’ode talvolta risuonar per l'etra
L' opra di tal , che leziosa e ignara
Più d’ogni furia a gentil guardo è tetra.
Sui palchi d'Anna se perfetta e rara
Pippa è nel canto , avrai suoi pregj uguali
All' allo onor di Brescia e di Pescara.
Qual sforzo di valor, qual batter d' ali
Alzò costei dal fango , in cui distesa
Dovria giacersi , e i merli in lei son tali.
Tu risponder potresti a sua difesa ,
Che la virtù dell’ armonie canore
L’ha fatta illustre , e Immobile l'ha resa.
lo ti dirò, che il canto è grave errore
Se reggiani che vii donna usa il concento
Per far più molle di lascivia un cuore.
Stomacosa pazzia , folle ardimento !
Prestar nome di bene ai mal che offende,
E far del vizio la virtù strumento.
Sdegno e vergogna a gran ragion mi
Allorclicaipregjdi fangose rane [prende,
Nobil rantor sul Ren la lira apprende.
Chi desia d' ottener cose sovrane ,
E vuol degne materie , eroico verso ,
Non favolose, adulatrici e vane.
Offra lo sili più risuonanlc e terso
Al forte braccio del Caprara invitto.
Memorando allo Scita, al Trace, al Perso.
Narri eh' ci vinse in marzia! conflitto
L’ oste che per sua gloria in Austria venne
Dall’ estremo confiti d’ Asia e d' Egitto.
Ch’ egli a voi memorando alzò le penue.
Se In gloria militar solo e primiero
Fra 1 figliuoli del re tal gloria ottenne.
E se più dolce oggetto, oppur men fiero
Cercaste al canto, e II gentil cuor v’invita
Al vezzoso seren d’uu volto arderò;
Mentre virtù magnanima v'incita,
E desio di dar lode in voi sfavilla
A gran beltà con pudicizia unita ;
Fate ornai risuonar l'aria tranquilla
Del ciel natio co' pregj onde si mostra
Adorna Eleonora e la Cainmilla.
Diteche l' una e l'altra al maggio ioostra
Col volto i fiori , e con bell' opre puote
Più superba di lei far l’età nostra.
Quindi se spiace a voi tinger le gote
Di rossor generoso alle modeste
Che son vive, presenti, c altrui ben note ;
Con degno applauso rinnovar potreste
D'antiche donne il memorabll vanto,
Che in altre età con somma gloria aveste.
Che in rostro assise a’gran maestri accan-
Cinto di verde lauro il biondo crine, [lo,
Giunscr le toglie al femminile ammanto.
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SATIRE. 441
Bologna, a che tacerle Calderine,
Che Turo, e sono ancor I' auree fenici
Del cield’Insubria, e commendar poi Fri-
0 tempi infami , o secoli infelici ! [ne?
Non hanno I cigni applauso condegno
Che per mostri di scene e cantatrici.
Oggi l’Adulazion giuntai a tal segno.
Che van più chiare ai elei nottole e strigi.
Del regio augel che de’ volanti ha’l regno.
MES1PPO.
Questi dell'uso son nuovi prodigi;
Nè può la man d’ Astrea porvi rimedio,
Chi ingombro ha'i tribunal d’altri litigi.
Ha che direm del pertinace assedio
Che fa l’adulatore in regia corte, [dio?
Dove II danno è maggior, se graveè’lte-
Tutio conv ien che il principe sopporlc,
Ch’ esso sa tutte del suo cor le vie ,
E n'apre a suo piacer le chiuse porle.
Con Incanto di versi e di bugie
Soggetto il rende, e gli lusinga il sonno
Forza d'arte peggior che di magie, [donno.
Quel che d’ogni altro In rcgal soglio è
Del cortigian più lusinghiero è servo ,
Perchè incantar finte lusinghe il ponno.
Dovunque miro, praticarsi osservo
C’empio costume , e aver felice stanza
Col tristo re l’ adulator protervo.
Nè mai creduto avrei tanta baldanza,
Ch'ei dovesse spezzarcon suo gran rischio
L'aspetto fier di sua regai possanza.
Ma tal sorte d’ augei non cala ai fischio,
Stassi sull' ali , e ticn vibrati i vanni
Per osservar dove sia rete o vischio.
TALIA.
Saggiamente rispondi, e non l' inganni ;
Stiè giù l' adulator lontan dai trono
Sin che al trono lontan stlero i tiranni.
Non perchè meglio allor eh’ oggi noti so-
Fosser le corti, o di viltà più nette; [no,
Ma perchè in esse il regnator fu buono.
Chèilservoluslnghicrnon si frammette
LI dove il vizio non ingemma il serto;
Nè si ponno adular l'oprc perfette.
Sentiva il re con favellare aperto
Proporsi allor con semplici parole
11 partito miglior nel caso incerto.
Ond’ei con degno oprar d'un caldo sole
lropor solea nel comandar sovente
Quel che lice al sovran, non quei che vuole.
Area re saggio il consiglier prudente ,
E mai sempre concorde era fra loro
Del vassallo il parlar , del re la mente.
Esser questa dovea Feti dell’ oro,
Quando le piante avean mele e rugiada ,
E correa pien di latte II rio sonoro.
Quando senz’unghie ad un ch’è senza
Erano i re più semplici e men scaltri, [spada
Per non saper come il vassal si rada.
Apri l’ orecchio ben perch’ lo ti scaltri ;
Voglio dir, quando ai re più moderali
Bastava il poco e non placca quel d'altri.
E benché alcun di poi fra’ coronati
Signor del mondo oltrepassar s'ardisse
L'aureo confin de' primi di beati;
Per tutto ciò , mentre regnando ei visse.
Non mancò riprensor che la smarrita
Strada mostragli e quanto mal n'uscisse.
Nè l'adulazton fu mai sentita
Dalie sue regie orecchie , o al vero allise ,
Oli fe’ nascosta e in pubblico sfuggila.
Tal era II mondo allor, sin ches'assisi-
Sovra il trono de' Medi un messer tale
Che nacque in Persia e ri chiamò Cambisc.
Traeva costui da genitor regale
L'origin sua; ma l'avolo eh’ egli ebbe.
Fu maggior di virtù che di natale, [he
Che importa questo? Ebaldanzosocre!>-
Sprezzatord’ogni legge, e fu suogusto[be.
Far quel che piace al re, non quel che deh-
Dell’ imperio i confin, quantunque au-
gusto.
Stender gli piacque, e soggettar Canopo ;
Re forte in ver, ma smoderalo e ingiusto.
Degli altri eccessi suol non fora or d’uopo
Darti contezza, c tu ben saper dei
Che all' un vizio primier l’altro vien dopo.
Tralascio di narrar, com' io potrei ,
Il sacrilego ardir che usò ne’ templi,
Peggior die In Fiegra Enceiadi e Tifei.
Chè se del pazzo re l' opre contempli ,
Tosto clic avrai l'enorme cuor compreso.
Del gastigo mortai vedrai gli esempli.
Sol li dirò, che ai ber soverchio Inteso,
Ebbro alfin rimanea del vìn bev uto ;
E ne fu da Pesaspc un di ripreso.
Oh quanto fora meglio aver taciuto
AI prode cavalier, sinora invano
Caro al monarca , e per fedel tenuto !
Avea questi un figliuol gent.le, umano,
D'alta bellù, che il barbaro regnante
Serviva a mensa con la coppa in mano.
Tosto venir lo fece a sè dat ante ; [fisse,
E il grande arco incurvando, a quello af-
Fatto segno al bel sen, lo siral volante.
Quindi vibratol poi , perchè ferisse
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SATIRE.
Dorè 8 cieco furor l' ha de ulna lo ,
A meno il cuore il garzoucel trafisse.
E rollo al genitor lo sguardo irato.
Con acerbo sogghigno iutcrrogoUo
Qual giudizio dei colpo avca formato.
Ond' el, piegando umile al petto il coilo.
Rispose : Il colpo, alto signor, celebro;
Nou piti giusto il faria l' arco d' Apollo.
Or va, soggiunse; e narra al Gange, al
Tebro, [do.
Al Tigri, al MI, ch’ho si ben fermo il brac-
Quando il vin mi riscalda e eh’ io son ebro.
La nocella crudel fe' ognun di ghiaedo;
Ne fu ciii'l ter dicendo alcun volesse
Scherzar co' grandi c far di mal procacdo.
Fede, Giustizia, e Veliti con esse,
Dieron le spalle a regj alberghi allotta ;
E pronto il pie l’adulalor vi messe.
Scorse da indi in poi la gente dotta,
Chi larga olticn dal suo signor la grazia ,
Chi piti gii ugne i suoi t Izj, e nirn gli scotta.
Perciò radutami- non mai si sazia
Di far l’opre del re famose c conte
Coi bel pretesto di fuggir disgrazia.
Fingendo imita il vii camaleonte;
Dall'ira d'ognl vizio il color piglia, [pronte.
Dal fianco in fuori, e vuoi che in lei s’im-
Or cangia aspetto e i' orsa rassomiglia ,
Mentre con lingua astuta il parlo informe
Pulisce al re che mal concesse c figlia, [me ,
Or Da die in talpa, in ghiro ci si trasfor-
Finge che invidia d’altrui ben noi Unge ;
Nulla vede, nulla ode e sempre dorme.
Par che gentil pleiade il cor gli frange ,
Se da sue lodi oppresso altri si more,
Fatto mostro del Miche uccide e piange.
Ha finto il viso, ha simulato il core;
Col guardo agiizzo.aH’utlI proprio intende,
Nò la gloria gli cal del suo signore.
Se II rege inclina al malcei noi riprende;
E più che de’ suoi tlzj allenta il freno, [de.
Più il cuor gli stringe e più soggetto il ren-
ntiirpo.
Ohimè che sento! in guisa tal son pieno
D’ira c furor, che I generosi lampi
Celar non posso c già nc scoppia il seno.
Forz’ è che il petto a si gran fuoco av-
vampi ;
Lascia ch’io gridi ; e m’oda almen da lunge
L'abitator de’ più deserti campi.
Veggio, cd a mio dispetto il cuor mi
ChèUnla via l'adulator trascorre, [punge,
Nè mai gastigo In alcun luogo il giunge.
Sente ciascuno il danno, e noi soccorre;
Conosce il mal , ma per destino ignoto
0 non vuole il rimedio o noi può torre.
Udite, o re; siavi palese e noto
Ch'ove d' adulatori è gran dovisia.
Comica che il regno di valor sia voto.
Non Unti raggi ha in del l'amor di Cli-
Non ha l’aprii unti fioretti e fronde, [zia.
Quanta l'adulator frode e nequizia.
Chi mal opradl voi non toglie altronde.
Che dall’adulator l’ esser malvagio
Chè il soverchio lodar superbia infonde.
La superbia nc’grandi è un lai contagio,
Cile di mortai veleno empie ie nienti ;
Mal che giunge assai presto e parte adagio.
De' falsi amici I lusinghieri accenti
Feron Dionigi infame in sul Meandro[senli.
Ne’ tempi andati , e il fanno anche a’pre-
VinsellTigre, l' Arasse e lo Seamandro,
L'Eufrale.ilMI, l’Oronle.calfin poi vinto
Da falso adulator cadde Alessandro.
Fu Marc’ Antonio a vaneggiar sospinto
Dall' aura degli applausi , e dei romano
Valor fu ’1 lume da Ul fiato estinto.
Fu tristo invcr .Neron mentre il sovrano
Scettro rrggca , e il buon maestro il rese
Peggior, lenUndo al corso suo la mano.
Chè quando in Grecia ei sul teatro ascese
A cantar fra' magnifici coglioni
Fu Seneca un castron che noi riprese.
TALIA.
Troppo l’Ira t'infiamma e mal ragioni.
Perchè Gaudio da’Greci il premio ci volle
Prima al meno de’ versi c poi de’ suoni.
MFKIPPO.
Siapurcosi.cheil biasmoa lui non lolle
Che se chiamo ’l Lucan nume dell'etra ,
Qualunque il fin si fosse oprò da folle.
Dovca palchi sprezzar, maschere e cetra,
Schivo mostrarsi del vulgar costume,
Cagion che il grande senza gloria inveirà.
Ma II Iristo adulator, che si presume
Trionfar della corte e darle il sacco,
Pone ai vizio regai pregio di nume.
Se II re mal canta è un Febo; e sebben
Si palesa al lottar, somiglia Alcide ; [fiacco
Se ubriachezza il vinse, è pari a Bacco, de
Tomiam pure a Neron, che mentre il ri-
noma seder felice in trono aurato,
Cinto dal plauso delle turbe infide
Permise volontier che anche il senato
Lusingasse quel mostro di fierezza
Con arte rea d' adulator sfacciato;
SATIRE. 443
. Chiamando in lui virtù d’alta fortezza
Lo scempio della misera Agrippina,
Che scese ali’ urna dalla regia altezza.
Ma poi di’ ei giunse alla (alai rovina.
Non fu chi lo seguisse almen con l’ occhio
Nd periglio di morte ornai vicina.
TALJA.
Mi ricordo, fratei, che il buon pidocchio.
Sussi col vivo; e come l'uomo è senza
Ddla vita il scren, partir l’adocchio.
L'adulatoruon manco ha l’ avvertenza
Di cibarsi col grande, insili che dura
Lo splendor di fortuna c di potenza.
Esc la regia qualità gli fura
Fatai sinistro, ei, rivolgendo il passo
L'albergo altrove stabilir procura.
ME.MPPO.
Dall’ Ira a un tempo alla pietà trapasso
Dovuta al re, che appar bealo in visU,
E U trovo in fatti miserando e lasso.
Turba d' adulator malvagia e trista [ro
Sempre il circouda,onde av\ien poi che ra-
Gloria immortale al regio nome acquista.
Lusingato da molti, a nessun caro,
Non ha più chi gli addili il bei sentiero.
Che bene oprando il guidi a farsi chiaro.
Non alhcrgan le corti amor del vero;
L’adulator dispon che il re si faccia
D’inganno e crudeltà baso all'impero.
Posseder nobil arte invan procaccia.
Se avvien clic il corti pian, qualor più falla.
Sempre parli applaudendo,o veda o Uccia.
É sentenza ben nou c ciascun salia,
Che al palagio reai non lungi alberga
La verità nascosta entro la sulla. [ga,
Mentre il cavai clic ogni altro fin poster-
Può far che del sovrano a tempo e loco
Si scopra il vizio, e l’ignoranza emerga;
Chè quando il re di cavalcar sa poco.
Con avviso opportuno il trae di sella.
Qual farebbe in tal caso ogni uom da poco.
Pur questa usanza adulatrice c fella,
S* emenderia col castigar Ul volta
L'empio die mal consiglia e mai favella.
Lessi che in Macedonia (or tu m'ascolu)
Un re già nacque a sostener lo scettro,
La cui grandezza In altre eli fu molta.
Non perché avesse il crii] di puro elettro,
Vcrmigliuzza la guancia, il collo eburno,
Mere al sistro la man, veloce al plettro ;
Né perchè spenti I rai del Sol diurno.
Danzasse in ampia sala agile e destro,
D’ accesi torchi allo splendor notturno ;
Ma perchè prode in armi, e gran maestre
Era di guerra ; e di sua fama 11 grido
Correndo empieva ogni conftn terrestre.
Prese a mostrargli adulator mal fido
Col dannoso lodar, che al valor tanto
Oflria teatro angusto il patrio nido.
Ofld’ei credendo al lusingar cotanto
De’ falsi amici, dall'applauso insano
Lasciò gonfiarsi di superbia alquanto.
E lenendo le orecchie aperte invano
Alle menzogne altrui, poi non aprille
Al minacciar del popolo romano.
Spiegò bandiere in al to a ceutoe mille ;
Fe’ col favor di bellico strumento
Per tutto rimbombar cittadi e ville.
Mosse contro al nrmicoal par dei vento;
Giunse, pugnò ; ma nel mortale assalto
Non rispose foriuna all'ardimento.
Fu tinto in fidila, e di sanguigno smalto
Tinse il terreno in cosi fiere guise,
Che in tutto egual fu la caduta al salto.
Perciò sdegnato il re che si commise
Per le vane lusinghe al certo danno.
Di propria man gli adulator uccise.
tali».
Qua) sia i'autor dell'opra, io noi condan-
Cliè a perfidia di lingua adulatrice [no ;
E lieve pena ogni piò grave aOanno.lce,
Pur non mcn grato è a udir ciò clic ai di-
che fosse in Grecia II cavalier possente
Germe d’ Alcide, a cui fu Roma ultrice.
Egli altero di cuor, ilei e di mente.
Lascialo il fren d’ Italia ad altri in mano,
Reggea Tarmi ialine in Oliente.
Saper ben dei che il ditlator romano,
Quando percosso dalTostil furore.
Cadde dal irono a far sanguigno il piano,
E rotto in guerra il forie imitatore.
Dell'avo antico abbandonò la vita.
Pria che allentar di liberti l'amore;
La possanza di Giulio allor partita,
In tre soli rimase ; e tosto poi
Con miglior sorte in due fu scompartita.
Dell’ Aurora i confini e i regni eoi
Tolse Antonio in baila, dove il vetusto
Valor depusc in grembo ai via} suoi.
E perché udia suonar di glorie onusto
Il proprio nome, a scorno deU’obblio,
Dall’ un poloaggiiiacciatoall’ altro adusto.
Volto l'orgoglio al Ciel, venne lu desio
D’alzar suoi vanti oltre la sorte umana.
Col pretender gli altari e farsi un Dio.
Godea per fasto d'altcreaza tana
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444 SATIRE.
Vestir di Bieco il manto c la sembianza,
Polche tale il credei la gente insana.
Seguir di quegli ogni più nota usania,
Di pampini intrecciala ornar la fronte.
Celebrar le vendemmie in festa, in danza.
Se parlo marmo, o di più nobil monte
Sacro alle sue vittorie alcun gli ergeva,
Divo il fingra nelle sublimi impronte.
Dirsi Ubero padre egli voleva,
Benché non fosse, e in ogni parte ambiva
Celesti onori ovunque il piè volgeva.
Or vagando costui per terra argiva,
Vista Tebe, Corinto, Argo, Micene,
E la gran Sparla a picciol Stime in riva ;
Nell' attiche contrade allin seti viene;
Già la fama il precorre entro le mura;
Rimbomba ogni ecoal festeggiar d' Atene.
Corran le turbe al colle, alla pianura.
Giovani c vecchi, uomini e donne a gara;
S’ allegrati tutti, ed è romun tal cura.
Altri le strade ai suo venir prepara,
Spargentlo il suol di tenere viole,
D' utuil ginestra al villancl si cara.
Altri, Intento a formar liete carole,
Muote al suon di più lire e accorda spesso
All'armonia gentil canti e parole, [esso,
Giunse intanto il senato incontro ad
E sciolta al lusingar la lingua rea,
In tal guisa parlò, chino e dimesso.
Disse che la eliti (perchè sapea
Qual era Invero) ed al sembiante c a' detti
Il dlvin raggio in lui splender vcdca.[fettl,
Per questo oltre ad offrirgli i propri cf-
Di Minerva sua diva il fa consorte,
E il prrga imi il che I suoi sponsali accetti.
Rise il superbo in mezzo al cuor ben forte
Della proITerta adulatricc c sciocca,
E in breve giro di parole scorlr,
Sogghignando rispose a dolce bocca :
Convicn clic di tal moglie io mi contenti ;
Ma il peusier di dotarla ancor vi tocca.
lo dunque a voi per \ erba de' presenti
Prometto di Minerva esser marito,
E per sua dote avrò mille talenti.
Cosi d'argento e d’oro impoverito
riause gran tempo il popolo inesperto,
Tardi a suo prò dell’ adular pentito.
MF.MIPFO.
Giustamente tal premio ebbe un lai mer-
Esaria.se l'esempio altri seguisse, [to;
1.' adulator più cauto e men sofferto.
Seguasi almeno il re spartan, che disse
Non doversi apprezzar lode dubbiosa
DI labbro che al biasmar poi non s'aprisie.
TALI*.
Sarebbe al creder mio possi bil rosa
Scemar l’ applauso al male oprar concesso
Dalla lode, che merla opra famosa.
Se fosse all’ uom dal fragil suo permesso
Da quel che piace allontanar la voglia.
Vincer gli affetti, e non amar sè stesso.
Qualor fra noi del suo mortai si spoglia.
Qual re vedrem, che sè medesmo affrene,
E del terren suo pondo i lacci sciogha!
L' adulator sagace avvinto il tiene
Col dolce Incanto del parlare accorto,
E il traggo al mal, se va ritroso al bene.
Ma com’ esser può mai si grave il torto,
Cile verso l’ uom l' adulator commette, : to.
Se ognor più cieco in maggior fallo èscor
Qual ozio aggrava i tuoni c le saette.
Quando l’ adulator si volge al Ciclo,
E il maggior Nume a lusingar si mette.
Mascherar l'empietà con tinger zelo.
Coprir superbia e miscredenza al pari
Della umiltà, della pietà co velo.
Chiuder voglie rapaci, affetti avari,
Quindi per apparir divolo e pio
Di ben sculto macigno ornar gli altari.
Questo, se mal uonvedciipcnsier mio,
Altro che sozza reità non parmi
Di farsi in terra adulator con Dio.
Perchè ben tosto il suo furor disarmi.
Se il gran Padre de’ Numi arde di sdegno,
Ha più forza un sospir.che bronzi c marini.
Basta clic umilialo il cuor, l'ingegno
Parli tacendo; ci più negar non puote
Graziac bontà, che d' alto amor sia pegno.
Ma ne’ templi offerir preci divote.
Giuntar le mani in alto, ai suol piegarti.
Dove altri sia che di presenza il note;
Poi nell'Interno più malvagio farti.
Non può dirsi pietà, cliè di nefando
Profano adulator queste son l'arti.
MENIPPO.
Malizioso portento, ardir mirando,
Che allin dovrebbe i fulmini celesti
Chiamar dall’eira c di Giustizia 11 brando.
Che fai , gran He del Clel, che in te non de-
Le soli l’ire, e qual ragion giammai [sti
Di fulminar con maggior danno avesti ?
Sin qui lo sdegno tuo fu lento assai ;
Or di possanza la pietà li priva,
Se prolunghi il castigo e ancor noi dai.
Consenti, o Musa, che di riva in riva
Corra il mio sdegno, dove il mar si frange,
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SATIRE.
Dove da fonte ignota il Nil deriva.
S’oda la rea cagion dal Beli al Gange,
Dall’Atlante al Pangeo, da Battro a Tlte,
Per cui Unto si grida e non si piange.
Sappia ogni cuor volgare, ogni gentile.
Che al par de’ mostri più temuti In terra
£ il solo adulator mostro più vile.
Non tigre ircana a lui simil rinserra ;
Non han cignal più fler le tracie selve;
Non furia ha Stige ad esso ugual sotterra.
Serpe che strisci in Libia e si rlnselve,
Ha minor feriti; tutto a lui cede
D' Africa 11 suol plen di portenti e belve.
Di nemico crude! la man che fiede,
Temer si dee, ma più voce serena
Che al vizio applaude ove indorato il vede.
Vera o finta che sia, la cruda lena,
Dell’empio adulatoria frode imiu, [mena.
Che l’ uom, parlando, alletta c a morte il
E tanto acerba è più l'aspra ferita,
Che reca al vero onor la finta lode,
Quanto in noi dell’ onor vai men la vita.
L'iniquo adulator flagella e rode
Ciò che virtù produce ; c a suo Ulcnto[dc.
Più che il danno è maggior, più regna e go-
Gareggiando un sol fallo in un momento
R raddoppia, il moltiplica e l’accresce;
Dove un vizio ritrova, ei ne fa cento.
Col netUrc de' tìzJ il velen mesce.
Il mal da sue lusinghe ognor nutrito
Bambino in culla giganteggia e cresce.
Vilipeso per lui, per lui schernito,
Dall'albergo reai vive in esigilo
Ogni valor più chiaro e più spedilo.
Ch'ove l’ adulator vibra l’artiglio,
Non sperar che vlrtudc in alto assisa,
Di caduta mortai schivi il periglio.
Fora un gran mostroedi piti strana guisa
Di quel che diede in Creta al regio letto
Regia beiti da sozzo amor conquisa.
Nostro che in giovanile, umano aspetto
Dall’ esser d'uom per qualità diversi
Area membri di toro in giù dal petto.
Eplùfacllcheciùpotria vederstgrembo
Scender l' Eufrate al mar vermiglio in
Co’ turbi flutti in rivi d'or conversi,
Piover dal ciel, scosso alle nubi il lembo
Dall’ Aqullon nevoso al torbld' Austro
Di sangue un rivo c di macigni un nembo;
0 pur con ferreo giogo avvinti al plau-
La terra I pesci arar, ch’usi non sono [stro,
Del bifolco alle leggi ed al vincastro.
Tant' lo dirù perché si ascolti ’l tuono
Hi
Del mio sdegno per tutto e si trasporte
All’ultimo confin quel ch’io ragiono.
E se il troppo rigor d’avversa sorte
Vorrà che all’Ira mia manchin le note.
Che le mie vod al gran furor slen corte ;
Alle genti vicine, lo qual si puote,
Gridando avviserò che I detti miei
Mandin di lingua In lingua alle remote.
Cosi, se il mio parlar, dov’io vorrei
Per sé non giunge, il porterà la fama
Da' lidi adusti a' gelidi Tlfel.
TALI A.
Giusto è'I desio, magnanima è la brama.
Che il cuor t’ accende ; e nell’opporsi al vi-
chi paventa I perigli onor non ama. [zio.
Ma se debll pleiade è buon giudizio
Il ritenerti, io non vorrei, fratello.
Mandarti incontro a qualche precipizio.
Chi applaude in oggi a'grandi è buono, t
Ma chi li biasma in ogni parte trova[be!lo;
Preparati per lui ceppi e coltello.
Vana sarebbe in oltre ogni sua prova;
E quando il vizio non riman corretto,
£ Inutil la virtù che altrui non giova.
Quanto sin qui dell' adular si è detto,
Qui si rimanga ; e posseder li basti
Parlar conforme a cuor slnceroe schietto.
La veritadc in corte ha gran contrasti.
Se pur s’ascolta; e t’avverrà sovente
Che sia mercede il mal del ben che oprasti.
L' adulator per sua viltà non sente [cura.
Quei che il riprende; e blasmo altrui non
Citò a' rimorsi del cuor sorda baia mente.
Nè la correzlon troppo è sicura;
Chè se il vizio sostien spada e bilancia,
Senno è ’l tacere, c il non tacer sventura.
Dardo, che troppo in alto invan si lan-
Torna improvviso al feri toro indietro, [eia,
E nel petto il percuote o nella guancia.
Dall'ammonir chi pecca io non l'arretro;
Ma che far potino a dii ha difeso il fianco
Da usbergo adamantino armi di vetro?
Sgrida l’ adulator; fremi pur anco;
Premio n’ avrai di carcere e guinzaglio,
Qualor d’ udirti e di soffrir sia stanco.
Ch'ei per tenersi e non caderdal vaglio.
Ti farà con bell’arte il re nemico,
Perchè tu resti al suo furor bersaglio.
Sostenne in An glia il ver Tommaso a Ko-
Maqual poi fosse li fin de' giorni lleti[rico;
La Fama il narri ; lo per dolor noi dico.
MENIPPO.
Mal consigli, Talia, se il dir mi vieti ;
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SATIRE.
4M
Chè offesi troppo in guisa lai rimane
L’ usata liberti de' tuoi poeti.
Son ombre del timor, sembianze tane;
E dei Tamigi i memorandi esempi
0 soo cadute Illustri o son lontane.
Tu all' ire applaudì ; c in ciò tue parti
Chèla Giustizia unita alla Ragiornvadempi;
Mi fan sicur dal minacciar degli empi.
Quale avrem di timor giusta cagione.
Se Persio ardi sul Tebro e giorno e notte
Parlar di tutti e non temer Nerone.
E pur le leggi in Roma eran si rotte
Par tirannia, eh’ arca rischio minore
L’abitar con le Cere in boschi e in grotte.
(Ir vorrai che in fortezza almrn di cuore
Non sia, mcntr’ei più grande In tutto a|>pa-
lo Fiorentino al Voltcrran maggiore, [re,
Se Calme per infamia illustri e chiare
Non tu' udiranno, io per sentier diversi
Farò sentirmi dallo stuol volgare.
E se talun diri che son miei versi
Troppo liberi a un tempo e troppo arditi,
IV amaro assenzio e di veleno aspersi ;
Risponderò che a' più nascosi liti
Del mondo io parlo, a Garantenti indegni.
Agli Slrigoni, Antropofaghi e Sciti.
Non ha cagion V Europa onde si sdegni
Del mio gridar, citò assiso io alto scanno.
Non vede Europa adulalor ebe regni.
Il Ren, la Senna, il Tago oggi non sanno
Turbarsi al nome deU’orribil mostro.
Non ebe sentir di sue bruti’ opre il danno.
Spagna, felice te, die ai seco! nostro
Non miri adulalor che a’ regi tuoi
L’applauso involi d'erudilo inchiostro I
Germania ancor felice ; e tal pur voi
Francia, Inghilterra. dicad ognor vantato
Non soggetti a lai colpe i vostri eroil
Felicissima tu che in liberiate
Sciolta dal pondo di qualunque soma,
L'arti non sai, per adular trovate.
Gran regina del mondo Italia e Roma!
SALVATOR ROSA.
LA POESIA,
vi.
Le colonne spezzate e 1 rotti marmi
Là tra i platani suoi divelti e scossi,
Pronto» rimira all' cccheggiar de' carmi.
Chè da furore ascrco spinti c commossi
S’odono ognor tanti poeti e tanti ,
Che manco gente in Maratona armossi.
Suonan per tutto le ribecche c i canti;
E si vedon sol d’ acque inebriati
I seguaci d’ Apollo andar baccanti.
Quei narra d'Eolo i prigioneri alati :
Di Vulcano e di Marte antri e foreste;
E dal giudice inferno i rei dannati.
Questi in niczz' agl'incanti e alle lem-
Canta i Velli rapili : altri descrive [peste
Di Teseo i fatti e le pazzie d’ Oreste :
Lazic togate c palliate argivc
Altri specola c detta, e sempre astratto
Affettate elegie compone e scrive.
Maggior poeta è chi più ha del mallo:
Tutti cantano ornai le cose {stesse:
Tutti di novità son privi affatto.
In tali accenti alle querele espresse
Quel che nato in Aquino i propri allori
Nel suol d’ Aurunca a coltivar si messe.
Cosi di Pindo i violati onori
Sferzar ne* colli suoi senti già Roma
Dal flagello maggior de’ prischi errori;
Ed oggi il losco mio guasto idioma
Non avrà ii suo Lucilio; oggi eli 'ascende
Ciascuno in Dircc a coronar la chioma.
Non irrita il mio sdegno, c non mi offende
Sola viltà di stile ; a mille accuse
Più possente cagione il cor m’accende.
Troppo al secolo mio si son diffuse
Le colpe de’ poeti : arse , e cadeo
La pianta virginal sacra alle Muse.
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SATIRE. 44T
Tacer dunque non vuo’, nume Grìneo,
Tu mi detta la voce, e tu m’inspira
D’Arcliiloco il furore e dì Tirteo.
Reggi la destra tu. Tolto alia lira
Spinga dardo teban nervo canoro ,
Orche dai vizj altrui fomento ha l’ira.
Conosco ben che a saettar costoro
Incurvar si dovria Corno Cidonkt;
Chè lento esce lo strai d’arco sonoro.
Credon questi trattar plettro Ristorno :
Nè d'Euinolpo giammai cotanto odioso
Il lapidato sili liuse Petronio.
No che tacer non vuo' : ma poi dubbioso
D'onde io muova il parlar rimango in forse ;
Tanto ho da dir, che incominciar non oso.
Sono l'infamie lor cosi trascorse ,
Che s'ione vo' cantar, le voci estreme
Son dal silenzio in su l' uscir precorse.
Offre alla mente mia ristretto insieme
Un indistinto caos vizj infiniti ,
E di mille pazzie confuso II seme.
Quindi i traslati e i paralleli orditi ,
Le parole ampollose e ì dotti oscuri.
Di grandezze c decoro i sensi usciti.
Quindi i concetti, o male espressi, o duri,
Con il capo di bestia il busto umano ,
Della lìngua stroppiata i moti impuri.
Dell' iperboli qui l’abuso insano,
Coli gl’ inverisimtli scoperti,
Lo stil per tutto effeminato e vano.
Il dclfin nelle selve e nei deserti,
Ed il cignal nel mare, c dentro ai fiumi.
Gli affetti vili , e i latrocinj aperti.
Prive di nobiltà , prive di lumi;
V adulazioni , e le lascivie enormi ,
L' empietà verso Iddio , verso I costumi.
Da tante e tante iniquità deformi
Provo acceso e confuso e sprone e freno :
Sofferenza irritata, a ebe più dormi?
Non vedi tu ebe tutto il mondo è pieno
Di questa razza inutile e molesta ,
Che i poeti produr sembra il terreno ?
Per Dio , poeti , io vo'suonarc a festa :
Me non lusinga ambizlon di gloria :
Violenza nioral mi sprona e desta.
Di passar per poeta io non ho boria :
Vada in Cirra chi vuol : nulla mi preme
Che sia scritta colà la mia memoria.
Oh che dolce follia di teste sceme t
Sol più fallito e sterile niestlero
Fondare il patrimonio della speme !
Sopra un verso sudar l’alma c il pensiero,
Acciò che sia con numero costrutto,
Se ogni sostanza poi termina in zero.
Fiori e f rondi che vai sparger per tutto
Se al fin si vede degli autunni al giro,
Che di Parnaso il fior non fa inai frutto ?
Con lusinghiero e piarido deliro
Va il poeta spogliando Ermo e Coaspe ,
Serchio, Berillio, Pcltorsi, Ormns e Tiro.
Saccheggia il Tago e si iscrra l' Idaspe,
E non si trova un snido al far de'conti
Tra le paniche gemme e l’ Arimaspe.
Poeti, è ver che Apollo abita i monti:
Ma questo non vuol dir che voi speriate
D' averci a posseder funghi di monti.
Che possibll non è che voi troviate
Tra quanti colli aClavio il tempo eresse
1 monti di San Spirto o di Pinate.
Io non so dove fondiate la messe,
S' altro tempo non dà lo clizio Dio,
Che raccolta d’ applausi e di promesse.
Superate la fame e poi l'obblio;
Chè voi non manderete li grano a frangere.
Se non prendete Ccreie per Clio.
Ilvostrosutoèlroppo da compiangere;
Mentre v’ascolta ognun cigni dispersi
Cantar per gloria, e per miseria piangere.
A clic star lutto il di tra lettre immersi?
Noto è alle genti anco idiote e basse.
Gilè non si fan lettre di cambio in versi.
Giove io non leggo che sapienza amasse:
Gilè quando il mondo ancor vagì va in culla,
Avca Minerva in capo, c se la trasse.
Quest’applauso elle voi tanto trastulla,
Doic’è per dii vivendo e l’ode c il vede;
Ma dopo morte non si sente nulla.
E più dotto oggidì ehi più possiede :
Scienza senza donar, cosa è da sciocchi :
E sudor di virtù non ha mercede.
Per aver fama, basta aver baiocchi;
Chè l’Immortalità si stima un sogno:
Son galli i ricchi, e i letterati alocchi.
Quanto adesso vi dico , io non trasogno :
Da Pindo all’ospcdal facil è il varco,
Poidiè il Saper è padre del Bisogno.
Gettate a terra la viola e l’ arco ;
Chè in quest’età d' ignorantoni e mimi
Già s’ adempì la profezia d’Ipparco.
Presi già sono i luoghi più sublimi;
Ed il provverbio pubblico risuona :
In ogni arte e nies'ier beati i primi.
Cangialo è il mondo. Oh quanti ne mln-
La foia della guerra c della stampa,[cbiona
La pania della corte c d'Elicona?
Sfortunato colui ebe Forme stampa
Di.
44» SATIRE.
Ne' lidi di I.ibetro avidi e scani,
Chè tì sta mal per sempre o non vi campa.
Torna ’l conto, o fratelli, a spoetarsi:
Cantan Ano i ragazzi a bocca piena ,
Che il poeta è il primiero a declinarsi.
Con più d’un guidalesco in su la schiena
Al nostri di l’aganippeo poliedro
Tanto smagrito è più, quant’ Ita più vena.
L’ opere a partorir degne di cedro
Vi conduco!) le stelle in qualche stalla ,
Perchè un cavallo è e voi duce a cinedro.
Chi veglia sulle carte, o quanto falla!
Che lottar con Fortuna in questi giorni
Esser unto non vai d'umor di Palla.
Nè di Felm il calor riscalda I forni :
Esechlacchiercavetecon la paia, [corni.
Non s’empìon d' Amaltea con queste i
Il rimedio a non far vita si mala
È ben dover ch'oggi vi mostri , e insegni
La formica imitar, non la cicala.
Non »’ accorgete ornai da tanti segni ,
Che nell’ inferno della povertade
Sono Palme dannate i bell' ingegni?
Chi di voi può mostrarmi una citladc
Ove una Musa sia grassa c gradita,
Se chiuse son le generose strade?
Imparate qualch'arie onde la vita
Tragga il pan quotidiano, e poi cantate
Quanto vi par La bella Margherita.
Passa la glovcntudc , e l'ore andate
La vecchiezza, mendica di sostanza.
Bestemmia poi della perduta cute.
Il motto è noto c cognito abbastanza :
A chi la povertà fi! t'ha nell’ ossa
Refrigerante impiastro è la speranza.
Non aspettate l’ultima percossa:
Non fate più da serlcani vermi ,
Che stolti da per lor si fan la fossa, [mi :
Appetir quel che ofTcnde uso è da infer-
Conlro al vostro bisogno , al vostro male,
Il saper di saper son frali schermi.
Ma volete un esempio naturale
Chela vostra sciocchezza esprima al vivo,
E rappresenti il vostro umor bestiale ?
Era volato un di tutto giulivo
Con un pezzo di cacio parmigiano,
Un corvo in cima di un antico ulivo.
La volpe 11 v ide , e s' accostò pian piano
Per farlo rimanere un bel somaro ,
Se il cado gli polca cavar di mano.
Ma perchè tra di loro cran del paro
Scaltri c furfanti , c come dir si suole :
Era tra galeotto c marinaro;
Ella , che scorso avea tutte le scuole.
Ed era malvigliacca in quint' essenza,
Cominciò verso lui con tal parole :
Gran maestra è di noi l’ esperienza :
Eliaci guida In questa bassa riva,
Madre di veritade e di prudenza.
Quando da un certo lo predicar sentiva
Che la fama ha due facce, ed è fallace,
A maligna bugia l'attribuiva.
Ma ora l'occhio è teslimon verace
Di quanto udì l’orecchio, e ben conosco
Che questa fama è un animai mendace.
Gii, perchè si dicea che nero e fosco
Eri più della pece e del carbone ,
Mi tl lincea spazzacammln da bosco :
Ma quanto è falsa l'immaginazione!
Tu sei più bianco che non è la neve:
E, pazza, io ti stimava un calabrone.
Troppo gran danno la virtù riceve
Da questa lama infame e scellerata ,
Sempre bugiarda , appassionata e leve
Perde leco, per Dio, la saponata.
Tu sembri giusto tra coleste fronde ,
Tra le foglie di fico una giuncata:
E se al candor la voce corrisponde ,
Ne incaco quanti cigni alzano il grido
Li del Cefiso alle famose sponde.
Se tu cantar sapessi , io me la rido isal ;
Di quanti uccelli ha il mondo: Eh che tu
Che in un bel corpo una bell’alma ha il
Cosi disse la furba, e disse assai : [nido.
Chèilcorvod'ambiziongonfiatoc pregno.
Credè saper quel clic non seppe mai.
E per mostrar del canto il bell'ingegno,
SI compose , si scosse e il fiato prese ,
E a cantar cominciò sopra quel legno.
Ma mentre egli stordia tutto il paese
Col solito cri, cri, dal rostro aperto
Cascò il formaggio , e la coniar lo prese.
Onde per farla da cantor esperto
SI ritrovò digiun come quel cane
Che lasciò il certo per seguir l’ incerto.
Cosi di Pindo, voi musiche rane,
Lasciate il proprio per l' appellativo ,
E per voler gracchiar perdete il pane.
Chè in vece di un mestier fertile e vivo,
Dietro alla morta e stcril poesia
Imparate a cantar sempre il passivo.
E tal possesso ha in voi quest' eresia.
Che per un po' d'applauso ebbri correte
A discoprir la vostra frenesia.
Balordi senza senno che voi siete ,
Mentre audaie morendo dalla fame ,
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D’ immortalarvi vi persuadete.
E sete cosi grossi di legname,
Qic non udite ognun muoversi a riso
In sentirvi lodar le vostre dame: [viso,
Stelle gli occhi , arco il ciglio, e cielo 11
Tuoni e fulmini I detti, e lampi! guardi,
Bocca mista d' Inferno e paradiso :
Dir che I sospiri son bombe c petardi,
l’ioggìa d’oro I capei , fucina il petto
Ove il magnano Amor tempera I dardi:
Ed ho visto c sentito in un sonetto
Dir d’una donna cui puzzava il fiato.
Arca d'arabi odor , muschio c zibetto.
l.e metafore il Sole han consumato:
E convcrtito In baccalà Nettuno,
Fu nomato da un certo li Dio solalo.
Fin la croce di Dio fu da taluno
Chiamata Legno Santo. E pur costoro
Sfldan l’ autor dell’ itaco Nessuno;
E dell' amata sua con qual decoro
I pidocchi colui cantando disse :
Sembrai: /ere d’argentoin campo cf oro.
E chi v uol creder ch’un ingegno uscisse
Dai gangheri si fuora , e bagattelle
Tanto arroganti di stampare ardisse?
Le nostre alme trattar bestie da selle;
Mentre Ior serba il del di corpi sgombre
Biada d' eternità, stalla di sitile.
E in pensarlo il pensier vieti che s’adom-
Farc il Sol divenir boia che tagli [bre :
Conia scure de'raggi il collo all' ombre.
Ma chi di tante bestie da sonagli
Legger può le pazzie, se 1 lor libracci
Delle risa d' ognun sono 1 bersagli?
Chè da certi eruditi animalacd.
Giornalmente alle tenebre si danno
Mille strambotti c mille scartafacci.
E tale stima di sé stessi fanno,
E di tanta albagia vanno Imbevuti,
Ch’èmoltomen della vergogna il danno.
Gilè per parer filosofi e saputi.
Se ne van per le strade unti e bisunti,
Stracciati, sciatti, sucidi c barbuti,
Con chiome rabbuffale ed occhi smunti,
Con scarpe tacconate e collar storto,
Ricamati di zaccare c trapunti.
Cada A giorno all’occaso e sorga all'orto,
Sempre cogitabondi c sempre astratti.
Hanno un color d’iterico e di morto.
Discorron tra se stessi come matti,
Facendo con la faccia e con le mani
Mille smorfie ridicole e mille atti.
Per certi luoghi inusitati e strani
SATIRE. 449
Si mordon l’ ugne e col grattarsi il capo
Pensano al Mammalucchi e agl' Indiani :
E Incerti di formar scanno o Prlapo
Con la rozza materia eh' hanno in lesta,
Dì pensiero in pensier si fan da capo.
Con la mente impregnala ed indigesta,
Senza aver fine alcuno e senza scopo, [sta.
Van barboltando In quella parte e In que-
Han di fantasmi un embrione, c dopo
D'aver pensato e ripensato un pezzo,
Partoriscono i monti e nasce un topo.
Chi quando credi udir cose di prezzo,
E stai con una grande aspettazione;
Gli senti dare in frascherie da sozzo.
La fava con le mele e col melone,
La ricotta coi chiassi e con la iucca,
V anguilla col savore c col cordone.
Bovo d’Anlona, Drusiana e Giucca
Son le materie, onde l’altrui palpebre
Ogni scrittore infastidisce e stucca :
Anzi dal mal francese e dalla febre,
E dall’ ìstessa peste insln procacciano
Al nomi, all’ opre lor vita celebre.
Questi son quei che a dissetar si cacciano
Le labbra in mezzo al Caballin condotto,
Questi 1 poeti son che se l'allacciano.
0 Febo, o Febo, e dove sei condotto?
Questi gli studj son d' un gran corvello?
Sono questi I pensier d’un capo dotto?
Lodar le mosche, i grilli e li ravanello,
Ed altre scioccherie di' hanno composto
li Berni, il Mauro, il Lasca ed il Burchiello ;
Per sublimi materie bann» disposto
Dietro a Bion, Pittagora ed Antemio
Lodar le rape, le cipolle e il mosto.
In ogni frontespizio, ogni proemio
Più d'cdltorio han lodi le cantine,
Chèa un poeta è peccato esser abstemlo.
E le penne più illustri e pellegrine
Van lodando i caratteri golosi.
Con Eufronc il tinello e le cucine.
Quindi t che 1 nomi lor sono gli osiosi.
Gli addormentati, i rosi i e gli umorùft.
Gl' insensati, I fantastici e gli ombrosi.
Quindi è che dove appena eran già visti
Nell’ accademie i lauri e ne’ licei,
Infic gli osti oggidì ne son prov visti.
Ite a dolervi poi, moderni Orfci,
Che per i vostri affanni è già finita
La razza degli Augusti e de’ Pompei.
È ver che dalle reggie era sbandita
La mendica virtù ; ma i vostri modi
Hanno la poesia guasta e avvilita :
Digitized IfJ^oogle
4àO
E le vostre invenzioni e gli episodi
Son degne di taverne e lupanari ;
E voi ne pretendete e preraj e lodi?
Altro ci vuol per farsi illustri c chiari,
Che straccar tutto il di Bcnibi e Boccacci,
E Fabbriche del mondo c dizionari.
De’ vostri sturi] i gloriosi impacci,
L'occupazlon rie’ vostri ingegni aguzzi.
Facondia han sol da schiccherar vcrsacci.
Stirar con le tanaglie i concettuzzi,
Àltacconar le rime con la cera.
Ad ogni accento far gli equivocuzzi :
Aver di grilli in capo una miniera,
Far contrapposti ad ogni paroiuccia,
E scrivere e stampare ogni chimera.
Chi dentro ai vostri versi oltre la buccia
Legge giammai ; più d’ un la trova tale
Bisognosa d* impiastro e della gruccia :
E creder rii lasciar nome immortale,
Con portar frasche in Pindo e unitamente
Fare il somaro, it muto e il vetturale?
Chi cerca rii piacer solo al presente,
Non creda mai d’aver a far soggiorno
In mano al dotti e alia futura gente.
Anzi avrà culla e tomba in un sol giorno:
Chi stampa avverta che aU’obblio non sono
Nè barche , nè cavalli da ritorno.
Componimento ci è che al primo suono,
Letto da chi lo fece fa schiamazzo;
Che sotto gli occhi poi non è più buono.
Eppur il mondo è si balordo e pazzo,
E fatto ha gli occhi tanto ignorantoni,
Che non sceme dal rosso il paonazzo.
Applaude ai Bavi, ai Meri arciasinoni,
Che non avendo letto altro che Dante,
Vogllon far sopra I Tassi 1 Salomoni :
E con censura sciocca ed arrogante
Al poema immortai de! gran Torquato
Di contrapporre ardiscono il Morgante.
0 troppo ardito stuol, mal consigliato!
Che un ottuso cervel voglia trafiggere
Chi men degli altri in poetare ha errato!
Non t* incruscar tant’ oltre e non t’ afflig-
gere
De* carmi altrui, che H tuo latrarnon muo-
Set n/a rinato sei, vaiti a far friggere, [ve:
Son degli scarafaggi usale prove,
D'aquila i parti ad invidiar rivolli.
Il portar gli escrementi in grembo a Giove.
Anco alia prisca età furono molli
Che posposcr l’ Eneide ai versi d’ Ennio :
Secolo non fu mai privo di stolti. .
Torno ,o poeti, a voi : dentro un blennio,
SATIRE.
Benché avvezzo con Verre, i furti vostri
Non conterebbe il correi tor d* Erennio.
0 vergognai rossor de’ tempi nostri !
I sughi espressi dall'altrui fatiche
Seno» oggi di balsami e d* inchiostri.
Credousi di celar queste foruiichc,[na,
Cli* han per Febo e per Clio seggio e caver-
II gran rubato alle raccolte antiche :
E senza adoperar staccio o lanterna.
Si distingue con breve osservazione
La farina eh* è vecchia e la moderna
Raro è quel libro che non sia un ceutooe
Di cose a questo e quel tolte e rapite
Sotto il pretesto deli' imitazione.
Aristofano, Orazio, ove siete Ite,
Anime grandi ? Ah per pietade, un poco
Fuor de* sepolcri in questa luce uscite.
Oh con quanta ragion vi chiamo e invoco!
Ghè se oggi i furti recitar volessi,
Aristofano mio verresti roco.
Orazio e tu, se questi autor leggessi.
Oh come grideresti : Or ri che ai panni
Gli stracci illustri son cuciti spessi !
Chè non badando al variar degli anni
Con la porpora greca e la latina
Fanno vestiti da secondi zanni.
Gl* imitatori in quest'età meschina,
Che battezzasti già pecore serve ,
Chiameresti uccellarci di rapina.
Delle cose già dette ognun si serve :
Non già per imitarle ; ma di peso
Le trascrivon per sue penne proterve.
E questa gente a travestirsi ha preso,
Perchè ne* propri cenci ella s* avvede
Che in Pindo le sana l'andar conteso.
Per vivere immortai dansi alle prede.
Senza pena temer gl’ingegni accorti;
Chè per vivere il furto si concede.
Nè senza questa ancor han tutti i tortL
Non s* apprezzano i vivi e non si citano,
E passali sol le autorità de* morti.
E se citati son gii schemi irritano.
Nè s’Iian per penne degne e teste gravi
Quei che sui testi vecchi non s'aitano.
Povero mondo mio, sono tuoi bravi
Chi svaligia i! compagno, e chi produce
Le sentenze furate ai padri, agii avi!
E nelle stampe sol vive e riluce
Chi senza discrezion truffe e rubacchia,
E chi le carte altrui spoglia e traduce!
Quindi taluno insuperbisce e gracchia.
Che s'avesse a depor le penne altrui,
Resterebbe d’ Esopo la cornacchia.
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SATIRE. 451
Stampatisi i versi e non si sa da cui ;
E sebbene alla moda ognun li guarda,
Si rinfaccian Ira lor : tu Fusti : lo fui.
Per li moderni la Fama è infingarda :
Per gl) antichi non ha stanchezza alcuna :
Ogni accento, ogni peto è una bombarda.
La Fama e in somma un colpo di Fortuna:
Burchietloe Jacopone hanno il commento;
Cotanto il mondo è regolato a luna.
K sono ognor cento bestiacce e cento,
Ctie so) ne' libri altrui dall'anticaglia.
Del saper, del valor fanno argomento.
Ama questa vanissima canaglia
I rancidumi ; e In Plndo mai non beve,
Se di vieto non sa l' onda castagna.
Nessuno stile e ponderoso e greve.
Se Urlate e stantie non ha le Forme,
E gli dan vita momentanea c leve.
Non blasmo gli che per esempi e nonne
Prendi il Lazio c la Grecia : anch’ iodivolo
Le lor memorie adoro e bacio l’ orme.
Dico di quel che sol di Fango c loto
Usan certi modacci alla dantesca,
E speran di Fuggir la man di Cloto.
DI barbarie senile e pedantesca
La di lor poesia cotanto è carca,
Ch’ C assai più dolce una canzon tedesca.
Ha qui il mio ciglio molto più s’ inarca.
Non è con toro alcuna voce etrnsca,
Se non è nel Doccicelo o nel Petrarca :
E mentre vanno di parlare in busca,
1 toscani mugnai legislatori
GU trattano da porci con la crusca.
lisan cotanti scrupoli e rigori
Sopra una voce ; e poi non si vergognano
DI mille sciocchi e madornali errori.
Sono le stampe va ciò che si sognano ;
Senza che si riveda e che si emendi,
Pereti* solo a Far grosso il libro agognano.
E se un’opera loro in man tu prendi,
Mentre 11 jam tatù ritrovar vorresti,
Vedi per tutto II quidlibet audendi.
Sotto nomi speciosi e manti onesti,
Per oeculur le presunzion ventose
Porta in Fronte ogni libro I suol pretesti.
Chi dice ebe scorrette e licenziose
Andavan le sue figlie ; e perciò v uole
Maritarle co’ torchi e Farle spose.
Un altro poscia si lamenta e duole
Che un amico gli tolse la scrittura,
E l’ ha contro sua voglia esposta al Sole.
Quell’ empiamente si dichiara e giura.
Che visti i parti suoi stroppiati e offesi,
Per paterna pietà ne tolse cura.
Questi, che per diletto I versi ha presi
Per sottrarsi dal sonno I giorni estivi,
Ech' ha fatto quel libro in quattro mesi.
Oh che scuse affettate! oh che motivi!
Son figlie d'amhizion queste modestie;
Perchè si stimi assai, cosi tu scrivi.
Ma peggio v' è: con danni econ molestie
S’ascoltan negli studj e ne' collegi
Legger al mondo Umanità le bestie.
Stolidezza de' principi e de’ regi,
Che senza ilistinzlon mandano al pari
Con gl' Ingegni plebei gl’ ingegni egregi.
Qual maraviglia è polche nons’imparlT
Se I maestri son bufali Ignoranti,
Cbe possono insegnare agli scolari?
E son Forzati i miseri studiami
Di Quintiliano in cambio c di Gorgia
Sentir ragghiare In cattedra I pedanti.
Da questo avvirn eh' Euterpe e cheTalla
Sono state stroppiale : ognun presume
lu l'indo andar, senza saper la via.
Chè deile scorte loro al cieco lume
Mentre van dietro ; d' Aganippe In vece,
Son condotti di Lete in riva al fiume.
Di questi si, che veramente lece
Affermar (come io lessi in un capitolo)
Ch'ha n le lellre attaccate con la pece.
Io non voglio svoltar tutto il gomitolo
Di certi cervellacci pellegrini,
Che studian solamente a fare il titolo;
Onde I lor libri con quei nomi fini
A prima vista scmbran titolati;
Esaminati poi son contadini.
Nè potendo aspettar d'esser lodati
Dal giudizio comune, escono alteri
Da sonetti e canzoni accompagnati.
E n'empion da sè stessi 1 fogli Interi
Sotto nome <f incognito e d’incerto,
E si dan de’ Virgili e degli Omeri.
V’èpol talun ch’avendo l’occhio aperto,
Rifiuta ì primi parti co’ secondi,
E cosi da un crror l’altro è scoperto.
Manonsosepiùniatll.osepiù tonfi
SI sian noi tare i libri o dedicarli,
Se più di errori o adulazion fecondi.
DI tempo o di destin più non si pari! :
l,a colpa è lor se non sapendo leggere,
Servon per esca ai ragnateili, ai tarli.
Lor, non Peti bisognerà correggere:
Chè in vece di lodare I Tolomel,
Fanno I poemi a quei die non san reggere:
E inaino i battilani e i tignici
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SATIRE.
Comprano da costor per quattro gluli
Tltol di Mecenati e Semidei.
Un poeta non c’ è che non aduli :
E col Samosateno e con II Ceo
SI mettono a cantar gli asini e I muli.
E con poche monete un uom plebeo,
Regno d’ esser cantato in archiloici.
Fa di si rimbombar l’Ebro e ’l Peneo.
Chi dei cinici ad onta e degli stoici,
Senta temer le lingue de’ satirici,
S’ innalzano i Tiberì in versi eroici.
Egualmente da’ tragici e da’ lirici
Si fanno celebrare e Claudio e Vaccia,
E v’è chi per un pan fa panegirici.
A fabbricare clogj ognun si sbraccia,
E inaino gli scolar s'odon da Socratl
i tiranni adulare a faccia a faccia-
in lodar la virtù son tutti Arpocrati :
E di Busiri poi per avarìzia
I Poiicratl scrivono agl'Isocrali.
Termine mai non Ita questa malizia;
K dietro a Glauco per empir la pancia,
Tessono encontj invino all’ ingiustizia.
Se vivesse colui die la bilancia
Non ben certa d’ Astrea ridusse uguale,
A quanti sgraflìcria gli occhi e la guancia?
Non vi stupite più se il gran Morale
Lusinghieri vi nomini e bugiardi,
E Teocrito zucche senza sale.
Di Sparta già quegli animi gagliardi.
Dalla città per pubblico partito
Scacdaro i cuochi e voi per infingardi.
E dò con gran ragion fu stabilito;
Perche se quegli Incitano il palato,
Attendon questi a lusingar l’udito.
L’ (stesso Omer dall'attico senato,
De' poeti il maestro. Il padre, il dio,
Fu tenuto per pazzo e condannato.
Ob risorgesse Atene ai secol mio,
Che seppe già con adequata pena
Ai Deniagori far pagare il fio.
Loda i Tersiti Favorino e appena
A) principi moderni un figlio nasce.
Che in augurj i cantor stancati la vena.
Quando Cinzia falciala in del rinasce,
Ha da servir per cuna; e col zodiaco
Hanno insieme le zone a far le fasce.
Quanti dal messicano all'egiziaco
Fiumi nobili son; quanti il gangetico
Lido ne spinge al mar ; quanti li siriaco;
Tarn' invitando va l'umor poetico
A battezzar lalun, che per politica
Cresco e vive ateista e muore eretico.
E canta in vece di adoprar la critica,
Cb’ei porterà la trionfante croce
Dalla terra giudea per la menfitlea.
Chè dalla Tuie alla Orinila foce
Reciderà le redivive teste
Dell'eresia crescente all’idra atroce.
Citò tralasciata la maglon celeste.
Ricalcherai) gli abbandonati calli
Con Astrea le virtù profughe c meste.
Per innalzar a un re statue e cavalli
Ha fatto insino un certo letterato
Sudare i fuochi a liquefar metalli.
E un altro, per lodar certo soldato.
Dopo aver detto è un Ercole secondo.
Ed averlo ad un Marte assomigliato;
Non parendogli aver toccato il fondo,
Soggiunse e pose un po’ più sulla mira :
Ài bromi tuoi serre di palla il mondo.
0 gran bestialità ! Come delira
L'umana mente! nè a guarirla basta
Quanto elleboro nasce in Anticira.
Divina Verità, quanto sei guasta
Da questi scioperali animi indegni.
Che del falso c del ver fanno una pasta !
Predicati per Atlanti c per sostegni
Della terra cadente uomini tali,
Che son rovine poi di Stati e regni.
Se un principe s' ammoglia, ob quami,
SI lasciano veder subito in frotta [oh quali
Epitalami e cantici nuziali!
Ogni poema poi mostra interrotta
Di qualche grande la genealogia [grotta.
Dipinta In qualche scudo, o in qualche
E quel che fa spiccar questa pazzia
È, che la razza effigiata e scolta
Dlchiaran sempre i maghi in profezia.
Ma s’è in costoro ogni virtude accolta
Come dite, o poeti ; ond’è che ognuno
VI mira ignudi c lamentarvi ascolta?
Se senz'aita ogni scrittor digiuno
Piange ; questi non han vlrtute ; ovvero
Quel letterato è querulo o importuno.
Deh cangiate oramai stile c pensiero,
E tralasciate tanta sfacciataggine :
Delti un giusto furore ai carmi il vero.
Chiamate a dire il ver Sunio o Timaggine,
Giacché l’ uom tra gli obbrobrj oggi s’ alle*
Nè timor vi ritenga o infingardaggine, [va ;
Dite di non saper qual più riceva
Seguaci o l’ Alcorano od il Vangelo,
0 la strada di Roma o di Genera.
Dite clic della Fede è spento il zelo,
E che a prezzo d’ un pan vender si vede
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SATIRE. 4M
L'onor, la libertà, l’anima, Il Cielo :
Che per tutto Interesse ha posto II piede:
Che dalla Tartaria sino alla Betica
L’infame tirannia post’ ha la sede.
Ch'ogni grande a faror suda e frenetica;
E eh' han fatta nel cuor si dura cotica,
Che la coscienza più non gli solletica. [ca,
Deh prendete, prendete in man la scoti*
Serrate gli occhi ed a chi tocca, tocca
Prosi il flagel questa canaglia lotica, [ca
Tempo!' ornai eh' Angerona apra laboc-
A rinnovare i Saturnali antichi.
Or che i limiti il inai passa e trabocca.
Uscite fuor de’ favolosi intrichi.
Accordate la cetra ai pianti, ai gridi
Di tante orfane, vedove c mendichi.
Dite senza timor gli orrendi stridi
Della terra, clic intan geme abbattuta,
Spolpata alTatto dai tiranni infidi.
Dite la vita infante e dissoluta
Che fanno tanti itoboam moderni :
La giustizia negata e rivenduta.
Dite che ai tribunali e ne’ governi
SI mandati solo gli avoltoi rapaci ;
E dite l' oppression, dite gli schemi.
Dite l' usure e tirannie voraci
Che fa sopra di noi la turba immensa
De’ vivi Faraoni e degli Arsaci.
Dite che sol da' principi si pensa
A bandir pesche c cacce : onde gli avari
Sulla fame comune aizan la mensa.
Che con muri, con fossi c con ripari.
Ad tutta delle leggi di natura,
Chiuse han le selve e confiscati i mari.
Celie oltre ai danni di tempeste e arsura,
Un pot er galantuom che ha quattro zolle,
Le paga al suo signor mezze in usura.
Dite clic v' è taiun sì crudo e folle.
Che sebben de’ vassalli il sangue ingoia,
I,’ ingorde voglie non ha mai satolle :
Dite che di vedere ognun s'annoia
Ripiene le cittì di malfattori,
E non esservi poi se non un boia.
Ch’ampio asilo per tutto hanno gli errori:
E che con danno e pubblico cordoglio
Mai si vedon puniti i traditori.
Dite che ognor degli Epuloni al soglio
1 Lazzeri cadenti e semivivi
Mangian pane di segala e di loglio.
Dite che il sangue giusto sgorga in rivi.
Ch'esenti dalle pene, in faccia al Cielo
Son gl' iniqui ed i rei felici e vivi.
Queste cose v’inspiri un santo zelo,
Piè stale a dir quanto diletta e piace
Chioma dorata sotto un bianco velo.
A che giova cantar Cinzia e Salatane,
0 di Dafne la fuga o di Siringa,
1 lamenti di Croco o di Sttiilace!
Piti sublime materia un di vi spinga s
E si tralasci andar bugie cercando,
Nè piti follie genio dirceo vi finga.
E chi gli anni desia passar cantando,
Lodi Yellurie in vece di Datili!,
Sante sapienze c non pazzie d' Orlando.
Chè ornai le valli al risuonar di Filli,
Yedon sazi di pianti e di sospiri
I sentieri d’ Armida e d' Amarllli.
Per i vestigi degli altrui deliri
Ognun Clori ha nel cor. Lilla ne' labri,
Ognun canta ili pene e di martiri.
lmitan tutti benché rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Callimaco e Catullo,
D'amorose follie maestri c fabri.
Stilla l’ingegno a divenir trastullo
Degli uomini dabbene e ognun tralticnsl
Al suon d’Anacrconte c di Tibullo.
D’ incontinente arder gli Ov idi acccnsi,
Vengon d’afTetti rei figli lascivi
A stuzzicare, a imputtanire i sensi.
E degli scritti lor vani c nocivi.
Nelle scuole chinarle c di Cupido
Studian le Fritti a spennacchiar corriv i.
Perchè diletti più l'onesta Dido,
Si finge una sgualdrina e per le chiese
Serve per ufliciolo il Paslor fido.
Da qual donzella non son oggi intese
Le Priapee? ed han virtù che alletta
L’oprc, bencltè impudiche e le sospese.
De’ versi fescennini ognun fa incetta,
E di Curzio la sordida Morneide
Si vede sempre mai letta e riletta.
Son gl’ingegni oggidì da far Eneide,
Quel che premendo di zaffare i calli.
Scrivono la Vendemmia c la Merdelde.
I lascivi Fallofori e Rifalli
Con inni scellerati e laudi oscene
Si tiran dietro I vi! Monandri e ì Galli.
Di voi, sacre Piinplee, timor mi tiene,
Mentre vi veggio sdrucciolare in chiasso
Al pazzo arbitrio di chi va e chi viene.
L’orecchio aver blsogneria di sasso
Per non sentir l'oscenità de’ molti
Ch’ usan nel conversar sboccato e grosso.
Son questi Insin nei pulpiti introdotti,
D’ ond’ è forzato che un cristiano ingozzi
Le facezie dei Mimi e degli Arlotti.
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4S4 SATIRE.
Miserie in' or da piangere a singhiozzi!
Chèal par de1 banchi ormai de’ saltimban-
chi
Vania il pergamo ancora i suoi Scatozxi.
Quando mai di cantar sarete stanchi
Di dame e cavalier, d’anni e d’amore.
Sprone d’ impudicizie agii altrui fianchi?
A che mandar tante ignominie fuorc,
E far proteste lutto quanto ii die,
Che t oscena è la penna è casto il cuore ?
Tempi questi non son d'allegorie :
L'età che corre di tre cose è infetta,
Di malizia, ignoranza e poesie.
Sentito ho raccontar che fu un trombetta
Preso una volta da' nemici in campo.
Mentre stava suonando alia veletta;
Il qual per ninnar riparo o scampo,
Dicci che solamente egli suonava.
Ma col suo ferro mai non tinse il campo.
Gli fu risposto allor, eh’ ci meritava
Maggior pena però; perchè suonando
Alle stragi, al furor gli altri irritava.
Intendetemi voi, voi clic cantaudo
Siete cagiou che la pietà vacilla,
E che il timor di Dio si ponga in bando.
Da voi, da voi negli animi si stilla
La peste d'IiiGnilc corruttele:
Agl* inccndj voi date esca e favilla.
Dite poi che da un fiore e tosco c mele
Trae, secondo gl' istinti o buoni o rei.
Ape benigna e vipera crudele.
0 empj, iniqui c quattro volte c sei !
Pormi il tosco alla bocca e pois’ io pero.
Dir che maligni fur gli affetti miei.
Questo è paralogismo menzognero :
Non è simile a) fiore il verso osceno :
Nernmen l’ape c la vipera ha il pensiero.
Non racchiudo!! quei fiorii! tosco in se»
Ma son indifTerenli. Ai \ ostri versi [no,
E qualitade intrinseca il veleno.
Nè I* ape c il serpe trae dai fiori aspersi
Il tosco c miei per clczion : Natura
Gli spinge ad opre 'arie atti diversi.
Ma l’alma eh’ è di Dio copia e figura.
Libera nacque e non soggiace a forza.
Benché legata in questa spoglia impura.
Opera in sua ragione e nulla sforza
L'arbitrio suo, clic volontario elegge
Ciò eh* essa fa nella terrena scorza.
Ma perchè danno a lei consiglio e legge
Nel conoscer le cose i sensi frali,
Facilmente ella cade e mal si regge.
E voi, Sirene perfido e infernali,
Le fabbricate con un Ho diletto
Il precipizio ai piede, ii vischio all' ali.
Non ha la Poesia più d' un oggetto :
Il dilettare è mezzo, eli' ha per fine
Sedar la mente e moderar l' affetto.
Ella prima addolcì Palme ferine;
E ne insegnò soave allei la tri ce.
Con le favole sue i'opre divine.
Ella, figlia di Dio, mostrò felice
Il suo Fattor al mondo e poscia adulta
Fu di Filosofia madre e nutrice.
E in vece d* esser oggi ornata e cult*
Di dottrine santissime, disposti
Son sempre i vizj e la ragion sepulta.
Anzi con esecrandi contrapposti.
Oggi il dar del divino è cosa trita
Agli sporchi Aretiid, agli Arfosti.
Dunque chi più la mente al vizio incita
Aver tltol celeste? Ah venga meno,
E vanità sì rea resti sopita.
Udite un Agosti» di Dio ripieno,
Ch’ ebbri d'error vi pubblica e palesa,
E sacrileghi e pazzi un Damasceno.
L'iniqua poesia la (merla ha presa
Degli empj Maccliiavelli c degli Erasnal,
E di chi separò Cristo c la (Chiesa.
A clic vantar dal Gelo gli entusiasmi.
Se con maniera più profana c ria
Da miniere d'onor traete ibiasmi?
Scrivere a voi non par con leggiadria,
Buffo narri, superbi ed ateisti,
Se non entrate in chiesa o in sagrestia.
D'alme dannate fa maggiori acquisti
Per opra vostra il popolalo Inferno :
Cosi Parnaso ancora ha gli Anticristi.
Pensate forse che il flagello eterno
Non punisca le colpe, oppur credete
Che degli eventi il caso abbia il governo?
Se la galea, l’esilio c le segrete,
E se la forca è poi l’ultima scena
Ai poeti giammai ben lo sapete.
Sfregiato il volto c livida la schiena,
A quanti han fatto dir con quel di Sorga,
Che il furor letterato a guerra mena.
Deh cangiate lenor e il mondo scorga
Candor sui vostri fogli : c maestosa
La già morta pictade in voi risorga.
Sia dolce il rostro stile : onde gioios.
Corra la terra a lui, ma serbi intanto
Nel dolce suo la medicina ascosa.
Sia vago perchè alletti e casto e santo
Perchè insegni il costume. È sol perfetta
Quando diletta ed ammaestra il canto.
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SATIRE.
Sia del vostro sudar virtù l’oggetto;
Chè mentre queste atrocità cantate,
D’un insano furor v'infiamma Aletto.
Chè se gli allori e l’edere vantate,
fi perchè avete In testa un gran rottorio,
E i fulmini dal Cielo in voi chiamate.
E poi. che giova aver plettro d’avorio,
Se quasi ogni poeta in grembo al duolo
Delle fatiche sne canta il mortorio?
A che di libri più crescer lo stuolo?
Purché Insegnasse a vivere e morire.
Soverchierebbe al mondo un libro solo.
Simoderate dunque il vostro ardire;
Chè rarissimi son quei che si leggono,
Ed un di mille ne suol riuscire.
All’ immortalità tutti non reggono :
Tra le Urie e le polveri coperti
I libri ed I licci perir si veggono.
La v oslra fama e dubbia, e i biasml certi ;
E in questi tempi sordidi ed ingiusti
Son pronti i (ialiti, e i Mecenati Incerti :
Poiché a scorno de’ principi vetusti.
In vece di Catoni e Anassimandri,
S’amano gl’ignoranti c i bellimbusti.
E son gii Efcstion degli Alessandri
1 becchi e i parasìti indegni e vili,
E prezzali i laurei, più che i Llcandri.
E in cambio degli Orazi c de’ Virgili,
tu
Danzano in corte baldanzosi c lieti
I brandii de’ Clìsofi e de’ Cherili.
Stiman più i regi stolidi c indiscreti
D’un Istrione o cantatrice i ghigni.
Che il sudore de' saggi c de’ poeti.
Ed apre sol de' potentati i scrigni,
E quando più gli piace ottien udienza.
Chi porla i polli, e non chi porta I cigni.
Spenta è già di quel grandi la sentenza.
Che in distinguere usaro ogni sapere
Dai Marroni ai Maro» la differenza.
Non speri il mondo più di rivedere
L’eroe di Pelia, die dormir fu visto,
E dell’ opre d’Outer farsi origliere.
Di dotti ognuno allor gita provvisto:
E vantava Artasersc un grand'impero
Quando facca d'un letterato acquisto.
L'islesso Dionisio empio e severo.
Per le pubbliche tic di Siracusa
A Platon fc’ da servo c da cocchiero.
Ma dove, dove mi trasporli, o àiusa?
L'orecchio ha il mondo sol per Lesbia e
Ragionar di virtude oggi nnns'usa.[Taidc:
Solo invaghita di lìalillo e Laide,
Stufa è di versi quest'età elle corre :
Secoli da fuggir nella Tebaitlc,
Tempi più da tacer, che da comporre.
ALFIERI.
L’EDUCAZIONE.
ftet nulla minori#
Constatili patri, qwim filius.
JllVM., Sait. VII, v. 187.
Pel padre ornai la minor spesa, è il Aglio
Signor maestro , siete voi da messa?
Strissimo si, son nuovo celebrante.
Dunque voi la direte alla contessa.
Ma, come siete dello studio amante?
Come stiamo a giudizio? i* vo’ informarmi
Ben ben di tutto, e chiaramente avanle.
Da chi le aggrada faccia esaminarmi.
So il latino benone; e nel costume ,
Non credo eh’ uom nessun potrà tacciarmi.
Questo vostro latino è un rancidume.
Ho sci Agli : Il contino è pien d’ ingegno,
E di eloquenza naturale, un fiume.
Un po’ di pena per tenerli a segno
I du' abatini e i tre cavalierini
Daranvi;onde fia questo il vostro impegno.
Non me li fate uscir dei dotiorinl ;
Di tutto un poco parlino , in tal modo
Da non parer nel mondo babbuini :
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4 Sfi SATIRE.
Voi m'intendete. Ora, venendo al sodo ,
Del salario parliamo, l’ do tre scudi ;
Ohè tutti in rasa far star bene io godo.
Ma, signorie parcgli?ame, tre scudi?
Al cocchicr ne da sei. Clic impertinenza?
Mancati forse i maestri , anco a du’ scudi ?
Gli 'è ella in somma poi vostra scienza?
Chi sete in somma voi, che al mi'cocchicrc
Veniate a contrastar la precedenza?
Gli è nato in casa, c d' un mi’ cameriere ;
Mentre tu sei di padre contadino,
E lavorano i tuoi l'altrui podere.
Compitar, senza intenderlo, il latino;
Una zimarra , un mantellon talare ,
Un collarurcio sudi-celeslrino ,
Vaglino forse a natura In voi cangiare?
Poche parole : lo pago arclbenissimo :
Se a lei non quadra, ella 4 padron d’andare.
La non s'adiri, via, caro illustrissimo;
Piglierò scudi tre di mensualc ;
Al resto poi prov vederi l’Altissimo.
Qualche incertuccio a Pasqua ed al Na-
Saravvi, spero; eintanto mostrerolle [tale
Ch'ella non ha un maestro dozzinale.
Pranzerete con noi; ma, al desco molle.
V’alzerete di tavola: e s’intende
Che In mia casa abiurate il celie e noli'.
Oh , ve’ ! sputa latin chi men pretende.
Cosi I miei figli tutti (e’ son di razza' ;
Vedrete che han davver menti stupende.
Mi scordai d’ una cosa : la ragazza
Farete leggicchiar di quando in quaudo...
MctasUslo, le ariette; ella n’è pazza.
l-a si va da si stessa esercitando,
di’ io non ho il tempo e la contessa meno ;
Ma voi gliele verrete interpretando,
Finché un altro par d'anni falli sieno,
Ch' io penso allor di porla in monastero
Perch' ivi abbia sua mente ornalo pieno.
Ecco tutto, lo m'aspetto un magistero
Buono da voi. Ma , come avete nome ?
A servirla , don Raglia , da Bastiero.
Così ha provvisto il nobil conte al come
Ciascun de' suoi rampolli un giorno onori
D'alloro pari al suo le illustri chiome.
Educandi , educati , educatori ,
Armonizzando in si perfetta guisa ,
Tai ne usciam poscia italici signori
Frigio-vandala stirpe, irla e derisa.
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SERMONI
CHIABRERA.
A MONS. GIOVANNI CIAMPOLI.
Lo conforta a difenderai dalle intidie di Roma.
Fra I Volli alteri , e lungo il regio Tebro,
Ore per ciascun uom tanto si spera,
E Unto si sospira , or che rimena
L’anno cocenti i di, che fate, amici)
Quali son vostre aurore ? e come lieto
Chiudete a sera il Sol nell'Oceano?
Infioratisi le mense , e di bel gelo
Illustrate le coppe ? Il gran Vescvo
Vi mesce , o pure dal gentil Gandolfo
Viene a' rostri conforti il buon Leneo?
0 fortunati , se speranza incerta
Con dolce tosco non r’ancidc; Roma
Appar , non men che Circe , incantatrice ;
Vegna il senno d' Ulisse a farci schermo,
Ciampoli, quanto reggili! e come tendi
L'arco della tua mente? ed a qual segno?
Rispondi a’ gran messaggi, e fai che tuoni
Tua cara roce nelle regie sunze,
Lusingando l’ orecchie al gran senato?
0 del sommo pastor le soglie esponi
A’ re scettrati ? e sulla nobil Senna,
E sull' Istro superbo , e sull' Ibero
Con meraviglia fai solar tuo nome?
Vento di puro elei t'empia le rete,
Castore ti conduca, un mare immenso
Certo ti s’ apparecchia ; io d'altra parte
Stomml ozioso in su le patrie rive.
Qui sollUrio i miei pensicr compongo,
Sicché da lungi il grand' Urbano adoro
Te nel mezzo del cor porto rinchiuso ,
E del fumo roman nulU sovvienimi.
AL SIC. LUCIANO BORZONE
Mostra come nistuno sia contento dello stato suo.
I tortoli , tosto che torni il Sol nel Cancro,
Fornir! l' anno , eh’ lo lasciava il Tebro,
E tornava a trovar mia Siracusa.
Come giunsi a Baccano , io diedi bando
Al pensiero dell’astro de’ Romani,
E dissi al letticbiero : 0 lettichlero ,
Se mai non ti si azzoppi alcun de’ muli ,
Ne mai ti venga men ricca vettura.
Dimmi , scorgesti tu per alcun loco
Persona , che sembrasse esser felice?
Com’ebbi cosi detto, egli distese
La destra mano, ed additommi il Sole.
Rispose poi : Per quel lume di Dio
Ho condotti soldati , ed ho condotti
Mercanti, or cittadini, ed or baroni.
Ed ora monsignori , or cardinali ,
Giovani, vecchi, c di ciascuna ctade,
Né mai m’avvenne d'incontrar pur uno ,
Che dello stato suo fosse contento.
A questo t mosso un forte piato , a quello
Il mal francese ha ben tarlate Tossa;
Chi languisce bramando una cornetta
D' uomini d'arme ; chi sbandisce il sonno,
Desiando il Toson del re di Spagna ;
Cosi fatta quaggiù trovo la gente.
Cotal sua contentezza, o contentezza?
Togli se sei cotal ; cosi dicendo
Le mani alzò con ambedue le fiche ,
E fece un salto. Io nel mio cor dicendo :
Deh guarda qual Plutarco , o qual Platone
Ho ritrovato per la via di Roma!
Indi meco medesmo io ripensai.
Come sono quaggiù nostri desiri
I nostri manigoldi, lo son ben certo,
0 Borzon , clic la fiera di Piacenza ,
E di Nove , e di Massa altri decreti
A’ suoi propone , e che P aver tesoro
Tocca, secondo lor, l’ultima meta,
Madie? Toro non passa olirà 11 sepolcro;
Molli qui sulla terra abbracclan ombre ;
Gracchi il mondo a sua posta, fortunato
Quaggiuso e l'uomo di virtude amico.
20
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SERMONI.
468
AL SIC. BERNARDO MORANDO.
Dice che i tristi costumi sono cagione delle nostre miserie.
Bernardo, in grembo a Lombardia famosa
Voi dimorate, cola dote regna
Cerere italiana, e vi rimeria
Cortesemente l’or delle sue spiche j
Si fatto favellar non è mentire,
Non è, per certo ; io contrastar non voglio :
È grave Infamia fare oltraggio al vero;
Ma chi mi negherà che le midolle
Dei terreo grasso, e da cotanti fiutai
Bene irrigalo, non ministri al Sole
Vapori grossi a condensar ben l' aria!
Or lo potrei narrar ebe di qui nacque
li volgar biasuto alia città di Tebe;
Ma non è d’aiaxar coi nudo dito
La collerica vespa ; i litlorani ,
Quali noi siamo abitator di scogli ,
Hanno candide aurore , esperi puri ,
Ciel di raffili. Oli non mi s'empion Caie,
Non seutonsi scoppiarvi i coreggiati.
Gite monta 7 Or or della (muglia il padre
Grida per casa : Si risparmi il pane ,
Val sangue il grano , indi ecco correr voce
Vele, vascelli , di Sicilia nati
Vengono in poppa : in quel momento vili
Fansi le biade; il granatili s’impicca,
E di giorno e di notte il forno coce.
Ed il popolo fa sue gozzoviglie.
Quale appunto oggidì miriamo il mondo
Tale usci dalla tuan dei Mastro eterno.
Ciascuo paese avea di else pregiarsi ,
Di clic lagnarsi insù» allora; o beila
Schiera di l’indo , elle trovato un oro ,
Onde diedero nome agii anni antichi ,
Con gran consiglio; in quel felici mesi
Eran di biondo mel carche le selve,
E per gli aperti campi ivano i rivi.
Altri di puro latte , altri di vino
(sfavillante, allegrator de’ cori.
Le pecorelle si vedean sul tergo
Tinger le lane e colorirsi d’estro
Per loro stesse ; degli aratri H nome
Non era noto . che cortesi i solchi
Porgeano in dono al conladin ka messe,
E rifiuto facean di sua fatica ;
Ma per quella stagion vedeasi in terra
L' alma Giustizia , e di candor velata
La Fede pura, e la dimessa In vista
E deli’ altrui dolor schifa Pietate.
Quando poi sorse il minaccioso Oltraggio,
E l' Ira , e la si pronta a dar di piglio
Fra noi Rapina , e che lascivo avvierò
Mosse battaglia a mal guardali letti
Lo sfacciato garzon di Citerei,
Subi to il mondo ebbe a cangiar sembratila,
11 suol di bronzo , il Ciel venne d’ acciaro ,
Fé’ vedersi la Fame, e la ria Febbre
Dispiego tra le genti orrida insegna ,
Ed infiniti guai trasse in sua schiera.
Qui faccio punto , e saldo ogni ragione,
lai godiamo il tenor di nostra vita.
Pur come fatti son nostri costumi.
AL S1G. JACOPO CADDI.
Svergogna con argute ironie la mollezza della genie d’ Italia.
Caddi, ch'oggi suli'lstro, e per li campi
Della fredda i-amasna ami battaglie
l.a giovenluie,e sia disposta all’ armi,
Negar non oso e negherò via meno
Che dentro ì dicchi deila bassa Olanda
Si rimirino popoli feroci.
Più insto affermerò elle di buon grado
Allo squillar di mattutina tromba
Lascino il sonno , e die gravarsi il peso
Con ben soda corazza, e porsi il peso
D* impennacchiato elmetto in sulla fronte
Han per trastullo, ed acconciarsi In spalla
Un moschettone, il ci diranno i Torzi ,
E delia brava Spagna i gloriosi
Mastri di campo; ora assommiamooGaddi;
Dico che nella Fiandra e nella Prandi ,
E che dovunque il Sol mostra I capegB ,
Nascono destre da vibrare un’ asta ,
I)a stringere una spada , ed barri gente
Da piantar palme sulla ior Tarpea.
Tutto vi posso dir; bella fandnDa
Appiattar non si deve; e similmente
Sincera verità non vuol tacersi;
Però cosi parlai ; ma d’ altra parte
Forte contrasterò , chè nò per Fiandra ,
Ne per dovunque R Sol mostra I capegtt,
Gente leggiadra mirerai elle agguagli
La leggiadria dell’ italica gente.
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SERMONI. i»
Chi miniera sei a contraddirmi t E dorè
Calzar potrazsi una gentil scarpetta 1
Un calcaguetto si polito? Arroge
I bei fiocchi dei nastro , onde s’ allaccia.
Che di Mercurio sembrano i talari.
Io taccio U feltro de’ cappelli Unto
Oltre misura a negro ; e taccio i fregj
Sul gfobbon di ricchissimi vermigli.
Chi potrà dir de’ collarini bianchi
Più che neve di monte? ovvero azzurri
Più che l' azzurro d'ngni del sereno?
Ed acconci per via che non s' asconde
II groppo della gola, anzi s’ espone
Alle dame l’ avorio del bel collo?
Lungo fora a narrar conte son gai
Per trapunto i calzoni , come ornate
Per entro la casacca, in varie guise
Serpeggiando sen van botlonalurc.
Splendono soppannati I ferraiuoli
Bizzarramente ; e sulla coscia manca
Tutto d'argento arabescati e d’ora
Ridono gli elsi della bella spada.
Or prendasi a pensar quale è mirarsi
Fra si faui ricami, In tale pompa.
Una bionda. Increspata zazzerettt.
Per diligente man di buon barbiere [db
Con suol fuochi e suoi ferri ; c perqnalmb»
Vi sfavilli la guancia si vermiglia ,
Che può vermiglia anco parer per aria
E chi sa ? forse forse».. 0 gloriosa
E non men fortunata Italia mia ,
Bi quella Italia che domava il mondo.
Quando fremean le legion romane
Che tanto trionfar! Non è bel carro
Da trionfare un ietto ? Ed un convito
Non adegua il gioir d'una vittoria?
Kuggono gli anni rattamente e tutti.
Tutti torniamo alla gran Madre antica.
Caddi, non dirò più, giusto disdegno
Porse mi tirerebbe a porre in carta
Altro che dauco ; io ti saluto , e quando
Por l' ora fresca tu passeggi a’ marmi.
Salutami gli amici , e statti a Dio.
GASPARO GOZZI.
AL SIC. N. N.
Rumilo in versi degl’ innamorali moderni.
Pensoso in vista, come soglio, e dentro
Senza pcnslcr, n’andava non ier l’altro
Per la via delle Merci. A passo a passo,
Dotto moderno, i’ rivolgeva il guardo
Spesso a* librai, di qua, di IA leggendo
Frontispizi di libri, e or questo, or quello
(Comprando in fantasia. Come saetta
Che fere e passa, sento darmi d' urto
Neil’ omero sinistro, e passar oltre, [schio?
Veggo. ... Ma chi? dirò Ginmina, o ma-
Dical chi legge, lln personciuo veggio
In sulla gamba, in nianlcllin di scia
Terso come cristallo : il capolino
Non ba torto un capei ; chè man maestra
A compasso ed a squadra la divina
Filosa cresta ha cou lai arte acconcia.
Che infiniti capei sembran d' un pezzo.
Sotto ai mantello che svolazza, a sorte
Scopro un gheroo del suo vestito. 0 Frine,
Quando mettesti ai corpicino intorno
Colori a un tempo si diversi e vivi?
Vuoi saper come va? passini industri
E frettolosi, corpo intero, a vite
11 collo; duro si rivolge, e guata
Con la coda dell' occhio, cd una striscia
Lascia indietro d’ odor, come canestro
Di giardiniere, o profumiera ardente.
Cui fanlicella in altra stanza apporli.
Dissi allora fra me : Donde vien questo
Coppier di Giove? mille oggi ne veggo.
Ma non sì lisci. Ecco il modello : questi
È semente di tutti. Aguzza, aguzza.
Minerva, l’occhio mio. Dietro gli trotto t
Vo’ studiar quai pensieri han quelle teste.
Ed iuche giovinezza oggi s’ impieghi.
Entra in una bottega : in essa miro
Morsi di ferro da frenar mascelle
A focoso deslrier; veggo pennacchi
Di due colori, da ingrandir l’onore
Della fronte a Bucefalo, e di staffe
Di rilucente ferro c giallo ottone
Parecchi paia ; e fra me dico : Vedi
Falso giudizio ch’io facea di luil
D’ animoso destri» premere il dorao
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460 SERMONI
Forse ei vorrà : cavallereschi arredi
Ecco egli acquista, intanto, o bottegaio,
Die’ egli, fuor le scatole e le carte
Delle spille fiamminghe, e fuori tosto
Forcheltine tedesche. Ecco le merci :
Splegansi carte : egli le mira; elegge,
Fino conosci tor; cava la borsa :
lo noto. Mentre novera I contanti.
Giunge amico novello, che passeggia
Anch' ei come cutrettola, e sull’ anca
Or destra ed or sinistra il corpo appoggia
Leggiadramente. Oh bella gioia, ei grida,
Conosco I segni di novella fiamma :
Forchette espilici Servitor di dama
Tu se' novello. II primo ghigna, e nega
Con un rlsino, qual chi nega il vero.
Che ! ti vergogni ? Ha già tre volte corso
La Luna il elei, che servitor son fatto
Anch' io di donna. Vuol vederlo ? E traggo
Dalla saccoccia un lucido specchietto,
Inverniciato un bossolo, ove chiude
Poltcr di Cipri, un aureo scalolino
Di nei ripieno, un pettine pulito
Di bianco avorio, un vasellin di puro
Cristal con acqua, onde arrecar ristoro,
Se mal odore 11 dilicato naso
Offende, o se de’ nervi occulto tremito
Fa la dama svenir. Fra mio cor dico :
0 beati d'amor servi cambiati
In pettlniere, in cassettine e bolge!
Trotta, sesso più nobile e maschile,
Come asinel che sui mercato porti
Forbici, cordelline, agucchie e nastri
Di qua, di là sugl' incalliti fianchi,
E del rigido legno alle percosse
Desti Tanche e le natiche alla voce
Del severo padrone Incurvi e affretti.
Non aspettar che la tua dama chiegga
Con domestica voce : a cenni impera
Tu dunque apprendi , interprete novello,
A far commento a' femminili cenni.
Spilla vuol ? Tragge fuor due dita, in punta
L’indice e il vicin grosso, allunga il braccio;
E se neo le abbisogna, a te con l' occhio
Si volge, e il dito al pollice dappresso
Mette alla lingua, e molle a te lo stende.
Se il chiuso loco e la soverchia gente
Riscalda T aria, scioglie un nodo al petto,
E con l'omero accenna; accorri tosto.
Levale il manichino ; c gliel rimetti
Se le spaile li volta, e a' fianchi appoggia
I gombiti, e le man dirizza al collo.
Se non T Intendi, vedrai tosto un lampo
Dell’ accese pupille, e un tuono udrai
D’amara lingua, e subita tempesta
Di capo d'oca, di babbione e tronco.
SI, fra me dissi, e fuor ne venni, e lieti
Di lor fortuna ivi lasciai gli amanti.
AL SIG. ANTON FEDERIGO SEGHEZZi, A VENEZIA.
Che la Natura non basta a fare il poeu.
Sorgi, all'erta, o Seghezzl ; a te discopre
Febo ambo i gioghi . 0 gufi.o uccel di notte,
Le pendici radete; a voi si allo
Volar non dassl : eccovi tronche l’ale;
Egli le spieghi, e su e su s’innalzi.
In qual nido vesti piume si forti
Cotanto augello? Di figura usciamo :
Scrivasi aperto. Solitario visse.
Non Infingardo : piccioletta stanza
Che pensler non isvia, poco ed eletto
Numero di scrittori, una lucerna
Nel buio della notte, un finestrino
Che lo Illumina 11 di, penna ed Inchiostro,
Anima negli studj, a lui sono ale.
0 poeti godenti, le gentili
Mammelle delle Muse hanno a dispetto
Bocca piena di cibo, e che si spicchi
Allor dal fiasco. 0 le pudiche suore [Irò
Seguite, o il vostro ventre : or l’uno, or l'al-
Segulr non dà dottrina. Alle fatiche
Amica è Poesìa; di là seti fugge
Dove si dorme, e Dio fassi del corpo.
Veggo mille quaderni : è chi mi sniega
Lunghe canzoni ; con vocina molle
Altri legge sonetti, e posa il fiato
Orsuil'unquanco, or sulle man di neve.
Ma che vuol dir, che menlr’cl legge il sonno
M’ aggrava gli orchi, ecade il mento al pel-
fi se voglio lodar, parlo c sbadiglio ? [lo,
0 ciechi ! quel che voi con sonnacchiosa
Mente scriveste, in me sonno produce.
Così non detta quest' ornato ingegno :
Veglia scrivendo, ed io veglio s’el legge.
Se tu, che scrittor sei, fuggi il lavoro,
E li basta Imbrattar di righe I fogli,
Perchè presumi di tenermi a bada
Con la tua negligenza e con gl'imbratti?
Veggo la noia in te, m’ annoio teco.
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SERMONI. 4fii
Non uscir di tua stanza ; Ivi II leva
Di U dove scrivesti, e come chioccia,
Schiamazza, croccia, e su e giù rileggi,
Passeggiando contento, alle muraglie.
Con qual voce più vuoi, l'opra tua Tresca.
Me lascia in pace : senza le tue carte
lo viver posso : se tu vuol ch’io ascolti,
Allettami, ammaestrami, c mi vesti
L’amo di dolce c di gradito cibo.
Ho natura felice; In poco d'ora
Detto quanto la man corre sul foglio.
Diasmo la tua natura, chè si spesso
Mi travagli gli orecchi. In prima, taglia
Una parte de' versi, lo paziente
Sono alla vena tua, quando congiunta
Sari con l’ arte. La feconda vena,
Troppo produce ; l'arte sola è magra, [gli
Rompe il coperchio ogni soperchio. Seio-
D’ogni freno il destrier; corre pc' campi
A lanci, a salti, e nulla non avanza :
Stringi troppo sua bocca; esso è restio.
Tieni nel mezzo. 0 Anton Seghezzi,dove
L’acuta ira mi tragg e? Ecco gli orecchi :
Empigli de’ tuoi versi. Io taccio : or leggi.
ALL’ ABATE ADAMANTE MARTINELLI.
be’ giudizi che si danno intorno a’ poeti. Che Natura sola non fa il poeta, ma l’arte a quella
congiunta.
Tacer non posso, o Martinelli ; quanti
Giudici di poeti oggi son fatti
E maestri a bacchetta ! Ognun favella
DI poemi c canzoni; ed a cui vuole,
Di sua man porge la ghirlanda e il pregio.
Ma se Apollo chiedesse : in quali scuole
Tanto apprendeste? chi vi diè tal lume?
L’ozio? la sgualdrinella? il letto molle?
0 co' tripudj, i pacchiamomi e il vino,
V entrò la sagra poesia nel corpo?
Bider vedresti questa turba, e farsi
Beffe di lui ; si per natura c ingegno
Dotta si stima, e l’ opre de’ migliori
Nota e riprende con sentenze e rutti.
Ma se ai rozzo villan gridasse un d'essi :
Questo duro terren zappa più a fondo,
Zucca, ceppo, balordo, asino, zappa :
Risponderebbe : 0 tu che sì m'insegni,
Qua vieni in prima : or via, mostriam le
palme,
Veggansi i calli ; io con la schiena in arco
Sudai molti anni, io questa terra apersi,
Volsi, rivolsi : or tu, come sedendo
Con le man lisce, di saper presumi
Quel che a me insegna la fatica e l' uso?
Tanto di chi non sa, s’egli corregge.
La voce empie di stizza, e noi dovremo
Taciti sempre e neghittosi starci?
Qii pecora si fa, la mangia il lupo.
Andiam sotterra almeno. Eccoci entrambi
In un'ampia caverna. Or qui gridiamo,
Cbè siam coperti ; Mida, Mida, Mida
Gli orecchi ha di giumento. Ancor di sopra
Forse ci nasccran cannucce c gambi,
Che le nostre parole ridiranno.
Udite, 0 genti. Chi fra sè borbotta :
Nasce il poeta a poetare istrutto,
Non bene intende. Se tu allevi il bracco
Nella cucina fra tegami c spiedi,
Quando uscirò la timorosa lepre
Fuor di tana o di macchia, esso in obbiio
Posta la prima sua nobil natura,
lascia la lepre, e per appresa usanza
Della cucina seguirò il leccume.
Molti alla sacra poesia disposti
Intelletti son nati c nasceranno;
Ma ciò che giova? La cultura e l’ arte
E l' arator fanno fecondo il campo
Di domestiche biade ; e chi noi fende
In larghe zolle, poi noi trita c spiana,
Vedrò nel seno suo grande abbondanza
Sol di lappole e ortiche, inutll erba.
Ecco, in principio alcun sente nell'alma
Foco di poesia : Sono poeta.
Esclama tosto ; mano a’ versi ; penna.
Penna ed Inchiostro. E che perciò ? vedesti
Mai, Martinelli mio, di tanta fretta
Uscire opra compiuta? Enea non venne
In Italia si tosto, c non si tosto
Il satirico Orazio eterno morso
Diede agli altrui costumi. I' vidi spesso
Della caduta neve alzarsi al cielo
Castella e torri, fanciullesca prova
Che a vederla diletta : un breve corso
Del Sol la strugge, e non ne lascia II segno.
Breve fu la fatica, e breve dura.
Fondamenta profonde, eletti marmi,
Dure spranghe, e lavoro immensoe lungo
Fanno eterno edilìzio. Or tremi, or sudi
Chi salir vuole d'Elicona al monte;
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SERMONI.
«2
Rai salito lassù, detti o riprenda.
Gli altri «hi voce. D'ogni Iato ascolti
Noni di fantasia, d'ingegno. Tatti
Proflerir sanno buon giudizio e gusto :
Paroioni ebeban snono. AU’opra,ali'opra,
Bei parlatori. A noi da laude il volgo :
Cerca laude comune. A Hoc fia d' uopo
Cercar laude volgar, quando da' «aggi
Cercherà laude la comune schiera.
Chiedasi eterno onore. O tu che parti.
Chi se’PSon uomo. E se’ poeta? lo sano
Quel ch'io mi sia; ma non mai taccio il vero.
AL SIG. STEUO MASTRACA.
Gli rende conto del passeggiare la aera in pitali.
Mentre che nel Friuli in mezzo a' monti
Pien d’opra e di pcnsicr tu passi i giorni,
Uom da faccende, io, Inutii vita, In barca
Consumo il tempo, o per le vie passeggio.
Or poss’io fra’ tuoi gravi, alti consigli
Entrar con le mie ciance ? Oli, di che temo?
Talor per poco volentier s’ascolta
11 garrulo augellin che dalle travi
Pestde nella sua gabbia ; e chi non vuole
Più a lungo udir, tolge le spalle e parte.
Bolle l’ ardente luglio, e deile case
Donne e donzelle fuor discaccia, come
Fuori deli'arnie, dove son ristrette,
Fa sbucar l'api il villane! con zolfo.
Scocca l'un’ ora : A Luna piena : io vado.
Giù sono in piazza, ed Invan l'aura attendo,
Cbc col suo ventilar mi dia conforto.
Soffia scirocco che m’aggrava i lombi,
SI che m' accoscio. Or che farò ? Notiamo.
Come dal fosso l' acqua sbocca, quando
£ la chiavica aperta, ecco eh' io veggo,
A torme a torme fuor d’ ogni callaia
Sboccar le donne. Non coni’ uom dei volgo
Studio però nomi e casati. Ardisco
Di più : gii animi leggo, intendo, e rido.
Due Ole lo veggo : le più belle vanno
Bove la Luna co’ suoi rai percuote;
Stan l’ altre all'ombra, e la patente luce
Odian per onestà. Santa onestatici
Dicon le prime; esse s(an bene al buio.
Visi di pipistrelli! Dicon l'altre:
Oh che baldanza ! ecco le merci a mostra.
Io passo, ed odo. Indi rimiro agli atti
Varj di ciascheduna. Or veggo brevi
E presti passi ; una, incordata i nervi,
Vi lenta e sopra sA; dimena l’altra
Come mitrino, gli ondeggianti lombi;
Qual alza ardita il collo ; un' altra un poco
Da un lato il torce ; e v’ ba chi appoggia i
polsi
Su' Ranchi, espinge i gombili all’ indietro,
E il ventaglio apre e chiude. Oh quai diver-
Casi uterini ! Ippocrate direbbe : [si
Qual clima 6 questo che donzelle e donne
Convulse rcude ? 0 Ippocrate, sou vezzi.
Lunga è l’arte, ben sai, la vita è breve,
E nuove cose a noi scoperte ha il tempo.
Come la nostra hanno le donne un* alma
Clic dà lor via, e ne’ polmoni forza
Di tirar l' aria, e fuor cacciarne il fiato ;
Ma brama d' esser belle, alma seconda.
Gii atti loro governa. Essa nel capo
Siede conducitrice, e in mano i nervi
Tiene c torce a suo senno, c i gesti acconcia
In faccia altrui, qual cerretan perito,
Fil di ferro tirando o funicelle,
Figurette maneggia. I storcimenti
Ch'essa produce, han le moderne scuole
Chiamati leggiadria, vaghezza e garbo.
Grata commedia! Ah.qualcommediaefar-
E spettacol sublime io veggo insieme [sa
Ne’ diversi vestiti! c grido: 6quesla[ donne
Scena in Francia o in tamagna? e sono
Qui nostrali, Chinesi o di Mombazza?
Al veder tolte d’ogni luogo fogge,
E d'ogni regione abbigliamenti,
Siam da per tutto ; e non sol genti vive,
Ma pitture, rabeschi, arazzi e carte.
Con l’ elmo in capo al torniamento vanno
Bradamante e Marfisa; un’altra tolto
Dal semplice orlicel novo ornamento,
Del eavol crespo ecco la foglia imita;
0 dalia sporta umil tratto l’ esempio,
Cappellini si forma, lina è In capelli;
E della cuffia sulle tempie all'altra
Svolazzan l’ale. Tristanzuola e marra
Questa cammina, e l' imbottita tela
Mi segna a pena ove a' innalzi il fianco;
Quella procede, anzi veleggia intorno
Quai caravella, con immenso grembo
Di guardinfante, pettoruta e gonfia.
Ila ciascheduna passeggiando Intanto
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SERMONI.
Due maschi a lata, e me» felice torba
Cfce indietro arpie. La beata coppia
Confitta a’ fianchi, ad ogni mover d'anca
Della pignora tua, misura i passi.
Ella Introita indietro guarda, e nota
S’ka la saa schiera; e la seguace gente
D' esaersecos' applaude, e umil cammina.
Molte ancor seggo delle figlie acute
Veccbiereile custodi. E gentilezza.
Che la fanciulla col garson passeggi,
Ch’eile cianci all ’ orecchio, essa risponda :
E la audre e la sia, nuove maestre
Di genti lesta, slan da (unge e fanno
Di testuggine i passi, e Intanto insieme
Partan di guardia, di predetto ed' occhio.
Ruvidi antichi tempi e genti sciocche !
Sccol nostro bealo ! appena allora
Erao bastami chiavistelli e stanghe
A guardar le fanciulle io una stanza;
Or nelle piazze a custodirle caste
liastao le vecchie con la cispa agli oeeM.
Si dico, c rido. Oh, guai valenti nuore,
E da faccende e casalinghe, c quali
Attente mogli a’ novellini sposi
Questo bealo svicolo apparecchia !
Ma già men vado-, eh* si cambiali foglia
In se raion sacro, e a le non va' che sembri
Che ai Vanalesti le parole io rubi.
AL SIC. PIETRO FA BRI.
Parla del villeggiare.
he notali donna die d’ antica stirpe
Ha preminenza, e buona c ricca dote.
Lautamente villeggia, orior ne acquista.
Splendida * detta : se lo stesso fanno
La Giannetta, ia Cecca o la Mattea,
Spose a’ banchieri oa bottegai, son pazze.
Non è tutto per tutti : uom destro e lieve
Sia di danza maestro : il zoppo, sarto.
Industria da sedili : ogni uom che vive,
S* medesmo misuri e si conosca.
Ma dir che giova? a concorrenza vanno
Degli uccelli del del minute mosche.
Somigliar vuol la sciocca rana al bue;
Si gonfia, e scoppia. 0 genlil Fabri, io scri-
Di cita fra' salci sulle ricche sponde [vo
Della Brenta fdice; e mentre ognuno
Corre ad uscio o a feneslra a veder carri,
Cavalli e barche, qui celato io detto,
Notomisla di teste ; or inailo a' ferri.
Dalle faccende e da' lavori cessa
Qui la geme c trionfa. O miglior aria.
Quanti oe ingrassi e ne dimagri ! A molti
Più prò farebbe un diroccato albergo
Dtkt antiche casipole in Mazzorbo
Fra .e murene, i cefali e le triglie.
Se punto di cervello avete ancora,
Mezzane gemi, io vi ricordo, * hello
Commendare alle mogli il boscoe l'ombra
Ed il canto de' grill L Ivi migliore
E il villeggiar, dove s’ appiatta il loco,
E dove scinta la villana e scalza
Mostri chioccia, pulcini, anitra c porco.
Quivi nell'alma delle mogli dorme
L’acuta invidia : ore sten sole, poco
Bramar le vedi; confrontate, molto.
Da natura ciò nasce : appena tieni
Coi fren ia debil rozza, che sdegnosa
L’animoso corsier andarsi avanti
Vede, ne sbuffa, e trottar vuole ancb* essa
Spallata e bolsa ; e tu die la cavalchi,
Ti rompi Intanto il codrione e li dosso.
Viene ii giugno o il settembre. Olà, che
Dice la sposa : ognun la dttà lascia ; I penai?
Tempoèda villa. Bene sta, risponde {me,
li compagno : or n ' andiamo. A die si dor>
Essa, dunque ? ripiglia : Andrem fra tante
Splendide genti, quai Zingaui ed Casi,
Disutil razza e pretto bulicame?
Noi pur stani vivi, e di grandezza e d’agi
■Siamo intendenti, e questi corpi sono
Fani come altri; nè virtù celate
A noi coltura e pulitezza sieno.
La Sibilla ha parlalo. Ficco si vede
Sulle scale una fiera : capoletU
Intagliati e dipinti, di cornici
Fabbriche illustri ; sedie, ove poltrisca
Morbido il corpo ; c alibi pieno è l' alberga
Di merci nuove e fornimenti e fregj.
Orna) L’ imbarca, o capitano accorto :
Ecco il provvedimento e l'abbohdanza.
Ab, te il suocero adesso fuor mettesse
Di qualche arca comune il capo industrie,
A mmassando, sepolto : oh ! che ? direbbe.
Dove nc va tal barca? alla campagna
Si ripiena e si ricca ? il bastoncello,
Un vallgiotto era 11 mìo arredo, e trenta
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464 SERMONI.
Soldi, nolo al nocchiero, o men talvolta,
E incogniti compagni, allegra ciurma.
Se la moglie era meco, io dal piloto
Comperava un cantuccio, ove la culla
Stava e il pitale, ed uova sode e pane,
Parca prebenda nell' urnli canestro.
Donde usci tanta boria? e quale ha grado
La mia famiglia, che la Brenta solchi
Con tal trionfo, e si voti lo scrigno?
Ma parli a' morti. Va scorrendo intanto
Il burcbiello per l’ acque, e il lungo corso
La sposa annoia. L’ ultima fiata [poste
Questa Ila eh' io m’ imbarchi : in poste, in
Un'altra volta. 0 pigro timoniere.
Perchè si taci? e perchè I due cavalli,
Chè pur due sono, quel vlllan non batte?
Avanti, grida il timoniere : avanti.
Ella con sotlil voce anco risponde.
Se vuoi la mancia ; e se non vuol, va lento :
Ostinata plebaglia! Or alle carte [guardi
Mano, eh’ io più non posso. Ah ! v' ha cld
Qui l' oriuolo? e chi più saggio il guarda,
Perchè melissa o polvere non chieggo,
Con le parole fa più breve il tempo.
La beata regina alfine è giunta
Fra gli aranci e i limoni : odi bertuccia
Ch'anime umane imita. 0 tu, castaido,
Dove se’, pigro? a che ne' tempi lieti
Non aprir le finestre? Ecco di muffa
Le pareti grommate. A che nei verno
Col tepor dei carbone non riscaldi
L’ aria agli agrumi? Giurali servo : Apersi,
Riscaldai, non c'è muffa : ecco le piante
Verdi e cardie di frutte. Indocil capo,
Tutto è muffato; io non son cieca; ed ogni
Pianta gialleggia. E se s'ostina, odore
Di muffa sente in ogni luogo, e duolsi
In ogni luogo delle smorte piante.
A* suol mille capricci, uomo infelice.
Il salario ti vende. Essa cinguetta
Quel che udì altrove, e sè gentile c grande
Stimar non può, se non quisliona tcco
Per traverso e per dritto. Or taci, e mira
Per tuo conforto ; coi marito stesso
Per nonnulla garrisce ; Oh poco cauto
Nelle accoglienze ! la brigata venne,
E lacera era al verde. Ah, tardo giunse
E freddo il doccolatte ! Occhio Infingardo,
Nulla vedi o non curi. E se balcone
0 benigna fessura di parete
Mi lasciasse veder quel che si cela.
Per tal misfatto io vedrei forse il goffo
Di sua pace pregarla, che conceda
Al desio maritai giocondo scherzo.
Ma tu frattanto, o vettural, trabocca
L' orzo e la vena, perchè sotto al cocchio
Sbuffi Baiardo c Brigliadoro, quando
Solennemente verso il Dolo corre,
0 della Mira al popoloso borgo,
Nido di febbri pel notturno guazzo.
Gii nel suo cocchio pettoruta e. salda
La signora s' adagia ; e a cavai monti.
Lo scalpitar de’ due ronzoni, Il corno,
E della frusta il ripetuto scoppio
Chiama le genti. L’ uno all’ altro chiede :
Chi va ? Se ignoto è il nome, ed il cognome
Nato in quel punto, la risala s’ode,
E il salutarla motteggiando ìntuona.
Beata sè, che onor sei crede, e intanto
Gonfia pel suon delle correnti ruote,
Chiama in suo coro il vettural poltrone.
Clic la curata per cornar non rompe.
Giunge, smonta,! a sedere. O bottegaio,
Caffè; ma vedi, in porcellana : lava.
Frega, risciacqua; il dillealo labbro,
Morbida peilicina, invizia tosto.
Non custodito. La faconda lingua
Comincia intanto: eched’udirs'aspclla?
Grossezza o parto, la dorata culla.
La miglior levatrice, il ricco ietto,
E il vietato consorte alla nutrita
Balla di polli, e sue feconde poppe
Se più s’inoltra, de’ maligni servi.
Delle fanti si lagna, e I liberali
Salarj e i doni ivi ricorda c il vitto.
Nè si diparte; chè, se in paccascolti, [go.
Sai quanto ha di ricchezza entro all’ alber-
Di cucchiai, di forchette, e vasi e coppe
Ma già l’ aria notturna umida e grave
1 cappelli minaccia, e la ricciuta
Chioma, se più dimora, oh Dio ! si stende.
Cocchiere, avanti. Sta sul grande e parte.
Fabri, che vuol ch’io ti ridica come
La brigata die resta , addenta e morde ?
Pietà mi prende, e sol fra mio cor dico :
Di sua salita boriosa gode
La zucca in alto, e le più salile piante
Imita come può; ma boriando.
Pensi alle sue radici, c tema il verno.
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SERMONI.
àfiò
Centra II guato d’ oggidì in poesia.
Perchè più tacerò? dice» Macrino,
Spolpato e giallo pe’ sofferti stenti
Era libri, calamai, fogli e lucerne : [no
Ho lingua, ho penna, ed han misura e suo-
Anche I miei versi. Oh ! son di bile voto.
Uomo di spugna e d'annacquato sangue?
A te l’attacco, di Latona Aglio,
Mendace Apollo: tu sai purché un tempo.
Alle pendici di tua sagra rupe.
Qual di tuo buon seguace e di poeta
È l' ufficio, ti chiesi. Il cielo, li mare
Mi mostrasti e la terra, e degli abissi
Fin le nude ombre ed 1 più cupi fondi,
E dall’alto gridasti : Pennellcggia,
Imitatore. Agl'Infiniti aspetti
Posto in mezzo, temei, come la prima
Volta uscita del nido rondinetta
L* ampio orror dell’ Olimpo Intorno teme.
Ma chi creder polea che farmi inganno
Dovesse Apollo? Ricercai boscaglie,
Pensoso imitator, segrete stanze,
Incoronate di verdi erbe fonti ;
Me mcdcsmo obbliai. Colla man volsi
La notte e il d) sceltissimi quaderni
Di gran maestri, e di defunti corpi
Venerai chiari nomi e vivi ingegni.
Qual d'edilìzio diroccato sbuca
Fuor di sfasciumi e calcinacci il gufo,
Alfine uscii : poche parole, c agli usi
Male acconce del mondo, in sulla lingua
Mi suonarono In prima. Omero e Dante
Dalla chiusa de’ denti uscirmi spesso
Lasciai con laude. Oh,diqua( tombaantica
Fuggi questo di morti e fracidumi
Tisico lodatore ? udii d’ intorno
Zufolarmi, ed il suon di larghi intesi
Sghignazzamenti, e vidi alti di beffe.
N'andai balordo; e dì saper qual fosse
Bramai di nuovo la poetic’arle,
DI cui mal chiesto avea forse ad Apollo.
Seppilo infine. Poesia novella
È una canna di bronzo atta c gagliarda,
Confitta in un polmon pieno di vento,
Che mantaeando, articoli parole
E rutti versi. Se aver don potesse
Di favella un mulino, una gualchiera,
Chi vincerebbe in poesia le ruote
Volte dall’acqua che per doccia corre?
Tanto solo il romor s'ama e il rimbombo.
Sulla chiavica dunque : un lago sgorghi
Rimbalzando, spumando, rintuonando.
Di poesia. Del Venusin si rida,
Di palizzate e di ritegni artista,
Che a si ricco diluvio un di s'oppose.
Ogni uom sia tutto. Il sofocleo coturno
Calzi e il socco di Plauto : or la zampogna
Di Teocrito suoni, or alla tromba
Gonfi le guance, o dalle mura spicchi
Di Pindaro la cetra, o il molle suono
D'Anacrconte fra le tazze imiti
Anzi pur mesciti la canora bocca
Quel che la magra antichità distinse.
Bello è che a’ casi di Medea si rida,
E orror mova lo Zanni. È novitate
Quel che ancor non s’ intese. Alto, poeti :
Questa libera età non vuol pastoie :
Tutto concede. Oggi cucir si puote
Lo scarlatto al velluto, augelli e serpi.
Polii e volpi accoppiar, pecore e lupi.
Bastan festoni d' annodargli : lega
Per la coda o pe’ piedi ; lo non mi curo.
D'entusTasmo sempre ardente fiamma
Chiedessi un tempo ; e senza peso un’alma
Star sull'ale vedeasi, e rivoltarsi
Or quinci, or quindi misurata c destra.
Era contro a natura. Ah, non può sempre
L'arco teso tenersi, e lalor fiacca.
Or basta, ch'empia all'uditor gli orecchi
Sul cominciar sonoritade c pompa;
Poi t’allenta, se vuoi, poeta, e dormi.
Tal nella prima ammattonata chiostra
Movcsi il cocchio, e con picchiar di ruote
E ferrate ugne, qual di tuon, fa scoppio;
Esce poscia sul fango o sull'arena,
E fa viaggio taciturno e cheto.
Fu già lungo fastidio e dura legge
Studiar costumi : favellava in versi.
Quale in scita Amarilli ; e sulla scena,
Qual nei porto sigeo, parlava Achille.
Or comune linguaggio hanno le piazze,
La corte, I boschi, e Nestore e Tersile;
E può la spaventata pastorella
Da notturne ombre, da fragor di nembo,
Da folgore di Dio che i marmi rompe,
Di sè stessa obbliarsi, ed aver campo
Di meditare e profferir sentenze,
Filosofica testa. In tal periglio.
Trovar può il re la fidanzata sposa [ciò.
In preda al sonno, all’ empio servoin brac-
Egli cheto parlar, faceto il servo.
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SEllUOM.
4G6
Faceto! e di clic temi? hai forse il sale
A cercar delle arguzie, ove nudrisce
Gioconda urbanità spirti gentili?
No : la Mattea, che cou la cioppa io capo
Rlrendugliola va di casa in casa,
N’ è gran maestra, e chi sbevazza c a coro
Fa tra* boccali gargagliatc c tresche.
Quivi è la scuola, la miniera è quivi
De' frizzanti parlari, ambigui delti.
Onde tanto si gode c si conforta
Venere genitrice, ove s’accenua
Sol la domestichezza delle cosce.
Sì cinguettava, e favellar più oltre
Volca Macrin; ma gli tirò l'orecchio
Crucciato il lunge-saetlante Apollo :
Che fai ? gli disse ; e perchè più bestemmi ?
Vedi il mio coro. Alzò Macrino gli occhi,
E vide le divine, alme sorelle
Preste a fuggirsi, e ad apprestar Parnaso
In gelate, nevose alpi tedesche,
E a vestir d'armonia rigida lingua.
Cosrlrnza lo morse : il meolo al petto
Conficcò, tacque, e confessò che il vero
La prima volta gli avea detto Apollo.
Contro alla mollezza del vivere odierno.
Quando loggiato che l' indite ventraie
Degli Atridi c del figlio di Peleo
Ingoiavan di buoi terghi arrostili :
Oh antica rozzezza! csciamiaui tosto.
Saporiti bocchini e stomacuzzi
Di molli cena e di non nata carta, [ponga
Ma perchè animi riatti poi, die il seno 0|>-
Deilo Scamandro burrascoso a* flutti
L’instancabile Achille, e porlin aste
Si smisurate i capitani greci ?
Non consumava ancor muscoli c nervi
Uso di morbidezza : erano in pregio
Non ine tu bruì ine di zerbini inerti,
Ma petto immenso, muscoloso, c saldo
Pesce di braccio e formidabil lombo.
A* gran mariti sofTcrian le nozze.
Non di locuste ognor cresciute a stento
In guaine d' imbusti : era bel corpo
L’intero corpo, ed Imeneo guidava
Ai forti sposi non balene o stringhe.
Ma sostanze di vita, e i bene scossi
Congiungimenti avean prole robusta.
Nasceano Achilli ; ed 1 trastulli primi
Delle maui sfasciate eran le folle
De' Chi roiii maestri ispide barbe.
Crescean sudando; e l' anime, di petti
Abitai ria stagionati ed ampli,
Erano aneli' esse onnipossenti e grandi.
Barbari tempi ! in zazzcrin risponde
Medoro, che intestine ha di bambagia,
Viva non vivo, e d'un bel ghigno adorna
La peHirina delie argute labbra.
Chi aeguirebbe in questo secol saggio
Rusticitadi di silvestre vita?
Scese dal Cielo a rischiarar gl’ ingegni
Florida Voluttade, e dall’ Olimpo
D' Epicuro negli orti i grati bulbi
Piantò di nuovi fortunali fiori.
Per lei siain salvi. Ab In ansi laude e nome
IVasta e dt lotta i secoli remoti;
lo del far buona pelle e del riposo.
Cosi detto sonnecchia. Odi, Medoro,
Lendin dappoco: questa tua si bella
E discesa dal Cielo Voluttade,
Non la conosci : non è Dea che voglia
Molli eflem mina tozze ed ozio eterno.
Come più giova cristallina lazza
Piena del sagro dono di Lieo,
Che brilli e spumi, se il palalo in prima
Punse I’ arida sete, e vie più grata
In gargnzzo affamato entra vivanda;
Cosi miglior dietro a’ pensieri e all* opre
Vie» Voluttade. A noi l' olimpio Giove
Mandò prima Fatica, e dietro a lei
L’ altra poscia ne vieti, ma zoppa e tarda,
A terger fronti, a confortare ambasce.
Nè vieti, nè dura, se non dove il sodo
Zappator volta la diffidi terra,
E messi coglie ; ove l' immenso mare.
Senza soffio temer di Borea o d’ Àustro,
Solca il nocchiero, e mercatante indusire
Con utii laccio nazioni annoda;
E infin dove ogni stir|»e alta ed umil e
L* ingegno adopri e le robuste braccia.
Pensicr comune, universal fatica
Vuole, ed invito, per venir fra noi.
Da tutte l’ alme ; ed al roroor dell' Arti
Scende la Diva, ed il suo carro arresta.
Di popoli ristoro. Essa le ciglia
Però sdegnata e dispettosa aggrotta
Contro a chi fatto è sol peso di letti
0 di sedili, e fra gli altrui lavori
Uso faccia di cianre o di quiete.
Nè solo ha cruccio : nel gastiga. Come!
Vuoi tu saperlo? Di suo bel sembiante
Veste la Noia. Una donzella è questa
SERMONI.
Che chimerizza c immagina diletti,
Nè mai gli trova : un’ imbibii peste
Che là dov’entra, fa prostender braccia,
Sbadigliar bocche, ed a volere a un tempo
Cupidamente e a disvoler sospinge.
Questa or vien teco, e Voluttà li sembra,
Che in tue brame soffiando, le travolte.
Qual di state talora in mezzo all' aia
Vento fa pula circuir e foglie.
Dimmi, se fai si dilcttosa vita.
Perchè rizzi gli orecchi, e mille volte
UT
Dello scocco dell* ore al serro chiedi,
Infastidito, e di tardanza incolpi
Or il carro del Sole, or della Notte?
E perchè spesso, o voi beate, esclami,
Teste di plebe! se s’aggira Cecco
Cilarizzando, o va cantando Dimbo
In zucca per le vie cencioso e scalzo?
A te stesso noioso, in tc non trovi
Di clic appagarli. T’ accorapagnan sempre
Torpor, languore, e là dove apparisci.
Sei tedio, hai tedio : Voluttà ne ride.
AD UN AMICO.
Abbona P immagine della vera Poesia
Se in eolio zazxerin Damo vagheggia.
Misura occhiate, c vezzose tto morde
L’orlieiuzzin di sue vermiglie labbra,
E spesso move ih compassati inchini
La leggiadria delle affettate lacche,
Il nobll cor di maestosa donna
Ride di Damo; e vie più ride allora.
Che dHui vede imitatrice turba
Di giovanotti svolazzarsi intorno.
Ride, ed ha sdegno che al celeste dono
Di pudica beltà lodi si dieno
In sospir mozzi e da non sagge lingue,
A cui •nulla giammai porse l’ingegno.
Debbo usi a Krine, a Callinice, a Flora
Sì fatti incensi, o all’ infinito stormo
Delle sciocche e volubili civette.
Credimi, amico, da si nobil donna
Non è diversa la beata figlia
D’Apollo, Poesia, de* rari ingegni
Rara forzale dell’ anime ornamento.
Tienloti in mente, è sua beltà celeste.
Non piace a lei che innumcrabil turba.
Viva in atti di fuor, morta di dentro, [ta ;
Le applauda a caso, e mano a man percuo-
Nè si rallegra se le rozze voci,
Avvezze spesso ad Innalzar al cielo
Perito cucinier, sapor di salse.
Volgano a lei quelle infinite lodi
Ch’ebber prima da lor quaglia ed acceggia.
Vanno al vento lai lodi, e nero obblio
Su vi stende gran velo e le ricopre.
Quei pochi cerca lodatori, a’ quali
Dier latte arti e dottrine. Un liquor santo
Questo è che nutre, non ossa, non polpe,
Ma la possanza del divino ingegno,
Vita di dentro. Ei vigoroso e saldo
Pel suo primo alimeuto, alto scn vola,
E può di Poesia comprender quale
Sla l’eterna c durevole bellezza.
Nè creder già che di schiamazzi c strida
Largo a lei sia, nè che sue laudi metta
In alle voci ed in romor di palme.
Tacito, cheto e fuor di sè rapito,
L’ammira, e seco la sua immagin porta.
Nè più Pobblia. Se ciò nessun ti disse.
Or Podi, onde, agli Dei caro intelletto.
Segui la bene incominciata via:
Rapisci Paline, e non temer che noti
All* altre ctadi l versi tuoi non sìcno.
ALL* ABATE DON PIETRO FAfiRIS.
Contro alla corruzione do’ costumi presenti
Qualunque uscio dì naturai vasello ,
Forza è che un di pieghi alla Parca il colta.
Siasi d'abbietta o di famosa stirpe.
Non perciò intero P uom pasto è di tomba;
Dell* opre generose c delle infami
Resta il nome di fuori : esempio quelle
E lume de’ nipoti ; € le seconde
De’ secoli avvenir ribrezzo e stizza.
L’esser giusto, magnanimo, fedele,
A’ magnanimi grato , è lume , è fregio
Delle vite, clic dura, e non lo insacca
Venire di cimitero in un col corpo.
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SERMONI.
Questo con filosofico fervore
Profferta un giorno Aristo, e tuon di beffe
N'ebbe per plauso. Gridar mille a gara
S’ udirò intorno a lui femmine e maschi :
Santa rifilile , noi negltiam, te' bella
Per laudar teschi in epitaffi e stinchi.
Oggi d'altro ti vive, o saggio e dotto
Predicator per lettere a Lucilio.
Imbizzarri la non domatili bocca
D’ Aristo , e disse : 0 te nel ver beato
Mondo, se detto avesse un di lo stesso
De’ teschi antichi la famosa turba!
Ma dicean altro, e dalla lor v inule
Granili esempi traesti e gloria insieme.
Pure i tuoi di que' di , come hanno i nuovi
Abitatori , ebbero gole , ventri
E vesciche di dentro, e di fuor membra
Da far nascer germogli alle famiglie;
Ma non gole , non ventri , non vesciche
Non altro furo a consumare Intenti
In letizie di Venere e di Bacco.
A noi che fa, se di cervello roti
Furon gli aroli nostri, e se la notte
Tenean per Sole? Chi vuoi buio,l'aggia;
Noi no, che siamo in luminosi tempi.
Voltò le spalle indispettito Arislo,
Chè un orecchio per sò solo non ebbe ,
Fuorché sordo e ritroso. In tante teste.
Piero , chi gli fc’ Ingiuria? egli a sé stesso.
Quando in odio é virtù, quando si onora
Il vizio con turiboli e con salmi ,
Cerio il filosofar cosa è da pazzi.
Tempo già fu che al gran Tonante preci
Si porgean per aver sani intelletti
In sani corpi: ora scambiato é il prego.
Odi, o supremo Corrcttor del mondo :
Quanto puoi, quanto sai, fertili rendi
L'alte Inventive di drappieri c sarti
In fogge nuove; con secondi venti
Accompagna pel mar, guida per terra
Salve, fra rischi di montagne e boschi,
Abbondanze Inesauste e trionfali
D'altere cuffie c sventolanti penne.
Torreggin liete con superbe fronti
Fanciulle e donne; c non curar che slcno
Pantasilee davanti e Pigmee dietro;
Ciò non dà briga : a lor basta che tali
Ornamenti , testuggini e baliste
Sieno da batter maschi : ed all’ incontro
Piovi miniere d'or, zecche d’argento
Alla stirpe maschile, ordigni c forze
Da batter donne c aver certa vittoria
Dei più guardinghi e scrupolosi ventri.
Fra tali orazioni c pensier tali ,
Massime sguainar, produr dottrine
Di sapienti e di morale , é come
Dalle stuoie, da’ cenci e da’ vecchiumi
Scuoter la polve : ognun si salva e stride.
Delle balie I capezzoli le vite
Stillano ancora, è il ver; ma in un con esse.
Indole di lascivie e di mollezze
Ne’ novellini, plccioletti infanti.
Nè divezzati dalle poppe , scole
Trovano più corrette. Ecco II paterno
Ed il materno amor che gli accarezza ,
Ma sol per passo, chè di più non puote:
Tronca lor tenerezze un mare , un mondo
D' importanti faccende. Colà danza
Il tanto a lungo desiato Picche,
Commentator con gli atti e colle gambe
D’antiche storie di Romani e Greci.
Qua tavola si mette , e là condisce
Cuctnier novo , che I più rari punti
Tutti sa della gola. Ivi la veglia.
Di qua la danza o l'assembleagli attende
Del gioco : andar si dee , conviensi a forza
Squartar le notti in particelli e in giorni.
Senza speranza d'aver posa mai.
E ben si pare la fatica a' visi
Di pallor tinti c all’ ossa, onde s'informa
I a grinza , asciutta e scolorita pelle.
Fra si gravi importanze , agli scommessi
Padri e alle madri colle membra infrante.
Qual più tempo rimane e qual quiete
Per darsi cura degli amali germi ?
Col cagnuolin , col bertuccio , col merlo
S'accomandano a' servi: lor custodi
Sono un tempo le fanti , ludi i famigli
Malcreati , idioti e spesso brutti
D’ogni magagna, e d’ogni vìzio infami.
Questi le prime, questi soli le prime
Lanterne clic fan lume a' primi passi
Delle vite novelle, c i mastri sono
Scelti a fondar delle città più chiare
Gli aspettati puntelli e i baloardl.
Chiamisi allor di Sofronisco il figlio,
E provi, s’egli può, scuoter da tali
Cresciuti allievi l' incrostata muffa.
Quanto n’ hai voglia , o Socrate , ti sfiata.
Predica scritti , l’onorato esalta
Degli studj sudor: predichi a’ porri.
£ già il vaso inzuppato , c son le pieghe
Prese così , che più giovar non puote
Del Ferracina o d’ Archimede ingegno.
Escono di pupillo : ecco I licei
Spalancati del gioco, e i templi e Tare
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SERMONI.
Sacre alla Dea di Cipri , ore la prima
Scola al ribadisce e ti rassoda.
Chi agli orecchi di si dotti alunni [ne
Squadra allor la morale, ahi! qual chi oppo-
Ad un torrente che divalla e aggira
Peni di greppo colle tgrbid' onde ,
Ha gran mestieri di lancette e funi.
È ver che questa infaccendata etade
In panche acculattar, facendo guerra
D'assi , di re , di fanti e di cavalli ,
Ed In sempre fiutare orme di donne ,
Tempo non ha da decretare i nappi
Dell’Infame cicuta, e non isforza
A discacciar dalle segate vene
Filosofiche vite In un col sangue :
Ma qual prò? questo secolo apparecchia
Allo speculator de’ suoi costumi,
Altri gastighi. Ove apparisce, ei vede
Tosto facce ingrognarsi , aggrottar ciglia
E mostra far d' Infastiditi orecchi.
Oh, s’ ei potesse il borbottar fra' denti
Udir de' vaghi e delle donne amanti,
Certo udirebbe : Zitto : ecco il gran capo
Starnutadogmi ; ecco chi d' uom »’ i fatto
V apofìemmi volume, e tulli affoga
In un pelago immenso di preeetli.
E che altro può dirsi in un moscaio
Di cervella sventate, e d’altro amiche
Che di virtù , dove, In bel cerchio unite,
Trattan alti quesiti , e si discute
Qual casolato le tomaie assctLi
Più snelle al piede, e quali storte dieno
E quaì litnbicchi le più fine essenze
0 di fiori o di droghe , onde si spruzzi
Le mani, Il naso, il moccichln, le tempie?
Miseri voi , se si rompesse il filo
Di cosi sodi ed utili argomenti !
Su via , chi vi difende? havvi tra voi
Pur l' eloquente che , gran tempo spugna
Di frontespizi , si formò dottrina
Da cianciarvi di tutto ; havvi il ventoso
Che tutti altri di fango, c sè creato
Stima d'oro e di perle; e chi la lingua
Sempre ha disenfila in appuntare altrui;
E il tanto caro dicilor che vela
Con garbo oscenitadi : or via, fra tanti
Qual Tristano, Girone od altro forte
Cavalier delia Tavola ritonda ,
Scaccia questo novello, orribll mostro
Cile a tutti fa tremar le vene e i polsi ?
Già prende l’ arme il gioviale amico
Delle cucine , che venduta ha l' alma
Per lautezze di mense, e all' onestate
Antepone gl' Intingoli e l’arrosto ,
Razza ingegnosa che gii scotti paga
Con barzellette , in voi destando il riso.
Costui sa di zerbini e di civette
Stizze , paci ed accordi c le notturne
Lascivie e le diurne. Egli è il cronista
Degli scandali occulti : or gli cincischia
Arcanamente, or gli pronunzia aperti :
Chi può meglio adoprar l'armi e la forza
Contro al saggio , di lui , gioia comune
Di si rara brigata? Ei gii lo sfida :
Come s’ aizza nelle cacce al toro
L’ Ira del cane , tal di cheto , incontro
Ai filosofo, ognun gli acuti denti
Stimola di costui eh' esce e l’attacca.
Nè creder gii che tosto el morda: abbraccia
Anzi 11 nemico; anzi con laudi e vezzi
Or la mano gli bacia , ora la spalla
Con domestico amor gli picchia e tocca ,
Forte esclamando: 0 noi di questa terra
Sempre Inutili incarchi ! o noi beali
DI ciò almen, che fra noi l'astro apparisce
De' sapienti ; cima d’uom fra quanti
N'ebbe Roma ed Atene! Indi gli chiede
Consigli in oneslade , e vuol pareri
In temperanza : di soppiatto intanto
Le camerate adocchia , animo prende
Dall’ assenso di tutti , c chiude alfine
La sua commedia con visaccl e fiche.
Del teatro contento , ecco alle mosse
Il tremuoto e il tuonar di palme e fischi :
Vassenc il saggio spennaceli iato c mesto.
Piero , chi vuol filosofare , imiti
Le sapienti chiocciole che fanno
DI lor gusci lor case , c non vedute
Traggono il capo sol fra macchiced ombre.
Vivasi in noi con noi : lasciam che corra
L’ acqua alla china. Si ritenga in briglia
Quel ch'è in nostro potere e dentro a noi :
Maraviglie o disdegni in noi non desti
L’opera altrui ; nè mai speranza o tema
Desti in noi quel che In mano è delia sorte :
Così potrem fidi seguaci e cheti
Esser di Marco Aurelio e d’Epitteto.
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POESIA PASTORALE
FRANCO SACCHETTI.
CACCIA.
Passando eoo pensicr per un boschetto,
Donne per quello givan fior cogliendo,
Con diletto, co’ quel, co’ quel dicendo :
Eccolo, ecco! ; che è? è fiordaliso.
Va U per le «loie ;
Più coli per le rose, cole, cole
Vaghe amorose.
0 me, chi 'I prun mi punge.
Quell' altra, me v’aggiunge.
! u’, o, eh’ è quel che salta?
Un grillo, un grillo.
Venite qua, correte,
Ramponzoli cogliete
E* non son essi.
Si, son : colei o colei
Vien qua,» ien qua per funghi, un micolino,
Più coli, più coli per sermollino.
Noi siamn troppo, chè’l tempo si turba;
Ve’ che balena e tuona,
E di’ indoi ino clic Vcspero suona.
Paurosa, non è egli ancor nona,
E vedi ed odi l’ usignuol che canta,
Più bel ve’, più bel ve’,
lo sento c non so che;
E dov’è, e do»' e?
In quel cespuglio.
Ognuna qui picchia, tocca e ritocca.
Mentre lo busso cresce
Una gran serpe n’esce.
0 me trista ! o me lassa ! o me ! • nel
4 Iridai! fuggendo di paura piene.
Ed ecco che una folta pioggia «iene.
Timidotta quell' una e l'altra urtando.
Stridendo, la divaiua via fuggendo,
E gridando, qual sdrucciola, qnal
Per caso 1’ una appone lo ginocchio
I.à 've seggea io frettoloso piede,
E la mano e le veste ;
Quella di fango lorda ne diviene.
Quelle di più calpeste;
016 ch'lian colto ir si lassa,
Ne più s’ appresta, e per bosco si spande.
De’ fiori a terra «anno le ghirlande.
Nè si sdimette pure unquanco il corno.
In colai fuga a ripetute note
Tìcnsi beata chi più correr puole.
Si fiso stelli li dì ch’io le mirai,
Ch’io uou w' 'avvidi c tutto mi bagnai.
JACOPO FIORINO DE’ BONINSEGNI.
URANIO
EGLOGA.
Non diletta ciascun le selve e 1 boschi,
Nè le belve seguir, per quel eh’ io stime,
Per entro I luoghi tenebrosi e foschi.
Perù , Musa gentile, alza tue rime;
Se fra l'altre sorelle aver vuol vanto,
Convienti oprar con più taglienti lime.
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POESIA PASTORALE.
U4itc ora , pastor , quel eh* io vi canto,
Riducete gli armenti in salvo porto ,
Cbè il tioke riso si converte in pianto.
E dal suo pigro sonno ognuno accorto
Sì risvegli del Gelo a fuggir I* ira , [to.
Mentre che* 1 tempo al v ostro scampo è por-
Yibrato ha il suo coltello , e 1* arco tira
Giove che su dal Cid nc vede tutto ,
E di vendetta le saette spira.
Ansi il grand’ anno al suo fin sìa ridutto,
Quale i versi cornei già ne cantaro.
Passar conviene e per doglia e per lutto.
Gilè I* ordin de* pastori è fatto varo
Da quel di prima , e nessun piò procura
Alle sue pecorelle alcun riparo.
Turbata ornai si vede ogni pastura,
E del vivere urnan rotto è il cammino.
Nè più d’ Astreo la figlia al inondo dura.
Del futuro dolor quasi indovino.
Mostrando il dorso fra 1* onde è fuggito
Nell’ estremo occidente ogni delfino.
Più volle già è del suo letto uscito
Nettuno con romorc e con tempesta ,
Si che ciascun vicino è sbigottito.
Il candido animai , di cui gran festa [de
Prende ciascun nocchier, quando fra I* on-
Si bagna, onde al camminlor voglia desta.
Appena ha tocco col suo piè le sponde,
E con voce inaudita, orrenda e strana
Segno n’ha dato di fuggirne altronde.
L* antica Madre che cotanto umana
I dolci nati suoi porger solca
Maturi e belli , or ne divicn villana.
II degno merlo che l’aratro avea
Di sue lunghe fatiche è fatto frale,
Per cui sì lieto il mondo allor vivea.
Miseri più l’ affaticar non vale;
Così dispone il Cielo , ed è ben degno
Tener giù basse a Babilonia l’ale.
Quasi* è che di Partenope il bei regno
Tremò sì forte , che n’andò la strida
Al Gelo , e minò senza sostegno.
Ancor la vecchicrella , in cui s’aunida
D’ Èrebo e Notte una malvagia figlia.
Fu pel tremore aver I* ultime grida.
Benché fra sè medesoia si consiglia,
E sol del suo saper v ivcr si crede
Secura sene’ alzare al Ciel le ciglia.
Quinci Getulia c quinci Eufrate il piede
Move al tumulto , e le vicine terre
Si sforza l’un dell’ altro farsi erede.
Non si sente altro che romor di guerre ,
E crudel morte in ogni regione ,
Onde Unta mestizia il core afferre.
Nè serba più sua qualità Giunone,
E la dolce temperie se ne fugge.
Nè si conosce più nulla stagione.
Quanti edifici già folgor distrugge ,
Quante tempeste siate, e lunghe piove,
E folta nebbia che la terra adugge !
Scese son giù dal bel gremio di Giove
Diverse faci, ed è lungo tempo arso
Crudel cometa che i gran regni move.
Novo parlar per ogni riva è sparso
Dì voi , falsi pastor , che già 6 mosso
Chi farà il pensier vostro vano e scarso.
Nessun però s* è dal gran sonno scosso ;
Anzi senza pensieri ognun si dorme,
Tenendo ad Isiaei rivolto il dosso.
Dinumerate son tutte vostre orme,
E son trovate in le giuste bilance
Dal viver pastora! prisco difforme.
Ornai convien che le candide guance
Della bella fanciulla si scolori ,
E tornio per gran duol pallide e rance.
Fornicato lia con diversi amadori,
E’I suo vago giardln più non produce
Vermiglie rose con bei gigli e fiori.
Fatta è degli occhi suoi fosca la luce.
Caduta è In terra del suo alto trono ,
Nè sì come solca Unto riluce.
Allor peri quando al sì ricco dono.
Che Cesare le Te*, sua man non torse.
Dove di lei fu disperar perdono.
Velenosa dolcezza il cor le morse;
Ma pur convlen eh’ al suo primo stil tomi,
Come co* passi suoi tanto trascorse.
Venuto è il tempo de’ dolenti giorni;
La turba de pastor sarà dispersa ,
Che sì sovente all* ombra pur soggiorni.
Fia di Samaria ogni vacca sommersa ,
E l’ una dopo l’altra io fuga volu
Da fera belva a divorar conversa.
Già dalla selva uscì con furia molta
Crudel lione, e divise il gran gregge,
Nè gli fu mai di man U preda tolu.
Or senza freno alcuno e senza legge
Per divorarne il vespertino lupo
Mosso è, poi che *1 pastor non si corregge.
Il cicco ardore , il desiderio cupo
Spento sarà e l’insaziabil sete,
E vendicato del commesso strupo.
Se vostra falce l’altrui campo miete.
Di man tolta vi fia, e con gran doglia
Bagnerete le labbia all’onda Lete.
E come serpe la sua vecchia spoglia
POESIA PASTORALE.
AH
Lassa fra dure pietre, cosi voi
Lassar conviene , e vestir nuova scoglia.
E’i buon Samarilan co' pastor suoi.
Del qual fu in terra la lama si grande ,
DiC del regger gli armenti esemplo a voi.
Non cibi eletti o splendide vivande
Gustarono i pastor nel secol d’ oro ,
Ma chiare linfe, erba tenella c ghiande.
Tanto in piacer le pecorelle loro
Pascer lor fu , che mai nessun fu stracco
Per camparle fuggire alcun martora.
Vostro pensier tutto è rivolto a Bacco,
E Glezl si ritrova in ogni ostelo
In guisa tal , si che trabocca il sacco.
Ecco il figlio d' Ireo che su nel cielo
GIS ne dimostra a noi l'armato fianco
Per tor dagli occhi il tenebroso velo.
Visto tanto labor non fu unquaoco ,
Quanto quel che presente a noi si mostra.
Che sol pensarlo l'animo vien manco.
Ni udito gii mai nell' età vostra,
llcin mio caro , e Callimaco mio.
Che ciascun segno ornai chiaro fi dimostra ;
Sazio vedrete ancor vostro desio ,
Chi sol per lutto 11 elei discorre Marte
Diretto al corso suo maligno e Ho.
Ognun attenti con ingegno ed arte
Con le sue vaghe ed umil pecorelle
Di ritrarsi in secura ed alla parte,
lufia che gira il furor delle stelle.
POLIZIANO.
SESTINA IRREGOLARE.
Vaghe le montanine e pastorelle,
Donde venite si leggiadre c belle? [to;
Vegnam dall’ alpe presso ad un boschet-
Piccola capannclla è '1 nostro sito;
Col padre e con la madre in picciol letto
Dove Natura ci ha sempre nudrlto.
Tornlam la sera dal prato fiorito.
Che abbinili pasciute nostre pecorelle.
Qual t ’l paese dove nate siete?
Che si bel frutto sovra ogni altro luce!
Creature d’ amor voi mi parete.
Tanta è la vostra faccia che riluce.
Nè oro nè argento in voi non luce,
CANZONE
La pastorella si leva per tempo
Menando le caprette a pascer fuora.
Di fuora fuora la traditore
Co' suoi begli occhi la m'innamora,
E fa di mezza notte apparir giorno.
Poi se ne giva a spasso alla fontana
Calpestando l' erbette tcnerellc,
(0) tencrellc galanti e belle,
Sermollin fresco, fresche mortelle,
E 1 grembo ha pìen di rose c di viole.
Poi si sbraccia e si lava il suo bel viso,
Le man, la gamba, il suo pulito petto,
Pulito petto con gran diletto
Con bianco aspetto.
Che ride intorno intorno (o) le campagne
E mal vestite, e parete angìolelle.
Ben si posson doler vostre bellezze,
Poi che fra valli e monti le mostrate
Chè non è terra di si grandi altezze,
Che voi non foste degne ed onorate.
Ora mi dite se vi contentate
Di star nell' alpe cosi poverelle ?
Più è contenta ciascuna di noi
Gire alia mandria drieto alla pastura.
Più che non fate ciascuno di voi
Gire a danzare dentro a vostre mura.
Ricchezza non ccrchlam nè più ventura.
Se non be’ fiori, c faccialo grillandone.
E qualche volta canta una canzona.
Che le pecore balla c gli agnelletti;
E gli agnelletti fanno i scambietti,
Cosi le capre con li capretti,
E tutti fanno a gara ( o ) le lor danze.
E qualche volta in sur un verde prato
La tesse ghirlandcttc (o) di bei fiori,
(0) di bei floridi bei colori,
Cosi le Ninfe con li pastori,
E tutti imparan dalla pastorella.
Poi la sera ritorna alia sua stanza
Con la v incastra in man discinta e scalza,
Discinta e scalza
Ride e saltella per ogni balza.
Così la pastorella passa il tempo.
IRREGOLARE.
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LA BRUNETTA.
CANZONETTA ZINGARESCA.
La brunetti!» mia
Con l'acqua della fonte
SI lava 11 di la fronte,
E ’l seren petto.
In bianco guamelletto
Umilmente conversa.
Solimalo, nè gersa
Non adopra.
Non porla che h copra,
Balze, scuffie e gorgere,
Come voi, donne altere
E superbe.
Una grillanda d’erbe
Si pone all’aurea testa,
E va leggiadra e presta
E costumata.
E spesso ne va alzata
Persili quasi al ginocchio,
E con fesievol occhio
Sempre ride.
S'i’ la guardo non stride
Come queste altre ingrate ;
È piena d’ onestate
E gentilezza.
Con tal delicatezza
Porta una vetta rella
Di sopra la cappella
Che m' abbaglia.
Alcuna fiata scaglia
Da me non per fuggire,
Ma per farmi languire
E poi ritorna.
Ohimè! eh' è tanto adorna
La dolce Brunettina,
Che pare un fior di spina
A primavera.
Beato chi in lei spera,
E chi la segue ognora,
Beato quel che adora
Le sue guance.
Che dolci scherzi e dance
Porgon que’ due labbretti,
Che paion rubinetti,
E (raganelle!
Le piccole mammelle
Paion due fresche rose
Di maggio gloriose
In sul mattino
Il suo parlar divino
Spezzar farebbe un ferro :
Son certo ch’io non erro
E dico il vero.
Dà luce all’cmlspero
La mia brunellucda,
E con la sua boccuccia
Piove mele.
È saggia ed è fedele.
Non si cornicela, o sdegna.
Qualche fiata s' ingegna
DI piacere.
Quand' io la vo a vedere
Parla, ride e molleggia,
Alior mio cor vaneggia,
E tremo tutto.
Ohimè, che mi ha condutto!
Che s' i’ la sento un poco
Divento un caldo foco
E poi m'agghiaccio.
E molto più disfaccio
S'i’ veggo le sue ciglia
Minute a maraviglia ;
Oh elei ch’io moro!
I suoi capelli d'oro,
I denticeli! mondi
Bianchi, politi e tondi
Mi fan vivo.
Io son poi del cor privo
S'io la veggio ballare,
Cliè mi fa consumare
A parte a parte.
Non ho Ingegno, nè arie
Ch’io possa laudarla,
Ma sempre voglio amarla .
Infin a morte.
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474
POESIA PASTORALE.
LORENZO DE’ MEDICI.
APOLLO PASTORE.
È un monte in Tessaglia detto Pindo,
Più celebrato gii dai sacri tati , [do.
Ch' alcun chesàadai vecchio Atlante all’ ln-
Alla radice T erba e' fior beo nati
Bagnan Tacque d'un fonte chiare e vive,
Rigando allor fioretti e verdi prati.
Poi non coutente a cosi strette rive
Sispargon per un loco, che mai vide
Il Sol più bello, o ti' alcun più si scrive.
Penco è il fiume, e ’i paese, che ride
Dintorno, i detto Tempe, una pianura,
La qual il fiume egualmente divide.
Cigne una selva ombrosa , non oscura,
Il loco, piena di silvestre fere,
Non inimicbe alla nostra natura.
Yarj color di fior si può vedere ,
Si vaghi che convieu , che si ritarde
Il passo vinto dal novel piacere.
Quivi non son le uotti pigre o tarde.
Me il freddo verno il verde asconde, o cela,
Ovvcr le frondi tenere riiarde.
Nè T aer nubiloso ivi congela
Il frigido Aquilon , nè le corrente
Acque ritarda il ghiaccio, o i pesci vela.
Del Sirio can la rabida non si sente ,
Nè par eli’ a terra 1 fior languenti pieghi
L’ arida arena , anda e smelile.
Nè si fende la terra , acciò die i prieghi
Suoi vengano all' orecchie di Giunone ,
Che Tacque disiale più non rileghi.
Eterna primavera una stagione
Sempre è ne’ lochi dilettosi e belli ,
Nè per volger di cielo ban mutazione ,
Le frondi sempre verdi , e i fior novelli.
Come producer eterna primavera suole
Di primavera il canto degli uccelli.
Febo ancor anta il loco , e ancor cole
Il laur suo, se gli è, qual meraviglia,
Se’l verno temprato, e mcn caldo è 11 Sole 7
Del padre ambe le rive occupa c piglia
Dafni , e talor piangendo crescon T onde.
Tanto clic toccali pur l'amata figlia.
Nell' acque all’ ombra delle sacre fronde
Cantan candidi cigni dolcemente :
L’ acqua riceve il cauto , e poi risponde.
Poiché le frondi amò sempre virenti
Febo, lasciare il foutc pegaseo
I cigni , c ’i canto loro or qui si sente.
Sopra ad ogn’ altro loco Apollo deo
Questo amò in terra dal surgelile fonte.
Fin dove perde il nome di Pcneo.
Ma più dopo T eccidio di Fetonte,
Glie lui per la vendetta dei suo figlio
Fece passar a Sleropc Acheronte.
Onde irato il Rctlor del gran conciglio,
Per punir giustamente il grave errore ,
Gli diè del Citi per alcun tempo miglio.
Allora abito prese di pastore;
Ma poca differenza si comprende
Dalla pastoral l'orma al primo ooore.
L’ arco sol , che da' sacri omeri pende ,
II quale gii esser aureo solea.
Ora è di nasso , c più splendor non rende.
Cosi l’aurata lira, ebe penile»
Dall' altro lato , gii nel suo bel regno
Di mazzero era, ed or più non Iucca.
L'eburneo pleure gii or è di legno;
Gli occhi spiravan pur un divin lume:
Questo lor non gli può chi nei fé’ degno.
Servano 1 biondi crini il lor costume;
Ma dove li premeva una corona
Di gemme , or delle fronde del suo fiume.
Cosi fallo pastor or canta , or suona ;
Or ambo le dolcezze insieme aggiunse
Talor con Dafne, con Peneo ragiona.
Sentili» Pan un giorno, e poiché giunse
Dove era , disse : Che si ben cantassi , [se.
Pastor mai guardò armenti, o vacche mun-
E convcrria che Uveo un di certassi ;
Ma a ine Dio sana ccrlar vergogna
Con chi osserva degli armenti i passi.
Clnzio pastor a lui : Non ti bisogna
Questo riguardo aver, chè la mia lira
Cosi degna è come la tua zampogna.
Se non conosci il canto , gli occhi mira.
Conobbe Pan colui che adora Deio,
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A75
APOLLO PASTORE.
Per lo splendor, che da’ santi occhi spira.
Ed or con molto più ardente reio
Canto, disse, colui eh' Arcadia renerà.
Poi eh’ è ciascun ahitator del Cielo, [ra:
E Delio : Questo in me gran piacer gene-
Contento son : così ciascun s' assise
Sopra l’erba fiorita e verde e tenera.
All’ ombra di Siringa Pan si mise,
Chè dello antico amor pur si ricorda :
Ella si mosse , e quasi al canto arrise.
Tempera e scorre allor ciascuna conia
Apollo all' ombra del suo lauro santo:
Pan le congiunte sue rampogne accorda.
0 bella Ninfa , eh’ lo chiamai già tanto
Sotto quel vecchio faggio in vallcombrosa,
NO tu degnasti udir il nostro canto;
Deh non tener la bella faccia ascosa ,
Se gli arditi desir gii non son folli
A voler recitar si alta cosa.
lo te ne prego per gli erbosi colli.
Per le grate ombre, e pel surgeliti fonti ,
Cli' hanno I candidi piè tuoi spesso molli ;
Per gii alti gioghi degli alpestri monti,
Per le leggiadre tue bcllerre oneste,
Per gli occhi , e quaì col Sol talor affronti ;
Per la candida tunica, che teste
L’ eburnee membra tue , pel capei biondi,
Per l’erbe liete dal piè scalzo peste;
Pergliantri ombrosi, ove talor t' ascondi,
Pel tuo bell’ arco, qual se fossi d'oro ,
Parresti Delia fra le verdi frondi.
Ninfa ricorda , che versi già foro
Cantati dagli Dei, perchè convenne
Ciascuna Ninfa per udir costoro.
Peneo il corso rapido ritenne,
Misson gli armenti il pascer in obblio.
Troncò II canto agli uccei le leggicr penne,
E Fauni per onor del loro Dio ,
Ciascun Satiro venne a quel concento,
Fermossi , delle fronde il mormorio.
Pan dette allora 1 dolci versi al vento :
Diva nell’ Inquieto mar creata.
Fosti tu causa al siculo pastore
DI morte , o la prole impia da te uata.
Certo tu fosti , anzi il tuo figlio Amore ,
Anzi lu empia, e lui crudel li desti
Vana speranza tu , lui cicco ardore.
E tu qual delle Furie togliesti,
0 Cupido il venen? forse lo strale
Nelle schiume di Cerbero intingesti.
Crudel , come potesti tanto male
Guardare, c morte tanto acerba e rea
Cogli occhi asciutti , e sei Dio immortale?
Se ’l consenso vi fu di C.itcrea ,
10 stimo ornai i suoi numlni vani ;
Se non son, tu non se' figliuol di Dea;
Anzi ti partorir li gioghi strani
Del nivoso Caucaso, e ’n duri sassi
11 latte tl nutrì di tigri ircani
Crude nutrici , e superar li lami
Da si crude nutrici di pietale.
Pianser loro, ed il cor tuo dura «lami.
Fur le pilose guancic allor rigate
Da' primi pianti , e lagrime novelle
Dagli ocelli feri avanti non gustate.
Ma voi dove eravate , o Ninfe beile ,
Allor che dette gli ultimi lamenti
Dafni chiamando le crudeli stelle?
Dafn’ amator delle selve virenti,
Dafni onor del mio regno, a me più grato,
Ch' alcun pastor, che mal guardasse ar-
manti.
Ah Dafni, Dafni .quant' bai ben guardato
Gli armenti, e mal le stesso! ma chi puote
Fuggir però l' inesorabii fato?
Chi puote ostar alle costanti ruote,
E pregando piegar l’empie sorore,
O bagnando di lagrime le gote?
Chi può fuggir. Cupido il tuo furore?
Siringa sai , quanto al seguir leggieri
Fe’ giù i mici piè, bcucb'atepiii tUimora.
Poiché non fe’ pietosi I duri imperi
Dafni colla sua morte , alcuno amante
Trovar pietà in Amor giammai non speri,
Empieron le s;>e!onehc tutte quante
DI muggito i leon,e pianto tristo
Suborno i sassi , e le silvestre piante.
Llcaon, lagrltnar mai non più visto,
Ne pianse, e que’ di cui la forma prese
Col figlio già la gelida Calisto.
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POESIA PASTORALE.
SANNAZZARO.
ARCADIA.
ERGASTO sovra la sepultura di Androgco.
Alma beata e beila ,
Che da' legami sciolta
Nuda salisti ne’ superni chiostri ,
Ore con la tua stella
TI godi insieme accolta ;
E lieta Ivi schernendo 1 pensler nostri ,
Quasi un bel Sol ti mostri
Tra li più chiari spirti;
E col vestigi santi
Calchi le stelle erranti ;
E tra pure fontane e sacri mini
Pasci celesti greggi ,
E I tuoi cari pastori Indi correggi ;
Altri monti, altri piani,
Altri boschetti c rivi
Vedi nel Cielo, e più novelli fiori :
Altri Fauni c Silvani
Per luoghi dolci, estivi
Seguir le Ninfe in più felici amori.
Tal fra soavi odori
Dolce cantando all'ombra,
Tra Dafni e Melibeo
Siede II nostro Androgco ;
E di rara dolcezza il Cielo ingombra ,
Temprando gli clementi
Col suo» de' novi , inusitati accenti.
Quale la vile all’olmo,
Ed agli armenti il loro ,
E l' ondeggianti biade a’ lieti campi;
Tale la gloria e ’l colmo
Fostù del nostro coro.
Ahi cruda Mone, e chi Da che ne scampi,
Se con tue fiamme av vampi
Le più elevate cime?
Chi vedrà mai nel mondo
Paslor tanto giocondo ,
Che cantando fra noi si dolci rime ,
Sparga il bosco di fronde ,
E di bei rami induca ombra sull* onde !
Pianser le sante Dive
La tua spietata morte ;
I fiumi il sanno c le spelunclie e i faggi :
Pianser le verdi rive ,
L’ erbe pallide e smorte ; »
E’1 Sol più giorni non mostrò suoi raggi :
Nè gli animai selvaggi
Uscirò In alcun prato ;
Nè greggi andar per monti.
Nè gustaro erbe o fonti ;
Tanto dolse a ciascun l' acerbo fato :
Tal che al chiaro ed al fosco,
Androgco Androgco sonava il bosco.
Dunque fresche corone
Alla tua sacra tomba ,
E voti di bifolchi ognor vedrai ;
Tal che in ogni stagione.
Quasi nova colomba ,
Per bocche de' pastor volando andrai ;
Nè verrà tempo mal.
Che ’l tuo bel nome estingua ,
Mentre serpenti in dumi
Saranno e pesci in fiumi.
Nè sol vivrai nella mia stanca lingua;
Ma per pastor diversi
In mille altre sampogne e mille versi.
Se spirto alcun d' amor vive fra voi ,
Querele frondose e folte ,
Fate ombra alle quiete ossa sepolte.
OFELIA, ELENCO e MONTANO.
OFELU.
Dimmi, capra r novello, e non t’irascere,
Questa tua greggia eh* è counto strania,
Chi te la diè si follemente a pascere ?
ELENCO*
Dimmi , bifolco antico, e quale insania
Ti risospinse a spezzar l' arco a Clonico,
Ponendo fra’ pastor Unta zizzania ?
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ARCADIA.
OFELIA.
Forse fu aitar eh' lo vidi malinconico
Selvaggio andar per la sainpogna e I naccari
Che gl’ involasti tu , perverso erronico,
ELENCO.
Ma con Uranio a te non valsor baeearl,
Che mala lingua non t' avesse a ledere;
Furasti il capro , el ti conobbe ai zaccari.
OFELIA.
Anzi gliet vìnsi , ed el non volea cedere
Al cantar mio, schernendo il buon giudi do
D* Ergasto, che mi ornò dì mirti e d'edere.
ELENCO.
Cantando tu ’1 vincesti ? or con Galicio
Non udì’ io già la tua sampogna stridere
Come agnel eh 'è menato al sacrificio?
OFELIA.
Cantiamo a prova, e lascia a parte il ride-
Pon quella lira tua fatta di giuggiola : [re :
Montan potrà nostre question decidere.
ELENCO.
Pon quella vacca che sovente mtiggiola ;
Ecco una pelle, e due cerbiatti mascoii
Pasti di timo e d’acetosa luggiola.
OFELIA.
Pon pur la lira, ed io porrò duo vascoll
DI faggio, ove potrai le capre mungere;
Chè questi armenti amia matrigna pascoli.
ELENCO.
Scuse non mi saprai cotante aggiungere,
Ch' io non ti scopra : or ecco il nostro Eu-
genio: [gere.
Far non potrai si, ch’io non t’abbia a pun-
OFELIA.
Io vo'Montan, ch’è piu vicino al senio ;
Chè questo tuo pastor par troppo ignobile.
Nè credo ch’abbia si sublime ingenio.
ELENCO.
Vienne all' ombra, Montan ; chè l’ aura
mobile
Ti freme fra le fronde, e ’l fiume mormora :
Nota II nostro cantar qual è più nobile.
OFELIA.
Vienne, Montan , mentre le nostre tar-
merà
Ruminan l’erbe, e i cacciator s'imboscano.
Mostrando ai cani le latebre e l' ormora.
«ONTANO.
Cantate, acciocché 1 monti ornai cono-
scano
Quanto! secol perduto in voi rinnovasi ;
Cantate fin che i campi si rlnfoscano.
*77
OFELIA.
Montan, costui che meco a cantar prova-
Guarda le capre d' un pastor erratico, [si,
Misera mandra, che’n tal guida trovasi !
ELENCO.
Corbo malvagio, orsa echio aspro e sali a-
Cotesla lingua velenosa mordila (ileo,
Che trasportar si fa dal cor fanatico.
OFELIA.
Misera selva, che coi gridi assordila:
Fuggito è dal romore Apollo e Delia.
Getta la lira ornai, clic indarno accordila.
MONTANO.
Oggi qui non si canta, anzi si prelia :
Cessate ornai, per Dio, cessate alquanta :
Comincia, Elenco, e tu rispondi, Ofelia.
ELENCO.
La santa Pale intenta ode il mio canto ,
E di bel rami le mie chiome adorna,
Chè nessun altro se ne può dar vanto.
OFELIA.
E’1 semicapro Pan alza le corna
Alia sampogna mia sonora e bella ,
E corre e salta e fugge e poi ritorna.
ELENCO.
Quando talora alia staglon novella
Mugno le capre mie, mi scherne e ride
La mia soave e dolce pastorella.
OFELIA.
Tirrena mia coi sospirar m’uccide.
Quando par che ver me con gli occhi dica :
Chi dal mio fido amatile or mi divide ?
ELENCO.
Un bel colombo in una quercia antica
Vidi annidar poc'anzi; il qual riserbo
Per la crudele ed aspra mia nemica.
OFELIA.
Ed io nel bosco un bel giovenco aderbo
Per la mia donna ; Il qual fra tulli 1 tari
Incede con le corna alto e superbo.
ELENCO.
Fresche ghirlande di novelli fiori
I vostri altari, o sante Ninfe, avranno,
Se pietose sarete a’ nostri amori.
OFELIA.
E tu , Priapo , al rinnovar dell' anno
Onoralo sarai di caldo latte ,
Se porrai fine al mio amoroso affanno.
ELENCO.
Quella che in mille selvee’n mille fratta
Seguir mi face Amor, so che si dole,
Benché mi fugga ognor, benché s’applattc.
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POESIA PASTORALE.
4T8
OFELIA.
Ed Amaranti mia mi strìnge e sole
Ch' io por le canti all'usdo ; e mi risponde
Con le sue dolci , angeliche parole.
ELENCO.
Filttdaognormi chiaina,e poi s'asconde,
E getta un pomo , e ride , e vuol gl* ch'io
La reggia biancheggiar tra verdi fronde.
OFELIA.
Anzi Killkla mia m' aspetta al rio,
E poi m’ accoglie si soavemente ,
Ch’io pongo il gregge e me stesso ’n obblio.
ELENCO.
11 bosco ombreggia ; e se'i mio Sol pre-
sente
Non vi fosse or, vedresti in nova foggia
Secchi 1 fioretti e le fontane spente.
OFELIA.
Ignudo è il monte, e più non vi si poggia ;
Mase'l mio Solvi appare, ancor v filmilo
D' erbette rivestirsi in lieta pioggia.
ELENCO.
0 casta Venatrice, o biondo Apollo ,
Fate eh’ io vinca questo alpestre (lacco ,
Per la faretra che vi pende al collo.
OFELIA.
E tu , Minerva , e tu celeste Bacco ,
Per l' alma vite, per le sante olive ,
Fate eh’ io porli la sua lira al sacco.
ELENCO.
Oh s’ lo vedessi un fiume In queste rive
Correr di latte ; dolce il mio lavoro
In far sempre fiscelle all’ ombre estive !
OFELIA.
Oh se queste tue corna fussen d’oro ,
E ciascun pelo molle e ricca seia ,
Quanto t’avrei più caro, o bianco toro!
ELENCO.
Oh quante volte vien gioiosa e lieta ,
E stassi meco in meno ai greggi mici
Quella che mi diè in sorle 11 mio pianeta !
OFELIA.
Oh qual sospir ver me move colei
Ch* io sola adoro ! o Venti . alcuna parte
Portatene all’ orecchie degli Del.
ELENCO.
A tela mano, a te l'ingegno e l’arte,
A te la lingua serva , o chiara Mafia:
Gih sarai letta in più di mille carte.
OFELIA.
Ornai ti pregia , ornai li esalta e gloria ;
Ch’ ancor dopo raill’ anni In vhm fama
Eterna fia di te qua giù memoria.
ELENCO.
Qualunque per amor sospira e brama.
Leggendo I tronchi ove segnata stai.
Beala lei , diri , che'l Cieli anfani*.
OFELIA.
Beata te , che rinnovar vedrai
Dopo la morte il tuo bel nome la (eira;
E dalle selve al Ciel volando andrai.
ELENCO.
Fauno ride di le dall’ alta serra
Taci , bifolco ; chè , s' io dritto estimo ,
La capra col leon non puù far guerra.
OFELIA.
Corri , cicala , in quel palustre limo ,
E rappclla a cantar di rana in rana;
Chi fra la schiera sarai forse il primo.
ELENCO.
Dimmi, qual fera i si di mente umana ,
Che s’inginocchia al raggio della Luna,
E per purgarsi scende alla fontana?
OFELIA.
Dimmi, qual è l’uccello il qual raguna
I legni in la sua morte , e poi s’accende,
E vive al mondo senta pare alcuna!
■ONTANO.
Mal fachlcontraalClelpugnaoconten-
Tempoi già da por fine a vostre liti; [de :
Clii’l saver pastora! più non si stende.
Taci , coppia gentil ; chi bea graditi
Son vostri accenti in ciascun sacro bosco;
Ma temo che da Pan non siano uditi.
Ecco, ai mover de' rami il riconosco.
Che torna all' ombra piend'orgogiioe d'ira
Col naso adunco afflando amaro tosco.
Maquel facondo Apollo, il qual v’aspira.
Abbia sol la vittoria; e tu , bifolco.
Prendi i luo’vasì ; etu, caprar.ia lira: fco.
Che'l Ciel v’accresca come erbetta in sol-
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MOLZA
LA NINFA TIBERINA.
La bella Ninfa mia , eh' al Tebro onora
Col piè le sponde, e co' begli occhi alfrena
Rapido corso allor elle discolora
Le piaggie il ghiaccio . con sì dolce pena
A seguir le sue orme m' innamora ; [ua,
Ch' io piango e rido, e non la scorgo appe-
Ch'io scopro in lei mille laglicaie ascose,
Ed entro all' alma un bel giardin di rose.
E se non che acerbetta mi si mostra ,
E troppo incontr'amor aspra e fugace;
Dietro il bei piede che ie ripe inuoslra
Avrebbe l'alma interamente pace;
E fuor In tutto d’ ogni usanza nostra
Sormonteria dov' or languendo giace :
Ha sempre insieme mi si scopre e fugge ,
Ed invisibilmente mi distrugge.
E pur che giri gii occhi o 'I passo mova,
Aprile e maggio ovunque vuole adduce :
Chè sua mercede ratto si rinnova
Quella virtù che dentro ai fior traiuce :
Come nel guardo del fratei suo , nova
Forza racquisla la notturna luce :
Pur ciò che piova da quei dolci rai ,
Primavera per me non fu ancor mai.
Chè par ebe seco scherzi la Natura,
E pugnin spesso per udirla 1 Venti :
Ella di ciò non altrimenti cura.
Che di numero il lupo infra gli armenti ,
0 delie ripe il fiume : cosi pura
Le grazie di’ ha d'tulorno ognor presenti
Poco sente e gradisce : e lieta e vaga
Sol di sè stessa , sè medesma appaga.
Nè rugiada già mai fresca di notte ,
Quando la Luna i campi arsi rintegra,
E l’assetate piaggie e dal Sol rotte
Cuopre d'argento, e i sacri buschi allegra,
A Giove l’ erbe a supplicar condotte
Cosi ristora , e rende ogni ombra integra-,
Come la chiara vista o '1 vago piede
Di questa die nel cor mio regna e siede.
Velloso armento che bel prato pasce ,
Ov’ ella di sedersi ha per costume ,
Quanto più rode più , tanto rinasce
D’erboso e vago per si chiaro lume-,
Tal valor portò seco dalle fasce
Questa fenice dall' aurate piume :
Dunque , pastori , ornai casti e divoli
Porgete a lei , e non a Pale i voli.
Chè potrà quella terra di leggiero
Ch'ella col piede pargoletto preme.
Risponder largo ad ogni avaro impero,
E colmar dei bifolchi ogni alla speme :
Chè fioriran per qualunque sentiero
Via maggior frutti die non porta il seme;
Nè potrò danneggiar grandine o belva,
0 di loglio o d' avene orrida selva.
Nè perchè T verno i solchi aspro no*
0 la sementa non olTcnda il gelo , [rompa,
Nè per continua pioggia si corrompa
Sovra l' umido suo terrestre velo ,
Accolti in lunga e coronata pompa
Sparger i preghi vi Oa d'uopo al Cielo:
Chè questa con la vista umile e piana.
Ogni altra indigniti vi fa lontana.
Dunque duo aitar sulla più verde sponda
Uno a Poinona, ed uno a lei sacrate:
E quei cospersi pria di iucid’ onda ,
Cantando, U suo bel nome al Ciel portate
Tal d’ogni antro d' intorno vi risponda,
E suoni il lito l'alta sua beliate:
U' Dainnn co' bei versi inviti Urico,
E i Satiri saltando Alfesibeo.
Altri nudo le braccia orride e forti
A lodar coraggioso si prepari :
Altri voi lauri e mirti insieme aitarti.
Poi die posti in tal guisa arabi e cari
Odor giungete, alle sacre are apporli,
E fiori mieti amorosctti e rari :
Altri del fiume le sacre onde buatte
A lei sparga di caldo e bianco latte.
Io dicci pomi di fio oro eletto,
Ch'a te pendevan con soave odore
Simil a quel die dal tuo vago petto
Spira sovente , onde si nutre amore ,
Ti sacro umili-, c se u’ avrai diletto;
Domai: col novo gioruo uscendo fuore.
Per soddisfar lu parie al gran desio.
Altrettanti cogliendo a te gl invio,
E d' divo una uzza eh' ancor serba
Quel puro odor che giù le diede il torno:
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POESIA PASTORALE.
Nel mezzo a cui si vede In vista acerba
Portar smarrito un giovinetto il giorno :
E si 'I carro guidar, eh' accende l’ erba ,
E fin al Tondo i fiumi arde d' intorno.
Stolto, che mal tener seppe il viaggio,
E T consiglio seguir fedele e saggio.
Ecco Giove che in Ciel fra mille lampi
Dì folgorando il segno, e lo percuote:
Ecco i destrier per gli arenosi campi
Fuggir turbati a parti più rimole,
Lì dove par che minor fiamma avvampi.
Cosi dal carro ardente, e dalle ruote
Cadde il misero in Po nel fumo avvolto,
Tardi pentito deli' ardir suo stolto.
L'umor che col cader ci frange e parte
Lì 've più molle ha T re de’ fiumi il piede,
Rassomiglia si ’i ver, che dirai l’arte
Quivi d’ assai pur la Natura eccede,
Con si alto saper l’opra comparto.
Che chi si fosse che tal pegno diede
Del saggio ingegno suo chiaro e gradito,
E mosse a fama gloriosa ardito.
Dall' altra parte ov’ è intaglialo il pianto
Che fan le sue dolenti e pie sorelle,
Lungo il gran fiume ovo si doiser tanto,
Che T cordoglio n’andó sovra le stelle:
Onde, cangiato il lor corporeo manto,
I.e vaghe membra, e le chiome irte e belle,
Come il Ciel per pietà dispose e volse ,’
Tenera fronde e duro legno avvolse.
Le braccia in rami andarno, in fronde il
E i piedi diventar ferme radici : [crine ,
Cotal ebbe il lor pianto acerbo fine.
E le luci gii sante alme beatrici ,
E le polite membra c pellegrine,
Ch'altri sperar godendo esser felici,
Per divina sentenza in breve forza,
Un’amara converse e dura scorza.
Indi poco iontan sovra un gran sasso
Cui verde musco d’ ogni intorno appanna,
Con gli occhi fitti giù nell' onda al basso ,
E in man tenendo una tremante canna.
Canuto vecchio, c per molti anni lasso,
Con l'amol pesci d’ allettar s' affanna,
Vero argento pareggia, a chi ben mira
La preda eh’ allo scoglio aduna e lira.
Di tanto dono invidiosa Charme
Di trarloml di man pon'ogni ingegno;
E forse lo fari ; perché d' amarme
Talor mi mostra pur non picciol segno.
Non come tu ’l mio vii, ruvido carme ,
Quand’ io canto d' amor, si prende a sde-
Anzi meco seder non si vergogna, [gno:
E porsi al collo questa mia sampogna.
Pan che T governo ha delle gregge in ma
E i pastor cura con pietà severa, [no.
Del calami ch'amò già in corpo umano
Congiunse prima una forbita schiera.
Che decrescendo vien di mano in mano ;
E quella avvinta di tenace cera
Portò cantando al Ciel con salde penne
Siringa che per lui canna divenne.
Con questa in mezzo ai prati in Aracintt
Cantando fe’ gli armenti già Anflone
Obbliar l’ erbe ; e ’n mille nodi avvinto
Sileno espose ad altri la cagione
Perchè fu ’1 mondo come appar distinto
In tante forme ; c qual ferma stagione
Faccia forza e s’opponga al giorni tardi-
E sian gli altri veloci più che pardi.
Ha tu che sacra già gran tempo pend;
Da questo ombroso pino orrido c folto ,
Fistola mia , a lodar meco scendi
Le chiome d’oro e l'onorato volto:
E l’intermesso suono orsi mi rendi,
Ch' Orfeo e Lino io non lnndìi molto;
Poi gli orecchi di lei percuoti in modi
Che ’l cor le scaldi , Intenerisca e snodi
Quanto l' elei frondose alto 11 lenlisco
Eccede, e’1 salce la pallida oliva
E quanto i sacri lauri il verde ibisco
Onde questa verdeggia e l'altra riva;
Tanto al volto di lei eh’ amo e gradisco ,
Cede d’assai qual più famosa viva.
Ma perchè lingua non le noccia infetta ,
A lei , Ninfe , le chiome ornate in fretta.
E di beccare e d' erbe altre seccete ,
A noi secrcte , a voi palesi e conte ,
Un leggladrelto cerchio le tessete,
Che I crin le avvolga e la serena fronte :
E mentre erra fra voi , si raccogliete ,
Ch’Insieme venga a più riposto fonte :
E vegga, acceso da’ suoi lumi santi,
Stupir di voi il coro a sè davanti.
Forse dall'alta vostra maraviglia
Aprendo gli occhi a si beati pregi
Co'quai sè stessa e null’altra somiglia
Terrà più cari i suoi perfetti fregi :
E diri con tranquille e liete ciglia :
Perchè lumi si chiari alti ed egregi,
Celar altrui ? Chè sè non fosser miei ,
Amarli io stessa più eh' altro vorrei.
E poi ch’avrà di sè quel tanto appreso .
Che in parte di pletì la faccia amica;
Lo sdegno deporrì : chè al cor acceso
Voglia le ticn d'amor troppo nemica.
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LA NINFA
E me che tanto ha col fuggir offeso
Prenderà in grado, ed ogni mia fatica;
E tolta dentro agii amorosi baili ,
SC stessa incolperà degli altrui falli.
E dove come certa eh’ erra e pavé
Lontana dalla madre , a me s' invola ,
Talor pur mostrerà che non le aggrave
Di non star sempre neghittosa e sola :
E quel che fatto mai sin qui non ave.
Forse risponderà qualche parola :
E me togliendo a cosi duro scempio ,
Al Clel innalzerà con nuovo rsempio.
Lascia, Ninfa gentil, le sponde erbose
Stringer all' acque, c quelle girsi al mare,
E le pioggic vicine alme e vezzose
Vieni col vago aspetto a rallegrare :
Quivi le piante più che altrove ombrose,
E l’ erba molle e ’l fresco dolce appare :
Ma mentre tardi , quanto apre e rinverde,
Tutto col tuo tardar si secca e perde.
Quivi fra verdi frondl c rivi amati
Susurrar s’ odon l’ api a mille a mille ;
E dalle siepi agii alv ei lor cavati
Portano sughi , onde poi mel ne stille:
Ridono) campi e in mezzo i verdi prati
Ogni tenero fior par che sfavine :
E perchè dolcemente altri sempr’ami,
L’ acque parlan d'amor c l’ora e i rami.
A te di bei corimbi un antro ingombra,
E folto indora d' elicrisi nembo ,
L’edera bianca ; e sparge si dolce ombra ,
Che tosto tolta alle verdi erbe in grembo
D’ ogni grave pensler te n’ andrai sgombra:
E sparso a terra il bel, ceruleo lembo,
Potrai con l'aura ch'ivi alberga il colle.
Seguir securo sonno dolce e molle.
Troppo credi c commetti al torto lido,
Espesso scendi acontemplar quest' acque:
Nè ti sovvicn del gran pubblico grido
Che Marte costassù con Ilia giacque :
Da indi In qua non fu securo o fido,
Knuovi inganni ordir sempre gli piacque :
Dunque fuggi dal lido , e l’ onda sprezza ;
Nè ti furi da noi falsa vaghezza.
Il Tebro l'asta e’i mal gradito scudo
Vide restarsi con vergogna in terra:
K senza arnese riconobbe ignudo
Lui che di sangue sol si pasce e guerra :
E benché sia di cor selvaggio e crudo.
Pur da lui vinto eh' ogni altezza atterra,
A due lumi l'udii far di sè dono ,
E voce dar senza intelletto e suono.
E aedi che spesso dalla greggia errando
TIBERINA. 4SI
Ivi qualche monton per doglia tresche,
E come amor lo tien di pace in bando
A far nuova battaglia si rinfresche.
Cosi getta nell’acque altri cozzando:
Del fiume Tirsi il suo anco rlpesche.
Ecco che i velli secca umido tutto;
Colai di troppo ardir si miete frutto.
Che pianto fora il tuo, tu che si avverrà
A me ti mostri perchè irsuto ho il mento,
E folto ii ciglio; se dove si versa
Più largo il fiume, e corso ha cupo e lento.
Un giorno ti sentissi alto sommersa
E data in preda a cento mostri e cento .’
A cui le fronti orride corna , e insieme
DI sanne una gran selva ingombra e preme.
In mczzoilTebro dei gran fondoabbrar-
Ampj spazj col ventre e con le spalle : [eia
Li cui gran piedi e le distorte braccia
Alberga or questa ed or quell'aura valle :
Gaggio» dai mento e dall' ondosa farcia
Fiumi , eh' ei porta con obliquo calle
Fin dov’ci bagna del figliuol di Marte
L’ antiche mura , e '1 suo tosor comparte.
Nè tra gli armenti di Nettuno alberga
In vista mostro si superbo, o (oca ,
Quando Proteo che tien di lor la verga
Li conta , e poscia per dormir si loca :
Ed or in acqua par che si disperga ,
Or arbore diventa , or tutto infoca;
E perchè girgli appresso altri non prove,
In varie forme si trasforma e nove.
Ma tu, se 'I suo bel rio già mai non volva
Acque men chiare, e di minor orgoglio,
E in nettar ogni vena si risolva,
Nè il corso intoppo ti ritardi o scoglio
E s' altri a dir d’ amor la lingua solva ,
Le pure arene tue le Tacciai: foglio :
A questa vaga Ninfa e pellegrina ,
A questa ogni furor e l’ onda inchina,
E quando con la face alma e diurna
Esce la greggia dal suo chiuso ovile.
Premendole del capo il sommo l’urna,
S’ ella a te scende, con sembiante umile
Tosto le bacia la man bianca eburna ,
E contra il corso del natio tuo stile,
Di mele ingombra ogni sua falda e seno,
Si che ’l vaso ne tragga umido e pieno.
Si direm poi come oltre ciò clie’l fato
Di duo vagiti fanciulli aspro reggesse,
Cortese il rivo tuo mostrassi e grato
E piegò l'onda sè medesma e presse;
Ch’ alle due sacre piante, in quello stato,
Ratto al gran letto ritornando cesse :
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482 POESIA PASTORALE.
Onde Roma poi nacque e ’l mondo vinse,
E te di palme gloriose cinse.
Chi stimar quel eh’ avvenne allor doves-
Che l’uno e T altro pargoletto lnfermo[se
Dalle mamme ferine umil pendesse ,
E in luogo isposto solitario ed ermo,
Come potea piangendo si dolesse ,
Altro che pianger non avendo schermo?
Pur da quel latte si formar le mura
Di cui la tema ancor e l’ amor dura.
Pietosa nell' aspetto ambidoi guarda ,
E col collo piegato al latte invita
La gentil lupa ; e di desio par eh’ arda
Di porger lor, come a* suoi figli, aita;
Così grazia dal Cicl non fu mai tarda,
Anzi sì allor girò larga, infinita,
Ch’ all' empie fiere col valor suo immenso
E all'acqua insieme die’ pietale e senso.
Questo un di forsc,chè troppo or ni’invo-
Da voi lontano, ombrosi e sacri boschi, [lo
E me stesso riprendo di tal volo ;
Credo, fistola mia , che tei conoscili :
Però tornando a lei ch* io adoro c colo ,
Cantiam fra verdi colli amici e foschi;
Chè degno ancor non son di sporrcal Caro
I versi miei , nò al Varchi ornato c chiaro.
Ambidui sono al cantar usi c pronti :
II Mincio provocar e 1’ Aretusa :
Conti sono ambulili, ambitine conti,
Mercò dell'alta sua silvestre Musa,
Che dalle selve spesso a chiare fonti
Sen fugge , c dallo stil che fra noi s’ usa :
SI che l'arme cantando c i degni eroi
Là vanno, ove di gir non lece a noi.
Pur le selve abitar non fu discaro
Ai Dei ed alla madre degli Amori :
Chè spesso col suo Adone amato c caro
Ignuda giacque fra’ più folli allori ,
E in Ida del suo amor superbo c chiaro
Fe’ il grande Anchise, e seco presse i fiori :
Dunque sci’ ombre seguo, e *1 fresco lodo,
Cagion n’ ho ben, poiché con lor mi godo.
L’ umido salce dopo il parlo aggrada
Alla feconda greggia, e Tacque brama
Ne' seminati campi a sò la biada,
I fiori T api , c il pellcgrin stanco ama
Ombrosa loggia dopo lunga strada :
Me dietro all' orme il desir vago chiama
Delia dolce ed amata mia nemica :
Riposo ed ora d’ ogni mia fatica.
Nè già mal alle spiche è sì molesto ,
Allor chc'l campo tutto biondo ondeggia.
Oscuro nembo, nè sì il lupo infesto
A paventosa e mal rinchiusa greggia.
Nè il vento ai fiori , quando irato e presto
Scuote ogni ricca pianta che verdeggia;
Come la peua mia alma m’ attrista
Con rei sembianti e con oscura vista.
Però tornando dagli avari colli
Cui il latte del mio ovll gran tempo premo,
E guido agnelli delicati c molli
Col desir onde al Sol più caldo tremo.
Seta le reco (o vani pcnslcr folli!)
Che’l crine av volga che lodando scemo :
Talor le porto una conocchia, quale
Minerva (stessa non sprezzasse a Pale.
Per tutto ciò dcbil soccorso porgo
Al dolor infinito clic m’ ancide : ygo)
Ch’ ella ^sc *! ver dentro a’ begli occhi scor-
Seco del mio languir gioisce e ride :
E se dal duol talor aspro risorgo.
Subito gli occhi da pietà divide :
E nel bel petto un cor di tigre o d’orsa
Mentre nasconde , ogni mio stato inforsa.
A Dafni impingua mille bianche agnelle
Questa del vago fiume sponda manca :
Ai calati di Meri c le fiscelle
In alcun tempo il latte mai non manca.
E quando avvicn che l’erba rinnovelle,
E quando le campagne il verno imbianca,
Or che sperar debb’ io d’ogni mio dono,
Ove tanti di me più ricchi sono ?
Quantunque perchè Dafni tenti e speri
Piacer con T agne a sì leggiadro viso ,
Od alti trarne mcn selvaggi e fieri
Creda Meri col latte , o solo un riso
Con Taglie Dafni, o eoi suo latte Meri,
Vinti ii’ andranno , c vati fia il lor avviso;
Tanto d’ ogni altrui don poco si cura
Questa vaga angiolelta umile e pura.
Sasseto Amor clic tanto indarno accuso,
E le chiare onde in cui lieta si specchia
L’amata Ninfa e bella oltre nostro uso,
E spesso nuovi oltraggi m’ apparecchia.
E tu che meco resti sì confuso,
Quanto d’ altra beltà mai nuova o vecchia,
Antico Tebro; c tardo più che puoi
Al mar len vai portando i raggi suol.
Troppo ( ben sai ) a me si mostra sorda,
Nè di tanti mici preghi un solo ascolta :
Nè sì presto mai stral uscio da corda.
Coni’ ella ratta per fuggir si volta : [da.
Nè iu questo del suo ingegno anco si scor-
cile fuggendo sorride alcuna volta :
Ed u ngc insieme e punge i 1 cor che Lingue,
E fugge al Ilio come a siepe l’angue.
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LA NINFA
Tal gii qual io mi stanco arso ed afflitto
Sotto iituo imperio. Amor, pianse ArUleo
Più volte indarno , e dal tuo strai trafitto
Accrebbe Tonde al fiume di Peneo ;
Ed or per cammin torto or per diritto
La moglie assalse del divin Orfeo ;
Ma poco ogni suo ardir e forra valse.
Si nulla del suo amor gii mai le carie.
Ella veloce più die tigre leve
Correndo , T erbe non offende o piega :
E quasi aura clic in alto si solleva ,
I piedi al corso e 'I crine al vento spiega :
E senza orma stampar , candida neve
Passa , quand’ altri più la segue o priega :
Cosi spesso giugnondo ale alle piante,
Scbernia crudel il poverello amante.
Egli di guardian di ricca torma.
Di die superbo usò mostrarsi pria ,
II viso per seguir ogni sua orma
Di pallor Unse e di sembianza ria :
Tal die cangiato dalla prima forma
A pena di caprar vista tenia :
Onde fatto crudel , e pietra vera ,
Trasse ver lui una divina schiera.
F u Pane il primo che d’ Arcadia venne,
Di minio il \ rio e d' cbuli sanguigno ,
Di gigli appresso , come si convenne ,
E di ferule adorno aito e guardiguo.
Venne Silvano, e grave duol sostenne
Vedendo! si turbato e si ferigno.
E qual freno all' amor , disse , porrai ,
Che di lagrime vive, c tu lo sai!
Venne Priapo , a cui tumido il collo
Facean le vene, c rosso Tira il naso :
Seco Mercurio qual gii trasformollo
In pastor Giove, quando d' lo fu ’l caso :
E dissor : Come il tuo desir satollo,
Pastor, vedrassi a pianger qui rìmaso,
S'eUa che tu desii , di piòta cassa.
Volando i fonti e le campagne passa?
Nè di rivo , che puro erri o si lagne ,
Prato gii mai quanto bastasse liebbe ,
Nè fronde fra le verdi , alme campagne
All’ unii! greggia in alcun tempo tncrebbe,
Nè i fior all* api , nè chi genie e piagne
Di render pago amor forza mai ebbe :
Anzi quanto più largo il pianto riede.
Tanto maggiortributo agli occhi ci chiede.
Non però dal voler suo fermo e saldo
Per consiglio d'altrui questi s’è mosso :
Nè d’amur brama il petioavor mcn caldo,
O pur dall' alma il grave giogo scosso :
Anzi fallo dal duol ardito e baldo
TIBERINA. 481
Ringrazia gli occhi and' egli fu pcruaw :
E T colpo loda e l’implacabil Parca
Per cui più cta’ altri onde turbale varca. .
Dunque le viti agli olmi non marita.
Che tanto amò con lungo ardine pone.
Nè a succeaslon la greggia invita,
E falci e castri parimente abborre :
Cosi con l’alma accesa c sbigottita.
Senza difesa far , al suo mal corre :
Errano tori senza guardia il giorno,
E fan soli la sera anco ritorno.
£ dove sormontar la soglia dura
Era si dianzi alle mammose schiere
tiravi di latte , clic soave e puro
Kecavan liete alle lor mandre altiere.
Or magre vanno, c con sembiante oscuro
Le pone provan del pastor suo fere.
E mandar cessan dalle poppe 1 fiumi.
Di carici pasciute Ispide e dumi.
L' api eh’ esser solean la maggior stima
Che lo premesse d' ogni suo lavoro,
Più non seggon de’ fiori in su la cima;
Chè ‘I pianto d' Aristeo, e '1 gran martora
Cangiate T ha dal lungo uso di prima :
E si innasprito è il dolce gusto loro ,
Ch' Indi distilla fosco mele amaro.
In vece di liquor soave e chiaro.
Nascon i tassi intorno agli utnil tetti ,
Nè cusia, nè serpillo o timbra sorge.
Nè pianta amica, eh' a schivar alletti
Il maggior caldo, le fresche ombre porge:
Pendono i fa\i scemi od imperfetti;
Ed ei che voti gli alvi c freddi scorge.
Seco del proprio danno ardendo gode :
Il fuco intanto l’altrui mensa rode.
I)’ Euridice sol l’ alta c chiara imago [de.
Con l’ alma quanto puote arde e comprai-
E ’n questa sospirando il cor ticn pago;
Nè l' infelice ad altra cura intende.
Talor, quando col carro ardente e rag»
Il giorno a noi portando Febo ascende,
flou gli occhi e con le man rivolle al Sole,
Scioglie la lingua quasi in tai parole t
Sole , die non pur l’ aspre mie fatiche,
E ’l mondo scorgi tutto a parte a parte ,
Ma quante fttron mai moderne c antiche
Opre conte boi senza voltar di carte,
E dote 1* ombra più la terra implicite,
E dove il raggio tuo più tardo parte.
Vedesti! mai pena si grave e ria.
Che posta col .mio duol giuoco non sia?
Tu , se forse non hai poste in obblio
I.’ aspre durezze dell’ amata fronde
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POESIA PASTORALE.
m
Ohe commosse gii un tempo II tuo disio,
Kd or verdeggia alle paterne sponde ,
Benigno ascolta il dolor empio e rio,
Polche nuli' altro al mio chiamar risponde:
Nembramlo Ciparlsso, e ’l ricco Admeto,
Di cui pascevi armento bianco e lieto.
Quante volte veggendoti la sera
Portar per la campagna una vitella,
Oangiossl in vista, e dove pallid'era.
Si fece rossa 1’ alma tua sorella !
E la sorte accusando iniqua e fera ,
In eie! mosse a pietà quasi ogni stella I
Però soccorri al mio gravoso scempio ,
Poiché d'amor mi sei si ricco esemplo.
Le v acche il suono, onde più volte a Gio-
Fall' hai l’ armi cader insieme e l’ ira [ve
Cantando le superbe, antiche prove
C.h’ Encelado e Tifco ancor sospira ,
Sovente udirò , c quel che più mi move,
Pose silenzio alla tua dolco lira t
Rompendo con muggiti aspri e diversi
Divini detti c non più uditi versi.
I)i giunchi allor fu la fiscella ordita
Per le lue mani , e’I sentier raro aperto
Al sero, che fra noi anco s'addita,
E presso il cascio in giro eguale e certo :
E si larga a' pastor porgesll aita,
Clic grido n’ avrà sempre il tuo gran merto:
E ’n ogni parte dove il latte geli ,
Non fia clic T tuo bel nome altri mai celi.
Ancor direi , ma troppo lungo fora
Questa selva sfrondar ov' io son messo:
Tu 'I sai, che qual verdeggia e qual Infiora
la; campagne del ciel rimiri spesso :
Or perchè al gran desio che m'innamora
(iiusto favor da te mi (la concesso ,
Rasti clic di Orcno il dolce foco
Qualche poco rimembri, e ’llempoe’l loco.
Parlava ancora, c parsesi facesse
Minor del Sul la luce alma e serena ,
E da bei raggi un lampo giù cadesse ,
Come sogllon cader quando balena,
Che 'I ciel in un momento trascorresse
Partendol si , che si scorgesse a pena :
Tal dal stellato manto ha per costume
Scuoter talor la notte un plcclol lume.
Ardilo amante e timido divenne,
E due parti di sè far in un punto [ne,
Senti Aristco, quando il gran danno av ren-
elle gli ebbe il cordi spemee timor punto;
Perchè l’ ali al disio spiegò e ritenne ,
Dal freddo in uno e dal calor compunto,
E rarte uditi furo i suol lamenti,
Parte per l'aria ne portaro i venti.
Alibi la speme discacciò il timore,
E da paura il cor gelato sciolse :
di' ardendo corse in signoria d' amore ,
E tutti i suoi pensier dietro a lui volse :
E'n breve spazio col fuggir dell'ore
Tanto di nuova fiamma in sè raccolse.
Ch'ali’ ultime sue pruove si dispose,
0 di non viver più seco propose.
Tesseva un cerchio leggiadretto e lento.
Che legge prescrivesse al vago crine ;
Quando ei, fra Ponile d' or ferendo il vento
Ondeggia ed erra sulle fresche brine ,
La vaga Ninfa, ed ecco In un momento
Le campagne gridar a lei vicine :
Euggi , fiamma gentil , degna d'Orfeo,
Fuggi dal pastor fiero : ecco Aristco.
Ella fuggendo , l’ odorata pioggia
DI che T grembo s’ avea tutto dipinto.
Per bella poscia in disusata foggia
Col crin mostrarsi fra I bei fiori avvinto,
Lascia cader : ed ove il fiume alloggia
Sul lito un bosco giovanetto cinto
Di schietti allori , drizza pronto il piede ,
ET cammin tien ebe più impedito vede.
La sotti! gonna in preda ai venti resta ,
E col crin ondeggiando addietro toma;
Ella più ch'aura o più che strale presta.
Per l’ odorata selva non soggiorna ;
Tanto che T lito prende snella e mesta ,
Fatta per la paura assai più adorna :
Tende Arlsteo la vaga selva anch'egli,
E la man parie aver entro i capegli.
Tre volte innanzi la man destra spinse
Per pigliar delle chiome il largo invito,
Tre volle il vento solamente strinse,
E restò lasso senza fin schernito.
Nè stanchezza però tardollo o vinse.
Perchè tornasse il pensier suo fallito ;
Anzi quanto mendico più si sente.
Tanto s' affretta, non che ’l corso alleino.
Come cervo talor fra l' acque chiuso,
0 da purpuree penne cinto Intorno ,
Ben mille vie ritenta al fuggir uso,
E quindi parte e quinci fa ritorno ;
ET veltro gira addietro a sè deluso,
E lunga pozza al eacciator fa scorno ;
Cosi al fuggir la bella Ninfa Intenta ,
Ogni aspra via per sua salute tenia.
Cinque giri finirò, e altrettanti
Ordir dì nuovo ritessendo il corso.
Anelando ambidui ; ma molto avanti
Ella pur fugge , c chiede al rio soccorso :
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486
LA NINFA TIDElllNA.
Quando all’uno 11 destili d'eterni pianti
Trovò cagione ; all’altra die’ di morso
Nel lior de’ primi suoi giovcnil anni ,
Mentre fuggir d’amor credea gli affanni.
Di nuova spoglia e d’ alto petto armato.
Quasi spiando l’alta ripa, al Soie [to
Fischiava un angue con tre lingue, e ’l pra-
Spargeva di vcneno c le viole.
Questi noi vcdend’ ella ( alti duro fato ! )
Al bianco piè , eh’ ancor mi pesa e duole,
Avventandosi fe’ si dura offesa.
Clic diede fine all’Infelice impresa :
Chè punta nel talon , conte fior colto
■.angue repente e perde ogni vigore ,
Così la bella Euridice nel volto
Subito tinta di mortai colore ,
Cadde sull’erba ; e le fu’l viver tolto,
K spento il gel dell’ indurato core :
Le vaiti empir di piamo e gli aiti monti
la: Ninfe vaghe c i vaghi amici fonti.
SPERONI.
EGLOCA.
Gii il Sirio in elei col suo Leone ardea ,
K ta fresca erba al Sol del mozzo giorno
•Suo vigor naturai tutto perdea :
E i vaghi flumicelii ai fondi intorno
Stanchi giaceano, c la siepe ralla
Era al verde ramar quelo soggiorno ;
Quando dal vizio della stagion ria
Tratto avea Dafni l’ assetato gregge
In ripa a un fonte clic d’un sasso uscia.
Dafni pastor, che sotto nova legge
D’acerba etade ancor gii altri pastori
Con canuto saper governa e regge.
Quivi soletto in sul verde c su i (lori
Sedea cantando, a cui con picciole onde
Il chiar fonte aggiungea dolci roinori.
E I Fauni intorno e le Ninfe gioconde
Gioivan liete, e l’alte querce ombrose
Movean le cime al suon pronte e feconde.
E si cantava l’ aspre e lagrimose
Sorti d’ Atene, e’I cieco labirinto
Che la infamia di Creta un tempo ascose.
Tu sol, Teseo, da sdegno ed’amor spinto
Domi il lier mostro , olmè I gii tuo cognato
Era egli in parte, e l’ hai battuto e vinto.
Ma qual gloria e qual merlo To ingiusto
O infelice Arianna ! Ei mìrae ride [fato!
Il colpo eli* hai d’amar nel manco lato.
Svegliati, e quanto mar da te il divide,
Vedrai, misera, ancor che nel fuggirti
Te viva sprezza, e non però ti uccìde.
Voi , o pietosi , innamorati spirti,
Accompagnale lei , che Intorno errando
llagna col pianto i scogli acuti ed irti ;
E va tra viva e morta destando
Sol quel ch'aver non puote.e i suoi lamenti
Commette al mar che gli ode mormorando.
Deh non siate al suo mal si presti, o Ven-
Fermate il corso alle perfide vele [ti ;
In eli' ella (issi tlen gli occhi dolenti.
Crudele Amor, e tu Teseo crudele.
Tu più crude! Teseo, che fuggi e lassi
Lei si pietosa a te, lei sì fedele.
Ella con gii ocelli ornai di viver cassi.
Mira il mar vacuo , e fuor che ne' sospiri
Giace fredda , simile al duri sassi.
E come dopo pioggia Iri da Ir!
Nasce per reflession di nebbia a nebbia.
Se av v ien che il carroil Sol sopra vi giri ;
Cosi dall'un dolorchc il cor le annebbia.
Non men fero l'altro esce ; ond’clia f incer-
Qual prima o poi di lorsospirar debbia, [ta
Ma se fede c pietà questo più merla ,
Ditei voi, testimon della sua pena ,
Tu, sordo mare , e tu , pioggia deserta.
Cosi raentr' ella dall’ Incerta arena
Empie l'acr di sospiri c Tonde salse,
E a sè stessa il suo mal crede appena;
Quella pietà clic riscaldar non valse
Le fredde membra di Teseo da presso,
Ad arder [lacco insili sopra il elei salse.
E già s’ odia nel bosco vivo e spesso
DI liete voci un suon , che la marina
E 1 vicin scogli ne godcan con esso.
Come I fioretti all'ora mattutina
Dritti ed aperti mostran la bellezza.
Che la notte di lor fe’ peregrina }
Cosi l'anima sua che nell’ asprezza
Del dolor chiusa al cor s' era ristretta ,
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4M POESIA PASTORALE.
Mostrò per gli ocelli fuor dolce vaghezza.
Vergi»*, non temer; già stella eletta
Splenderai in Clel, che delle tue li am m elle
Lieto e sereno di godersi aspetta.
Cantava poi, come pria Tonde snelle
Solcaro in mar, ehi per senno e per core
Fer privi i Colcht dell’aurata pelle.
Se facilmente pria con dolce errore
Amrovravan da longe II mostro audace
Da' sacri fondi uscito al sommo fuore ;
Poscia più presso, e cosi ornai lor piace,
Toccar scherzando li veloci pini ,
Sotto cui 'I mar tranquil seni’ onda giace.
Tu , Teli , allor co' begli occhi divini
Pcleo nell’ acque ardesti, mcntr’ei fiso
Mirava i biondi tuoi umidi crini.
Ed or da poppa, ed or da prora assiso ,
Lodava incauto le bellezze tante.
Vinto da amor a un tempo e dal bel viso.
O ben nato Privo , bel nato amante 1
Più delicati e più lieti imenei
Non saran mai , nò fur dopo nè innante.
Nel proprio lume Giove c gli altri Dei
Tcco gioir fur visti in terra , quali
Non gii han poi visti i nostri tempi rei.
Le Parche istessc che ne’ slami frali
Filano i passi al Tempo, onde misura
La vita li Clei degli uomini mortali ;
Cantar gii anni del figlio in cui Natura
Vincer volle s* stessa , e quale e quanto
Ritrarrà in versi te l’età futura :
Quando per le dopo II sno lungo pianto
Cadrà [(ione , e gli oomln vinti e Tarmi
Chiuda nelTonde sue sanguigne il Xanto -,
E Talte mura e gl’indorati marmi
Che fabbricò Nei tu n col suo tridente ,
E ’i biondo Dio con la cetra e eoi carmi ;
Rivolte in basso assai miseramente
Sotto la tua fatale, invitta landa
Occulterà l’umile erba nascente.
L’ una e l’altra per te vermiglia guancia
Priva del figlio la celeste Aurora
Lacrimando farà divenir randa.
Veggiam dolente ti vecchio padre ancora
Orbo bagnar con lacrimose stille
De’ morti figli le profonde fora.
0 lieti amanti, o ben sparse faville
Che v’ infiammavo il cor di quel disio
Ond' esce al mondo il suo famoso Achille ;
Movasi sopra voi benigno e pio
Di giorno in giorno insin agli ultimi anni
Quel Cicl, di che T una e Taitr’alma uscio.
E tu , fanclul , dopo si dolci affanni ,
Che faran madre a te Ninfa si bella ,
Leva eoi riso a lei tulli I suoi danni.
Mostri te la tua prima età novella
Di quei valor erede e di qnel pregio ,
Che virtualmente ha in s è la par tua stella.
Te cinto alfin di glorioso fregio
Riveggia il Cicl , che si ricco tesoro
Dentro al suo molo ebbe ampio privilegio.
Tutto ciò che T antica età dell'oro
Sopra l’ un giogo e T altro di Parnaso
Febo cantò del suo diletto alloro.
Piss' egli ancor che 11 Sol, ch'era rimaso
Fermo ad udirlo, oltre il fatai costume
Non era ancor eoi carro ito alT occaso ;
Chè il Clel trasse ad adir di lume In lume.
BERNARDINO BALDI.
IDILLI.
LA MADRE DI FAMIGLIA.
Lasciato avea l’autunno il gì usto impero
AlT aspra tirannia del crudo verno ,
Che le chiome seotendo Ispide e bianche ,
Spargea di neve i colii , e con T orrendo
Fiato sembrar fea di cristallo I fiumi ;
Talché non era agli augelletti schermo
La piuma, ed alle fere li folto pelo:
Ma qoei di qualche qnercia, od olmo, o
Si vedean ricovrar nel cavo tronco ; f salce
Queste , arricciate e rabbuffale il dorso
Ripararsi fuggendo entro il più chiuso
E cupo seti deile montane grotte;
Dentro le calde stalle , armenti e greggio
Statatisi ruminando li secco fieno,
1DIUJ. 417
Che ’l pronido bifolco apprestò loro
Sotto il coverto tetto al miglior tempo.
In somma ognun, per non provar l'estremo
Rigor deila sUgion, chiuso si stava
Od io riposto speco , o ’n caldo albergo.
Oriofragli altri, Aresiac'lbuon Montano,
Ambedue d' eli grave , ambo consorti
Nell* opre della vita, avendo sazio
Con povere vivande e breve cena
Il naturai desio , farean corona
Gm la lor famiglinola a piccini foco:
E in Unto i dolci figli Ivan facendo
Inganno al sonno, che fra '1 troppo cibo
Vie pitiche fra’l digiun, furtivo serpe.
Perche di paglia l’uno o bianco salce
Lunga treccia tessea , per farne U gira
Deli' estivo cappe! ; l’altro di giunchi
Fabbricava fiscelle , ove devea
Stringer in duro cacio ii molle latte:
Delle figliuole poi quesU la chioma
Alla rocca traea , rotando il fuso ;
Quella con lungo canto iva allettando
li pargoletto al sonno entro la cuna.
Ed era ornai della noiosa notte
Scorsa non poca parte , c cominciava
A dormir dolcemente il vecchio stanco.
Quando la saggia Aresia in questa guisa
Alla maggior sua figlia a parlar prese
Cara figliuola mia, perché tu sei
In quella eute ornai che vi fa peso
Sembrare a’ genitori, e non sostegno.
Per non mancare a quell’ amor che sempre
Ti porui dalle fasce, or clic tuo padre
T’ ba promessa per sposa ad Aristeo
Quivi nostro vicin figlio d’Eurilla,
Voglio innanzi le nozze , ed ora appunto
Cita mi mrrirn mostrarti alcune cose
Cile tu debba osservar quando sarai
In case, sua patrona e madre e moglie.
E vuo’ seguir in ciò loco mia madre.
Clic meco fé’ l‘ istesso uffizio prima
Che moglie io divenissi ; c si mi sono
Utili staio le parole sue.
Che mai di lei non mi ricordo , eh’ io
Kob le pregili riposo e pace all’alma.
Attendi dunque e nota, li nostra sesso ,
Se col viril si paragona, è sesso
Che lisa assai dell’imperfetto e vile:
Onde s’a quel non s’appoggiasse, appunto
Foraqtui lite scompagnala e sola,
Che senza parlar frutto in terra serpe.
Comedunquc le viti ai salci, agli olmi
Si sogliono appoggiar, cosi le donne
Si dcono appoggiare ai lor mariti.
Pria dunque li dirò come tu (leggi*
Portarti come moglie, ed adempire
L’uOizio che s’aspetta a intona moglie;
Fra le prineipai cote che parere
Fanno acerba la vita di coloro
Che maritali sono, è la discordia,
La qual, se ben lalor vlen da’ mariti
Strani, crudi e superbi , spesso nasca
Anco da noi troppo leggiere e stolte
Ed ostinate , che non conoscendo ,
Nè conoscer volendo il nostro stato ,
Non vogliam secondarli, anzi al contrari»
Sempre mostrarci a ior ritrose c dure;
La prima parte dunque delia doma,
Cile brama vita fortunata e lieta,
È Tesser mansueta, e con dolcezza
Saper portar l'imperio del marito.
La seconda è , ch’ella rimetta a lui
Delle cose di fuor tutto il pensiero.
Nè si curi più Ih di quei che chiude
il giro delta casa : esser sua cura
Deve ii fuso, ii telaio, la conocchia.
La lana, il Un, ir gallinelle, l'uova;
Il dar legge alle serve • ’l poner mente
Che nulla manchi ai picclolctti figli.
Perchè non altramente fora brutto
Alla donna trattar consigli cd arme,
Co»» che sol s’aspettano a1 mariti , '
Di quel che fora obbrobrioso all’uomo.
Se non si ricordando d' esser uomo.
Lavar volesse i paoni , I vasi , e ’l filo
Sur al foco torcendo , e ordir le tele.
Quando fosse però che ti chiedesse
Compagna ne' consigli , io non t’esorto
A ricusarlo, anzi ubbidirlo in modo
Che consigliando, di seguir tu mostri
Non ii consiglio tuo, ma il suo parere.
S’ avverrò poi , si come spesso avviene,
Cile fra'l consorte e te contrasto accaggla.
Non vuo’ che tu il bandisca, e li lamenti
Con le vicine tue, con le comari ;
Chè non ad altro fin fatta è la case
Nè per altro ha la casa c mura e porte.
Se non perchè non sian de’ fatti altrui
Giudici e speiutor le genti eslecne.
lo voglio olirà di ciò, che d’ngni i nglerli
Ti dimentichi allatto; chè la moglie
Clic di tutte l’ ingiurie si ricorda;
Mostra d! esser non moglie, ma piò tosto
Fierissima nemica: lochiamo il (lieto
In testimonio, e le figliuola, ch'io,
iienchè potuto avessi, al uno il ontano
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488 POESIA PASTORALE.
Mai non rinfacciai nulla: Impara dunque
Anco tu a far l'Istesso. Un altro vizio
Regnar suol fra noi donne, equesto è l' odio
Glie per lo più si porla a padri , a madri ,
A fratelli , a sorelle , e ’n somma a tntte
Le genti del marito : vizio Infame ,
Vizio Indegno di donna , clic di donna
Aver procuri il nome : or bendi’ io stimi
Te saggia si, che senza il mio consiglio
Tu sia per schivar ciò, pur tei ricordo,
Perchè tu sia più cauta; e più mi giova
Di dirli olirà II bisogno, che lasciare
Cosa veruna a dietro. Onora ed ama
E riverisci e suocere e cognati ,
E portati cdta loro In quella guisa
Che tu vorresti ch'altri si portasse
Teco , sendo tu suocera e cognata.
Sovra tutto a temer t’ «torto , o figlia ,
La fama rea , chè s' una volta sola
Si sparge per le bocche , in van si tenta
DI ricovrar la buona : In guisa tarde
Son le lingue al ben dire , e preste e pronte
Al blasmi , ai disonori , ai vltuperj :
Onde per fuggir ciò, non vuo’che solo
Secretezza tu cerchi {chè di rado
Giova esser cauta a donna disonesta),
Ma che tu viva si, ch'indi proceda
Il parer alle genti onesta e buona :
Buona e onesta sarai , quando non tanto
Prezzerai gli ornamenti e la bellezza,
Quanto Tesser modesta e vergognosa.
Queste son quelle doli, o cara figlia.
Che non fuggon con gli anni, anzi qual oro
Don temon della ruggine e del tempo.
Si che se queste gemme torneranno,
Poco curar dovrai di quelle gemme
Che le giovani vane hanno in più stima
Spesso, che l’onor vero e T vero bene.
E se ben il tuo grado non ricerca
Cbe d' ostro l' orni e d' oro, essendo nata
In stato umil, pompa però soverchia
Fora la tua. se superar volessi.
Col povero vestir, l’ altre che sono
A te di grado c di bassezza eguali.
Olirà il vestir, d’ un' altra cosa ancora
Debbo avvisarti, che non poco importa,
E questo è che giammai tu non tl creda
Che la bellezza che ne dì Natura
S’accresca col belletti e co' colori,
Chènullaèmenollvero:iocheson vecch la,
Ho conosciuto molte, che volendo,
Benché belle per sè, parer più belle
Con questi lisci, cran mostrate a dito
Da tutti, e da color che non sapeano
DI qual cosa si fossero, tenute
Per donne disoneste : indegna cosa
Coprir il bel natio con la bruttezza
Delle bellezze Ante. Or dimmi un poco,
Kiglla,qual è più vago, un fiore, un pomo
Preso dal proprio ramo col colore
Che lor comparto la Natura e 'I Sole,
Ower un altro, benché da buon mastro
Col pennello imitato? lo credo certo
CIT ogni saggio uom, dicco' colori intende
D'acquistar fama dipingendo, tanto
Stimi di meritar lode maggiore,
Quanto meglio imitar sa la Natura.
Or se il color natio vince il dipinto,
Se perfetta maestra è la Natura ;
Perchè creder vorrem eh' in noi s' accresca
La belli naturai con la dipinta?
Sian dunque i tuoi belletti c i lisci tuoi
La pura acqua del fonte, onde li lavi
E la faccia e le mani ogni mattina.
Non ti biasmerò gii se tu li specchi
Qualche Data ; chè lo specchio alfine
Cosa è da comportar, tutto che spesso
Accresca in noi la vaniti natia.
Tanto sla detto intorno agli ornamenti,
E 'I viver come moglie : alquanto avanti
Trapassar mi convicn, poiché le nozze
Ordinate non fur, perchè le donne
Sol divenìsser mogli, chè ciò fora
Spezie di servitù, ma perchè quinci
Ne divenìsser madri : Il figlio è frutto
(Se noi sai ) delle nozze, c questo frutto
£ dolce si, che la dolcezza sua
Può temprar mille amari, ond' è condita
La gravidanza e 'I maritale stato.
Lascio che a noi, che padri e madri siamo.
Reca estremo contento il veder nati
Figli de’ nostri figli, e molto tempra
La doglia del morir, riconoscendo
Noi stesse ne' nipoti, in cui speriamo
D’aver morendo una seconda vita.
Però se fia che Dio ti faccia madre,
Odi qual sian di madre diligente
Le parti. Nato il figlio, a me noo piace
Che 'I costume tu segua ingiusto ed empio
Di quelle donne eh’ a' figliuoli loro
Che nel ventre portar, negano il latte.
Ben vediam tutto il di molti animali
Gli altrui parti nodrir, ma non vediamo
Però mancara' propri: or qual piùalpestre
Fera è dell' orsa ? e pur verso i suoi figli
Tenera è al, che la salute loro
IDILLI. 489
Stima assai più che la sua propria fila.
In lutto nega dunque d'esscr madre
Chi nega a’ figli il latte, e ’n tutto nega
1)’ esser donna colei che d'ogni fera
È contra 1 propri figli assai più fiera.
Impara dunque ad esser donna e madre,
Donna e madre pietosa : lo non vorrei
Perù che per soverchia tenerezza
Gli allevasti vezzosi e delicati ;
Perche, se ciò disdice a’ cittadini.
Come a noi stari bcu, che nati siamo
A continue fatiche, e non abbiamo
Riposo mai nè ’l giorno, nè la notte?
I maschi sian tua cura. Infili che 11 passo
Movan più fermo, e possan con la verga
Cacciar al pasco 11 mansueto armento;
Cbè da quel tempo In su del padre dee
Esser uffizio l' insegnargli quello
Ch'a lor s'aspetti, c castigargli, quando
Pertinaci ci gli tritovì o negligenti.
Delle femmine poi la madre sempre
II pensier aver dee, nè pur lasciarle
Giammai d' un passo, se gelosa è punto
Dell’ onor proprio, c cfo fin che cresciute
AH’ età più matura, il padre prenda
Cura di maritarle, a cui s’aspetta.
Non alla madre, il ricercar partito
Conveniente al grado ed alla dote.
Perchè poi l’ esser data ad Aristeo,
Che per uomo di lilla è ricco assai,
Pari che tu terrai famigli e serve;
T insegnerò come portar ti deggìa
Con lor, se brami d’ acquistarne il nome
Di patrona amorevole e prudente.
Sarai dunque con lor per mio consiglio
Non aspra, non crudele e non superba.
Nè troppo anco piacevole; cbè quello
Partorisce odio estremo , ed è cagione
Di licenza quest' altro, e di disprezzo : [me
Dunque al mezzo l’ appiglia, e giungi insie-
L' esser con lor piacevole e severa.
Avvertisei anco di non esser mai
Scarsa con lor del meritato cibo ,
E del dovuto premio, essendo queste
Sole e prime cagion di far che I seni
Non curino tcsor di libertadc.
Non ti fidar di lor; chè nulla è peggio
Del fidarsi de' seni, de' quai s’uno
Fcdel tu ne ritrovi , è sorte , e quasi
Contro natura : abbi pur sempre l' occhio
Alle cose più care ; e se non vuoi
Esser fraudata , non lasciar che alcuno
DI lor dopo te vegghi , e di te primo
Abbandoni le piume ; chè il fidarsi
E l' esser sonnacchiosa , son due cose
Che mai non partorlscon se non danno.
Non so che dirti più , perchè mi pare
D'aver detto abbastanza , ed a te tocca
D'osservar quanto udisti , e ricordarti
Che chi consiglio ascolta e non sen vale.
Senza suo prò da sezzo alfin sen pente.
L>ui tacque Aresia ;_e perchè gii s’ udii
Cantar per tutto il vigilante augello
Che della mezza notte altrui di segno ,
E gii mancato in tutto all’ unta c negra
Lucerna era il liquor che nudre il lume ;
Del foco avendo le reliquie estreme
Sotto 11 tepido cenere coverte ,
Senza più dimorar, le membra al sonno
In preda dicr sovra l’usate piume.
CELEO 0
Sparir vedeasl gii per l’ oriente
Qualche piccola stella , e spuntar l' alba ;
Gii salutar il giorno ornai vicino
S' udia col canto il coronato augello ,
Quando pian pian del lelticciuolo umile
Celeo vecchio cultor di pover orto
Alzò desto da) sonno il pigro fianco ,
E d' ogn’ intorno biancheggiar vedendo
Dell' uscio agii spiragli il dubbio lume ;
Cinto la vile c rozza gonna ond’egli
Solca coprirsi , indi calzalo il piede
Col duro cuoio rappezzato ed aspro ,
L’ORTO.
Bramoso di saper se fosse il cielo
Ver l’oriente o torbido o sereno,
Mirollo, e poi che senza nubi il vide,
Prendendo augurio di felice giorno ,
Tornò là 've ad un chiodo arida scorza
Pendea di vola zucca, il cui capace
Ventre fatta s’ avea di molti semi
Separati fra lor fida conserva ,
E di lor quegli eletti onde volea
L’orticel fecondar, postosi sopra
La manca spalla il zapponcelloc ’l rastro
Nell’orto entrò, cui diligente intorno
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490 POESIA pastorale:.
Di proti contesta arca spinosa siepe,
Ove parte spargendo i semi , parte
Svellendo dal terreo l’ erbe nocive ,
Pane I solchi nettando , e parte d’ acque
Empiendo largo raso onde la sera
Innaffiar ne potesse i Bori e P erbe ,
Tanta dimora le’, che non s' avvide
Tre il Sol già di que’ spaxj aver trascorso.
Onde I giorni e le notti egli misura.
E tal dell’opra sua prendea diletto,
Cbc tempo assai più lungo ita vi fora ,
Se ’l naturai desio , ciré ma) non dorme
In uom che neghittoso H di non mena ,
Desto in lui non avesse altro pensiero.
Per pagar dunque il soldo tribolo
Al famelico ventre ed importuno,
Entrato nel tugurio e giù depeate
I.c lucid' arme sue , tutto si diede
A prepararsi il consueto cibo.
E prima col fucll la dura selce
Spesso ripercotendo , Il seme ardente
Della gamma ne trasse e lo raccolse
In arido fomento •, e perche |rigro
Gli pareva e languente, il proprio fiato
Oprò per eccitarlo , e di frondosi
Nudrillo aridi rami; e quando vide
Che in tutto appreso avvalorossi ed arse.
Cinto d’on bianco lino , ambe le braccia
Spoglio**! fino al cubito , e lavato
Che dal sudore ei s' ebbe e dalia polve
Le dure mani entro sugnato vaso
Che terso di splendor vlncea l'argento.
Alquanto d’onda infuse, ed alla fiamma
Sovra a un punto locollo, ove tre piedi
Di ferro soslenran di ferro un cerchio j
Gittovvi poi , quando l'umor gli parve
Tepido, tanto sai, quanto a condirlo
Fosse bastante, c per non stare indarno,
Mentre l'onda botila, per fissa tela
Fece passar di setole contesta.
Di Cerere il lesor, che in bianca polve
Ridono avea sotto il pesante giro
Della volubll pietra; indi partendo
Con tagliente colte! rotonda forma
DI grasso cacio , che da’ topi ingordi
Ei difendea dentro fiscella appesa
Al negro colmo , col forato ed aspro
Ferro tritello, e cominciando ornai
L’acqua d’intorno all’ Infiammato fianco
Del vaso a gorgogliare, a poco a poco
S’ adattò con la destra a spargervi entro
La purgata farina , non cessando
Con la siuistra Intanto a mescer sempre
La farina e l' umor con saldo legnò.
Quando poi tutu di sudor la fronte
Aspersa egli ebbe, e ’l bianco e molle corpo
Cominciò a diventar pallido e duro;
Aggiunse forra ali’ opra , c con la destra
Alla sinistra man porgendo aiu ,
Per lo fondo dei vaso il legno intorno
Fece volar con più veloci giri ,
Fin che vedendo ornai quella mistura
Nulla bisogno aver più di Vulcano,
Preso un bianco tagiier di bianco faggio,
Fccene sovra quel rotonda massa s
E ratto corso la dov’ egli avea
Molti vasi disposti in lunghe schiere.
Un piatto sovra tutti ampio e capace
Indi toise ed U terse, e con un filo
Ritroncando la massa in molte parti,
11 piano ne colmò , di trito cacio
Aspergendolo sempre a suolo a suolo.
E per non tralasciar cosa che d’uopo
Fosse per farla deiicau e cara;
Mentre fumava ancor, sovra v’ infuse
Di butirro gran copia , che dal caldo
Liquefatto stillante a poco a poco
Penetrò tutto il penetrabil corpo.
Condotta al fin quest' opra e posto il vaso
Cosi caldo coni' era appresso al foco ,
Provvido ad altro attese; e volto il piede
Là ’v’egli larga pietra eretta avea
Sotto ana grande e tortuosa vite
Che coprìa con le (ronde un vicin fonte ,
D’ un panno la coperse in guisa bianco ,
Che l’odor del bucato ancor serbava.
Quinci il picciol vaael sovra vi pose
Ove II sai si conserva , e ’l pan clic dolce
Gli era e soave , ancor che negro e vile.
Di molte erbe odorate e molti frutti
Carcolla al fin, che l'ortlcel cortese
Ognor dispensa; e dall’armario tolse
La ciotola capace , e ’l vaso antico
Del vin, cui logro avea l'uso frequente
Il manico rifondo, e rotto In parte
Le somme labbra onde il liquor si versa.
Preparato già il tutto, ed ornai stanco
Del lungo faticar, poi clic le mani
Tornalo fu di novo a rilavarsi;
Accostossi alla mensa , e tutto liete
Cominciò con gran gusto a scacciar lunge
Da si P ingorda fame e l’ importuna
Sete, e spesso temprando il v in con l’ onda
Clic dal fonte scorrca gelida e pura :
E già sazio era il ventre , e già il palato
Da lui più non cbiedean bevanda od esca :
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CELEO 0
Quando dietro la fame in lui serpendo
. Quella stanchezza entrò , che dolce suole
GB occhi gravar, mentre veloce 11 caldo
Vltal seti corre al cibo , e lascia pigre
Le ristaurate membra ; ond'egli , a cui
li di passar dormendo unqua non piacque.
Per non dar loco al sonno, in queste voci
Cominciando fra sò ruppe il silenzio.
0 beato colui , che io pace vive
Questa vita mortai misera e breve ;
La qual benché si bella appaia in vista ,
Tosto langue però qual fiore in prato
0 da falce o da piè presto reciso.
Ma infelice colui , ebe sempre in guerra
Seco coi suo peosier mai non s' affronta ;
Quel che da cure ambizione, avare
Tormentalo mai sempre, un' ora, uu punto
Di tranquillo non prova , e nuu sa quanto
Di gran lunga trapassi ogni tesoro
lai cara povertà giusta, innocente.
Abbiami le ciuadi, al>biaiisi pure
L' arti onde nascnn gli agi c'i viver molle ;
Or a noi sommo piacer, sennino diletto
Fia ’l contemplar or verdi or bianchcggian-
Le seminate biade , in rimirando [ti
L' antiche selve, le sassose grotte,
L’ opache valli, I monti, i vivi laghi,
L’ acque stagnami e i mobili cristalli ,
Il sentir Beli all’ora mattutina
Discuoiti ai canto ir gorgheggiando a gara
Le vaghe lodoletle c gli usignuoli ;
Delle tortore udir, delle colombe
1 gemiti e i susurri , e dagli arbusti
Di rugiada pasciute le cicale
Roco doppiar sul mezzo giorno il canto.
Pochi san quanto giovi i membri lassi
Gittar talur dormendo in qualche piaggia
Fresca, erbosa, fiorita appresso un rivo,
Che mormorando col garrir s'accordi
Degli augelli, dell' aure c delle frondi.
Ma qual piacer s’agguaglia a quel eh’ io
Solamente da le, mio picciol orto, [prendo
Da te , eli' a me città , palazzo e loggia ,
A me sei vigna e campo e selva e prato.
Tu di salubri erbette ognor fecondo
Porgi alia mensa mia non compro cibo.
Tu l'ozio da me scacci , e da te viene ,
Che benché già canute aggia le tempie ,
Di robustezza a giovane non ceda.
Tu dal mio petto le noiose cure
I.unge sbandisci , e ’n vece lor v’ induci
Piacer, letizia e pace , c sei cagione
Ch’io non inviliti L'aurea verga c’i manto,
L’ ORTO. 431
E le ricchezze che dal mondo avaro
Fanno ammirar gl’ lmperadori e i regi.
Qual si trova piacer, che tu non abbia)
Qual bai piacer, che d' util non sia misto ?
0 qual utile è '1 tuo , che dall’ onesto
Si reggia, come molti, esser discorde)
Tu l' occhio pasci, se dell' erbe mira
1 nativi smeraldi e i vaghi fiori.
Godon per te gli orecchi in ascoltando
Il grato susurrar dell' api industri.
Mentre predando vanno ai primi albori
Da' fior le dolci, rugiadose stille.
Senso non ha chi l’ odor tuo non sente ,
Odor che la viola, il croco c '1 giglio,
Il narciso e la rosa intorno sparge.
Piaccico le gremir agiioerhi. epiacel'oro,
Ma non ne gode U gusto ; il gusto poi
D’ altre cose piacer talora sente ,
Di cui nulla il veder diletta prende.
E cosi avviene a te , poi che noe meno
L’ occhio mi pasci lu di quel che faccia
Il gusto ed ogni senso : io se desio
L' oro veder , dei già maturo cedro
La spoglia miro , che s' assembra ali’ oro ;
Se l'oro poi, che di rubiu aia carco.
Alla siepe mi volgo ove il granato
Maturo e mezzo aperto i suoi tesori
Mi scopre : se veder gli altri lapilli
Chicggio , ecco l’ uve di color mature
Pendenti giù da pampinosi rami.
Ma qual altro diletto a quel s’agguaglia,
Che dà il veder sovra un medesimi tronco,
Sovra un medesmo ramo il pero, il pomo
E la mandola e ’I pesco e ’l fico e 'I pruno :
Ed una sola pianta a si diversi
Figli somministrar madre cortese
Con novo modo II nudrimento e’I latto ?
Taccio tante altre gioie, e tanti beni,
Che mi vengon da te, caro orticello;
Ed a voi mi rivolgo, o Del, ch'avete
Degli orti cura, e di chi agli orti attende.
Fa dunque , Clori tu, che mai non manchi
Al mio verde terren copia di fiori.
Tu fa, Pomona, che de’ frutti loro
Non sian degli arbor mai vedovi I rami.
E tu che tante e si diverse forme
Prendi , Vertunno , il culto mio difendi
Or con la spada , se soldato sei ,
Or col pungente stimolo , se i buoi
Giunger ti piace al giogo : e tu , Priapo ,
S' unqua gii altari tuoi di fiori ornai ,
Con la gran falcee con f altre arme orrenda
Spaventa I ladri che notturni vanno
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POESIA PASTORALE.
493
Predando ingiusti le fatiche altrui.
Creacele , erbette e fior, crescete lieti ,
Se ’lClel benigno a voi giammai non neghi
Tepidi soli e temperala pioggia.
Si dicea seco II povero Ceieo
Nella sua poverti felice a pieno ,
Quand' lo, cui men di lui l'ozio non spiare.
Per non perdere il lerapo a dir m'accinsi
Come indurire nocehier quel Ugno form i
Ch‘ e' dee guidar per non regnale rie.
SONETTI PASTORALI.
BRUNELLESCHI.
Cerca di far pietosa la sua donna.
Madonna se ne vlen dalla fontana
Contro l’ usanza con vuoto Porcello ,
E ristoro non porta a questo petto
Nè con l'acqua nè con la vista umana.
0 eh’ ella ha visto la biscia roana
Strisciar per P erba in su quel vlalelto
0 che 11 can la persegue, o ch'ha sospetto,
Che aliavi dentro in guato la befana.
Vlen qua, Renzuota, Vienne, cbè vedrai
Una fontana e due e quante vuol ,
Nè dal padre severo avrai rampogna :
Ecco che stillali gli occhi tutti e duoi :
Coglione tanto quanto ti bisogna ,
E più crudel che sei , più ne trarrai.
MENZINI.
I.’ Api.
Pastor ; quell’ api tue valisene errando
Quasi sdegnale dell'albergo primo;
E lasciati gli alveari ; ed altro timo,
Altr' acque, clic le nostre, vali cercando.
Forse il costume antico lian posto ili ban-
Chè non chiudesti di purgalo limo [do ,
I lor fiali, 0 come forse io stimo,
Miele non lasci lor di quando in quando.
Batti quel secchio ; ecco die in gruppoor
O sia diletto, osia timore occulto, [sono ;
Che lor vuol di sè stesse in abbandono.
Tant' arte ave un pastor rozzo ed incul-
Oh potessero I regi, a un piccini suono [to?
II Ber del vulgo racquetar tumulto!
La guardia delle Viti.
Quel capro maladetto ha preso in uso
Gir tra le vili ; e sempre in lor s'impaccia.
Deh per farlo scordar di slmil traccia,
JVgli d’ un sasso tra le corna c ’l muso.
Se Bacco il guata , el scenderà ben giuro
Da quel suo carro, a cui le tigri allaccia.
Più feroce Io sdegno oltre si caccia ,
Quand' è con quel suo vln misto e confuso .
Fa’di scacciarlo, Eipin, fa'che non stenda
Maligno il dente, c più non roda in vetta
L' uve nascenti, ed il lor Nume offenda.
Di lui so ben, che un di P aliar l’aspetta
MaBaccoèda temer che ancornon prenda
Del capro insieme c del pastor vendetta.
Presagi di tempo piovoso.
Sento in quel fondo gracidar la rana,
Indizio certo di futura piova ;
Canta il corvo importuno, e si riprova
La folaga a tuffarsi alla fontana,
t La vaccherella in quella falda piana
Gode di respirar dell'aria nuova :
Le nari allarga in alto, e si le giova
Aspettar P acqua , clic non par lontana.
Veggio le lievi paglie andar volando,
E veggio come obliquo il turbo spira,
E va la polve, qual paleo, rotando.
Leva le reti, o Restagnon; ritira
Il gregge agli stallaggi ; or sai che quando
Mauda suoi segui il Ciri, vicina è P ira.
Il Platano.
Deh mira.Ergasto, in quell’erbose spon-
l’ianta di cui non sorge al'ra maggiore; 'de
Platano è della; ed alle viti onore
Serba, emulando la lor larga fronde.
Nobll Genio romano, in vece d'onde,
Già P irrigava di leneo licore.
Che tolta ai boschi, ed al silvestre orrore ,
Spesso in orto reai s'apre c diffonde.
Oh come allarga le ramose braccia ,
E<l i muscosi fonti orna ed adombra ,
E P altre piante Imperiosa abbraccia!
Deh perchè tanto di terreno ingombra ?
Nè gregge , nè pastor quindi procaccia
Suo cibo ;c sol puù superbir dell'ombra.
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SONETTI PASTORALI.
Al sepolcro di valoroso Mastino.
Melampoioson ; per selve e perforcste.
Sempre il mio nome glorioso andranne
Forte il flanco, occhi accesi , acute unne,
E piante al corso fulminose e preste.
Non Tur, mentre eh' lo vissi, ai gregge
Uelupl ingordi le bramose canne; (Infeste
E poteo fuor di reti e di capanne ,
Scorrer sccuro or quelle parli or queste.
Di sua maligna luce allor si cinse
Il Slrlo can, quando mirò dall'alto
Il mio valore ; ed arsa Invidia il vinse.
Giaccio in quest' urna , e più non muo-
vo assalto ;
Ma benché ferreo sonno or qui m’avvinse,
Se gridi al lupo, uscirAfuord'unsallo.
I Sogni, regnaci dei Desiderj.
Mentr* io dormii sotto quell’ elee om-
brosa.
Parsemi, disse Alcon , per I’ onde chiare
Gir navigando d’ onde il Sole appare ,
Fin dove stanco In grembo al Mar si posa.
E a me, soggiunse Elpin, nella fumosa
Fucina di Vulcan parve d'entrare;
E prender armi d’ arti lìtio rare.
Grand’elmo e spada ardente c fulminosa.
Sorrise Uranio , che per entro vede
GII altrui pensier col senno ; e in questi
accenti
Proruppe ed acquistò credenza e fede.
Siate, o pastori, a quella cura intenti ,
Ghe'l giusto Ciel dispensator vi diede;
E sognerete sol greggi ed armenti.
Allegorie sopra il Dio Pane.
Che mai vuol dir quella macchiata pelle ,
Di cui porti, o gran Pane, Il fianco cinto?
Quella è l'ammanto nobile c distinto.
Che porta il Ciel , di variale stelle.
E quelle gambe tue caprigne e quelle
Ispide membra , onde ogni Faunoè tinto?
Segnan Natura, che nodrisce instinto
Di sempre generar forme novelle.
Che son quelle tue corna al del rivolle?
L' aria più pura : e quel tuo volto acceso ?
Fiamme in lor sfera colassù raccolte.
E quell’ ordigno alle tue spalle appeso ,
Di sette canne ? E il Ciri , di cui le stolte
Genti non hanno il suono ancora inteso.
493
ZAPPI.
Sospira il giorno in che vedrò la sua donna.
Presso è il di che cangialo il destin rio.
Rivedrò II viso che fa invidia ai fiori ,
Rivedrò que’ begli occhi, e In que'splen-
L'alma mia, che di lì mai non parilo, [dori
Glugner gii parmi, e dirle : Amata Clori :
Odo il risponder dolce, o Tirsi mio.
Rileggendoci in fronte I nostri amori.
Che bel pianto faremo e Glori ed io!
Ella diri : Dot ' A quel gruppo adorno
De' mici crin, ch'ai partir lo tl donai?
Ed io : Miralo, o bella, al braccio intorno :
Diremo , io le mie pene, ella I suoi guai.
Vieni ad udirci, Amor, vieni : in quel giorno
Qualche nuovo sospiro imparerai.
Il Bacio.
In quell' eli di' io misurar solea
Me col mio capro, e 'I capro era maggiore.
Amava io Clori, die insili da quell' ore
Maraviglia , e non donna a me parca.
Un di le dissi; lo t’ amo ;e'l disse il core.
Poiché tanto la lingua non sapea ;
Ed ella un bacio dicmml, c mi dicea :
Pargoletto, ah non sai che cosa è amore!
Ella d’altri s'accese, altri di lei :
Io poi giunsi all' eli di' noni s’ innamora ,
L’etì degl’ infelici affanni miei ;
Clori or mi sprezza, lo l’amo Insta d’al-
Nonsl ricorda del mio amor costei; [lora:
Io mi ricordo di quel bacio ancora.
TOMMASI.
Il Capro insolente.
Questo capro maledetto
Mena il gregge in certe rupi ,
Che mi par clic per dispetto
Voglia porlo in bocca ai lupi.
Ma , s'ci segue, io son costretto
Di lasciarlo In questi cupi
Antri agli orsi , o un di lo getto
Giù per balze c per dirupi;
Ed il teschio e’I corno Invitto,
Onde allier cozza e guerreggia,
E soverchia ogni conflitto,
Vo’clie lì pender si reggia
Sul Liceo con questo scritto:
Perchè mal guidò la greggia.
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POESIA PISCATORIA E RUSTICALE.
ONGARO.
ALCEO.
TRITONE.
Tu che apprendesti le virimi ascose
E de’ pesci e dell’ erbe e delle pietre,
Glauco , dalla tua Circe , ora ui' insegna
In qual lido, in qual scoglio, In qual pendice,
In qual fondo del mare, in qual caverna ,
0 pesce od erba o pietra si ritrove
Che con la sua virtù possa sanare
Le piaghe profondissime d* Amore.
Oimè , mille dragoni al cor mi stanno
Dal primo di ch'Eurilla rimirai,
Che con le code acute e avvelenate
Lo percuotono sì , che gii sarei
Morto , se a morte un Dìo fosse soggetto.
Domator de' cavalli è il padre mio,
Che col tridente fa tremar la terra :
Domator de’ giganti è *1 suo fratello
Giove ; ma tu sci domator de’ Dei ,
Dispietalo fanciul di Gitcrea.
0 inago potentissimo, che togli
La lor propria natura agli elementi ,
Chi potrà ritrovar schermo c riparo
Lontra le fiamme tue, sei Dei dcll’acquc
Nei regni suoi non son da lor sicuri ?
Non tanto fuoco lian ne* lor seni ascoso
Pozzuolo, Ischia, Vesuvo, Etna e Vulcano,
Quant’io nel centro del mio cuor n’ascon-
Non tanti flati di rabbiosi Venti, (do;
Quando l’ atra spelonca Eolo disserra , •
Muovono guerra al mar, quanti sospiri
Escon dalla caverna del mio petto :
Non tanl* arene o conche han questi lidi ,
Non tante gocce d’acqua han questi mari,
Quante lagrime versan gii occhi miei.
E tu crudele e dìspietata Eurilla ,
Quasi gelato scoglio, non ti scaldi
Alle mie fiamme, c stai ferma all’ assai Lo
Delle lagrime mìe, de* mici sospiri;
Cimotoe non è di te men bella.
Se talor ti contempli e ti vagheggi
Nei cristalli del mar; e se con Id
Esci a guerra di grazia e di bellezza.
Vedrai che tanto ella t'avanza, quanto
I pargoletti mirti eccelso abete :
E pur per seguir te, lei fuggo, sprezzo ,
L’odio per amar te, come se fosse
lina pistricc, un’orca, una balena.
Tu mi fuggi, crudel, nè saper curi
Cbi sia quei cui tu fuggi. Io son Tritone
Di Salmacia figliuolo c di Netluuo,
Che dando spirto al cavo bronzo, a questa
Muscosa conca, (accio rimbombare
Le più remote parti d* Amlilritc
Dall’ ispanico Ibcro all’indo ldaspo;
E, se il mar non m’inganna, ove sovente
Quando ei nel letto suo senz’onda giace,
Mi specchio, non mi par esser un mostro,
E tu mi fuggi pur, come s’io fossi
Un dragone, un ippotamo, un marasso.
Non si degna solcar gli ondosi regni
Sopra gli omeri miei la Dea di Cipro,
La Dea delle bellezze , c in ricompensa
Delle fatiche, spesso mi porge
Affettuosi baci : e tu ti sdegni
Esser da me mirata c destata;
E se talora t’appresento in dono
(Tolte dai ricchi lidi d’Orfente)
Le bianche perle , le disprezzi , forse
Perchè perle più belle hai nella bocci:
Se dai fondo eritreo talor tl porto
1 bei coralli , li rifiuti , forse
Perchè più bel coralli bai nelle labbri;
Se talor riverente ti offerisco
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ALCEO. in
L’ebano e l’ambra, non Faccetti, forse
PerrM più lucid’ ambra, e più negr’ ebano
Hai sulla blonda chioma e nelle ciglia :
Se l’avorio e la porpora t’arrceo
Di Tiro e d’ India , la ricusi , forse
Pcrcliù più bell'arorlo e più bell’ ostro
Hai nel seno e nel viso. E già non sono
Doni da pescatori , e già non sono
Don) da esser spronati , e pur II sprezzi.
Or che ti movcrè , se non li move
Noblltade, Tirtù, bellezza o dono ?
Ma se non Tool che il fratto del mio amore
0 sia mio morto , o sia tna gentilezza ,
Sarà furto e rapina. Oprar convienimi
Teco 'polche non vaglion le lusinghe)
E gl'inganni e la forza, lo so che spesso
DI venire a pescare hai per usanza [la :
Presso al porto che d'Anzio ancor s’appd-
Ivi t* attenderò sott’acqua ascoso
Fin che getti nel mar la rete o l’ amo ;
Indi alta rete o all’ amo aitaccherommi :
E mentre porrai In opra ogni tna forza
Per riaverla, io ti trarrò nell' acque;
0 quando questo inganno non succeda ,
Ti ruberò nel lito uscito, e poi
In qualche parte ignota guiderotti ,
Ove altri i miei diletti non offenda;
Ed ivi prenderò dolce vendetta
Di mille amari oltraggi che m' hai fatto.
E se bene starai dogliosa alquanto
E te ne mostrerai ritrosa e schiva ,
So che ti sari caro, perche so
Che sogliono bramar eb’ altri rapisca [no
Quel ch’elle a noi spontaneamente niega-
Le donne ; e se ben piangono quand’ aitri
Lor finta o bacio o cosa altra piò cara ,
Il pianto è di allegrezza e non di doglia.
Ma pur che s* adempisca il mio desire,
E pur che tu non possa gloriarti
D' avermi con mio scorno vilipeso ,
0 che ti piaccia , o no, poco m'importa.
ROTA.
SEBETO.
EGLOGA.
CRATJ, MELANTI).
OSATI.
Passar quest’ onde e gir di riva in riva
Convien, Melante, e ’n piò sicura arena
Spiegar le reti, ed oprar l’amo c l'esca.
Chi vuol viver cosi , per me si viva ,
10 giù non voglio : andrò dove mi mena
11 nemico destln : polche non pesca
Uom qui d’intorno, che la preda a forza
Nova Arpia non gl' involo, c nova Sfinge,
E renda il suo sperar vano e fallace.
un. asto.
Quella cagion che fa dolerti, c sforza ,
0 ('.rati, a lamentar, quella mi spinge
A tacer mal mio grado. 0 lieta pace ,
0 felici ore, o mia vita beata,
0 cari scogli , o dilettoso piaggia ,
0 dolce lito mio , chi mi ti toglie?
CKATt.
0 vecchiezza deserta e sconsolata ,
0 veramente fera erma c selvaggia ,
0 ben mostro infelice! A che non sriogUe
La vita mia serbata a veder questo
Il duol, che ’l porria far, ma noi coniente.
Acciò eh’ io porti a forza il fascio c ’i peso
Dì questa eli più grave e più molesto!
■ELASTO.
Scaccia questi pensier eh' ognor la mente
Combatter veggio, e t’han già vlntoe preso,
Chè a te per favellar d’altro ne vegno.
Ben ti dei ricordar quel che l’allr’leri
Mi promettesti dir sono queil'eice.
Deh su, comincia ornai, mentre il tuo legno
Traggon dal mare al secco Aminia e Meri,
Ed lo m' appoggio alla vicina selce.
etiATt.
Or poiché pietra I dolorosi amanti
Vlder la cara donna , e invan chiamare
L' amato nome, e lungo strazio e guerra.
Fero a sò stessi con sospiri c pianti ,
Ecco dal dnot Vescro interno, amaro
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POESIA PISCATORIA E RUST1CALE.
496
Rotto gli cade , e poi tosto da terra
Sorge, e crescendo d’ ora in ora un monte
Rasscmbra in vista, ed è la barba, il crine
Selva gii fatta cbe'l circonda e clgne.
L’ossa divengon sassi , e in due la fronte
Parti si parte , e ’l miser tutto alfine
Rivolto In nova forma in un si slrigne :
Ma quel che parve più meraviglioso ,
L' ardorche intorno al cor viepiù s'infiatn-
Dai vento di sospir lunga stagione [ma
Tra le vene resto più forte ascoso,
E sospirando usci la chiusa fiamma
Del monte fore , e gii mi disse Egoite ,
Che l' avo glici contò , che inaino al sasso
Della cangiata Ninfa, e lungo il lido
Mandò prima faville , onde ancor arse
Vedi le pietre star di passo in passo :
Nè dopo molto poi s'intese il grido
Che cotante dal cor lacrime sparse
Sebeto, che 'I cordoglio in mezzo il foco
Del petto , con tra il naturai costume ,
Ratto di pianto ampio ruscello aperse ;
Ond'egli dileguato a poco a poco ,
E liquido già tutto, in plcciol fiume.
Che ancor serba il suo nome, si converse :
E parte e riga presso il bel paese
Rendendo viva e rugiadosa l'erba
Col pianto suo, finché raccolto in seno
Èdal padre Tirren pronto e cortese :
E qualor gli sovvien dell' empia, acerba
Sventura della Ninfa, Irato e pieno
Correndo olirà I' usato, in vista sembra
Rompere a forza il bel prato vicino,
E fare oltraggio al margine fiorito.
HELANTO.
Deh, Cratl , non più, no, chè per le membra
Irsenlononsoehe,chcgiàvicino
Io corro a morte in me stesso smarrito.
CltATt,
Se tolta pur la fredda e lunga ctate
La memoria non m’ha con l' altre cose,
Sovvienimi ancor, ch'ai piti cocente Sole,
E ben di pianto degna c di pictate
Eia memoria. In voci alte e dogliose
Disse Scbcto un di queste parole :
0 sorda più del mar, nata di scoglio,
Nutrita di velen dalle balene, [glio.
Deh ferma II passo e rompi il duro orgo-
L’ istoria delle lunghe, aspre mie pene
Non ti dirò, ch’annoverar sarebbe
Tulle di Libia le minute arene.
Basti saper, che ben mi si dovrebbe
Giusta pietà ila que’ begli occhi onesti
Onde la fiamma al cor ne venne e crebbe.
So che conosci Alclppe,e che intendesti
Quanto ardea già di me , nè mai la volli :
Cosi l' anima mia legar sapesti.
Ornai li san chiamare i sassi , I colli :
Tante volte io ti chiamo , e cosi spesao
Son da quest' occhi il di bagnati e molli.
lo son Sebeto tuo, se pur me stesso
Conosco bene, e tu T conosci ; ascolta :
10 son quel ch'era dianzi, io son quei desso.
Questa colomba che alla madre ho tolta
Starnali nel nido, e tra fior bianchi e gialli
Questa ghirlanda in mille nodi avvolta.
Io t' ho serbato, e questi bei coralli
Purpurei e bianchi, che del nostro mare
Colsi l'altr’ier ne' lucidi cristalli.
È ombra, anzi non è quel ch'csser pare
Quel ch'ir ti fa superba ; è men d un fiore,
Che non sarà dlman , codi' oggi appare.
Non vive sempre II Ilei vivo coiore
Del giglio, c in un mattln la spina perde
11 tcsor delle rose, Il breve onore.
Appena vicn tra noi , che si disperde,
E quasi insieme appare e si nasconde
Mortai bel là, ch’a un punto è secca e verde.
Nettunoè 11 padre mio re di quost’onde ;
Nè pescator è qui presso o lontano,
Che più di medi nasse o reti abbonde.
Chi nuota più, chi più destra la mano
Tiene al pescar, sia purla notte o’I giorno.
Sia pur turbatoli mar, sia quoto e plano?
Deh vieni ornai : la piaggia, il lito intorno
Ti chiama meco all'ombra, ed io ti chiamo
Di questo lauro di bei rami adorno ,
Poiché lasciai per le già l'esca c l’amo.
Non disse più, che udir ben si potesse ;
Perchè troncando il suon de' suoi lamenti
Ecco mossa a pietà per tutto il colle
Con voci rispondea flebili e spesse :
Nè pietra il monte avea, clic de' cocenti
Sospir non s' infiammasse, o fatta molle
Non fosse dall' umor degli occhi suoi.
Questo fu 11 fin de' giovani infelici,
Misero esempio di dolore eterno,
lo non curo altro più : se meco vuoi,
Potrai venir, che in liti più felici
Pescar ne fie concesso c state c verno.
li t. I.ANTO.
Verrò dovunque andrai : ma perchè temo
Che non m’aspetti indarno ai lito loia ,
E sfornita ho la barca e rotto un remo
E la rete lasciai bagnata e sola :
Diman poi ragionar di ciò potremo.
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SONETTI
NICOLO FRANCO.
Scampato da naufragio, consacra un roto a
Nettuno.
La sacra carta , in cui dipinta appare
L’ultima mia fortuna , e la figura
Del già rotto temon, clic in bianca e pura
Cera consacro al tuo dhino altare;
E gli umidi miei panni, o re del mare,
Sospesi pur a te, cui tanta cura
È stata mia salute, c da sì dura
Sorte sovvenne il mio desio campare :
Fien almeno a’ noccliier ricordo degno
Di dar i voti a chi benigno ascolta
Sul passo estremo 1’ altrui mal indegno :
E forse esempio a chi più d’ una volta
Ritenta onde fallaci In delio! legno,
Poco la mente avendo a Dio rivolta.
Fa dono di coralli e di gemme a Galateo.
Questi ricchi coralli, o Galatea,
ToiU dal fondo ai più lontani mari.
Avrai nel collo, e potran gir di pari
Col più vago moni! di Cìterea.
E queste gemme , o mia terrestre Dea,
Faranno al capo tuo pur fregj cari ,
Come tesori tra piò ascosi e rari
Ch’abbia l'onda chiarissima eritrea.
Non già che in te le perle e l'ostro c l'oro,
E l’avorio non slen doni Infiniti ,
Con quanto il Ciel ti diè del suo tesoro;
Ma per quinci mostrar, che mai smarriti
Non ho tuoi lumi, e la beltà ch'adoro,
Stella m* è stata per diversi liti.
ALFONSO DA V ALO.
Imprimi» bonaccia.
In meato all’ onde salse In fragit legno
Un pescalor vld’ io d’età novella,
A cui il fior novo per la guancia bella
Fatta ancor non avea pur picclol segno.
Egli adoprav a ogni sua fona e Ingegno
Per gire In porto , e fuggir la procella
Che dietro lo seguia con questa e quella
Onda, mostrando ognor più fero «degno.
Ecco i pesci eh' io tolsi , ti ri torno ;
La rete mia li dono, c non m’ i grave
Cosi con umil voce al mar dicea.
Allor allor si fe’ sereno il giorno,
L'ondc tranquille, e ’l vento aura soave :
E in braccio nel raccolse Galalca.
BERNARDO TASSO.
l.odi ardile di un pescatore ad Amarillì.
Mentre lieti traea Cromi ed Aminta
Con le nodose reti 1 pesci a riva
Per l'onda queta e d'ogtil orgoglio priva,
Da' be' raggi del Sol tutta dipinta;
L'irta chioma di fior candidi avvinta
Micodc , a cui la prima piuma usciva
Dalle purpuree gole, errando giva
Con la barchetta sua di frondi cinta :
E pieno di dcslr caldo c gentile, [la,
L'acqua mirando in questa parte e’n quel-
Allc figlie di Nereo alto dicea :
Non i Ide unqua il mar d'india, o quel di
Ninfa, come Amari ili, adorna e bella ; [Tiie
E perdonimi Dori e Galatea.
CROCALE, GALATEA.
EGLOCA.
Là dove i bianchi piè lava il Tirreno
D'Inarime , discesa era per sorte
Crocale mesta a ragionar con Tonde;
A squarciarsi dolente il crine e 'I seno ,
E dolersi de' fall c della Morte.
Crocale, che nell' alte e ricche sponde
Nacque del Tebro , di reale e chiaro
Sangue; la più gentil Ninfa e maggiore,
Ch' unqua nascesse, ov' ei bagni ed Inonde
Co’ suoi corni 11 terren ; per cui si caro
Si fico Sebcto, aliato a tanto onore :
E piangendo dicea rivolta ai mare ,
Con interrotta voce e dolorosa:
Ninfe, die vaglie in questo salso umore,
Nel molle letto di quest' acque amare
Errando ile talor , dell’ angosciosa
Crocale ed infelice udite II pianto;
E le lagrime mie nel grembo accoglie
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POESIA PISCATORIA E RUST1CA1.E.
I.’ alga clic sia nel vostro fondo ascosa.
GIÀ di soave c dilettoso canto,
Or v* empirò di piotale e di doglia.
Poi che Datalo mio non è più meco;
Datalo mio, per cui cara e gradita
l!n tempo tenni questa frale spoglia.
Deh perche come col pensier son seco ,
Nè mai mi parto , non è seco unita
Quest’ alma in Ciel, ov’ei si gode e vive?
Perchè non portò seco al suo partire ,
Come fece il mio bene, anco mia vita?
Udirò il grido, il grido udir le Dire
Del mar pieno di doglia e di martire ;
E lasciar gli amorosi e dolci balli.
Allora fìalatca la voce amata
Conobbe , e la cagion dei suo Languire ;
Che spesso fuor di quei liquidi calli
Era con lei di soggiornar usata ;
Mentre che lieta del suo chiaro sposo
Cintar soleva in voce alta e gentile
La famosa vittoria ed ouorata,
Che fece gir col volto rugiadoso
Ritolto verso il Ciel con fero stile
Piangendo Sena , Rodano e Carena
11 lor signor da lui gii vinto e preso
SI , che 1 suo pianto udì 1’ ultima Tile ;
ET nevoso Appennino ancor ne sona.
Onde col cor d' alta pielate acceso
Lasciando le compagne e ’1 suo diletto.
Veloce fuor de’ salsi alberghi uscio :
Ed abbracciata lei , che ’l petto offeso
6' arca più volte, e T crin, con dolce alTetto
Versò seco di pianto un caldo rio ;
Indi chiudendo alle lagrime il varco,
Baciando il molle e rugiadoso volto
Disse : Poi che destino acerbo e rio ;
Poscia che T Ciel delle tue gioie parco
Ha si tosto il tuo sposo a sè ritolto
Per non renderlo mai , poscia che 1 fati
Non si sanno pentir, poui agli affanni,
Pon freno al duol nel molle petto accolto ;
Nè far oltraggio a' crini crespi , aurati ;
Un dolce seco obblio porti i tuoi danni,
Qie ristorar potrai con maggior bene ,
Pur che ti piaccia ; rasserena il viso,
E seco il tuo dolor abbino gli anni.
Nereo mio padre di quest’ ampie arene ,
Di quest' onde signore , ha’l cor conquiso
Dalla tua gran beiti : Nereo figliolo
Dell' Occan , del gran padre Oceano :
E co' pensier ne’ tuoi begli occhi affiso
Pogge 1 piacer , e su pensoso e solo ;
E t’ ha chiamato lungamente in vano :
Non sdegnar si gran re , poi che ti chieda
Per sua sposa e signora : aiu regina
Sarai di questo mar spaziuso c piano :
Tanta greggia non ha citi più possiede
Quanta nc’ prati bei della marina
Ti pasce ; un carro già d" avorio e d’ oro
Di man di Aulomedou fatto, ti serba.
Col qual girai per l’onda cristallina;
E tante gemme c tanto altro tesoro, [bas
Quanl’ arene han quest’ acque, o fiori Ter-
Quattro vaghi delfini al giogo avverai
Scielt* ha già fuor de’ suoi più cari armenti,
I quai il porteran Ilota c superba
Fra mille tuoi diletti e mille verri.
Malgrado de’ contrari e feri Tonti.
Teco mille Tritoni e Ninfe mille
Vcrran danzando in bella schiera ogn’ora ;
E staran sempre a’ tuoi servigi intenti
E Glauco c Paicmone , ed altri ancora.
A te servirà il mare , e umile c altero
A tua voglia ogn’ or fia ; ecco che come
Donna e regina sua t’inchina e onora:
Già ti salutan l’ onde , c già leggero
Per onorar il tuo pregiato nome ,
li tuo fiume natio con altri cento
Affretta il corso ; o cara Ninfa, ascolta ;
0 Ninfa , tu pur piangi , e l’auree chiome
Squarciando, segui il tuo duro lamento;
Ed io ti prego in vano : o cieca e stolta.
Tu sprcni si gran Dio, sì ricco regno!
Cui Crocalc , se teeo ogn’ or ritorni
Aci ne’ tuoi piacer , nè giammai sciolta
Ti reggia da! suo collo ; il petto pregno
Di duol, lascia ch’io sfogh i ; atri soggiorni
Conformi sono al mio stato Infelice :
Quel che pria mi s’ aggiunse, I nostri amori
Scn porta seco , e i mici beati giorni ,
Quel se gli abbia, e nc goda In Ciel felice.
Tu, Galalea (se ni’ ami), i mìei dolori
Accompagna col pianto c co’ sospiri;
E T marmo onora , che quell’ ossa serra.
Di cui suonan nel mondo alti rumori ;
La cui gloria , perche mill’ anni giri
II Sol, non temerà del tempo guerra.
In questa Apollo al bel nostro orizzonte
Tolse la luce ; e già con le fosc’ ali
Copria la Notte il cerchio della terra;
Onde ritorno fc’ Crocale ai monte
Accompagnala da’ suoi lunghi mafi ,
All’ acque Galatea salse e fatali.
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CROCALE, GALATEA.
4»
SONETTI.
MARINO.
Offre a una Ninfa alcuni coralli.
(io bosco di coralli in que' confini
LA dove giace U mar placido e muto.
Fu Taltr’ ter Luta mia da me veduto,
Mentr' io alava a raecor nicchi ed echini.
Oggi v’andai soletto, e i cristallini
Fondi lutti cercai stanco e battuto,
E dai profondo scoglio aspro e acuto
Con gran (orsa e sudor colsi i più fini.
Duo tronchiacenlo rami l' pria ne scelsi
Per far le corna alia tua cerva , e poi
Altre branche minori anco ne svelsi.
Qui gli serb’ io : ma se da me tu vuoi
Di coralli si bei dotti si eccelsi ,
Dona i coralli a me de' labbri tuoi.
A Tritone e Proteo.
Triton, deb s’ bai pietà de’ miei tormenti,
Gonfia la tromba tua torta ed adonca ,
E ’ndlctro a snon di ranca voce e tronca
Richiama i bianchi e procellosi armenti.
Proteo tu, che gli affreni e gii rallenti,
E guidi fuor della muscosa couca ,
Glie riedano alla cupa , ima spelonca
Da' lor liquidi paschi ornai consenti.
Tomi in tranquilli, molli campi azzurri,
Siala foce di Eolia in tutto chiusa.
Restio taciti i venti e Tonde immote.
Perché dal fremer lor, da’ lor susurri
Fatta sorda ornai I.HIa empia si scusa ,
Che i miei prieghi , i miei pianti udir non
potè.
Narra alcuni amori di pesci.
Oggi Ih dove il destro fianco ad Ischia
Rode 11 Tirren col suo continuo picchio.
Vidi conca con conca, e nicchio e nicchio
Baciarsi , e com’ all'un l'altro si mischia.
E la biscia dei mar, che pur s’ arrischia
Venirne infin coli presso al crocicchio,
Ove del Sola al lurainnao spicchio
La chiama l' angue innamorato e fischia.
E vidi anco d'amov T algente anguilla
Arder fra V acque, e gir di grò tu in grotta
I lor maschi seguendo occhiaie e saipe.
Né perù vidi mai, perdila Lilla,
Tc fatta a me cortese , e se non rotta,
Mcn dura dei tuo cor b rigid' alpe.
MAGGI.
Tarli allo onde che accolsero la sua donni.
Scioglie Eu riila dallido. Io corro e stolto
Grido aiTonde: che fate? Una risponde :
Io che la prima bo ’l tno bel nume accolto,
Grata di si bri don , bacio le sponde.
Dimando all’altra: allorché ’l pin fu sdol-
Mostró le luci al dipartir gioconde? [to,
E l'altra dice: anzi serena il volto
Fece tacer il Tento e rider T onde.
Viene un’altra e m’afferma : or la vM’ lo
Empier di gelosia le Ninfe algose ,
Mentre stri mare ì suoi begli occhi aprio.
Dico a questa : e per me nulla t' impose ?
Disse aimcn la crudei di dirmi addio ?
Passò Tonda villana e non rispose.
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6*0
POESIA PISCATORIA E RUSTICANE.
SONETTI POLIFEMICI.
FILIPPO LEERS.
Poliremo a Galatea.
Quel nappo, o Galilea, eli' appeso al collo
Porto l’està, quando le biade io falcio,
Sculto è d’intorno da man greca, ed bollo
Tolto ad un Fauno che schiantomml un sal-
Di qua dorme Sileno ebbro e satollo, [do.
Avvolto al ciin di torta lite un tralcio;
1)1 là stanno le Muse, ed etti Apollo,
Etti 11 catal che diede acqua col calcio.
Donar lo soglio a Foloc graziosa ,
Dal capei riccio e di color di tufo ,
Più di te , se non bella , alme» pietosa.
Cosi gracchiò quel giganteo tartufo
Di Polifemo: e fu leggiadra cosa.
Che per la Ninfa gli rispose II gufo.
CASAREGI.
Aci e Galatei.
Ha già la nostra piccioletta barca
Scorta il fiero Ciclope , e già c' é sopra.
Ad , I remi afTretliam , le braccia inarca,
E quanto puoi telocemcnte adopra.
Fu pur Natura a lui di luce parca ;
Or donde avtien, che da si lungo el scopra?
\ e’ cornei (lutti sorerchiando varca!
Ahi par che tutto il mare e II del ricopra.
Ma tu , pietosa Dori , Il nostro errante
I^gno soccorri , o genitrice , o Dea ,
K salta me col mio fedele amante.
Cosi, traendo alti sospir, dlcea,
Or la piaggia guardando, ora il gigante,
L’amor delle Nereldl , Galatea.
Polifemo briaco.
Poi che sotto il gran sasso Ad sepolto
Cangiar sua forma il ficr gigante scorse ;
Edre e corimbi in vasto cerchio attorse,
E fenne siepe all’ irto crine e folto.
Quindi per gioia baldanzoso e stolto ,
Fauni e Ninfe esultando , all’antro corse ,
E I labbri a un ampio tìn porse e rlporse ,
E di mosto inzuppossi il petto e ’l volto.
Finché di ber sazio non già, ma stanco,
E scorsi traballando intorno tutti
E i monti e i piani , e già di forze manco.
Orribilmente dal vinosi flutti
Urtato e vinto, il suol presse col fianco,
E cosi disse tra gorgogli c rutti :
levito di Poliremo a Calate»
Rabbioso mare infra Cariddi e Scilla
Nell' onde sue voraginose assorba
Chi l’alma vite, onde ogni ben distilla.
Gode in veder digrappoiala ed orba.
Né stella per lui mal lieta e tranquilla,
Ma sempre ruoti fulminosa c torba :
Su, Galatea, quella gran botte spilla,
E il suo nettare in del Giove poi sorba, [io
In quello, In qtiellnambrispumante poz-
Mceo t'immergi, e lascia d' Ad il gorgo
Povero d'acque, limaccioso e sozzo.
Per te non poco e vile umore accozzo;
Porporeggiante mare ecco ti porgo
Ecco cent’ otri almi beanti ingozzo.
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• 1
LUIGI PULCI.
LA BECA.
Ognun la Neneia (ulta notte canta ,
E detta Beca non se ne ragiona ;
Il suo Vallerà ogni di si millanta
Cbe ta sua Neneia è in favole e in canzona ;
La Beca mia, eh’ è beila tutta quanta,
Guardate ben come ’n su la persona
Gli stanno ben le gambe, e pare un flore
Da fare altrui sollucberare il cuore.
La Beca miai solo un po' piccina,
E zoppica , eh’ appena te n' adresti.
Nell'occhio ha in tutto una tal magltolina,
Cbe stu non guardi , tu non la vedresti.
Pelosa ha intorno quella sua bocchina ,
Che proprio al barbio l’assomiglieresti :
E come un quattrln vecchio proprioèblan-
Solo un marito come me le manca, [ca :
Conte le vespe all’ uve primatiede
Tutto di vanno d’intorno ronzando,
E come fanno gli asini alle mlcde,
E’ gaveggin ti vengon codiando ;
Tu gl’infinocehi come le salsicce,
E con V occhietto gii vai infinocchiando :
Ha stu potesti di quell' atto alarli ,
Inaino al re verrebbe a gaveggiarti.
Tu se’ più bianca che non è il bucato,
Più colorila che non è il colore,
Più sollazzevol che non è il mercato,
Più rigogliosa che l' imperadore ,
Più frammettente che non è l' aralo,
Più zuccherosa che non è l’ Amore ;
E quando tu motteggi fra la gente.
Più che un bev’ acqua tu se’ avvenente.
Beca, sa' tu quand'impazzai d’amore]
Quando ti veddl quel color cilestro ,
Che tu andavi alla cittì del Fiore,
E monna Ghilla avea sotto il canestro :
|* mi sentii cosi bucare il cuore.
Come stu ’l foracchiassi col balbcstro;
E dissi : lì ne va a que’ cittadini ;
Vedrl che melarance e gareggiai.
Abbiate tutte quante passtone ,
Fanciulle, chè la Beca è la più bella,
E canta sopra un cembol di ragione,
E del color dell' aria ha la gonnella,
E mena ben ta danza in quel rlddone.
Non c'è più dolce grappola , quant’ ella :
Ch' l’ mi sollucro , quando ella sgambetta,
DI procurar più su che la scarpetta.
Non ri vada più bella a canto o festa ,
Che la mia Beca è la più colorila ,
E sempre fior di sciamilo eli' ha in testa,
E par con esso una cosa fiorita.
Quant’ una coppa d’oro eli’ è onesta,
Ch' ella non è la Beca punto ardita,
E va sempre in contegno d’un bel passo ,
E non riguarda mai se non più basso.
La Beca è la più dolce trentpellina :
Tutta la notte nel letto tanciona ,
Ed lo pur suono, e casca giù la brina ,
E vomml livcrando la persona :
E com'io tocco la mia pilfcrina,
1’ sento che la ride , e dice : suona :
Ma s’ 1' mi cruccio , come dicon quegli ,
lo ne farò un di duo tronconcegll.
Io t'arrecai stanotte, Beca, un maio.
Ed appiccatol dinanzi al balcone :
Io mi tirai poi dietro al tuo pagliaio,
Chè ’l vento mi brucava il capperone ,
E conihattea Ventatolo e Rovaio :
E coni' lo ebbi bocca allo sveglione,
Per farti, Beca , una cosa pulita,
MI prese appunto il granchio nelle dita.
lo er’ iersera dal noce di Melo
Da quel muracelo lì da' sararlni :
Vegnavamo io. Beco, Tonio, e Meio
A veggbiar teco quattro gavegglnl.
Che dira’ tu se mi debbi dir reio ;
Che noi scontrammo tanti lumicini.
Che mal vedesti più nuova faccenda :
Ognun giurò che l’ era la treggenda.
Ognun mi dice : che hai tu fatto , Nulo,
Perche s' è teco la Beca crucciata t
Per mai che Dio ti dia , or l’ hai saputo,
Pcrch' io le dissi che s* era lisciata ;
Ma la sogghigna quando la saluto ,
Chè la 9' è tutta poi raddolicata ;
Non si cansa perciò quando la intoppo;
Ch’ io ne vo ad essa, eh’ io non palo zoppo.
Beca, per queste tue tante loquele,
Ch' io so' per modo pazzo de' tuoi flchl ,
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102 POESIA PISCATORIA E RUSTICALE.
Ch’i’ te ne lascerìa pan bianco e mele;
Dunque facciamo un poco com’ amichi :
E se tu vuoi da me nespole o mele
0 castagnacci , fa* che tu mel dichi :
E se tu vuoi le more , che tu abbia ,
Cir i* te le recherò di buona rabbia.
Se tu vuoi alle volle una insalata
Di raperonzo , o vuol di cerconcello ,
0 eh' io ti leghi un dì qualche granata
Al bosco, chiedi pur, vezzo mio hello :
0 se tu vuoi di Gor la mattinata,
0 ch'io pigli di granchi un mazzatellot
Tu sai eh’ i’ mi dispero , che tu goda;
De' pesci avai non se uc piglia coda.
Io ti so'. Deca , a casa bazzicato
Già tanto tempo, perch’io li gaveggio;
E mai non 1’ ho più detto a corpo nato ;
E noi dir tu , chè noi faremo peggio.
Io torno proprio com’ un disperato
La sera a casa, quand’io non ti veggio ;
E per aver di non trar guai scusa ,
Io piglio un poco la mia cornamusa.
lo vorrei un po’... Reca , tu m’ intendi ;
Io tei dirò , ma licmmcl di segreto ;
Deca mia , guata che se tu m’ intendi ,
lo li gaveggerò sempre poi drleto.
A te che monta quando tu merendi?
Deh vlentene poi qui nel castagneto :
Noi faremo , vedrai , buon lavorio ,
Ma reeberotti diverso il bacio.
S’ io ti vuoi, ch’io tei metta nell’ anello,
El colai, dico el dito, die chil dica,
Vlentene un dì là da quel mucchi0 rello
A piè del pero mio, dov’è la bica,
In sui Gito meriggio : allotta è’I bello,
Ch’c’ cristian dorinoti, chè durali fatica.
Tu sai che Zirlo a’I ser mi t’impalmòc
Fin quando Carlo Mano ci passòe.
Tu sa’ eh’ l’ sono ignorante e da bene ,
Ed ho bestiame e case e possessione.
Se tu togliesse me , i’ torre’ tene :
Un piatici basteria fra due persone :
Io ho com’ uva le bugnole piene,
E sempre del gran d’ anno ho nel cassone;
E godcremei insieme com’ un sogno,
E non arai a cercar d’ alcun bisogno.
Indozzar possa quella mala vecchia
Che tutta notte sta a rivilicare ;
Vengale il grattagranchio nell’ orecchia ,
Clic non la possa 11 capo brulicare ,
Deca mia dolce più eh' un cui di pecchia ;
Ch’ ella t* ha sempre tolto a rimorchiare :
La t'andrà tanto rimorchiando, ch'io
Tì farò come fe' ier l' asin mio.
Non ti bisogna dileggiar parecchi ,
Ch' i' mi son bene addalo d’ un fancello,
Che ti gaveggia , Deca , di sottecchi,
E famm i proprio un cuor coni* un cancella
Dappoi eh’ e’ t’arrecò que’ marron secchi.
Ma il fatto sta a rider poi nell’ anello ;
Darmi nidi' anni tu mcl porga al dito.
Che ce lo metta come tuo marito.
Tu vuoi sempre di dietro e’ gaveggim,
E non daresti loro uu berlingozzo.
Quest’ altre danno insiiio a’ moccichini;
Almanco come al can mi dessi uu lenza.
E non conosci più c’ cornamusini,
0 che 1’ uorn sia stuaello o bello o sozzo :
Tu non arai mai senuo, i’ ti prometto.
Se io, clic n* bo buon dato, non tei metto.
Deca, sa* tu quel clic Vallerà ha detto t
Ch’io l’ ho sturato e rotta la callaia;
E che per mezzo il fanno per dispetto
T’ ho cacciato il bociarchio in su peli’ aia;
E ch* io son quel clic brulico in sul tetto
Sempre la notte, quando il scrchio abbaia;
Io voglio al podestà ir per favore ,
E ni*- itogli al sindaco il rettore.
Tu sai ben, Deca, com’ io tei rivilìco,
E s’ lo ti suono ben quel zufolctto ;
0 quando fu ch* io seminai il bassilico,
E die eh’ e* par che rovini giù ’l tetto.
Quest’ altri gaveggini stanno in bilico
Per farli serenato a mio dispetto :
Se tu vuoi la più bella lempellata,
Noi verremo a sonarti una brigata.
La Deca mia è soda e tarchialclla ,
Che gli riluce sempre mai il pelo ;
Ed io ne vo come un birbone a ella
La sera In sul far bruzzo , eh’ io trafelo.
Squasimodeo, ch’ella rnl par più bella,
E buzzico un muccln quivi dal melo :
Ella mi guata, e non mi tìen più broncio,
Ch* io mi son pur avai con lei riconck).
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»
LORENZO DE’ MEDICI.
LA NENCIA DA BARBERINO.
Ardo d’amore, e convienimi cantare
Per una dama che mi strugge il core ;
Ch’ogni otta eh’ io la sento ricordare.
Il cor mi brilla , c par che gli esca fuorc.
Ella non trova di bellezza pare :
Con gli occhi getta fiaccole d'amore :
lo sono stato in città e castella,
E mai non vidi gnu na tanto bella.
lo sono stato a Empoli al mercato,
A Prato, a Monticelli, a San Casciano,
A Colle , a Poggibonsi , a San Donato,
E quinamonte insino a Diromano ;
Figline , Castelfranco ho ricercato ,
San Pier, il Borgo , Montagna e Gagliano :
T*ìù bel mercato che nel mondo .sia ,
È a Barberin, dov’ è la Nencia mia.
Non vidi mai fanciulla tant’ onesta ,
Nè tanto saviamente rilevata :
Non vidi mai la più pulita testa,
Nè sì lucente, nè si ben quadrata.
Ed ha due occhi che pare una festa ,
Quand’ ella gli alza, e che ella ti guata :
Ed In quel mezzo ha il naso tanto bello ,
Che par proprio bucato col succhiello.
Le labbra rosse paion di corallo.
Ed havvi dentro due filar di denti,
Che son più bianchi che quei di cavallo :
E (fogni lato ella n' ha più di venti.
Le gote bianche paion di cristallo
Seni’ altri lisci, ovver scorticamenti i
Ed in quel mezzo eli* è come una rosa :
Nel mondo non fu mal si bella cosa.
Ben si potrà tener avventurato
Chi sia marito di $1 bella moglie ;
Ben si potrà tener in buon di nato
Chi arà quel fioraliso senza foglie ;
Ben si potrà tenersi consolato
Che si contenti tutte le sue voglie
D’ aver la Nencla , e tenersela In braccio
Morbida e bianca , che pare un sugnaccio.
lo t’ ho agguagliata alla Fata Morgana
Che mena seco Unta baronia :
Io t’ assomiglio alla stella Diana,
Quando apparisce alla capanna mia :
Più chiara se* che acqua di fontana ,
E se* più dolce che la malvagia :
Quando ti sguardo da sera o mattina ,
Più bianca se’ che il Oor della farina.
Ell’ha due occhi tanto rubacuori,
Ch’ ella trafiggere’ con essi un muro.
Chiunque ia ve’,convienche s* innamori ;
Ella ha il suo cuore, più ch*un ciotto], duro,
E sempre ha seco un migliaio d’ amarori :
Che da quegli occhi tutti presi furo;
Ma ella guarda sempre questo e quella
Per modo tal che mi strugge il cervello.
La Nencia mia che mi pare un per lino.
Ella ne va ia mattina alla chiesa,
Eli* h? la cotta pur di dommaschino,
E la gammurra di colore accesa,
E lo scheggiale ha tutto d’oro fino,
E poi si pone In terra alla distesa ,
Per esser lei veduta c bene adorna ;
Quando ha udito la messa , a rasa torna.
I.a Nencia a far coielle non ha pari.
D’andare al campo per durar fatica;
Guadagna al filatoio di buon danari ,
Del tesser panni lini die tei dica :
Ciò eh’ ella vede, convien eli’ ella impari;
E di brigate in casa ella è amica ,
Ed è più tenerella che un ghiaccio.
Morbida e dolce, che pare un migliaccio.
La m* ha si concio e in modo governato.
Che più non posso maneggiar marrone;
Ed hamnii dentro cosi avviluppato, [ne,
Ch’ io non posso inghiottir già più hocco-
E so’ come graticcio diventato,
Tanta pena mi dà e passione;
Ed ho fatiche assai , e pur supportale,
Chè m* ha legato con cento ritortole.
lo son si pazzo della tua persona.
Che tutta notte io vo traendo guai ;
Pel parentado molto si ragiona;
Ognun dice : Vallerà, tu l’arai :
Pel vicinato molto si canzona ,
Chè vo la notte intorno a’ tuoi pagliai ,
E sì mi caccio a cantare a ricisa;
Tu se* nel letto c scoppi delle risa.
Non ho potuto stanotte dormire;
Miti’ anni mi parea che fussl giorno ,
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POESIA PISCATORIA E RUSTICALE.
504
Sol per poter con le bestie venire
Con esso teco e col tuo viso adorno.
E pur del letto mi convenne uscire;
Posimi sotto il portico del forno ,
Ed ivi stetti più d’ un’ora e mezzo,
Fin ebe la Luna si ripose al rezzo.
La Nencia mia non ha gnun mancamento;
È lunga e grossa e di bella misura :
EU' ha un buco nel mezzo del mento,
Che rimbellisce tutta sua figura;
Ell'è ripiena d'ogni sentimento :
Credo che la formasse la Natura
Morbida e bianca, tanto appariscente.
Che la trafigge il cuore a molta gente.
Io t’ ho rcrato un mazzo di spruneggi
Con coccole eh’ io colsi avale avale;
Io te le donerei , ma tu grandeggi ,
E non rispondi mai nè ben nè male ;
Stato ra’è detto che tu mi dileggi ,
Ed io ne vo pur oltre alla reale ;
Quando ci passo, che sempre ti veggio,
Ognun mi dice come ti gareggio.
Tutto di icr t’aspettai al mulino
Sol per veder se passavi indiritta :
Le bestie son passate al poggiolino ,
Vientene su , chè tu mi par confitta.
Noi ci staremo un pezzo a un caldino,
Noi ce n’ andremo Insieme alle Poggiuole ;
Insieme toccheremo le besliuole.
Quanto li veddi uscir della capanna
Col cane in mano e con le pecorelle ,
El cor mi crebbe allor più d' una spanna ,
Le lagrime ini vennon pelle pelle.
P m’avviai in giù con una canna
Toccando e’ mici giovenchi e le vitelle :
1* me n’ andai in un burron quinccntro ,
1’ t'aspettava, e tu tornasti dentro.
Quando tu v ai per I* acqua con Torcetto,
Un tratto venistù al pozzo mio;
Noi ci daremo un pezzo di diletto,
Chè so che noi farem buon lavorio ;
E cento volte lo farci ristretto.
Quando fussimo insieme e tu ed lo;
E se tu de* venir, chè non li spacci
Avai, che viene il mosto c’ castagnacci ?
E* fu d’ aprii, quando m’ innamorasti,
Quando ti veddi coglier la 'malata ;
I’ (e ne chiesi , e tu mi rimbrottasti ,
Tanto che se ne andate la brigata ;
1’ dissi bene allor dove n'andasti;
Ch’io ti perdetti a manco d’ un* occhiata ;
Dall' ora innanzi i’ non fui mai più desso , j
Per modo tal, che messo m’hai nel cesso.
Ncnciozza mia , i’mcne voglio andare.
Or che le pecorelle voglion bere
A quella pozza ch’io ti vo’ aspettare;
E quivi in terra mi porrò a sedere,
Tanto che vi ti veggìa valicare;
Voltolerommi un pezzo per piacere;
Aspetterotli lauto che tu venga ;
Ma fa che a disagio non mi tenga ,
Nenciozza mia, eh’ i’ vo’ sabbaio andare
Fino a Fiorenza a vender duo’ somelle
Di schegge , che mi posi ieri a tagliare
In mentre che pasceva» le vitelle :
Procura ben se ti posso arrecare,
0 se tu vuoi che l’ arrechi cavelle,
0 liscio o biacca dentro un cartoccino ,
0 di spinetti, o d’agora un quattrino.
Eli’ è direttamente ballerina,
Ch’ella si lancia come una capretta,
E gira più che ruota di mulina,
E dassi delle man nella scarpetta.
Quand’ ella compie ’l ballo, ella s’ inchina.
Poi torna indietro, c due salti scambietta ;
Ella fa le più belle riverenze.
Che gnuna cittadina di Firenze.
Chè non mi chiedi qualche zacchereUa?
Che so n* adopri di cento ragioni :
0 uno intaglio per la tua gonnella,
0 undnegll, o magliette, o bottoni;
0 pel tuo camiciotto una scarsella ,
0 cintolin per legar gli scuffio»! ;
0 vuoi per ammagliar la garomurrlna
Una cordella a seta cilestrina.
Se tu volessi per portare al collo
Un corallin di que’ bolloncin rossi
Con un dondol nel mezzo, arrecherollo ;
Ma dimmi se gli vuoi piccoli o grossi :
E s’ io dovessi trargli dal midollo
Del fusol della gamba, o degli altri ossi,
E s’ io dovessi impegnar la gonnella,
l’ tc gli arrecherò, Nencla mia bella.
Se mi dicessi quando Sieve è grossa ,
Gettati dentro, Tini vi galleria:
E s’io dovessi morir di percossa,
il capo ai muro per te batteria:
Comandami , se vuol, cosa ch’io possa ,
E non ti peritar de’ fatti mia:
Io so che molta gente ti promette:
Fanne la prova d’ un pa’di scarpette.
Io mi sono avveduto, Ncncia bella,
Clf un altro ti gaveggia, a mio dispetto ;
E s’io dovessi trargli le budella,
E poi gittarle tutte inturnun tetto.
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LA NENCIA DA BARBERINO.
Tu ui eb’io porto allato la coltella
Che taglia e pugne , che par un diletto ;
Che s’io el troia»! nella mia capanna,
lo gliele caccerei più d’ una spanna.
Più bella cosa che la Nencia mia ,
Ne più dolciata non si troverebbe.
Ella e grassoccia, tarchiata e giulta,
Frescoccia e grassa, che si fenderebbe j
Se non che l' ha in un occhio ricadia;
Chi non la mira , ben non se n' addrebbe ;
Ha col suo canto ella rifa ogni festa,
K di menar la danza ella è maestra.
Ogni cosa so fare, o Nencia bella,
Purché mel cacci nel buco del cuore:
Io mi so mettere e trar la gonnella,
E di porci son buon comperatore:
Sommi cignere allato la scarsella,
E sopra tutto buon lavoratore :
So maneggiar la marra ed il marrone ,
i! suono la staffetta e lo sveglione.
Tu se* più bella che madonna Lapa,
E se' più bianca eh' una madia vecchia :
Piacimi più eh' alle mosche la sapa,
E più che fichi- fiori alla forfecchia.
Tu se’ più bella che 'I fior della rapa,
E se' più dolce che 'I mel della pecchia:
Vorrelt! dare in una gota un bacio,
Ch' è saporita più che non è il cacio.
Io mi posi a seder lungo la gora,
Baciandoti in su quella voltoloni ,
Ed ivi stetti più d' una mezz’ ora ,
Tanto che valicorono I castroni :
Che fa' tu , Nencia , che tu non vien fora !
Vlentene su per questi saliconi ,
Oh’ io metta le mie bestie fra le tua;
Che parremo uno, e pur saremo dua.
Nenciozza mia, eli' i’me ne voglio anda-
E rimenarle mie vitelle a casa: [re.
Fatti con Dio, eh' l’ non posso più stare,
Ch' i' mi sento chiamar a mona Masa :
Lascimi il cuor, deh uon me lo tribbiare :
Fa' pur buona misura c non fia rasa :
Fatti con Dio e con la buona sera ;
Sieti raccomandato il tuo Vallerà.
Nenciozza mia , vuo' tu un poco fare
Meco alla neve per quel salicele ?
Si , volontier, ma non me la sodare
Troppo, chi tu non mi facessi male.
Nenciozza mia , deli non ti dubitare ,
Chè l' amor di' io li porlo si è tale,
Che quando avessi mal , Nenciozza mia ,
Con la mia lingua te lo leveria.
Andiam più qua, chè qui u' è molto poca,
505
Dove non tocca il Sol nel valloncello :
Rispondi tu , eh' i' ho la voce fioca ,
Se fussimo chiamati dal castello.
Lievati il vel di capo, e meco giuoea,
Ch’ l’ reggia II tuo bel viso tanto bello;
Al qual rispondon tutti gli suoi membri
Si, che a un' anglolelia tu m'assembri.
Cara Nenciozza mia, l'aggio inteso
Un caprcttin, che bela molto forte :
Vientene giù, chè ’llupo si l’ha preso,
E con gli denti gli ha dato la morte.
Fa' che tu sia giù nel vallone sceso ,
Dagli d’un fuso nel cuor per tal sorte,
Che tu l' uccida , e che si dica scorto :
La Nencia il lupo col suo fuso ha morto.
lo ho trovato al bosco una nidiata
In un certo cespuglio d'uccellini :
lo te gli serbo, e sono una brigata,
E mai vedesti e' più bei guascherinl :
Doman t’arrecherò una stiacciata;
Ma perchè non s'adien questi vicini ,
Io farò vista per pigliarne scusa.
Venir sonando la mia cornamusa.
Nenciozza mia, i' non ti parre' sgherro,
Se di seu avessi un farscltino ;
E con le calze chiuse, s’io non erro,
Io ti parrei d’un grosso cittadino.
E non mi fo far zazzera col ferro ,
Perchè al barbiernon rio più d'un soldino;
Ma se ne viene quest' altra ricolta ,
lo me la farò far più d' una volta.
Adie, gigliozzo mio dei viso adorno:
l’ veggio i buoi ch’andrebbenarardanno:
Arrecherotti un mazzo, quando torno,
Di fragole , se al bosco ne saranno:
Quando tu sentirai sonare 11 corno,
Vientene dove suoi venir quest' anno:
Appiè dell’orto in quella macchlcrella
Arrecherotti un po' di frassinella.
lo t’ho fatto richiedere a tuo padre;
Beco n’ha strascinato le parole
Ed è rimavo sol dalla tua madre,
Che mi par dica pur eli’ ella non vuole :
Ma io vi vo' venir con tante squadre ,
Che meco ti morrò , sia che si vuole :
io l' ho più volte detto a lei e a Beco :
Deliberalo ho accompagnarmi teco.
Quando ti veggo tra una brigata.
Sempre convien ch'intorno mi l'aggiri;
E com' lo veggo cu" un altro ti guata ,
Par proprio clic del petto il cor ini spiri:
Tu mi se’ si nel cuore intraversala ,
Ch’i’ rovescio ogni di mille sospiri ,
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506 POESIA PISCATORIA E RUSTICANE.
E eoa sospiri tutti lucidando,
E tutti ritti a te , Mencia , gli mando, [da,
Nenciozxa mia , deh rien meco a mereo-
Chè vo' che no’ facciamo una insalala ;
Ma fa' che la promessa tu m'atteada ,
E che non se n’ avvegga la brigata:
Non ho tolto arme, con che ti difenda
Da quella trista Iloca sciagurata;
E so che l' ì cagion di questo affare ,
Che T diavo! si la posa scorticare.
La Mencia quando v a alla festa in fretta.
Ella s’ adorna che pare una perla;
Ella si liscia e imbiacca e si rassetta ,
E porta bene in dito sette anclla :
Ella ba di molte gioie ’n una cassetta;
Sempre le porta sua persona bella;
Di perle di valuta porta assai :
Più bella. Mencia , non vidi già mai.
Se Ui sapessi , Mencia , U grande amore
Ch’ io porto a'tuo’begli occhi stralueenti ,
Le lagrime eh' io sento , e ’l gran dolore ,
Che par die mi si sveglian tutti e’ denti ,
Se tu ’l sapessi, li creperc’ii cuore,
E lascieresti tuli' I tuoi serventi.
Ed ameresti solo il tuo Vallerai
Chè se' colei die '1 mio cuor si dispera.
Io ti veddi tornar, Menda , dal Santo ;
Eri sì beila , che tu in' abbagliasti :
Tu volesti saltar entro quel campo ,
Ed un tal micciolino sdrucciolasti :
lo mi nascosi 11 presso ’n un canto,
E tu cosi pian pian ne sogghinasli :
E poi venni oltre , e non parve mio fatto :
Tu mi guardasti e li volgesti a un tratto.
Ncncioua mia , tu mi fai strabiliare ,
Quando ti veggo cosi colorita:
Starei un anno senza manicare
Sol per vederti sempre si pulita :
S' io ti potessi allora favellare.
Sarei contento sempre alla mia vita :
S’ io ti toccassi un mieduin la mano ,
Mi parre'd' esser d'oro a mano a mano.
Che non li svegli, e Vienne allo balcone]
Menda, die non ti possa mai levare?
Tu senti ben die suona lo sveglione :
Tu te ne ridi e fammi tribolare.
Tu non sei usa a star Unto in prigione:
Tu suoi por esser pazza del cantare;
E ’n tutto dì non t' bo dato di cozzo ,
Ch' io ti vorrei donar nn berlingozzo.
Or chi sarebbe quella si crudele ,
Ch'avendo un damerino si (Tassai,
Mon diventasse dolce come un mele]
E tu mi mandi pur traendo guai:
Tu sai eh’ io li so suto si fedele ;
Merilerd portar corona e mai :
Deh sii un po' piacevoietta almeno,
Ch' lo sono a le come la forca al teao.
Mon è miglior maestra in questo mondo,
Ch’ è la Mencia mia di far cappegli ;
Ella gii facon que' brìcioli intorno.
Ch’io non veddi gii mai e’ più begli:
E le vicine gii stanno d' intorno;
Il di di festa vengon per vedegli:
Ella fa molti gratird e canestre :
La Nenda mia t il Sor delle maestre.
lo son di te più , Menda, innamorato,
Che non è ’l farfalitn della lucerna ;
E più ti vo cercando in ogni lato
Più che non fa il moscione alla taverna :
Più tosto ti vorrei avere aliato.
Clic mai di notte nn' accesa lucerna.
Or se tu mi vuoi bene , or su , fa’ tosto,
Or che ne viene e' raslagnacd e T mosto.
0 povero Vallerà sventorato.
Ben t'hai perduto il tempo e la fatto
Solevo della Mencia essere amato.
Ed or ni’ C diventata gran nemica;
E vo urlando come disperato ,
E lo mio gran dolor convien di’ lo dica.
La Menda m’ ha condotto a tal estremo;
Quando la veggio, tutto quanto tremo.
Menciozza mia, tu mi fai consumare,
E di straziarmi ne pigH piacere.
Se senza duol mi potessi sparare ,
Mi sparerei, per darti a divedere
S’ i’ t’ ho nei core ; e pur t’ hoa sopportare:
Tel porrei in mano , e farelel vedere :
Se lo toccassi con tua mano snella ,
E’ griderebbe : Mencia , Menda beila.
Menciozza mia , tu ti farai con Dio,
Ch’ io veggo le besti uole presso a casa.
Io non vorrei per lo baloccar mio
Nissuna fusse in pastura rimasi.
Io veggo benché l'ban passato il rio,
E sditomi chiamar da mona Masa.
Fatti con Dio; oh andar me ne vo* tosto,
Ch’ i’ sento Manni che vuol far del mosto.
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BALDOYINI
\
LAMENTO DI CECCO DA VARLDNGO.
Mentre maggio fioria li nell' amene
Campagne dei Varlungo all’ Amo In riva,
E spogliate d’ orror l' algenti arene ,
Tutto d’erbe novelle II suol vestiva :
Cecco II pastor, che In amorose pene
Per la bella sua Sandra egro languiva.
Alla crudet , che del tuo duol ridea ,
Con rosse note in guisa tal dicca :
Coni’ è possimi mai, Sandra crudele,
Cbe tu sia Unto a me nimica e'ngraUt
Che diascol t’ ho fati’ io, bocebin di mele,
Che tu slei si caparbia e arapInaUT
E quanto sempre pitie tl so' fedele ,
Sempre tl veggo pitie meco ingrugnate :
Ansi mentre il me cuor trascini e struggi,
1* tl vengo divieto, e tu mi fuggi.
Ma fuggi pure, e fuggi quanto il vento,
Ch’ i’ vo’ seguirti Iniln drento all' onferao:
Chi di star lltiritte I’ so’ contento,
Pur eh' l' stia teco in messo al fuoco eterno.
E s’io credessi dilclìar di stento.
Non tl lagglierò mal tute ne verno i
Sla pur brusco oseren, sia notte o giorno,
Vo’ sempre esserti presso c starti attorno.
Sia dolco il temporale , o sia gioiate ,
Pricol non e' ee , eh’ i’ mi discosti uh passo;
Al ballo, al campo, in chiesa, e ’n ugni lato
Mal non tl sto di lungi un trar di sasso.
Come l’ tl veggo, i’sono alto e blato,
Comunelle i’ non tl veggo, l' vo ’n fracasso;
E eh' e’ >1 trovi al mondo che del bene
Ti voglia plùe, non e mal ver, non ene.
E pur tu mi dileggi e non mi guati ,
Se non con gli occhi biechi e *1 viso arcigno.
Poffar l’Antea! non te gli ho già cavati ,
Che tu meco t’ addla tanto al maligno.
Vogglgll in verso me manco ’nfruseatl :
Chi se tu non fai meco atto binlgno ,
I’ mi morróne, appoichè tu lo brami ,
E tu non arai pitie chi tanto t’ ami.
Più non arai , tu ne puoi star sicura ,
Chi le feste t’ arrechi li mazzolino.
Oche in su l’ uscio, quando l' aria è scura,
Ti venga a trimpellare il citorrino i
E quando II tempo gli ee di mietitura ,
Ch'ugnun bada al lagoro a capo chino,
Non arai chi le pecore li pasca ,
0 per tene al to bue faccia la frasca.
Donehe al mè tri bollo preste soccoeri,
Prima eh' l'aia drento alla bara affatto;
Ma proprio gli ene un predicare a' porri,
Chà tu non vuol scollarmi a verun patto.
Altro, Sandra, ci vuol, che farlo gnorri;
Tu fai viste eh' l’ canti, e I' me la batto.
Guata il mie viso si malconcio e grullo,
E vedrai eh' l’ mi muoio e non mi brullo.
Dico eh’ i' muoio, es’l' non dico 11 vera,
Ch’ 1’ possa sprlfondar giù da un dirupo.
Stia sempre in su’ miei campi 11 tempo no-
fi le pecore mie maniche II lupo. [ro.
Guatami ben, cbe da ugni banda i' spero.
Tanto son, grazia tua, macolo e sciupo ;
Guatami un poco, e s' l’ ho a tirar le cuoia.
Fa’ che con queste gusto almanco l’ muoia.
Fornlscon gli anui all' Ascension appun-
to, [do,
S’ i’ non piglio erro, o mal non m’ arrlcor-
Sandra, eh’ l' fui dal to bel viso giunto.
Come giuste dal falco è giunto il tordo :
E si da un ago il cuor mi sentii punto,
Clic ’n vederti restai mogio e balordo ;
E da quel tempo inaino a queste, oimèoe ,
1’ non bo avuto mai briciol di bene.
l’non fo cosa piùe, che vadla a verso,
Comincio un' opra e non la so fornire ;
S’ l’ aro, I’ do col bombere a traverso ;
S’i’ fo una fossa , I’ non ne so uscire.
In somma il mè cerve! tutto l' ho perso
Dreto a tc , Sandra , cbe mi fai morire ;
I’ piango tutt' il dine , e tu lo sai,
E la notte per te non dormo mal.
Io, che già manicavo un pan si prato.
Del manicare ho ugni pensicr smarrito;
Più non sciolvo 0 merendo, e non m'è rato,
Fuor che di gralimare , altro applllto.
Solo ho disio di gareggiar cotesto
Bel viso tuo si gaio e si pulito ,
Chè tutto d’allegrezza allor mi pascolo;
E radia pure il manicare al diascolo.
Mal fu per me quel die quand’ unguan-
nacclo
Tu vlenlstl a' miei campi a lagorare
DigitizecHj$^OOgle
60» POESIA PISCATORIA E RliSTICALE.
mi salse intra l’ ossa un fuoco e un diac-
eli’I’ vedili mille lucciole golare : [ciò,
E sentii farmi il cuor come lo staccio ,
Quando mè mae si mette a abburattare :
Tutto tremai da' piè sino a' capegii,
E ne funno cagion gli occhi tuoi begli.
Atlronito rimasi e fuor di mene ,
Nè seppi formar verbo , o dir palora ;
Mi corse un brigidlo giù perle rene.
Come »'!• fusai tuffo in qualche gora.
E quando i' voltai gli occhi inverso tene,
Guatando quel musiti che m'innamora.
Mi parve ’ntra la pena, e ’nlra 'I dolore.
Che un calabron mi straforassi ’i core.
E tanto forte i' mi rimescolai ,
Ch' i' mi credetti aver qualche gran male :
Mi si causò li vedere , e propio mai
Non mi so’ trovo al mondo a cosa tale.
l' mi diviennl si , eh' 1’ mi pensai
Di avere addosso una frebbe cassale :
E del certo la fuc , ma di tal sorte ,
Ch' i' ere’ che minor mal sare' la morte.
Basta, non ascad' altro : il caso è guine :
Chè tu m' hai per le feste accomidato;
E s' al to Cecco non soccorri , infine
Tu Io farai uscir del seminato.
Le te lo posson dir le to vicine ,
La Tonina e la Tea di Mon dal Prato :
Che mi veggon checchenc In su per l’ aia
Gettar gralime e strida a centinaia.
Prima ero fresco e verde come un aglio,
Or so dotcnlo nero come un corbo;
Riluco propio come uno spiraglio;
Ho il viso segaligno, e l’ occhio torbo ;
E dico eh' i’ morrùo di tal travaglio;
E tu fai , Sandra , il formicon di sorbo.
Ma quando i' sarò poi sul cimitero ,
Tu dirai : Guata , egli ha pur ditto il vero.
Da qualche capitozza , 0 qualche preta
In quanto a mene i’ ere’ clic tu sia nata,
E] in qualche macchia , o ’n qualche gine-
Tra l'ortica c le lappole allietata ; [streta
Perchè meco tu siei tanto indiscreta,
Che la poppa to mae non t' ha già data ,
Ha una lipera certo, c tu di lei
Più sempre Inverso me lipera siei. [to
Da qualche pezzo ’n quae mi sono accor-
cile t’ ami Nencio, e eli’ c’ ti par più bello ,
Perchè povero l' so', perchè i’ non porto
Le feste , come lui , nero il cappello.
Ma se l'ami per que’, tu mi fai torto,
Chè l’ amor sta nel cuor, non nel borsello;
E ’n me non troverai frode nè 'nganni.
Cb' i' so eh' i’ ho bello il cuor, s’ i’ ho brutti
i panni.
Basta, me ne so' visto, e stonimi chiotto;
Ch’ i’ vo’ vedere un po' come la vane :
Pcrch’ i’ sto cheto cheto e fo il merlotto.
E sottosopra i’ so’ meglio del pane.
Ma se verun vuol mettermi al disotto ,
Dovento arrapinato come un cane;
Chè quel vedersi tor di mano il suo.
Farebbe dar la balla al Regnontuo.
E’ non (scorre dir, eh’ i' so’ bugiardo,
E che non sai da donde i’ me lo cavi ,
Chè l'altro dine in su quel Sol gagliardo
Veddi che dal veron tu lo guaiavi ;
Ch' e' si struggeva propio come il lardo ,
Quando talvolta tu lo gareggiavi ;
E se con meco il tuo fratel non era ,
Per dinci gli faceo qualche bitlera.
E olinoli ! sa’ tue, se la mi Vienne 1
l' schizzavo dagli occhi il fuoco scrivo.
Basta , ringralzi lui , perdi’ e' mi tienne,
Ch’ i’ Pare' anche manicato vivo.
E’ potrà per goiar metter le penne ,
0 arrampicarsi in vetta a qualch’ ulivo ,
Chè dal rovello ero si forte punto , [to.
Che s'e' fuss' Ito 'ncìcl, Tare' anche giun-
Eb Sandra Sandra, scolla e piaccia al
Ciclo [le ;
Ch'I'cianci al vento, e' vuol seguir del ma-
Perchè s' i' piglio un altro po’ di pelo ,
l'n di noi dua gli ha ire allo spedale.
Trovilo o lungo il Brolo, o rieto al Melo,
Non vo' metterv i sopra olio nè sale ;
E s' ha a vedere a chi più buon la dica ;
Se l' andrè male, il Clelia benedica.
No no , del certo I' so' deliberato
Che costui non me l’ abbia a far vedere ;
E s' e' capita pitie presso ai to prato ,
Vo’ ch'e' faccia la zuppa nel pianere.
Tanto in qualche maccliion starò pianato.
Che I* orso torni a riguardar le pere :
E aspetti pur, s’ c’ viene attorno al fregolo,
Sul grugno uno sberleffe con un segolo.
Egli è ben ver ch'e’ non ha il torto affatto,
Ch' i' veggo anch’io donde la ragia casca :
Dove II topo non è, non corre il gatto;
Chi non vuol 1’ osteria, lievi la frasca.
Ma teco ir non si può nè pian nè ratto,
Chè de' dami tu vuoi quattro per tasca ;
E i' guato in quanto a mene, e mi sconfon-
Chè tu daresti retta a lutto il mondo, [do,
Sandra, laggaio andare e denti a mene,
Chè gii è per riuscirli un scaracchino ;
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LAMENTO DI CECCO DA VARLUNGO. 509
E bendi’ e’ mostri Ui volerti bene ,
E’ cerca di trar l'acqua al so mulino.
Poco può stare a voggerti le rene ,
Perch' ugni botte infin dà dei so vino.
Certo sninfie lo soc come le fanno ;
Se tu gli credi , e' sarà poi tu danno.
Itemi a me, Sandra mia, eh’ i' U vo' fare
Questo ceppo che vien, per to presente
Una gammurra del color dei mare ,
Ch’e’ se n’ ha a strabllir tutta la gente.
Fa poi del fatto mio ciò che ti pare ,
Cbè dinegarti I’ non vo’ mai niente.
Purché Ncncio tu lasci andar da banda ,
Guata quel che tu vuol, chiediedomanda.
lo ho tra l’ altre a casa un ghiandaiotlo,
Che gola in tutti i lati a mano a mano,
E ha lo scilinguagnolo si rotto,
Ch’ e' chiede il manicar, come un cristiano.
Presi a questi di arrido anche un leprotto
Laggiù ne) me’ bacio presso al pantano;
E s’ è di modo tal dimesticato ,
Ch' e' diace sempre al uiC Giordano allato.
Damcndua queste cose I’ vo’ mandarti,
Visin mè dolce , canido e Borito ,
E un douo anche del cuore l’ vorrei farti ,
Ma i’ non l’ ho piùe.cbè tu me l' hai carpito.
So ben che gli è dovlso in cento parti,
E ch’in gnun tempo e' non sarà guarito.
Sinché tu non gli fai, Sandra assassina ,
Con le to propie man la medicina.
Ma di me tu non fai conto veruno ,
Nè de’ miei doni ; in fatti i’ so' sgraziato,
E so che tu non hai piacer nissuno,
Fuor che vedermi In chiesa dilungato.
Vo’ lievartl dagli occhi questo pruno.
Acciocché 'I to Ncncln si ben cristo
Possa vienirli attorno alla sicura.
Quando tu m’arai fitto in sipoltura.
E certo t’ so’ per valicarvi presto ,
Se ceri’ urie , eh’ i’ ho, riuscon vere :
I’ feci unguanno di cilegio un nesto ,
Ch’ e' le volea far grosse come pere ;
E quando i' penso averlo messo in sesto,
’N un tratto dal vedere al non vedere ,
Dalla brinata, oppur dal temporale
Gli s' è seccato il capo principiale.
Mentre per opra a lagorar son ito
In qua, e ’n lae su pe' poder vicini.
Il nibbio, che mè ma non I' ha sentito,
Ha fatto un mal lagoro a’ miei pulcini ;
E nfinc hammi la chioccia anche granello
Con quell' ugnacce che son fatte a uncini ;
E le mie pecchie son tutte scappate
Su quel di Mencio, e sur un pioppo andate.
Picchia teglie e padelle a più non posso,
DI raccattarle e’ non c'è verso stato;
Ma le mi s' enito difilate addosso
E m’ han con gli aghi lor tutto forato :
E s' i’ non mi piallavo in quel mè fosso
Che sparte I campi , l’ vi perdevo II flato ;
Perchè i’ n' ebbi dattorno un tal barbaglio.
Che inquanto a buchi l’ ne disgrado un va-
Di piune il mè bucel, con llverenia,: glio.
Quel eh’ unguanno i' comprai sul pel mcr-
Che lagorava si per accelletua, [calo.
Giù per un rovinio s’ è pricolato ;
E del mè ciuco anche so’ resto senza,
Perch' e’ mi s’è’n un fosso rinnegato.
Non mane' altro , se non eh’ il munlmento
S’apra da sene e ch'i' vi salti drento.
A tal disgrafie i' non percurere! ,
ST fussi in graizla tua, Sandra mè cara,
E ’n pace tutte i’ me le ’ngozzerei,
Chè gnuna cosa mi parrrbbe amara;
Ma perchè ’ngrata a me tanto tu siei ,
Par che le dichin tutte a bocc chiara:
Cecco, chè ’ndugi tu? chè sta’ tu a fare?
Non campar più, se più non vuol stentare.
Non, eh' i' non vo’ campar si tribolato ;
Ch’ il mondo è per me fatto una sagrcte,
E a darmi addosso il dlascol s' è accordato
Con le stelle contradie e le planete.
Nel so galappio Amor ra' ha ’nviluppato ;
Ma i' saprò ben nescirgli dalla rete ;
E ugni scompiglio mi sarà fornito.
Quando morto i' saronne e seppellito.
E perch’ i’ so che dal « lenirti attorno
Tu m’ hai già scruso, e eli' i’ ti so’ di noia,
Nè pensi, o Sandra, In tutto quanto il gior-
Se non di fare in mo’ cbc'nfine i'moia ; [no,
Vogl’ ire a abbrostol irmi In qualche forno,
0 di mè propia man vo’ farmi II boia -,
0 vo’ eh' il corpo mio vadia ’n fracasso,
Capolievando giùc da qualche masso.
E non vo* mica esser sotterra messo
Sul cimlterio, o ’n chiesa In qualche avello,
Ma nel viale alla to casa presso
Per me’ la siepe accanto al fossatello;
E perchè sappia ugnuno il mie successo.
Sur una preta a forza di scarpello
1’ vo’ che scritto sia da capo a piene
Come qualmente i’ dileflai per tene, [letto
Vien donche, o Morte, e drento a un caia-
Disteso apprietssion fammi portare :
Se Amor tu trovi a covo Intru ’l mè petto.
Fallo a dispetto suo di 1} snidiare ;
410 POESIA PISCATORIA E RUSTICALE.
E pereti' i’ to’ dai »o bruciore Infetto,
Facciami 11 freddo tuo lutto aggrezzare.
Vien, Morte, «leni, e per fornir la festa
Dammi delia to falce in su la testa.
Addio, campi miei begli, addio, terreno,
Cbe dato m’ bai da mauicar tant’ anni;
Appoidi V piace al del cb’ i’ v ienga meno.
Per terminar le gralime e gli affanni.
Tu di guest’ ossa mie tien conto almeno ,
E dammi lifriggerio a tanti danni |
Pereti’ al mondo di lane, ov’ or ma veto,
E per non più tornar , ti dico addio.
Cosi Cecco si dolse, e da quel loco
Parti con un desio sol di morire ;
Ma perche il Sole ascoso era di poco,
VI volle prima sopra un po’ dormire.
Risvegliato eh’ ei fu, visto un tal gioco
Di gran danno potergli riuscire.
Stette sospeso , e risolvette poi
Viver, per non guastar i fatti suoi.
GASPARO GOZZI.
LA GH1TA, IL PIOVANO.
EGLOGA RUSTICALE.
CN1TA.
0 di co«U : Deograxl* : erri cristiano?
PIOTANO.
Gèl picchia? Vienne aranti. Oh, Mi tu,
Ghita!
GNITA.
Dio ri dia il di, messere io piovano.
PIOTANO.
Buongiorno.
GHITA.
A dirla, i* son quasi smarrita,
Poiché vi trovo con l’ ufficio in mano.
Forse ch’io sarò stata troppo ardita.
PIOTANO.
No, no , Vienne oltre, lo mi pongo a sedere :
Son sul Unire.
ESITI.
Finite, messere.
PIOVANO.
A. soffitta votante... che buon vento
T bs qui condotta ?
carri.
Un tratto lo v’ ho a pregare,
Che voi che avete buon Intendimento,
E sapete per lettera parlare ;
Mettiate in carta con lo ’ncblostro drento
Duo paroline, ch’io vo’ altrui mandare,
piovuto.
Oremus. .. bene ; quando avrò finito :
Amen... ben, come stai con tuo marito?
OBITI.
Messe re, il mio Ceccone 6 medie il pane.
E sempre gli è pisciato il lagorio :
Sempre la terra graffia, come un cane,
E quando non lavora, e’n’ ha desio;
Quando ei toglie la vanga nelle mane,
S’egli l’affonda ben, voi so dir io:
Or fa nesti, che sono una bellezza,
Or qualche ceppo con la scure spessa.
Tanto che a questi tempi magri e stretti
Ne caviam pane e qualche cosare Ila;
E quantunque noi siamo poveretti,
Fumica ciascun giorno la scodella.
E crcdltor non abblam, che ci affretti,
0 faccia pignorarci la gonnella :
E se qualcosa al bisogno non v’ ene.
Ci consoliamo col volerci bene,
piovuto.
Orsù, lo I’bo compiuto. Or di, che vuol?
OBITI.
Dico, l’vorrel, che mi scriveste un foglio
A uno, che non bazsica con bnol.
Nò mangia pane, cb’ abbia veccia, o loglio.
Pensate pur, eh’ egli ene uno fra’ suol
Propiodl quelli che vanno all’ Imbroglio,
Di quelli che eastigan la malizia,
E con le palle fanno la giustizia.
Perciò voglio pregarvi ben di questo.
Che facciate pulita una scrittura,
E gli scriviate in modo che sia onesto :
Gii chi sa far, poca fatica dura,
piovuto.
Volentier, Ghlta, vedi eh’ io son presto :
Faccio alla penna una nova fessura :
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LA GHITA E
lo ho proprio piacer di contentarti :
Tuse’si buona, io vo’ quei che vuoi, farti.
Dimmi frattanto : che gli vuoi tu dire?
cura.
Che ne ao io ? ditegli quel che Tiene :
Cioè ch’io non ho voglia di morire,
E che credo, eh’ anche egghi si stia bene.
E ch’io son grossa, e che vo’ partorire;
Che Dado Cecconeè un giovanon dabbene:
Che ho caro, che per balia c' mi togliesse,
Quando un bel fanciul maschio gii oasce»-
Cbe gli sono obbligata sempre mai, [se;
Ch'a’ compose di me quella cincone,
Quand' io sentiva tante pene e guai
Per amor del mio diavol di Cercone.
PIOVANO.
Basta, I* t'intendo, tu dicesti assai.
Mi bisognerebbe esser Cicerone,
Quando è colui che scrisse del tuo amore ;
Egli fan più intelllgcnxa d’un dottore.
Tu mi fai porre a partito il cervello;
Qui vuoici una scrittura dlllcata.
GHITA.
Io avrei anche voglia di vedetta,
Per poter dirgli : Pvi sono obbrigata.
O se vo' aveste un dire Unto belio
Da potendo indurre una fiau
A far, ch’egli venisse in questa villa,
Mi disfarti di gioia a stilla a stilla.
Ma questo 6 nn desiderio troppo ardito
Con aa di' è avvezzo a veder cittadine;
Che da vederle sono un appitito,
E ban quella figura di regine.
Noi non abbiamo quelle pietre in dito,
OngB orecchi, noi altre poverine;
Nè qua' capelli sulla fronte acconci :
Ma gli portiamo a quel modo che sonei.
PIOVANO.
Io lo conosco, egli è tanto gentile,
E tanta grasia abbonda nel suo cuore.
Ch'io apero ei non avrà tue preci a vile,
E gentilezza recasi ad onore.
GHITA.
S* a* vada un tratto il nostro campanile,
I’ voglio ringraziarlo del favore.
PIOVANO.
Don’ è egli?
GHITA.
Alfa Mira a sollazzare.
PIOVANO.
Orni boa, Chiù, lasciami un po’ fare.
GHITA.
Orve’ com’ei si gratta ne’ capelli,
a PIOVANO. su
E su pensoso, e paria di segreto!
I’ credo eoo quel foglio egghi fa reili,
Mentr’ egghi torca il capo c parla cheto.
Or Tedi conte sugli scartabelli
La man va avan tic lascia ii nero In dreto !
PIOVANO.
•Quel clic vuoll'uno.e fai Irò ancora vuole,
GHITA.
Che dite voi?
PIOVANO.
< In fatti ed iu parole. •
GHITA.
Io non v’ intendo.
PIOVANO.
Non parlo teco ora ;
Yo ridicendo quello che ho dettato.
GHITA.
Or sia con Dio, scrivete alla buon’ora,
Io avrà dunque al vento cinguettato :
E avrei caro gii diceste ancora
Che son sua serva e che l’ ho salutato ;
Ch’egli stia bene. Infin come volete.
PIOVANO.
Dirogli tutto.
GUITA.
Opazza! l’ insegno al prete!
Po (far! come menate ben la mano!
Oh beila cosa eli’ è aver virtue!
Ch’un con la penna pud segreto c piano
Dire a chiunque e’ vuol le cose sue.
Noi non possiamo se non cicaliano,
E a parlarci dobbiamo esser due t
Ma voi con quella penna favellate
A un che sia lontano due giornate.
E’ m’è piaciuto sempre questa storia,
Bench’io sia una villana scimunita;
A vedersi cavar della memoria
Tutte le cose menando le dita.
0!i s’ io sapessi farlo ! i’ n’ arrei boria.
Ma che si puè e’ far? Che vuol far. Gitila?
Egghi è ben ver, ehi nasce poverello
Ch’ egghi ha poca virtù e men cervello.
PIOVANO.
« Umil serva , laGhita.» lo l’ho compiuto.
Vuoilo tu udir?
GHITA.
Io so’ proprio in orecchi.
E quella polver sarà per aiuto
Sopra io ’nchiosiro aeciocch’cssosl secchi?
PIOVANO.
Appunto.
GHITA.
Or vedi s* io l’ bo conosciuto.
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POESIA PISCATORIA E RUSTICA LE.
PIOTANO.
Orsù ad udir fa che t' apparecchi.
CUITA.
Orbi, leggete ; i' soii qui tutta quanta.
PIOTANO.
• Sedici ottobre setleccncinquanta.
Pace, salute, ed ogni ben che sia,
In questo foglio co* detti, e col cuore,
Signor cortese, la Ghila T’invia,
Moglie di Cecco buon lavoratore,
Col qual si vive in dolce compagnia
L’ un di che l'altro più piena d’ amore ;
Di ciò vi dì conterrà , perchè voi
Giù sentiste pietà de’ casi suol. >
CH1TA.
Che vuol dir , v’ invio ben , salute e pace ?
Vedete bene, io non gli mando nulla.
PIOTANO.
Gli è che ’l saluti ; ne se' tu capace?
CUITA.
Ben sapete , io son povera fanciulla.
In quanto al salutarlo , ciò mi piace ;
Ma sono d’ ogni bene ignuda e brulla :
Quel ch'io non ho, non gli posso mandare.
PIOVANO.
Gli è un mo’di dire, come salutare.
« DI ciò vi dà conterrà , perchè voi
Già sentiste pietà de’ casi suoi,
Quando metteste in si bella scrittura
I lamenti di lei sì strani , e tanti.
Chè di non aver Cecco avea paura ,
Ed empieva le selve de’ suoi pianti.
Or è contenta, e sta con lui sicura;
Vivono Insieme come un par d' amanti:
Quel che vuol l’uno l'altro ancora vole, »
CBITA.
Cotesto è vero.
PIOTANO.
• In fatti ed In parole.
DI questo amor nel ventre II frutto io porto,
II qual , quando che sia , s' ha a maturare.
Or lo sento a narrarvi , a dirvel corto,
Cb’ anche la vostra vuole un masch lo fare.
Ond' lo vi prego di questo conforto ,
Che di ciò mi vogliate contentare
Ch' lo sia la balia del fanciul che nasce. >
CHITA.
Allatterollo e legherò le fasce.
PIOVANO.
• l' vri prometto di non ber mai vino.
Perchè il mio latte sia purificato;
Chè lontana starò dal mio Cecchino. >
CUITA.
Questo, oh, mi duole!
PIOTANO.
a Infinchè sla spoppato!
Ch’io mi terrò quel vostro fanciullino,
Me’ che per mio, e del mio corpo nato.
Ogni cosa farò con diligenza. •
CUITA.
E' mi duol del mio Cecco, pazienza 1
PIOTANO.
• Intanto, oh Dio, egli è troppo ardimento!
10 avrei caro di vedervi un tratto ,
Per ringraziarvi di quel mio lamento.
Che cosi bene in carte avete fatto.
C’i delle villanelle più di cento,
Che n’hanno invidiabile il mio nome tratto
Fosse da voi fra tante , e per ventura
Ch'io vada sola sola in Iscrittura.
E quando a me voleste consentire.
Benché degna non sia di grazia tale ;
Pregovi che vogliate qui ventre ,
A!men pel luogo, che non poco vale.
Se vi piacesse di costà partire,
Vedreste una bellezza naturale ;
Qui ancor c'è fiume, palaglc boschetti ,
Giardini, laghi e mille altri difetti.
Maplù che’l lago, che i giardini c 11 fiume,
CI son pastori di vita innocente.
Voi che studiate nel nostro costume
Per farne versi d'allegrar la gente ;
Qui prendereste i buon colori e II lume
Da dipingerci proprio schiettamente:
Chè la Natura qui nuda si spoglia.
Ed apre ogni pensiero ed ogni voglia.
Là, dove or siete, il vizio la ricopre,
E genti son che vlvonsi d' inganno.
Dicittade c di villa son lor opre,
E poco ben con molto male fanno.
11 villanello convlen, che s’adopre
A lavorar la terra tutto l’anno,
Non che s’impacci con cavalli c barche,
0 vetturali quasi ereslarche. >
CUITA.
Sono una ciurma proprio di gentaccia ,
Che Dio ne guardi ogni fedel cristiano :
Hanno brusche parole e pegglor faccia ,
E ad ogni poco hau le coltella in mano.
PIOTANO.
• La coscienza ha qui vera bonaccia.
La terra fa buon fruito , il cielo è sano :
Se ben guardate , ogni cosa vi brama ,
L'aria, la terra, il del, l’acqua vi chiama.
Perciò , se puote in voi questo pensiero,
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LA GH1TA E IL PIOVANO.
E «e questo disio ti mote punto ,
In poeo tempo di vederti spero.
Anzi, mi sembra gii, cbe siate giunto.
Ma io son troppo lunga a dire Utero,
Ond’ecco al foglio, signor mio, fo punto.
Dio vi dia contentezza e lunga vita.
La man vi bacio. Umll serva, la Gbita. »
CH1TA.
Eli’ enno queste, oh che parole d'oro !
Le son di rose ; le son di viole,
lo vi ringrazio di questo lavoro,
E Cecco ed lo siamo in quelle parole.
Ben l'bo più caro, cbe avere un tesoro.
E’ par cbe a ricordarlo mi console,
MS
A pregar che per balia egli mi toglia,
E dell' acqua e dell' aria, che io voglia.
Io vi sono obbrigala in vita mia ,
E lo e tutti i miei vi siam tenuti ,
Che mi faceste questa cortesia.
FIO VASO.
Or prendi 11 foglio, e va, cbe 11 Ciel t’aiuti,
E l'anglol santo sia tua compagnia.
CKITA.
Addio, messere, io tl faccio i saluti,
Bencbi la cirimonia un po’ m’ intrica.
FIOVAKO.
Va, va, figliuola. Dio ti benedica.
BRACCIOLINI.
IL BA.TINO'.
Era nella stagion che ’1 Sol da noi
Quel più ch’el puotc allontanato, e tolto
Poco su '1 mezzo giorno il carro d' oro
Solleva in alto , e l' agghiacciato mondo
Non discende a ferir, ma per lo piano
Sdrucciola sulla terra, e non l’imprime.
Cosi pietra sottil clic sopra l’ acque
Altri avventa per fianco , Indi risorge
Tre volte e quattro , e per la fretta l’ onde
Lecca , e non bcc , nè si sommerge in loro
Fin che l'empito suo la regge c muove.
In questo tempo una mattina al fine
Che dopo lunga e tenebrosa notte
Il ruvido Haliti per la finestra
Vide apparir la desiala luce ,
Rapido sollevò dal pigro sonno
Le Infingardite membra , e poi tre volle
Abbandonando 1) lepido covile
S’allungò sbadigliando, c si protese.
E scavalcando dall’ adunca sella
La nottola fedel che preme c guarda
Della finestra il mal sicuro varco ,
E dai venti e dai ladri ; il rapo fuora ,
Batln trasse, e mirò d'intorno intorno
Candidi i monti c le pendici e il piano ,
E la brina e la neve in ogni parte,
Care sorelle , e tutte due vestite
Questo grazioso idillio è un misto d’ idee
rutticeli e di parole e frasi assai nobili ed
Della stessa livrea, tenacemente
Starsi abbracciate in su la terra ignuda.
Vede in lucido vetro ogni ruscello
Raccolto e stretto . ed aver messo il tetto
DI tenace diamante acuti denti
Per ogni gronda, c minacciar chi passa.
Battilo allor con l'una e l’altra mano
Fa mezzo pugno , e le gelate punte
Delle dita dell' una , ali' altra appressa ;
Eie mani amendue per entro al pelo
Delle gote lanose ai labbri suoi
Pre mondo accosta , e fuor del fianco tragge
Quasi a studio anelando a più riprese
Tiepido il fato.c dolcemente in loro
L’alita , ma noi soffia, e tempra alquanto
Dell'acerbo rigor la noia c 'I duolo.
Ma poco giova al troppo acuto morso
Del fiero ghiaccio, il suo ristoro, c seme
Minacciarsi non men le membra frali
Dalla fame rodente, e fra sè dice:
Se pur è ver eh’ ogn' anima che vive
Per mantener la sua caduca spoglia,
Dal Sol prende vigore , or eh’ ei dal mondo
S'è quasi tolto, a sostener la vita
Di maggior nutrimento è d'uopo a noi,
E per vietar che l’orrido Aquilone
Che per le vote viscere penetra
anche un po’ ricercate; noi qui il collochia-
mo non sapendo bene ove meglio starebbe.
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POESIA PISCATORIA E RCST1CALE.
614
Kob poti in lor col suo stridente gelo
L’ ultimo che sui più non al riscalda ,
Ritrovar non si puù migliore schermo.
Che d’esca eletta, e di spumante vino.
E cosi divisando I passi inda
Dove la notte 1 faticosi buoi
S (annosi a ruminar l’erbe pasciute,
E loro appresso II semplice giumento
Svia d’arido fien Pavide brame.
Era lunga la statua , e lutto tl suolo,
DI froadl secche e dì inai trite paglie
Miste di felci Infruttuose c bianche
Altamente coperto, agli animali
Facca morbido letto ; e per lo lungo
A guisa di canale ampio c capare
Sporge a dal muro, e Iacea mensa a loro,
Dispensai r ir fi prodiga dell’ esca ,
La mangiatoia , c sopra a ieì sospesa
Con rari cerchi a ministrare intenta
L’ odorìfero fien , la greppia pende.
Sopra di lei non ben congiunto al muro
Sostiene un rozzo e ma! pulito palco
Dello stranie serbato al caro armento
L' ammassate fastella ; a poco a poco
Scemano queste in dlsbraroar le voglie
Della greggia pasciuta , e cresce a tei
Pendendo sopra un’apparato iniiust re
Di lavoro d’ Aratene , c spande 1 lembi
De' padiglioni suol l’ aereo campo
Dall’ uno all'altro travicello, e sempre
Cresce lassù de’ polverosi fregj
La non turbala pompa, e si diffonde.
Alle semplici mosche insidia e morte.
SI fatta era la stalla , ove passando
Il ruvido Ballo , poco sì mosse
Dal ruminare 11 già pasciuto pasto,
Poco piegò la sua lunata fronte
Quel bue , nè questo ; e solo a lui ne corse
Tutto Impagliato il saltellante cane
Per fargli festa , il che reggendo all’ ora
Dalla cavcaia 11 misero giumento
Duramente ravvolto , e dolcemente
D’amorevole Invidia il cor trafitto.
Non potendo appressar, quattr’esei volte
Raddoppio di desio raglio soave.
Ma nulla ai suo venir morbido e grave
Dall’umido covll dov’e! si giace
Solleva il fianco il neghittoso porco ;
Nulla dal loto il suo bavoso grugno
Rimuove pur, nè riverenza alcuna
Far dal superbo ai suo signor si vede.
DI che sdegnatolo fossi pur la fame
Che! flcr villano alla vendetta accese)
Tu non andrai di deprezzarmi altero
Disse tra s* ; poi con alpestri note
E più distinte il suo famiglio appella, [po-
Ncncio ha nome il famiglio ; in ogni tem-
Fuor che in quel di vendemmia esangue e
Perù che in ogni tempo è la sua cena [maero
E *1 pranzo e la merenda , un tozzo solo
DI pan più che di crusca arido e fosco
E ’I suo Greco e ’l suo Corso e ’l suo Razzese
L’ acqua del pozzo, n la sua mensa 11 pugno.
La forchetta le dita , un’ aglio II sale ,
Il dente è ’l suo coltello , è la sua salsa
La fame , onde condito ogni suo pasto
Per tuttoTanno, ei si mantien col poco
DI vita snello e sopra 1 piè leggiero.
Ma quando alto scemar del caldo estivo
Nel pomifero autunno altrui comparte
Suo lkor dolce il pampinoso Bacco,
Allora anch' ci ne gode , c T sin senz’ acqua
Attinge dalle viti, e ne’ bicchieri
De’ fiocini selbee, lieto c ridente:
E ’i vedi allor con rubicondo volto
Divenir grasso in compagnia de’ tordi.
Or questo Neccio alla seconda volta
Ch’ei si sente chiamar lento ne viene
Verso la stalla a cui Datino Impone;
Chiama fuori il porcello , ed ei sentendo
Con poche ghiande II suo panfer usato
Concorde al suon delle commosse ghiande
Raddoppia un suo grugnir soave e finto
Con tanta maestria , che non sapresti
Dir se ’l porco sia Nencio, o Nencio il porco.
Alla nota armonia ratto si leva
Dal covacciolo suo quello zannuto
Animai setoloso, e fuor dell' uscio
Per la grassezza uscir potendo a pena
Corre volonteroso , ahi mal accorto
Dove, misero, dove? oh come amare
Fien gustate da te l’ ultime ghiande,
Che tl dà Nencio ! ci le biasciuca , e stiaccia
Satollando di lor l’avida fame.
Quando prescrive a lui l' ultimo fato
Balio con questi accenti : Or fallo Nencio,
F’allo giacerne a piedi ; e Nencio all’ otta
Due e tre volte replicando Nino,
Dell’ amato porccl cognome antico ,
A queste note ci sollevando il grifo
Raccoglie 11 suon delle parole attento,
E ne gode e ne Ingrassa e gliene giova ;
E per letizia la ritorta coda
Quasi annoda girando , e Nencio a questi
Dolci coutenti suoi l' ultimo aggiunge,
L’ ultimo suo piacer eh’ ogni altro eccede :
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IL BAT1N0. su
Chinasi , c con la destra a cui d' un anno
Eran l’ugnn non tose acute e lunghe,
Gli entra fra pelo e pelo al lato manco,
E lo gratta e rlgratta. Oh d' ogni faro
Più dolce assai dolcissima dolcezza [ra
D' un grattarche ci approdi ! e qual mai fo-
Cotamo in gelid’ alpe orrida quercia
Ch’ali' unito piacer di cinque dita
Grattalrici soavi e dilettose ,
Non s’ arrendesse tenera ed umile?
Che più? lascia cadérsi a più di Nencìo
Dal sorercldo piacer vinto ’l porcello
E per soavità tutto si stende ,
S' abbandona c s'allunga c quasi sviene.
Datino allor sov ra di lui col peso
Di sè tutto s’ aggrava, e i piò gli preme
Con le ginocchia, ond' ei levar da terra
Non si possa volendo , e con l’ un ciglio
Rivolto al fero grifo , accortamente
Va misurando 11 periglioso spazio
Cile si viene a inlcrpor tra il proprio fianco,
E le zanne ritorte ; c poi che vede
Per giusta lontananza esser sicuro,
Prende con la man destra il ferro acuto ,
E di qua e di li tagliente in guisa
Che '1 rasoio ne perde , e dove al cuore
E più breve e più libera la strada
Ficcalo e ’1 cuor trafigge. Or la ferita
Mortai sentendo il misero porcello
Con le stridale stelle, e con le zampe
Tenta ferir per rilevarsi il suolo;
Ma in vau s’aita , e i suoi rinforzi in vano
Raddoppia : c di sue voci acute e fiere,
Le valli assorda e le campagne in vano :
Chò '1 feroce Datiti l’acuto ferro
Per entro al cor gli ruota , e quindi tragge
Per la medesma via l’anima c ’l sangue.
Nencio con un calili qual neve bianco ,
E di dentro per tutto invetriato,
Raccoglie 11 sangue che fervente e viro
Di liquido rubin che spuma e bolle
GII empie il vaso capace, c gli ministra
Dolce materia alla ben unta teglia
Per lo largo migliaccio. A poco a poco
L'anima intanto, e la virtù porcina
Rotto l’albergo suo per la ferita
Mortai , se n'esce e si disperde in fumo,
E con l’aria si mescola, e col vento
Via se nc fugge c si consuma e passa.
E cosi dopo agli ultimi grugniti
Che dal gelo di morte oppressi c gravi
Sonar s' odono a pena , immobil pondo
Riman quell' animale al tutto estinto
Al colore , al silenzio , agli atti , al sangue.
Or come il vede tal quel fero core
Del rigido Batin pur un sospiro
Dal cor non trasse , e non bagnò palpebra
D' una lagrima sola ; anzi spietato
Con un acuto uncino, ingiurioso
A quel grugno gentil che far potrebbe
Pur cosi morto innamorar le pietre.
Dentro al naso l'afferra c gli trapassa
L’ umide sue narici, in quella guisa
Che soglia paludoso agricoltore
Far de’ bufali suoi. Cosi Datino
Per lo naso lo trae , là dove Nencio
Fra due sassi quadrali acceso area
Di più fasci di tralci insieme accolti
Dalle viti potate allegro foco i
E sulla fiamma che volante c bionda
Si leva al cielo, il morto porco tira.
Scorre su per le setole la fiamma
Egliel’ abbronza, e poi eli' arsiccio h tutto
Dalla punta del grifo alle garello ,
Con un'altro coilei più corto e largo,
Simile a quei con cui tagliar le suola
Suole il famoso Marcantonio a Roma,
Tutto lo rade c lo pulisce e lava.
Indi l' ultimo uficio , ond’ egli il monde
Del temerario pelo intorno a lui
Con la pomice adempie, o sia pur sasso
Fatto In guisa di pugna, e la cotenna
Ristropiccia con esso c preme e frega.
E l’aspetto geutil di lucid’oro
Ch' egli avea prima in un candor converte
Di purissimo avorio , e quattro e sei
Volte benché pulito anco l'asperge
Con le cliiar' onde , c poi dai petto al seno
Con quel ferro medesimo l’incide
A dentro si , che per lo voto albergo
Giunge all’ ascose viscere e fumanti,
(Cosa insolita a lor) quindi le tragge
Con fiera mano a rimirar la luce.
Lieto prendesi allur gli umidi arredi
Nencio in un suo madiello; egli comincia
Pria che co ’1 dente a masticar co ’1 ciglio.
Ma io che scorgo a mici non colli carmi
La materia allargarsi , c quinci sento
La penna già del fegatello, e quindi
Chiamar dalla salsiccia, in questa gara
Naia tra lor qual proferire io deggia ,
Tra due rimango, e mi ritraggo, e lascio
Cotant’ alti soggetti a miglior plettro.
Digitizec
SEMILIRICA1.
POLIZIANO.
ALLA SUA DONNA IPPOLITA LEONCINA.
Chi Tuoi veder lo sforzo di Natura,
Venga a veder questo leggiadro viso
D’ Ippolita, che 'I cor cogli occhi fura;
Contempli 11 suo parlar, contempli il riso.
Quando Ippolita ride onesta e pura ,
E' par che si spalanchi il paradiso :
Gli angioli al canto suo, senza dimoro ,
Sccndon tutti dal Cielo a coro a coro.
I' non ardisco gli occhi alto levare,
Donna , per rimirar vostra adornczza ;
Cb' i’ non son degno di tal donna amare ,
Nè d’ esser serto a si alta bellezza :
Ha se degnaste un po' basso mirare ,
E fare ingiuria alla vostra grandezza ,
Vedreste questo servo si fedele ,
Che forse gli sareste nien crudele.
Cile maraviglia è s’ io son fatto vago
D' un si bel canto, e s' ione sono ingordo?
Costei farebbe innamorare un drago,
Un bavalischlo, anzi un aspido sordo,
l'mi calai : ed or la pena pago;
Ch’l’ mi trovo impaniato, come un lordo.
Ognun fugge costei qtiand' ella ride :
Col canto piglia, e poi col riso uccide, [ra;
Pietà, donna, per Dio; deli non più guer-
Non più guerra per Dio eh’ i' mi l' arrendo ;
l’ son quasi che morto, i' giaccio in terra ,
Vinto mi chiamo, e più non mi difendo :
Legami, e Inqual priglon tu vuol, mi serra;
Chè maggior gloria ti farò vivendo :
Se temi eh* io non fugga, fa’ un nodo
Della tua treccia , c legami a tuo modo.
lo arei gii un' orsa a pielì mossa ;
E tu pur dura a lante mie querele.
Che arai tu fatto poi che nella fossa
Vedrai sepolto il tuo servo fedele?
1 Cesi nominiamo quel genere di poesia
che appresso I Greci e i Latini era do-
Ecco la vita , ecco la carne e i' ossa ;
Che vuoi tu far di me, donna crudele?
È questo il guiderdon delle mie pene?
Dunque ra’ uccidi perch’ io ti vo’ bene ?
Costei per certo è la più bella cosa
Che ’n tutto ’i mondo mai vedesse il Sole
Lieta, vaga, gentil, dolce, vezzosa,
Piena di rose , piena di viole ,
Cortese, saggia, onesta, graziosa.
Benigna in vista, in atto ed in parole
Cosi spegna costei tutte le belle,
Come il lume del Sol tutte le stelle.
Gli occhi mi cadder giù tristi e dolenti,
Com’io vidi levarsi in alto il Soie;
La lingua morta m’addiacciò tra' denti ,
E non potè formar le sue parole ;
Tutti mi furon tolti i sentimenti
Da chi m’ uccide e sana quand'e' vuole;
E mille volle il cor mi disse in vano :
Fatti un po’ innanzi e toccagli la mano.
Per mille volte ben trovata sia,
Ippolita gentil, caro mio bene,
Viva speranza, dolce vita mia :
Deh guarda quel clic a rivederti viene :
Deh fagli udir la tua dolce armonia;
DI questo refrigerio alle sue pene :
Se ’l tuo bel canto gli farai sentire.
Allora allor contento è di morire.
Soicvan gii col canto le Sirene
Fare annegar nel mare i naviganti;
Ma Ippolita mia cantando tiene
Sempre nei foco i miscredi amanti.
Solo un rimedio trovo alle mie pene :
Clie un’altra volta Ippolita ricami.
Col canto m'ha ferito, c poi sanalo;
Col canto morto, c poi risuscitato.
mandato elegiaco e tiene propriamente il
mezzo fra l’epico e la lirica.
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ALLA SUA DONNA.
Io mi senio passare insin nell' ossa
Ogni accento , ogni nota , ogni parola :
E par che d’ altro pascer non mi possa j
Ch’ogni piacer questo piacer m'imbola
E crederei , s’ lo fossi entro la fossa ,
Risuscitare al suon di vostra gola ;
Crederei , quand' I’ fusai nell’ inferno ,
Sentendo sol , volar nel regno eterno.
417
Voi vedete ch'io guardo questa e quella;
E forse ancor n'avete un po' di sdegno :
Ma non possa lo veder mal Sole o stella,
S' io non ho tutte l’altre donne a sdegno :
Voi sola agli ocelli miei parete bella.
Piena di graaia e piena d'alto ingegno:
Abbiatene di questo mille carte :
Ma per coprire il Tero, uso quest'arte.
BEMBO.
Gli ambasciatori della Dea Venere alla duchessa d' Orbino.
Nell’ adorato e lucido Oriente
Là sotto *1 puro e temperato cielo
Della felice Arabia , che non sente
Si che 1’ offenda mai caldo nè gelo ;
Vive una riposata e lieta gente,
Tutta di ben amar si accesa in aeio.
Come vuol sua ventura , e come piacque
Alia cortese Dea che nel mar nacque.
A cui più eh’ altri mai servi e devoti
Questi felici ; c son nei ver ben tali ;
Han posto più d’ un tempio , e fan lor voti
Sopra l' offese de’ suol dolci strali :
E mille a prova eletti sacerdoti
Curan le cose sante e spiritali :
E hanno in guardia lor tutta la legge
Che ie belle contrade amica e regge, [viva
La qua] in somma è questa ch'ogni uom
In tutti I suoi pensicr seguendo amore;
Perù, quando alma se nc rende schiva,
Le mostra quanto è grave questo errore,
E che del vero ben colui si priva
Ch'ai naturai diletto indura il core;
E sopra ogni altro, come gran peccato
Commette chi non ama essendo amato.
A questo confortando il popol tutto
Onorar la lor Dea con pura fede ;
E quanto essa ne trae maggiore il frutto,
Ne toma lor più dolce la mercede;
Ed han già la bell’opra a tal condutto,
Che senza question farne ognun le crede :
Ond' ella alquanto pria che '1 di s’ aprisse,
A duo di lor nel tempio apparve e disse :
Fedeli mici , che sotto 1’ Euro avete
La gloria mia , quanto potè ire, alzata ;
Si come non bisogna veltro o rete
A fera che già sia presa e legata;
Cosi voi d'uopo qui più non mi siete,
Tanto ci sor temuta e venerata.
Quel che far si devea, tutto è fornito :
Da iodi lo qua si porta arena al Ilio.
E se pur ila che le mie insegne sante
Lasciando alcun da me cerchi partire ,
Deli’ altre schiere mie, che son cotante.
Sarà trionfo, e non sen potrà gire.
Per voi convien che '1 mio valor si caute
In altre parti si , che ’1 possa udire
La gente che non l' ave udito ancora ,
E per usanza mai non s’innamora.
Si come là , dove '1 mio buon Romano
Casso dì vita fc’ l' un duce Mauro,
E col piè vago discorrendo il piano
Parte le verdi piagge il bel Melauro ,
Ivi son donne che fan via più vano
Lo slral d' Amor, che quel di Giove il lauro.
Sol per cagion di due che la mia stella
Ardir prime chiamar bugiarda c fella, [de;
L' una ha '1 governo in man dcllecontra-
L' altra è d’ onor c sangue a lei compagna.
Queste non pur a me chiudon le strade
Dei petti lor, che pianto altrui non bagna ;
Ch’ ancor vorrian di pari crudcilade fgna
Dall' Orse all' Austro, c dall' Indo alla Spa-
Tutte Inasprir le donne e l cavalieri ,
Tanto hanno i cori adamantini c feri.
E vanno argomentando che si deve
Castilate pregiar più che la vita ,
Mostrando eh’ a Lucrezia non fu greve
Morir per questa; onde nc fu gradita :
Tal che la gloria mia come a Sol neve
Si va struggendo : c se la vostra aita
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MS SEMI LIRICA.
Non mi rllicn quel regno a questo tempo.
Tutto il ini mirò torre In plcciol tempo.
Però vorrei eh’ andaste a quelle fere
Solo ver me, U ov’clle fan soggiorno,
E le traeste alle mie dolci schiere
Prima che (accia notte ov’ ora è giorno ;
Rotti gli schermi ond' elle vanno altere ,
E mille volte a me fer danno e scorno;
Dando lor a veder quanto s’ Inganni
Chi non mi donail Corde' suoi verdi anni.
Accingetevi adunque all’alta impresa :
Io v’agevolerò la lunga via.
Non vi sarò la terra al gir contesa,
Chè invino allor per tutto ho signoria.
E perchè ’l mar non possa farvi offesa,
Lo varcarete nella conca mia-,
0 prendete I miei cigni e’I mio Gglluolo,
Cile regga il carro , e si veli gite a volo.
Cosi detto disparve; c le sue chiome
Spirar -nel suo sparir soavi odori ;
E tutto il Ciel cantando il suo bel nome,
Sparscr di rose i pargoletti Amori.
Slrinscrsi intanto i sacerdoti ; e come
Fu il Sol dell' Oceano indico fuori ,
Senza dimora giù per cammin dritto
Presa lor via, n’andar verso l’ Egitto.
Le piramidi e Menù poi lasciate ,
Stolta clic 'I bue d' altari e tempio cinse,
Vidcr le mura da colui nomale
Che giovinetto il mondo corse c vinse ;
E Rodo e Creta; e queste anco varcate,
E te che dall'Italia il mar distinse ;
E più che mezzo corso l’ Appennino,
Entrar uel vostro vago e lieto Urbino.
E soli or questi eli' io v' addilo c mostro,
L’ uno c l'altro di laude e d’ onor degno.
E perdi' essi non sanno il parlar nostro.
Per interprete lor seco ne veglio;
E ’n lor vece dirò , come che ai vostro
Divln cospetto uom tia di dire indegno :
E se cosa udirete che non s' usi
Udir tra voi, la Dea strana mi scusi.
0 douua in questa etade al mondo sola,
Anzi a cui par non fu gii mai nè Ca ,
La cui fama iramorlal sopra ’i ciel vola
Di bellò, di valor, di cortesia.
Tanto eh' a tulle le altre il pregio invola;
E voi die siete in un crudele e pia,
Alma gcutil , dignissima d'impero,
E clic di sola voi cantasse Omero ;
Qual credenza d’ aver senz’amor pace,
Senza cui lieta uu’ ora uom mai non ave,
Le sante leggi sue fuggir vi face,
Come cosa mortai si (ugge e pavé ?
E lui eh’ a tutti gii altri giova e piace ,
Solo voi riputar dannoso e grave ,
E di signor mansueto e fedele.
Tiranno disleal fario e crudele 1
Amor è graziosa e dolce voglia
Che i più selvaggi e i più ferod iffrena.
Amor d' ogni viltà l' anime spoglia ,
E le scorge a diletto , e trae dì pena.
Amor le cose umili ir alto invoglia.
Le brevi e fosche eterna c rasserena.
Amor è seme d'ogni ben fecondo,
E queich'inforina c regge e serva il mondo.
Però rhe non la terra solo cT mare,
E l'acre e T foco e gli animali c l’erbe,
E quanto sta nascosto, e quanto appare
Di questo globo, Amor, tu guardi e serbe ;
E generando fai tutto bastare
Con le tue fiamme dolcemente acerbe ;
Gli’ ancor la bella macchina superna
Altri che tu, non volge e non governa.
Anzi non pur Amor le vaghe stelle Ire,
E’I del di cerchio in cerchio tempra e mo-
Ma l’ altre creature via più beile :
Che senza madre già nacque di Giove ;
Liete , care , fdid , pure e snelle ,
Virtù, che sol d' Amor discende e piove.
Creò da prima; ed or le nutre e pasce;
linde T prindpio d’ogni vita nasce.
Questa per vie sovr' al pensier divine
Scendendo pura giù nelle vostre alme ,
Tal elle stale sarian dentro al confine
Delle ior membra quasi gravi salme;
Fatto ha poggiando altere e pellegrine
Gir per lo dei , e gloriose ed alme
Più ebe pria rimaner dopo la morte ,
Il lor destili vincendo e la lor sorte.
Questa fe' dolce ragionar Catullo
Di Lesbia , c di Corinna il Sulmonese ;
E dar a Cinzia nome, a noi trastullo
Uno a cui patria fu questo paese ;
E per Della e per Nemesi Tibullo
Cantar, e Gallo ebe sè stesso offese ,
Via con le penne delia fama impigre
Portar Licori dal 'l imavo al Tigre.
Questa fe' Cino poi lodar Selvaggia ,
D' altra lingua maestro e d'altri versi :
E Dante , acciocché Bice onor ne treggia.
Stili trovar di maggior lumi aspersi :
E perchè il mondo in riverenza T aggia
Si come ebb’ ei , di si leggiadri e tersi
Concenti il maggior Tosco addolci l’ aura.
Che sempre s' udirò risonar Laura.
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ALLA DUCHESSA D* URBINO. 519
La qual or cinta di alleluio eterno
Fora, al come pianta secca in erba,
S'a lui eh’ arse per lei la alate e ’l Terno,
Come fu dolce , fosse stata acerba ;
E non men l' altre illustri eh' io tì scemo ,
E qual si mostro mai dura e superba
Verso quei che polca sovra '1 suo nido
Aliarla a volo , e darle vita e grido.
Questa novellamente ai padri vostri
Spirò desio ; di cui , come a Dio piacque.
Per adontarne il mondo, e gli ocelli nostri
Bear della sua vita , in terra nacque
L’alma vostra beili ; uè lingueo ’nchioalri
Contar potrian, nè vanno in mar lant' ac-
que.
Quanta amor da' bei cigli alta e diversa
Gioia , pace , dolcezza e grazia versa.
Cosa diuauzi a voi uon può fermarsi ,
Che d’ ogni indigniti non sia lontana -,
Ch’ai primo incontro vostro vuol destarsi
Virtù, che la gentil d' alma villana.
E se potesse in voi fiso mirarsi ,
Sormontariasi olirà 1' usatila umana.
Tutto quei che gli amami arde e trastulla,
A lato ad uu saluto vostro è nulla, [strame
Quanto in miti' anni il Ciel devea tuo-
Di vago e dolce , in voi spiegò e ripose ,
Volendo a suo diletto esempio dame
Delle più care sue bellezze ascose.
Chi non sa come Aiuor soglia predarne ,
O pur di non amar seco propose ,
Fermi ne’ be’ vostri occhi un solo sguardo,
E fugga poi , se può , veloce o tardo.
Rose bianche e vermiglie ambe le gote
Scmbran coite pur ora in paradiso :
Care perle e rubini onde escoo note
Da far ogni uom da sè stesso diviso.
La vista unSolcbescaldaentroepercote:
E vaga primavera il dolce riso.
Ma l’accoglienza il senno e la rtrtute
Potrebbon dar al mondo ogni salute.
Senon fosse il pensicr crudele ed empio,
Zite v’arma incontro Amor di ghiaccio il
E fa d'altrui si doloroso scempio [petto,
E priva dei maggior vostro diletto
Voi con l’ altre a cui noce il vostro esempio:
Si come noce al gregge semplicetto
La scorta sua, quand’ellaescedi strada,
Che tutto errando poi convìen che vada.
Cosi più d' un error versa dat fonte
Del vostro largo c cupo e lento orgoglio :
E s’io avessi parole al voler pronte.
Pianger farei ben aspro e duro scoglio :
Chi. non si dolse al caso di Fetonte
Febo, quant' io per voi. Donne, mi doglio
Pur mi consola, che qual io mi sono.
Amor mi detta quanto a voi ragiono.
E per bocca di lui chiaro vi diro :
Non chiudete l' entrata ai piacer suol.
Se ’l Ciel vi si girò largo ed amico.
Non vi gite nemiche e scarse voi.
Non basta il campo ater lieto ed aprico.
Se non si ara e semema e miete poi.
(iiardin non colto. In breve divien selva,
E lassi lustro ad ogni augello e belva.
E la vostra bellezza quasi un orto ;
Gli anni tener) vostri aprile e maggio :
Ailor vi va per gioia e per diporto
li signor, quando può, sed egli è saggio.
Ma poi che 1 Sole ogni fioretto ha morto,
O’i ghiaccio alle cani paglie ha fatto oltrag-
gio.
Noi cura ; e stando In qualche fresco loco.
Passa il gran caldo o tempra II verno al fo-
Ahi poco degno i ben d’ alta fortuna [co.
Chi ha gran doni e cari, c schifa usarli.
A che spalmar 1 legni , se la bmna
Onda del porto dee poi macerarli ?
Questo Sol che riluce , o questa Luna
Lucesse in van, non si devria pregiarti.
Giovinezza e beiti che non s’ adopre,
Val quanto gemma chcs’ asconde e copre.
Qtial fora un uom. se l’ una e l’ altra luce
Di suo voler in nessun tempo aprisse?
E ’l senso delle voci all'alma duce
Tenesse chiuso si, che nulla udisse 1
0 ’l piè che ’l fral di noi porta c conduce.
Mai di orma non movesse, e mai non gisse T
Tal ò propio colei che bella c verde
Neghittosa tra voi siede c sì perde.
Non vi mandò qua giù l’eterna Cura
A fin che senz’ amor tra noi viveste t
Nò vi diè si piacevole figura
Perchè in tormento altrui la possedeste.
Se stata fosse ad ogni prlcgo dura
Ciascuna madre , or voi dove sareste ?
11 mondo tutto in quanto a sè distrugge.
Chi le pad amorose adombra e fugge.
Come a cui vi donaste si disdice ,
Sed egli a voi di sè si rende avaro.
Cosi voi. Donne, a quel che v’ hanno in vice
Di Sole alla lor vita dolce e chiaro
Mostrarvi acerbe c torbide non lice
E quelle men cui più l'onesto è caro :
Chè s’ lo sostenni te mentre cadevi ,
Debbo cadendo aver chi mi rilievi.
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MO SEMIL1RICA.
11 pregio il' onestate amato e colto
Da quelle antiche poste in prosa e ’n rima,
E le Tocl che ’l tolgo errante e stolto
Di peccati e disnor si grati estima,
E quel lungo rimbombo indi raccolto
Che s’ode risonar per ogni dima;
Son fole di romanzi c sogno e ombra
Che P alme semplicette preme c ’ugombra.
Non e gran maratiglia s’ una o due
Sciocche donne alcun secol vide ed ebbe ,
A cui senlier d’ amor caro non fue ,
E indarno tlver gli anni poco increbbe :
Come la Greca eh’ alle tele sue
Scemò la notte quanto ’l giorno accrebbe :
Misera , eh’ a sè stessa ogni ben tolse.
Mentre attender un uom reni’ anni tolse.
11 qual errando in tjuestae ’n quella par-
Solcaudo tutto il mar di seno in seno, [te,
A molle donne del suo amor fé’ parte ;
E lieto si raccolse loro in seno :
Cbè ben sapea quanto dal ter si parte
Colui eh’ al legno suo non spiega II seno,
Mente’ egli ha ’l porto a man sinistra c de-
E l’ aura della tita ancor gli è destra, [stra.
Come avrian posto al nostro nascimento
Necessitò d’ amor Natura e Dio,
Se quel soatc suo dolce concento
Che piace si, fosse malvagio e rio?
Se per girar il Sole , ir vago li vento,
In su la Damma, al chili correre 11 rio,
Non si pecca da lor ; nò voi peccate
Quando ’l piacer per cui si nasce amate.
Mirate quando Febo a noi ritorna ,
E fa le piagge verdi e colorite;
Se dove avvolger possa le sue corna
E se fermar non ha ciascuna vile ,
Essa giace , c ’l giardin non se n’ adorna,
Nò ’l frutto suo nè l’ ombre son gradite.
Ma quando ad olnioo ad oppio alias’ appog-
gia.
Cresce feconda c per Sole e per pioggia.
Pasce la pecorella I verdi campi ,
E sente il suo monlon cozzar vicino.
Ondeggia, c par ch’ili mezzo l’ acque av-
Con la sua amala il veloce dcllliio. [vampi
Per tutto ove *1 lerren d’ ombra si slampi,
Sosllen due rondinelle un faggio, un pino.
E a voi pur piace in disusate tempre
Viver soHnglic c scompagnate sempre.
Clic giova posseder clltadi c regni,
E palagi abitar d’ alto lavoro,
E servi Intorno aver d’ imperio degni,
E l’arcbc gravi per mollo tesoro;
Esser canute da sublimi ingegni.
Di porpora vestir, mangiar in oro,
E di bellezza pareggiar il Sole,
Giacendo poi nel letto fredde e sole?
Ma che non giova aver fedeli amami ,
E con loro partir ogni pensiero,
I deslr, le paure, 1 risi, I pianti
E l’ ira e la speranza e ’l falso e ’l vero ;
Ed or con opre care or con sembianti
II grave della viu far leggiero ;
E sè di rozze in zito e In pcnaier vili
Sovra l’ uso mondan vaghe e gentili} [mi
Quanto esser vi dee caro un uom che bra-
La vostra molto più che la sua gioia 7 [mi ?
Ch’altro che’l nome vostro unquanon chia-
Che sol pensando in voi tempri ogni noia ?
Che più che ’l mondo In un vi tema ed ami ?
Che spesso in voi si viva, In sè si moia?
Che le vostre tranquille e pure luci
Del suo corso mortai segua per duci }
Oh quanto è dolce, percli’amor la stringa,
Talor sentirsi un’alma venir meno!
Saper come due volti un sol dipinga
Color, come due voglie regga un freno !
Come un bel ghiaccio ad arder si constrln-
Come un torbido ciel torni sereno! [ga,
E come non so che si bea con gli occhi.
Perchè sempre di gioia il cor trabocchi !
Puossi morta chiamar quella, di cui
Face d’Anior nessun pensiero accende.
Nè dice : clic son lo lassa? che fui?
Nè giova al mondo, e sè medesma offende.
Nè si tien cara , nè vuol darsi a lui
Che già moli’ anni sol un giorno attende :
Nè sa con 1’ alma nella fronte espressa
Altrui cercar e ritrovar sè stessa.
Però che voi non siete cosa integra.
Nè noi ; ma è ciascun del lutto il mezzo,
Amor è quello poi che ne rintegra,
E lega e striglie come chiodo al mezzo ;
Onde ogni parte intanto si rallegra
Cbè suol diletti c gioie non lian mezzo :
E s’ uom durasse mollo in tale stato.
Compitamente divcrria beato.
Cosi voi vi trovale altrui cercando,
E fate nel trovar paghe e felici.
Dunque perchè da voi ponete in bando
Amor, se son di tanto ben radici [do
Lcsuequa(lrclte?ordaimo in gucrreggian-
Qual maggior posson farvi alti nemici ,
Clic torvi il regno? questoassai più vale
E voi lo vi togliete; e non vi cale.
Ond’io vi do sano e fede! consiglio
LODE DELLE DONNE. 5JI
Non vi torca dal ver falsa vaghezza :
Se non si coglie , come rosa o giglio
Cade da sè la vostra alma bellezza.
Vien poi canuta il crin, severa II ciglio
La faticosa e debile vecchiezza ;
E vi dimostra per acerba prova ,
Che ’i pentirsi da sezzo nulla giova.
Ancor direi : ma temo non tal' volta
VI gravi il lungo udire : oltra eh’ io vedo
Questa selva d'amor farsi più folta,
Quanl’io parlando più sfrondar la credo;
Dunque vostra merci, che sempre è molta.
Darete agli oratori ornai congedo.
L’altro eh* a dir rimane, essi diranno
Quando la lingua vostra appresa aranno.
MARTELLI.
LODE DELLE DONNE.
Leggiadre Donne, In cui s’annlda amore,
A cui s’ inchina ogni anima gentile ;
Donne, seme tra noi d’alto valore,
Esigilo e morte d’ ogni cosa vile ;
Donne, che siete al secol nostro onore.,
E nel begli occhi avete eterno aprile ;
Deh pregate divote 11 vostro Sole,
Ch’ascolti oggi con voi le mie parole.
11 Sol vostro è madonna , e dona a voi ,
Quanto il Sol toglie il giorno all’altre stelle;
Perchè mercè de’ santi raggi suol
Parete al mondo assai più chiare e belle ;
Piace al gran Re del Clel che qui tra noi
Di costei più che d’ altra si favelle ;
Nè questo a sdegno aver. Donne, dovete,
Che d un pegno ui Dio men belle siete.
Questo è del suo Pattar si caro pegno ,
Che l’imagine sua nell’ alme crea :
Costei venuta dal celeste regno
Non è donna mortai , ma mortai Dea :
Questa sola vi vince, ed è ben degno,
Perù eh’ una tra voi vincer devea,
E non dee già spiacer l’altrui vittoria ,
Quaud’a buon vincitor s’acquista gloria.
lo son nato per voi , Donne, e vi giuro
Ch’altra fiamma gii mal non m’arse il petto.
S’Io parlerò con voi troppo securo,
Fla d’acquistar onor nuovo diletto:
E di mostrar che pur selvaggio e duro
È chi face ad Amor sempre disdetto ;
E che fatte v’ha Dio per far gradita
Questa nostra caduca e fragil vita, [Clio,
Sommi I begli occhi vostri , Euterpe e
Febo quei di madonna : ond' a lor chieggo
Memoria da compir l’alto desio,
Perch’Io m’assida in bel gradito seggio,
Ed a voi paghi l’onorato fio
Chè pel ben che ho da voi pagar vi deggio :
Cbè son fatto più eh’ uom , vostra mercede,
E del mio buon destln ch’a voi mi diede.
Poi che ’l Motor dell’ alte stelle ardenti
Ebbe divisi con eterna pace
I bei segni del Ciel e gli elementi ,
E fatto il di più tardo e ’l più fugace,
E dato il seggio e la stagione al venti ,
E dopo il freddo dall’estiva face.
Fé’ diversi animali e die’ lor loco,
E vita in terra, in acqua, in aere e ’n foco ;
Poi eh’ ei vide il mlrabil magistero
Dall’ alto seggio suo che ’n Qel si pose ,
Natogli nuovo amor dentr* il pensiero ,
Oltra l’ altr’ opre altere e gloriose ,
L’ uom fece a sua sembianza, a cui l’impero
Libero die’ di queste basse cose
E diegli anima e mente ond’ei vincesse
Qual dei fieri animai più forza avesse.
E fece si , che con ulil fatica
Trovò l’ ascoso foco e fece poi
Ai suol dolci sudor la terra amica ,
E ’ngomhrò d’ alte voglie I pensier suoi ,
E del molto sperar che le nodrica.
Alto valor di Dio, pur molto puoi
Tu pur ne fai con tue divine tempre
Sotto cura mortai gioir mai sempre!
Hanno I più chiari spirti e 1 più gradili
Con gl’ingordi disii più corta tregua;
Tal che per cosa vii par che s’ additi
Chi le sue voglie al suo podere adegua.
L’un cerca in terra e’n mar luoghi Infiniti,
Senza punto saver qual fato il segua ;
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Mi SEM IDRICA. '
V altro certa morir per fuggir pace ,
Si caldamente U travagliar ne piace.
Come Dio vide in noi tanta rlrlute.
Levar ne vulve con le menti al Cielo :
E per darne alta speme di salute
Che i cor n'cmpicsse d’onorato zelo.
Mandò voi , Donne, in terra , che vedute
Alli primi desìi poneste un velo,
Mostrandone la via plana ed aperta
Ch'ai nemici di amor par chiusa ed erta.
Scese con voi dolcezza ed onestate ,
Voglia di gloria c speme di mercede :
Voi cominciaste a far l' alme beate
Che non furo anzi a voi , s’ al ver si crede.
Così venute d’ una in altra etale,
Scala ne siete a Dio coni’ ogni uom vede,
Com’ogni uom prova , e più provar potria
Chi mirasse talor la donna mia.
Esce degli ocelli vostri un dolce lume
Che fa ’1 dolce disio di' ha nome amore :
Questo è il raggio gentil che per costume
Passa per gli occhi vostri e scende al core.
Spesso par eh' alma accesa si consume ,
Che non ha punto men del suo valore :
Ma in sè gioisce di suo stalo altero ,
K cosi nasce iu noi , Donne, il pensiero.
Cosi ne date amor. Donne, e pensiero:
Chi ne può far più grazioso dono 1
L’ un desta il cor, l' altro gli mostra il vero,
E questi insieme nei vostri occhi sono :
Come si può chiamar saggio od altero
Chi non ha questi due di di’ io ragiono ?
Mal può saper quel eh' ei rifiuta o brama.
Chi non sa dir conte si pensa ed ama.
Deh come spesso un uom vedete ir solo,
Ch' ha seco dolce ed alta compagnia ,
Da' soav i pensier levalo a volo
Ove sè stesso e sua bassezza obblia.
Questo è sommo gioir, non tema o duolo ,
Che visibitemcnie lo disvia :
Perchè l’ anima in preda a' piacer suoi
Lassa '1 suo proprio velo, e tiene in voi.
Soche quel di' lo vo' dir parrò menzogna
A chi spirar d’ amor l’ aura non sente ;
Ma non mi fia però questo vergogna
Tra chi nc pasce ognor vago la mente.
Dico che l'alma allor che più bisogna ,
Fido soccorso d' alta fiamma ardente
li cor lassa ; e chi mal non s’innamora ,
Ha per nuoto miraeoi che ci non mora.
Ma chi sa ben che nella sua partita
Ella dentro i pensier lassa al governo ,
Meraviglia non ha s' el resta in vita ,
L’ usalo suo valor serbando eterno j
Pel suo nuovo color spess' uom s’addila.
Cui giloè’l sangue al bel soccorso interno
Per salute del cor, dove si siede
L'alto signor che co’ vostri occhi vede.
Non ch'ci l'aggrave o lo conducaa mone.
Ma per serbar a lui saldo ricetto:
E perchè 'I cor pauroso si conforle,
E dal suo bd podcr prenda diletto ,
Un signor valoroso , altero e forte
Ancor potendo ei sol senza sospetto.
Quinci il volto color nuovo dipinge
A dii le lue virtuti al cor ristringe.
Cosi tra noi talor sena' aver alma,
Dei bei pensier mercè, Donne , si vive ,
Dei bei pensier che a noi son dolce salma ,
E gloria eterna a vostre luci dive.
Chi sarò quel eh' all' onorata ed alma
UciU del Ciel pur con la mente arri ve?
Non eh’ el possa bcu dir come tra noi ,
Vostra e di Dio mercè , venne con voi.
lo 'I dirò pur, vostra e di Dio mercede.
Venne quanta bcltadc il Ciel avea.
Vide l’alto Fattor che la v i diede ,
Che lassù senza voi star non polca:
E '1 venir suo quaggiù ue può far fede ,
Che nel bd regno suo restar devea ,
E pur con gli altri Dei , dietro al suo bene
Ch’ ei trova lutto in voi , nel mondo vrinocò
E se tra loro è pur bellezza ancora ,
Esser non deve a questa vostra eguale ;
Poi che di voi nel mondo s' innamora
Chi non devria prezzar cosa mortale:
E veder si può ben qtianl’ ei vi onora
Come sua cosa, e se di voi gli cale,
Chè la bella Giunon , eh' è seco in Cielo ,
L'alma ha piena per voi d’eterno zelo.
Ciò non è meraviglia, se beliate
Può far d' uomini e Dei quel di' ella vuole;
Qual le potino appressar cose beate ,
Che non sembrioo stelle intorno al Sole?
Gli spirti egregi e l’ anime ben nate
Ponno del suo valor tra noi dir sole ;
Cli’a si gradito c prezioso dono.
Qual a gran foco è zolfo ed esca , sono.
Molte son le virtù : nè si ritrova
Ch' uom o donna gii mai tutte Taverne.
Anzi son cosa inusitata e nuota.
Una di tante , c due ’n un’ alma impresse.
Donne mie, questa è tal, eh’ ci non si trova
Cosa che senza lei piacer potesse ;
Scevra dall'altrc una virtù si prezza.
Ma che piacque gli mai senza bellezza?
LODE DELLE DONNE. SJJ
Volete voi veder, Donne, Il vii ore
Ch'a questa sua diletta ha dato Dio?
Di tutti gli altri ben ch'agogna un core,
Venuto II posseder, sazio è il desio:
Di costei d' or in or cresce l' ardore ,
Come per pioggia tempestosa rio :
Chi dopo il vostro bei l' anima altera
Novo bel cerea , e ’n dei trovarla spera.
Qual è giogo più dolce e più soave
Di quel eh’ alta bellezza all' alme pone ?
L’ esser vinto ad ogni uom suoi parer grave
Di ricchezza, (fi forza e di ragione:
Costei sola non parche 'I vinto aggrave:
Anzi acuto dlvien di gloria sprone:
E fa lieti obbedir glf animi alteri ,
Più ch'oro posseder gemme ed Imperi.
Or mi sent'io chiamar dall'alma In parte
Ov’io vo’, Donne mie, pensoso e lieto :
Pensoso con ragion , chè pi ù bell’ arte
Chiede i 1 soggetto, estil più dolce e queto :
Lieto, ch’or m’accorgo io ch’a parte a parte
De’ miei sparsi pensier bel frutto mieto,
Ch' lo vegno a dir di quella luce prima ,
Che della mente mia si siede in dma.
Deh chi mi fa temer! chi mi fa ardito?
Come vince l’ ardir tanta paura ?
Tutto pud ’l mio signor saggio e gradito
Ch’è più bell' opra assai che di natura:
E* mi mostra il sentler dritto e spedito
Da far la gloria mia salda e secura :
Cbè pur di lui parlando alzar mi sento
Ov'io posso schernir la nebbia e ’l vento.
Non die’ in sereno Clel rosata aurora
Speme di riposato e lieto giorno.
Quanta ne diede Dio di bene allora
Cbe di lui fece il viver nostro adorno:
L' (morata stagion cbe ’l mondo infiora
Sempre gii è, Donne mie, lieta d' intorno.
Cantan le Grazie e le Virtnti a pruova
Ogni sua rara gloria altera e nuova.
NonpuoteaDio servirgli mai con fede
Chi non serve a costui devoto e puro;
Cui col sommo valor Natura diede,
E le stelle eh’ unite al suo ben furo.
Nuova bellezza; tal cbe chi la vede
E non i'adora, ha ’l cor selvaggio e duro :
Questi è donno d’amore e voi ’l sapete,
Cbè nel bel viso suo posto l’ avete.
E « le rime mie pon tanto alzarsi,
Cbe di lui degne lodi al mondo dica,
E di colei perch' lo di sublt' arsi
Visto II lume che m’arde e mi nodrica;
Forse (e non spero indarno) vedrem farei
Al mio leggiadro dir la gente amica;
Cbè I nomi di coetor veduti altrove,
Porgeranno al mio dir dolcezze nove.
Gii non èquelloil foco ond’arvle l’alma,
Che perch’io ’l dico ognor crede la gente.
Velisi dei pensier la vera ed alma
Schiera che per suo ben serba la mente,
Altra più bella e piè gradita salma
Sovra gli omeri suol r anima sente.
S’ io pasco II cor d’ un dolce lume amico.
Altri si pasca poi di quel ch'io dico.
E cosi vada : ma di me non goda
Chi del mio travagliar si stava altera :
Anzi pianga I snoi scorni c quella froda
Che la fea non veder quell' eh’ ella s’era.
Io ’l dirò pur, voglio, folle, ch'ei s’ oda
Che di lei parli in si leggiadra schiera.
Donne, benché ’l mio dir chiaro vi ala,
Un altro velo avrà la fiamma mia.
A voi mi rendo, e dico che di voi
Nasce beltà come di sente frutto ;
E ch’a questo ed a quel la date poi
Com' a voi piace, ed a voi torna il tutto ;
Cliè nella fresca età prendete noi
A coltivar come terreno asciutto.
E vostro è ’l pregio, come vostra è l’opra
Ch' ogni gentil per voi devoto adopra.
Non sìa s) folle alcun, che si bel dotto
Non conosca da voi, ch» n’avrà pena :
E dei pianti di quel ch'ingrati sono
L’ antica istoria e la moderna è piena :
Da voi, Donne, conosco quel ch’io sono;
Ed ho vita per voi dolce e serena ;
E non posso morir; chè mal non more
Chi ne' primi anni suoi vi rende il cori.
Qual più bella esser puote e più gentile
Cosa giù mai della beltade stessa?
Quest' è colei che face sua simile
Ogni cosa creata a cui s' appressa ;
Anima eletta e chiusa in corpo vile,
Mostra l’ alta virtù eh’ ha dentro Impressa,
Con l’ esser vaga delle cose belle
Ch’ hanno In noi più poter che Palle steli*.
Far non può forza. Ingegno, arte o paro-
die cosa bella sla di beltà priva. [le.
Come si poù mai tor sua luce al Sole, [va?
Perchè contr’uom gli adopre operilo scri-
E foli’ è quel che falsamente vuole
Cosa sema beltà far bella e diva :
Chè chi di tor s’ingegna o dar beliate,
Caldo 'I verno vuol far, fredda la state.
Una chiusa virtù raro è palese
A cbl non ha di lei contessa In parte :
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SEMILIRICA.
Ma costei che con toI, Donne, discese,
In ogni petto il suo valor comparte :
Son le sue forse conosciute e 'mese
Senea punto voltar l’ antiche carte ;
Ch’ alma, benché sla chiusa in grave velo,
Ben raffigura li bel veduto in Gelo.
Che più bisogna, Donne, ch’io vi dica
Quel che sa far costei nei petti nostri J
Taccnc il meglio e ’l più, chi s’affatica
Dirne con. voce o con laudati inchiostri.
Di voi nasce, in voi siede e si nudrica
Del vago lume dei begli occhi vostri.
Io'lsochc'lsento.ed è tra voi chi vede
Ch'io son ceneredombra e non melcrede.
Cencr cd ombra sono, ed è tra voi [do :
La dolce fiamma ond'io mi struggo cd ar-
E crederallo chi noi crede, poi
Che vorrà darmi aiuto ed ci Ila lardo :
Mentre può il cor soffrir gli affanni suoi,
Assai cibo gli porge un solo sguardo :
Com’egli è al passo estremo de’suoi giorni,
Non è sguardo o parlar che'n vita il torni.
lo so ben quel ch’io dico,csallo ancora
Chi dei bei delti suoi m’ 6 troppo avara :
E vuol eh’ ardendo e pur pregando mora,
Senza sua voce udir che tu’ è si cara.
Quando sia l'alma dei suo albergo fora,
Tratta per morte dolcemente amara,
L’udrà forse parlar con gli occhi molli;
Ond’avrò in morte quel eh' in vita volli.
Troppo fuor del seulier, dolor mi meni,
Troppo lunga è l' istoria de’ miei danni :
Tornate, alti pensier, vaghi e sereni,
E velate il mio mal con dolci inganni :
E tu santa Beltà, che ’l mondo tieni
Pien di nuovi desii, vuoto d'affanni,
Fa’ che ’l giusto martir posto in obblio,
Aggia memoria al dir quanto desio.
Nella più fresca elade e più fiorita,
Ch’fe del più bei desiri albergo fido,
Scende di Cleio in voi questa gradita,
Che le fate almo di voi stessi nido :
E fa con quella ancor da voi partita
Fama lassando cd onorato grido;
Ch’ or si suol dir a questa ed or a quella :
Al suo tempo miglior costei fu bella.
Se fusse eterna in voi Donne, beliate.
Non vorrebbe il Faltor condurvi a morte :
Perch’ei vi mula d'una in altra etate,
Non gii è ’i vostro morir noioso c forte :
Hanno tutte a finir ie cose nate.
Cangiando voglia, pei, bellezza e sorte;
E dell! morte d’ uno un altro nasce,
Chè di tal variar Giove si pasce.
Qual a pianta gentil terra felice,
È la fiorita eude a tanto bene :
Donne mie, di costei tacer non lice,
Per cui morto è ’l timor, viva la spene :
Quest’ è d'ognl gentil vera beatrice,
Ch’ a tulle »ue vaghezze alte e serene :
Sola mercé di cui, nuovo valore [amore.
Ne mostra ogni alma in cui non dorme
Costei ne porge alta virtute e senno,
E cald'fc ’l nostr’ oprar, la sua mercede :
Sanno i vecchi ridir quel che già fenno,
E col suo rimembrar s’acquistan fede.
Furo i giovenl quei che lume dienno
A quel ch’oggi si legge, ascolta e vede :
E questa beila età tanto a Dio piace, [ce.
Ch’ei lalien seco in Ciei mai sempre in pa-
Se ei non è ver che Dio dato aggia invano
Virtù, forza cd ardir. Donne, a' mortali.
Anzi gii ha posti in noi, perchè lontano
Ne sia ’l vile timor di tutti i mali ;
Dunque gli anni miglior che dolce e piano
Fann’ogni duro oprar senz'altri eguali.
Lodar soli si pon senza mentire,
Come chi dà virtù, forza ed ardire.
Sarian del Gel le qualitati intese
Senza quei che durar nell’ opre ponno?
Citi può soffrir nell’ onorate imprese
Caldo, freddo, martiri e fame e sonno 1
Ove sarian i’ altere fiamme accese
Del sant' Amor, dei gentil spirti donno 7
Che vedrein noi fiorir negli ultim’ anni 7
Tema, avarizia ed odio, ozio cd affanni.
Domini, donne e ciò che vede il Sole,
Quanto dura costei, non sente noia :
Beato è più chi giovine si dole,
Di chi veglio o fanciui si vive in gioia.
Misero è quel che non potendo vuole,
E nei dolci desii sè stesso annota ;
E nella prima etate e nella estrema
Par che questo dolor tutti ne prema.
Al non esser venuto in questa vita
Non è miseria ugual, Donne mie care :
Simllemente in far da lei partita,
Eslrem’è delle cose al mondo amare :
Dal non esser è lunge està gradita,
E paion nuove in lei le morti e rare ;
Quei della prima età son nati appena,
E morir certo i lunghi corsi affrena.
Spera la prima età, teme l’estrema ;
L'una corre a costei, l'altra la fugge :
Chi la segue s’affretta c par che tema
Non morte il viver suo per tempo adugge ;
LODE DELLE DONNE. 555
All’altra par che l’alma alto duol prema
Del tempo Ingordo che il suo sangue sugge:
E serband' oro serbar anni crede,
Tanta dolcezza nel passato vede.
Piace questa beata ad ogni etate,
Ma di sé stessa è sol vaga costei.
Che ’l fonte Ita seco delle cose amate;
E la gloria e ’l desio d'uomini c Del :
Cbè te grazie presenti e le passate
Hanno tutte il valor preso da lei ;
Come si può veder cercando attorno
Tutte le cose di che T mond’ e adorno.
Quest’ età bella inutilmente spesa
Vergogna porta all’ altr’ etate e doglia:
L’ordine volgi, a leggiadri opre intesa
DI ogni memoria vii vecchiezza spoglia.
E s’ amata beiti non l’è contesa,
Dir si può ben che ’n lei tutto s'accoglia
Quel che pon far le stelle e ’l Clel tra noi :
Nè può dar loco a nuove graiie poi.
Nascer si sente al cor dolcezza nuova
Tosto eh’ al bel mirar 1* occhio s'invia :
E non pur questo in noi soli si prova,
Ma in qualunque animai Natura cria.
E però, Donne mie, s'ei non si trova
Spirto che di beiti vago non sia,
Tenete in pregio il buon tempo felice
Ch’ è ’n voi del bello, in voi del ben radice.
Molti sono I beati che non sanno
Usar le sue divine, alte venture :
Vane son le ricchezze che si stanno
Chiuse sotterra, e non si sanno pure.
Qttanl’ è rara la gioia e spesso li danno
Di quest’ ore mortai fugaci e dure! [stra
Vien l’ un giorno appo l’altro e non ci mo-
Come seco sen va la gloria nostra, [miri,
Non vede occhio mortai, perch'ci ben
Perder il suo color nè morir l'erba,
Nè bellezza sparir co’ bei desiri,
Nè la fiorita età che ce gli serba;
Ma l'erbe giunge il verno e no’ i martiri
Dell’età, nulla men di morte acerba,
Ove partito T ben, si prova a pieno,
Ch’ al fin si vede quel che ognor vien meno.
Cosi quel che si perde ad ora ad ora,
Tutto insieme n’ affligge ; ed è ben dritto,
Che d'alta doglia acerbamente mora
Con un tardo pentir negli occhi scritto
Quel cicco e reo che vaneggiando è fora
Nel tuo tempo miglior del cammln dritto ;
A che volge il desio chi non adopra,
Quand' è bello, 11 valor la voglia e l’ opra ?
L' anima che da Dio ben nata scende,
E veste membra elette, altere e belle,
Amica al suo Fattor mercede rende
Con l'oprc sante di viltà rubelle.
E la vagheggia, ed alta gioia prende
D’aver gloria colai sotto le stelle :
E chi porta da lui grazia maggiore
Fargli dee pur tra noi più largo onore.
Giovine donna valorosa e bella
Ha tutto quel eh’ a Dio chieder si puote :
Per lei s' arde, si pensa e si favella,
Scrivesi e canta in amorose note.
Spess' appaga l' udire e ’1 veder quella
Un servir lungo e bel d' alme devote :
Ch' esser non può già mai poco quel bene
Che da si rara ed alta cosa viene.
Dunque voi siete quelle che devete
Render al Re del Clel grazie maggiori :
Chè del bel regno suo venute siete,
Perchè la sua sembianza In voi s' adori.
Da voi vien la salute e voi ’i sapete
Ch'aveste il pegno in Ciel del nostri cori,
Chè Io vi diede Dio, sendovi a sdegno
Scender da lui si (unge e dal suo regno.
Eravl amara ed aspra la partita
Dal dolce loco ov’ognl saggio aspira;
Ma col governo in man di nostra vita
Scendeste a tome tema e pianto ed Ira.
Quinci ogni anima lassa e sbigottita
Tarn' ha di ben, quanto per voi sospira :
Chè Dio vi mise a provar caldo e gelo.
Perchè voi foste qui quel eh' egli è’n Cielo.
Questo solo appagò la doglia vostra,
E vi fece venir liete tra noi :
E fu principio ad ogni gloria nostra,
Chè divenimmo allor cosa da voi :
Nel ragionar di cui chiaro si mostra.
Che ne fa ricreili Dio del pensier suoi ;
Facendone parlar si, eh’ altamente
Più d’ altro 11 dir di voi place alla gente.
Se Natura per voi s’è fatta altera,
E si fa bel per voi ciò che si vede,
S’ ogni ben qui da voi, Donne, si spera,
S’ a voi sole si dee chieder mercede ;
S’ una devota ed umile preghiera
Ne face aver da Dio quanto si chiede;
Fate eh' a' preghi nostri in voi non sia
Sorda vera pleiade e cortesia.
Deli come spi ace, ed è ben dritto, a Dio,
Se non piega qui voi quel che lui piega !
Nasce dai preghi 1' amoroso rio
Della sua gran pietà che nulla niega.
Vcdosi pur che ’l suo maggior desk)
È di far grazia a chi divoto il prega.
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ro2G SKWLIRICA.
Sallo chi ’n questa ed in ogni altra elide
T rotai' ha in lui dopo il fallir pleiade.
Se non fosse piotate, il mondo fora
Tenebrosa spelonca sena' amore :
Che si polii a sperar da chi si adora ,
Dopo questo mortai mal preso errore?
Tropp'è misero l’ uom che prega c plora,
E porla invidia a chi per tempo more :
Qual si può mai provar più dura sorte ,
Che per trovar pietà chiederla a Morte 1
Tarn' è dolce e soave il pensi er solo
D' esser cortese altrui. Donne mie care,
Quant' ò noioso ed aspro esser in duolo
Soli’ empio peso d'assai cose amare.
Sente ogni anima pia levarsi a volo
Press' a dii fa tremar la terra e '1 mare,
Com’ ella vede in sè tanta virtute,
Ch’ ella può render vita, e dar salute.
L' ordine volgi , irata I giorni mena
Quella eh’ ai danni altrui drizza 'I pensiero:
È di quello arma 'I cordi eh' eli’ * piena,
Ch' ci non si può mai far bianco col nero.
Cosi turba sè stessa o rasserena ,
Serva del suo pensier benigno o fero;
Chè la dolcezza prima o il primo affanno
È di chi pensa a dar mercede o danno.
Ve desi I' umiliate e l'alterezza
Di quel che prega, e di dii 'I prego ascolta ;
Del chieder l’ un, dei dar l’ altro vaghezza
Spirto leggiadro ov’ è virtute accolta :
L’ anima saggia a lodat’ opra avvezza
Seco la porta , o col pensier s’ è volta
Ove non passa il tempo, ove son sempre
Cioia, luce e salute in varie tempre.
0 beau colei eh' ai fin può dire s
lo tenni un senza cor moli’ anni In du ;
lo gli fei parer dolce ogni martire
Nell' età sua più bella e più fiorila :
Nè gli lasciai provar gli sdegni e l’ ire
Del timor che a morir gli amanti invita :
E quel di’ all' un fu caro,all* altro piacque;
Perchè i' sua tutta, ed ei mio tutto nacque.
Queste parole agl’ infelici amanti
Portali soave invidia al cor d’ intorno :
Traendone sosplr dolce tremanti ,
Ed amico languir la notte e 'I giorno.
0 pietà bella, o bei costumi santi, [no!
Ben d' ogni grazia è per voi 'I mondo ador-
Ticn un guardo pietoso, un dolce riso
1 corpi in terra e l' aime in paradiso.
Gioia colatamente il corpo ancide,
E maggior ben ebe vita in luce II tiene;
L’ anima dai noi membri ri divide ,
E non è vite poi che gli mantiene ;
Anzi è valor di belle lud Ode
Ch’ hanno virtute in lor che da Dio viene :
E pon quel ch’amainslatoaitoe divino.
Qual spirto detto al suo Fattor vicino.
Non si dee dir che viva quei che *n Cleto
Vicino al suo Fattor beato siede.
Più die vita è'i divino, eterno zelo,
die si chiama tra noi di Dio mercede t
Vive chi molle cose in caldo e'n gelo
Tocca, gusta ed odora, ascolta e vede :
Spirto a Dio volto è di tutt' altro schivo;
Obbliato sè stesso, è più che vivo.
E questa è la virtù degli occhi vostri.
Quando vera pleiade in lor s' accoglie :
Questi fan chiari e lieti f giorni nostri,
E voi fan ricdte d’ onorate spoglie.
Questi fan eh' all' età nuova si mostri
Quanto d' ogni valor durezza spoglie t
Chè le donne cortesi alfin son quelle.
Che ne fan vaghi d' ardii’ opre e belle.
SI come spesso amica cortesia
Doppia com 'ogni uoinvedeinvoibeltade;
Cosi rara beltà die ’n donna sia
Spegne nemica ed empia crudcltade.
1 ropp’ è folle colei che non è pia
Per portar seco il pregio d' onestade,
E tra sè dice s io vo' la morte altrui
Per poter dir in Cieio : onesta fui.
Non si chiama onestà, ma cruda voglia
I.’ infiammato desio dell' altrui morte.
Voi non siete tra noi per darne doglia.
Ma per far vive le speranze morte, [glia,
S' avvlen eh' un' alma in voi tutta s'acco-
In voi tutta s’ acqueti e si conforta.
Credete voi però che piaccia a Dio
Vederla In stato qui mai sempre rio?
S’ umiltà vera , s' amoroso foco ,
S’ oneste voglie in spirito gentile ,
S’ a voi sole servir, curando poco
l.a lode o'I biasmo delia turba vile;
Se vostri orme seguir di loco in loco ,
Se cantar voetre glorie in dolce stile
Son le cagiiMt dei lunghi affanni nostri ,
Che pena avranno gii avversari vostri ?
Voi pur udite, e me tra quegli , ahi lassi ,
Languir sovente i travagliali amanti :
Voi gli vedete gir perdendo i passi ,
E far morendo dolorosi pianti
E star si come quei eh' afflitto stassi ,
A cui ria T propio ben tolto davanti.
Quando per tome pece alla ventura
Dite con gli occhi a tri che non n’ he tur».
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LODE DELLE DONNE. SiT
Tutto ’I mondo T’ha In pregio ed a cia-
scuna
È dal* un uom che per lei vira e mora :
Elezlon , valor, graxia e fortuna
Fan eh' ogni anima bella s* Innamora : .
E quel ch’ama di nol,Donnc,piùd*una,
Non può saver com' alla Impresa onora :
Resta Tinto 1 pensicr che troppo vuole,
Qual occhio ingordo In mirar fiso 11 Sole.
Deh chi pu6 mai con sua vlrtute Intera
Le vere iodi dir d* una di voi ?
Deh chi pu6 dir com'ei paventa e spera ,
Com’ el muor mille volte e vive poi?
Come la luce di due occhi altera
Porta al cor fiamma e luce agli occhi suoi ?
Chi puù dir come d’unailghiaccioel foco
Son vivi e Torti In un medesmo loco ?
Oli puote una di voi veder si spesso ,
Cile non faccia al partir di pianto un rio?
Chi mai la puote udir tanto dappresso,
Che di sempr* ascoltar perda 11 desio?
Chi pu6 tal parte a lei far di sé stesso ,
Che non fia poco a quel che dessi fio ?
Nessun puh fardi quei eh’ al mondo sono,
A più d’ una di sé gradito dono.
E poco è ’l don eli’ un di sé stesso face.
Ma non dì poco mai chi dì quel eh' ave.
Chi si ferma ad amar guerra per pace,
E per dolce gioir piani’ aspro e grave.
E quest' é, Donne mie . perché a Dio place,
Che ’l servir d’ un vi sia caro e soave ;
Ch’el vede un’alma a bel servir si volta,
Ch’ ei la prende ad amar legata e sciolta.
E vuol eh' ell'aggìa qui da voi mercede,
Come da lui su ’n Ciel d’ ogni belf opra.
È la vera pleiade ch’el vi diede,
Il ristorar chi per voi fido adopra :
Questa negli occhi e nei cor vostri siede ,
Ed amata onestà sempre l’é sopra :
E dicon r una all’ altra : o mio sostegno,
Sempre sia lieto amor nel nostro regno.
Quel che Interrompe li lor casto destre
È.sequelch’éd' un solo, a molti é dato :
Questo ingoio bra i mortai di sdegni e d' ire,
E turba e volve ogni amoroso stato.
Questo fa l’ uomo vago di morire ,
E ’l fa doler con Dio d’ esser mai nato :
E ’i fa venir d' ogni sua gratia schivo ,
Poi che d’ogni mercé vivendo é privo.
Spesse Date avvien che un fido amico
A gran torto per voi gran pena porta ;
Io so per prova, ahi lasso, quel eh’ lo dico;
Sa) chi di voi se n'é più volte accorta ;
Sai chi mi vede per costume antico
Andar piangendo ogni mia pace morta :
Né per cagion di cui contar vi deggio ,
Per non aver da chi può farlo peggio.
Basta che ’l fa chi ’l fece e chi sen gode,
E che io per tema sospirando taccio.
Deh chi contende ornai che oon si snode
L’alma, lassando ’l cor d’eterno ghiaccio?
Come non n'ha pietà, come non l' ode
Chi pria la strinse a si penoso laccio?
0 congiurate stelle a pormi in guerra ,
Potrò già mal dolermi in cielo o ’n terra?
Taci, folle , ben sai che dolce c cara
Esser tl deve ogni amorosa doglia.
Mira le beile luci ove s’impara
Come d’ogni martiri’ alma si spoglia.
Odi la voce gloriosa e chiara [glia :
Che In te pon allo obblio d’ ogni aspra to-
Qucslo dice un pensier che mi mantiene.
Clic dal Sol vostro c mio nel cor m i viene.
Vostro, Donne, é ’l peccato, s'empio, fe-
ti chiamato da noi sovente Amore, [ro,
Voi gli date umiltà , voi ’l fate altero ,
Ch’ ei dal vostro podcr prende vigore.
Non son sue le su’ opre : e che sia vero.
Non vien In noi da lui pari l'ardore
Clic questo pone in gioia , e quello accora.
Come piace alla donna che innamora?
Se ’l governo di noi suo fosse intero ,
Non avrebbe tra noi forra il dolore;
Clié, come suona il nome, ogni pensiero
Nascerla di lui dolce in ogni core ;
Ma perdi’ egli obbedisce al vostro impero,
Avvien ch’anima accesa or vive or more;
Ch' ci per voi s' ama e teme, ami s’ adora ,
Come dagli occhi vostri a noi vten fora.
Vedesi spesso un bel guardo pietoso
Tornare ’n vita un ttom di spirto privo :
Vedesi spesso un guardo aspro e noioso
Far eh* un servo d* Amor non sia più vivo ;
Vedesi spesso nel maggior riposo
Como venir d’ ogni dolceixa schivo ,
S’dsi rimembra pur, sema eh’ ei prnovl
Gli accidenti per voi diversi e nuovi.
Misero quel sovra tati’ altri amanti
A cui donna credei Fortuna diede;
Cui gran forra é chiamar leggiadri e santi
Occhi talor dove sua morte vede ;
Ch' al sno fido servir sospiri e pianti ,
E disperata vita ha per mercede :
A cui sempr1 é per voi piò dolce e caro
Il poco ben, che ’l molto male amaro.
E beato colui eh’ a donna pia
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SEM1URICA.
Serre con fede In amorosa gioia :
E d’ un dolce pensiero un altro cria ,
E non sa come s’ ave al mondo noia :
Dir si può ben clic ’n lui Unto ben sia,
Quant' In un mal che d’alt' angoscia muoia;
Dogliasi l'alma nella sua partita.
Ch'ella non può trovarsi a miglior vlu.
Se tra mille durezze un guardo pio
È di tanto valor eh’ ci può dar pace,
E fa tutti 1 marlir porre In obblio ,
E rende al cor quel che dilctu e piace ;
Che può più contentar nostro desìo.
Che non provar gii mai quel che ne spiace,
E veder sempre onesta donna e bella
Lieu apparir qual amorosa stellai
Coppia felice, a cui foco gemile
Dolcemente arde l'alma e la tien viva :
Che senza mai cangiar vaghezza o stile
Agli ultimi anni innamorato arriva :
E in sè tutu s’acqueta ed ha per vile
Chi s’ elegge alto stato, e poi seu priva :
Nè per forza di sdegni si divide
Fin che giunge colei che tutti anclde.
Partendo seco I suol pensieri In pace
Con divina dolcezza 1 giorni mena :
Poi, quand’ ogni animai dormendo tace,
Trova la notte più del di serena.
E mentr’al sonno in preda il corpo giace.
L'alma ricorre al ben di eh' eli’ è piena;
E va creando imagìni alte c belle,
Pura com' ella è pur sovra le stelle.
Questa coppia felice attende Dio,
Quando la carne sua lassa qui morU ;
Ch’ ha veduto 11 suo stile, e sa'l desio,
E 1 begli angeli manda a far lor scorta :
E le si mostra allegramente pio
Per dar mercede a chi mercè gli poru.
Fannole intorno segno d' umilute
Piene di grazia l' anime beate.
Che può più a Dio piacer del bel ritorno
D’ una di voi su ’n Ciel con un dì noil
Vero è guadagno, c d’alta gloria adorno,
La schiera accrescer degli eletti suoi.
Lassa '1 mondo colui colmo di scorno.
Che non è suto qui vinto da voi;
Nè vede in Cielo Dio, s'el non lo vide
Ed amò in voi nel mondo, ov* ei s'asside.
E quei che muor servendo a donna fera,
E sale anima sciolta, afflitta c sola ,
Trova riposo In Ciel che mai non spera ;
Ch' ogni sperar vostra durezza Invola.
E la donna eh’ è sUU troppo altera.
Senza gioia o martir mai sempre vola
Per l' aere puro, e di suo suto In forse [se.
Vede volando in giro or l' Austro or l’ Or-
Non consente '1 Fattor che pena senta,
Ch’ el non vuole affannar cosa si cara :
E non vuol eh’ ella stia seco conlenu
Per la vita ch'altrui fé’ troppo amara :
Polcli’ egli ha 'n lei col duo! la gioìaspenta.
Falla con saldo obblio di nulla avara,
Di nulla schiva e fa la terra e ’1 Gelo
Nulla parerle, e '1 caldo nulla e ’l gielo.
Cosi non vede lei piangere in doglia.
Nè la vede gioir nel suo bel regno.
Donne mie care, oimè ! eontra mia voglia
A dir tra voi di vostre pene vegno :
Ma per mostrar che d' ogni ben si spoglia
Chi di voi s’ arma 11 cor d’ acerbo sdegno,
Colmo di sant’ amor con voi ragiono,
E del mio troppo ardir chieggio perdono.
E torno a dir eh’ a’ lieti amanti è grave
Ch’ una coppia beala il mondo lassi.
Di si cara compagna e si soave,
Fin eh’ el sian seco in Cid, vivendo cassi :
E tanto 11 suo morir par che gli aggrave.
Che van con gli occhi lagrimos! e bassi :
Piangon le donne pie, piange anco Amore,
Nè qui cosa è gentil senza dolore.
Piangono insieme i travagliati amanti.
Ch'hanno il suo dipartir perduro scempio-,
Ch’alle donne crudei nei tristi piami
Solean quella gentil dar per esempio.
Per far che in elle in bei costumi santi
Fesser dolce il v olcr noioso ed empio ;
E nuli’ è al mondo poi che gli conforte,
Si lor toglie ogni ben Fortuna e Morte.
1 buon testor degli amorosi detti
D' onorati lamenti empion le carte
Che poi mille scaldando e mille petti.
Destano in quei l’ ingegnoe portati l'arte :
Onde nasce a voi fama i cui perfetti
Semi aduggiar non pon Saturno o Marte.
Sa tutto '1 mondo, o bella schiera amica.
Quel eli’ I versi pon far senza eli’ io’l dica.
Altri più chiari e più leggiadri stili
Han di ciò fatto degnamente fede :
E voi vedete ognor, Donne gentili,
Quel che sa far Amor, vostra mercede :
Chè tuli’ altri pensier fa parer vili,
Dand'ai suoi salda ed onorata sede.
Chi ben parla di lui , par che nel mondo
Onor s'acquisti a nuli’ altro secondo.
Vivono afteor tra voi, pregiate e belle
L’ antiche donne celebrate in rima.
Prim'avrì luce il Sol daU'altre stelle.
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LODE DELLE DONNE. $29
Che manchi lor la bella gloria prima.
Fama ha radice tal, che non si svelle,
Anz'ognor viva al ciel alza la cima :
E la guerra dei venti euipj e nemici
Fa le sue forze conte, alte e felici.
Ucn si vedrà se la nemica mia
Ch’oggi m'ascolta avrà nel mondo onore,
Quand' altamente ricordata fia
Dagli spirti gentil servi d’ Amore.
E ben che sorda ai miei buon preghisia,
Andrò velando il mio nuovo dolore,
Che di lei non si dica in ogni ctate :
Costei fu donna delle donne ingrate.
lo mi sento stancar. Donne, per eh’ lo
Voglio al mio ragionar por line ornai :
Non che io non aggia ancor tale il desio,
Che la forza e ’l saver vinca d' assai ;
Ma perchè io vedo già chiudersi il rio
Ond’a rigar si lieti campi entrai :
Nè pur discerno ancor dal secco il molle.
Il voler troppo saggio e ’l saver folle.
E ben m’accorgo, ond'ho vergogna e do-
Perchè non è chi di voi tutto dica, [glia.
Chi col propio valor tempra la voglia,
Gloria n’apporta d'ogni sua fatica.
Chi sarà mai che pur nell’ aima accoglia
Lode di voi che non vi sia nemica ?
Molto meglio è tacer, che inutilmente
Far del suo troppo ardir fede alia gente.
0 pur questo a mercè. Donne, mi vaglia,
Che a dir di voi da voi fui fatto ardito :
Se il troppo lume poi la vista abbaglia
Del buon voler eh’ esser devrla gradito,
Non è che meno il nome vostro saglia,
Che per nuovo liquor non cresce il lito :
Voi mi pregaste, ond' io le labbia apersi:
Or vedete di noi chi può dolersi.
E s'io ho detto qui cosa che sia,
Donne belle, da voi lodata in parte,
Rendete grazie all’atta fiamma mia,
Clic dal trito senller tutto mi parte,
E novelli desii nel cor mi cria,
Onde vedransi ancor piene le carte :
E gir mi face u' passo altrui non giunge.
Cosi altamente mi diletta e punge.
Quant'è quella gentil, che con un cenno
Mi sa dar guerra e pace e morte e vita!
E son suoi quei begli occhi che mi denno,
Quand' io corsi ad amar, luce infinita;
E son sue le parole ond’ esce il senno
Ch'a bellissimo oprar i’anime invita.
Che più? fan le sue grazie altere e sole
Più bello in terra assai che in cielo il Sole.
Chi non ama costei, quand’ ei la mira,
Par che bellezza ed onestà rifiute.
Al bel stato celeste non aspira
Chi non chiede a costei senno e virlute,
Cui d’ogni intorno dolcemente spira
Aura santa vital che dà salute :
E chi la vede pur, beato more,
Chè per lei sola è Dio senza furore.
Quanto più l’ale dei pensieri spando,
Più di volar al Ciel vago divegno :
E poi m’accorgo, oimèlche troppo errando
Folle, d' ogni dover trapasso il segno :
Allor tacer dovea, Donne mie, quando
A ragionar di voi mi vidi indegno :
Ma noi fei, chè di lei dir volli ancora [ra.
Che Amor, Natura, il Cielo e ’l Mondo ono-
Qui taccio e prego voi, Donne pregiate,
Poi ch’io v'adoro pur come si vede,
Fate ch’io trovi ancor viva pietate
Ov’ è molto il valor, poca la fede :
Chè s’ivi è il fior d'altezza e d’ onestate,
Si nuova gloria avanzi la mercede, [atro;
Vostro è’1 mio spirto ei dir, l'arte e l'inchlo-
Non son mio no: s'io moro, il danno è
vostro.
BERNARDO TASSO.
AL S1G. CESARE DI RUGGIERO.
ELEGIA.
Lodalo per le opere virtuose e per l’amore di che lode con Amarilli.
Mentre, Ruggicr, dove ’l mard’Adrìafre-
Canto mia libertà cara e gradita [me,
Seni' ardenti desiri e senza speme :
E volgo a più bel corso, a miglior vita
Questa anima sviata dentru a’ sensi,
E dal dritto cammin quasi smarrita;
23
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SEMIL1RICA.
Tu to’ pensicr di gentil foco accensi ,
In opre degne di perpeluo grido
Le lue felici e Urte ore dispensi;
E dai colle gentil, che Pafo e Guido
Avanza di beliate e di vaghezza.
Miri il Tirreno e ’l suo arenoso lido;
Dai sago colle che di sua bellezza.
Più che d' erbe o di fior Turrichia onora.
Per cui ogn' altro albergo odia e disprezza
Turrichia, cui Sebeto ad ora ad ora
Purga la fonte sua. Tacque rischiara;
E di smeraldi le sue spuude infiora.
Con la famosa Anliniana e chiara,
Nata ad un parto sotto lieta stella,
Di ben cortese e di luti* altro avara.
Questa più d’ altra Ninfa adonta e bella
Ti spiega T ombre fresche e dileltose
Del suo bel colle in questa parte c'n quella;
Questa di bianche e di purpuree rose
Ti veste le sue verdi, erbose rive,
E di viole pallide, amorose :
Questa di compagnia con T altre Dive
Degli altri boschi e de’ vicini colli
Talor ti canta alle fresch ombre estive :
La qual mirando co’ begli occhi aulii
Dall' alto giogo, Capimonte chiamo.
Sospinto da destri Ingordi e folli :
Misero quanl' ei più la prezza ed ama,
E la segue piangendo all’ ombra e alSale ;
Ella più ’l fugge ogn'or, T odia e disama :
Ne perch'ci mesto le prime viole,
E i primi pomi del suo vago mante
Le porti, punto del suo mal si duole :
Anzi con nubilosa, oscura fronte
D'arder sdeguosa in fiamma cosi vile.
Sprezza i suoi doni e gli fa oltraggi ed sale.
Ivi tu lieto io un eterno aprile
Con la bella Amarilli ti diporti ;
E vivi vita traoquilla e gentile ;
E '1 vaneggiar delie montlaoe sorti
Avendo a scherno, da virtute impari
I sentieri dei Ciel set un e cord :
AcciocchM tempo e gli anni invitti, avari
Non spengan del tuo onor T alta memoria;
Ma eoo gli antichi più famosi e rari
Serbi il tuo nome ogni lodata isteria.
A LIGGRINO.
ELEGIA.
Lo invila a discendere da’ monti nelle Mie campagne ore con icario vivrà una vita di
moltiplici piaceri.
Qual novello piacer, quai fere voglie ,
0 raggio di beltà chiaro ed ardente
Su quegli orridi monti a noi ti toglie?
Qual celata vaghezza la tua mente
Inchina ad abitar loco si strano ,
E si remoto dalla lieta gente?
Deh scendi, Ligurin, deli scendi a) piano,
Ov'ogni erbetta, ov’ogni vago fiore
T’ha sospiralo lungamente in vano;
Qui più benigno Cielo il suo favore
Comparte , c manda dalle vaglie stelle
Lucida pioggia di soave umore :
Qui le campagne colorite e belle
Scopron più bei tesori, c qui frondose
Son più le piante di foglie novelle :
Non hanno i monti si vaghe le rose.
Cosi candidi i gigli e le viole;
Nè si verdi le selve , e dilettose.
Loro ne’ caldi giorni arde più il Sole ;
Ne’ freddi il verno sempre irato e duro
Nevica e piove più che qui non suole:
Spesso di nubi il Ciel condenso e scuro
Manda sovra di ior folgori ardenti,
Quand' è qui T aere più tranquillo e pura :
Aspro a te il molle crin faranno i Tenti;
E tingeran del bel viso le brine
I rat dei Sol U su sempre cocenti;
Ivi il bel piede sassi, sterpi e spine
Premerà in vece d’ erbe ; e nevi e gelo
In vece di rugiada e di pruine.
Deli scendi qui , dove rivolto al Cielo
Lagrima Icasto , e ti sospira e chiama
Cangiando per la doglia il viso e ’l pelo ;
Icasto tuo, la cui celebre fama
Adorna di gentil, nota vaghezza,
Empiè ciascun d’ un' onorata brama :
Gilè non debbon goder di tua bellezza
I rozzi abitator d'erme montagne;
Ove ’l ben raro si conosce e prezza.
Egli teen le selve e le campagne
Cercherà Insieme, ed’ altre cure scarco,
Non sarà chi da te mai lo scompagne :
Egli ti porterà le reti e l’arco.
Ti condurrà le fuggitive fer*
Con le grida e co' cani instilo al varco ;
Egli dall’ unghie dell' Irate fere
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A L1GURIN0.
Reto 11 firi schermo , mentre stanco
Ti torri fi sonno al duolo ed al piacere ;
E standoti ad ogn'oraal caro fianco,
Non lascierà , che le Ninfe lascive
Facciano II doke tuo riposo manco:
Nè che de’ fonti l’ amorose Dire ,
Come il vago Ila, il chiudan nel seno
Dell’ acque or mal sempre odiose e schive.
Ah misero fanciul , col petto pieno
D’ amorosa pietà , segui» l’ amante ,
Che cogli omeri resse il Clel sereno;
Sema coi non volgeva unqua le piante ,
E stanchi di solcar l’onda marina
Da legno alcun non più solcata arante :
Allora che Giason per far rapina
Dell’ aureo vello del Monton celeste:
Giva con gente ardita e pellegrina ;
Argo lasciando e l’ acque a lor moleste
Vaghi del lieto porto e del riposo
Presero II litoconle voglie preste;
Ma mentre prrmongli altri II letto erbo-
D’ un pralice! di più color dipinto , [so
Ch’ era da' remi delle piante ascoso;
Il glovenetlo dal deslr sospinto
Delie frese' acque, alla gelala fonte
Gira dal caldo e dalla sete vinto :
SM
Era nel mera d'un vicino monta
Chiara fontana , che mattino e sera
Stava nascosta al raggio di Fetonte;
Nel cui fondo la Nai con lunga schiesa
Delle vicine Ninfe accolte in giro
Movea lo snello piè destra e leggera:
Le qual si tosto che la fonte udirà
Percossa mormorar, sisaro II volto,
E della sua beliessa s'Inraghiro ;
E l' incauto fanciul col cor rivolto
A rimirar la maraviglia fiso.
Subito nel lor fonte ebber sepolto :
Povero Alcide, nel bei volto affiso
Cogli occhi ogn'or vivevi ; or tua ventata
T ha dal caro Ila tuo tanto diviso I
Soccorri tosto, ah lasso, ah chi ti fora
li tuo ricco tesori gii Fonde avranno
DI sua rara beltà perpetua cura s
E tu piangendo il tuo gravoso danno,
Sonar d' ila facendo ogni pendice.
Accuserai le Ninfe e ’l loro inganno.
Deh scendi , Liguri», perchè non lice
SI vago pastorei gir solo errando.
Non far eh’ Icasto più d’ altro infelice
Pianga il tuo fato acerbo e miserando
MENZINI.
ELEGIA.
Narra come sneer fanciullo crescesse a poesia , e come ad onta di molti contrasti non fesse
distornilo dalli nobile impresi.
Qual m’ accolsero un di le Muse amiche,
Ben mi ricorda; e come nato appena
Me per campagne scn portaro apriche.
Verde mi alzaro intorno opaca scena
D’ edere e di corimbi ; e Paure e P acque
Faceanla a gara olir’ all' usalo amena.
Nell’ al ma semplicetta allor mi nacque
Un indistinto allctto; e col sorriso [que.
Mostrai ben quanto un tale onor mi piac-
Edi sanguigne more il volto intriso,
Sedeami accanto il vecchierei Sileno
Su quel medesmo erboso cespo assiso.
Ecco Driad i e Napee ; ecco non meno
E Satiri e Silvani ; e In lieto coro
Flauti e sampogne boscherecce arieno.
Lasciar concordi il rustico lavoro ;
E intatti fur quel giorno olivi e viti;
Nè fu chi ferro adoperasse in loro.
Testili e Galatea cortesi Inviti
Udiansi far dai pastorelli amanti.
Fatti d’amore al dolce foco arditi.
Chi 'I crederla ? quei roul, incolti canti
Si mi rcstaro nella mente impressi.
Che sempre lo n' ebbi la memoria avanti;
Come fanciul che non intende espressi
I detti del buon mastro, e poi l'etade
Fa eh’ ei profitti rimembrando in essi.
Oqual chi scorre per Ignote strade.
Se poi ritoma a quel medesmo loco,
Dove eì dubbiò, poscia scettro il rade; •
Tal io mi fel nell'alma ; e a poco a poco
In me crebbe il vigore ; e vidi farse
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SEMI LI RICA.
Sii
Luce »U' ingegno il non inteso foco.
Ed ancor con le forie Inferme e scarse
Tentai l’impresa ; c dentro ai carmi miei
Un non so che di non volgare apparse.
Vostra mercede, o boscherecci Dei,
Per voi nell’ erme e solitarie valli
Sul vostro esempio pastorei mi fel.
E per voi ’n riva ai limpidi cristalli
Guidai le greggi i e dall’ardente Sole
Io le difesi per gli ombrosi calli, [suole
Mevlo ascoltomml un giorno e come
Arder d’invìdia e di livor maligno,
Profani mormorò detti e parole, [gno,
E sai, se sempre aveva in bocca il ghi-
E dicca spesso ; Il biondo Apollo sia
Al nascente poeta ognor benigno.
Deh perchè prima la sua mente ria
lo non conobbi 7 0 nlquitoso ingegno.
Premio doTuto il giusto del ti dia.
Poi per gran tempo all’ onorato legno
Io non tornai, che della sacra fronde
Alle bell’ alme fa corona e segno.
Quanti dalle beale e limpid'onde
Maligna Invidia ognor toglie e rimuove.
Che sarian pregio all’ eliconie sponde?
A che maravigliar, se delle nuove
Foglie la sacra selva non si veste,
E l’acqua di Parnaso è volta altrove?
Dunque le nubi Ingombreran funeste
Per sempre questo Ciclo ? e di più lieta
Luce non fia, che asperso 11 Sol si deste?
La cetra un tempo taciturna e quota
Ecco io riprendo; ecco, che il vento e l'ora
D' Anacrconte all' armonia s' acqueta.
Canoro veglio, al tuo cantar s’ inflora
La greca terra c le vermiglie rose,
Per coronarti 11 crin nudre l’ Aurora.
Me pur han visto le toscane spose
Girmene ghirlandato In lungo ammanto,
Sul chiaro esempio, che ’l tuostll propose.
E vero parve il mio martire e ’l pianto ;
Veri i sospiri; ed udii dir talvolta :
Deh perchè Amor ver lui scortese è tanto?
0 verde eli, perchè si presto tolta
Sci tu da noi mortali ? E la tua rota.
Perchè si presto è al fin del corso volta ?
Allor quest’ alma, a’ bei pensierdevota.
Di cibo si uudria dolce e soave ;
Or è di speme c di letizia vota.
E più non volge Amor l’ aurata chiave ;
Amor, che un tempo solea far tesoro
Di questo cuor, che oggi In balla non ave.
Poscia al mirto successe il casto alloro ;
E con più saggio ed onorato stile
Gli eroi non tacqui c I chiari preg] loro.
Ma come suol la saliunca umile
Cedere al cedro e ’l lamaricc al faggio.
Tal io cedeva al canto altrui gentile.
0 qual del Sole al luminoso raggio
Cede picciola face ; tal io pure
Altrui cedra nell' immortai viaggio.
Colpa di pertinaci, aspre sventure.
Che mi gravare a terra ; e mi convenne
Volgere altrove l’ onorate cure, [venne.
Pur nuovo in riva al Tebro ardor mi
E disegnai qual per febea famiglia
Sul giogo ascreo destro sentier si tenne.
Tal piega appunto il buon nocchier le
Sulla carta maestra, e cauto vede [ciglia
Scoglio, od arena che ’l naviglio impiglia.
Dunque il travaglio mioa ragion chiede
Qualche riposo ; il suo riposo attende
Per varie strade alfaticato il piede.
Dopo lunga miliiia 11 brando appende
Fiero camplon di Marte, c leva In fine
Di sangue osili le colorate tende ;
Nè piùd’aspro dmlcrgrava il suo crine.
VARANO.
VISIONE PRIMA.
per la morte di monsignor Bonaventura Barberini , pria generale dell’ordine cappuccino e
poi arcivescovo di Ferrara.
Stanco de' miei scorsi tristìssim’ anni,
Sul colle che Amor crudo Infiora, ov’ egli
Lunghi a scarso piacer mesce gli affanni,
A mia Ragion dleea : Tu, che io me vegli
Qual lume e guida nel miglior consiglio.
Se pur libera sei, mentre lo scegli,
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VISIONE. >,13
Perchè non osi di si amaro esigilo
Trarmi in piagge in cui sfugga c si dilegui
L’immagin rea del luslnghier periglio?
Tu gli error miei condanni, e tu mi segui?
Ah ! non è ver che a quel che m’ imprigio-
Laccio fatai tua liberta s'adegui. [na,
Vano di regno nome in te risuona,
Ed i tuoi danni ad accoppiar ai miei
Fermo destin, non tuo voler ti sprona.
Le querele e i sosplr eh' io giunger fei
All’ottima di ine parte, fra l’ire
Magnanimo il valor deslaro In lei :
Tal che agitando il caldo in si destre
Sferromml il piè colla diffidi chiave
Che le prestaro senno, onta ed ardire.
Lento lo morra, perchè un pensiersoave
Spesso mi rlvolgca verso il bel colle
In cui più del salir la scesa è grave.
Pareami novi fior sul gambo molle
Tremolar dolce, e di vaghezze nove
Quelle vestir non mal sfornite zolle, [ve
Quanta avvien che olezzante aria rinno-
Timo, o rosa, o viola in croco tinta.
Che gli alili odorosi in cerchio piove,
La falda ammorbidta da’ mirti cinta,
Su cui per crescer a delizia onore
Maravigliosa apparve Iride pinta,
Che segnò Perite col gentil colore,
Sorta del Sol per la refratta luce
Nel rugiadoso dell' Aurora umore.
Gii il cor tenero quel che in me riluce.
Raggio immortai ricominciava a ombrar*
Edi seguir chledeami un altro duce; [me.
Perchè il leggiadro loco era fra l'arme
D' Amor, e Parti ultima, e forse eletta
Dal diritto cammin per deviarme.
Quind’io non più scendea perla via retta,
Ma In cali i obbliqul già, qual uom errando,
Che va malgrado, e chi P arresti aspetta.
Fra i scntier torti un ne calcai vagando,
Che mi condusse in erma rupe alpestra
Presso al colle onde pria me posi In bando.
D'alto rividi alla veletta destra
L’ abbandonato poggio, e un gran sospiro
Diè it cor, che tardo a disamar s' addestra ;
Pur temprando il nascente in me deliro,
I ritrosi occhi 11 volsi, ove appare [giro.
L'onda che abbraccia 11 terreo globo in
Era tranquillamente azzurro il mare;
Ma sotto a quella balza un sordo e fisso
Muggito fean le spumanti acque amare;
Chè un fiume, cui fu dal pendio prefisso
Cieco sotterra il corso, ivi formava
Co' moli opposti un vorticoso abisso.
Desio di rimirar, qual s’ aggirava
A spire il (lutto, e tratto poi dal peso
Perdessi assorto nell’ orribil cava.
Me mal saggio avviò fin allo steso
Dentro i profondi golfi orlo del masso,
E da incauto affrettar cosi fui preso,
Che sul confin io sdrucciolai col passo.
Dall’erta caddi, e un caprifico verde
Afferrai sporto fuor del curvo sasso.
Gli spirti, clie il terror fuga e dlperde,
Corserml al cor, lasciando in sè smarrita
L'alma, che il ragionar stupida perde.
In cotal guisa l'infelice vita
Sospesa al troppo dodi tronco stette
Fra certa morte e vacillante alta.
Sull' onde in rotator circoli strette
Fissai, ritorsi, chiusi le pupille
Da un improvviso orror vinte e ristrette;
E tal ribrezzo misto a fredde stille
D'atro sudor m'irrigldl le avvinte
Mani al sostegno mio, che quasi aprlllc
Fra cento vane al mio pensier dipinte
Idee, che furo In un momento accolte,
E cangiate e riprese e insicm rlsplnte.
Sconsigliato tentai colle rivolte
Piante e al dirupo fìtte, arcando il dorso.
Arrampicarmi alle pietrose volte;
Ma il piè a toccar la roccia appena scorso
Era, che il ritirai, dubbio qual fosse
Peggioro 11 mio reo stato, o il mio soccorso;
Perchè ail'arbor, che al grande urto si
scosse.
Temei col raddoppiar l’Infausta leva
Sveller affatto le radici smosse.
Grida tronche da fremiti io metteva.
Che dal conc ni tufi c dalle grotte
Un’ eco spaventevol ripeteva.
Giè dal forzato ceppo aspre e dirotte
Sul corpo mi plovean ghiaie ed arene,
E Finte barbe gii scoppia van rotte;
Gii F alma ingombra avean larve si piene
Di morte, che pareami, anzi io scntia
Le inghiottite acque entrar fin nelle vene;
Perchè il vortice infranto, che salia
In larghi spruzzi dal spumanti seni,
Col ribalzato mar mi ricopria.
Quand'ccco cinto da raggi sereni
0 corpo od ombra verso me si spinse.
Che gridò forte : In me t'affida e vieni;
Vieni; e la destra mia prese, ch'ci strinse
Colla sua manca mano, e con un salto
Delle mie lasse membra il peso vinse.
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414 SEMIL1RICA.
Dal basso penetrò l’aere piò alto;
E giunto ore non danno all' aure Mese
Dai vapor gravi le procelle assalto ;
Sovra )' etere puro il petto stese.
Ed aleggiando fra il meriggio e il polo
Driun la via verso oriente ei prese.
Confuso io lo seguia ; chè un punto solo
Fu il balenar dell' improvviso aspetto,
Il dirmi, vieni, ed il rapirmi a volo.
Nè il riconobbi ; chè nell' occhio stretto
Da troppa luce increspò 1 nervi stanchi
La mia pupilla, e non v’entrò l’obbietlo.
Volando ei non m’offria die l’un de’ fian-
Su cui lunga scendca lanosa veste [chi,
Di neri sunti intrauiischiaU a bianchi.
Che folgorava nel seutier celeste
Si , che parea di liste luminose
Le sue rubide fila esser conteste.
Dopo molto varcar d'aria ei mi pose
Presso ad un tempio che in mirabii piagge,
Dove non so , il divin Fabbro compose.
Ivi bcoch' oltre ogni pensar s’irragge.
Di novilate il non più visto loco;
Pur il desio, ebea sé l'anima altragge,
S'aflìsò in lui , che nella faccia il foco
Scemando ai lampi, onde spiendea fecon-
da forme sue stei omini s poco a poco, [da,
La nuda avea del crin fesU ritonda ,
Late le ciglia e di fiereua sgombre,
Cbe la placida fronte alta circonda:
Piene le gote c di pel raro ingombre.
Cerulei gli occhi , e a chi li guata allento.
Punteggiali appariandi picco! ombre:
Mite lo sguardo e dolcemente lento.
Tumido il labbro e di ridente in atto,
E di candida barba ispido il mento.
11 torror primo c l' impeto del ratto
Fer me ad aOlgurarlo incerto assai
la regione ignoU.ove fui tratto.
Quand’ei : Son, disse, intempestivi ornai
1 dubbj tuoi. Non mi conosci ancorai
Mei dir: Non mi conoscili ravvisai.
Ah Padre! ah Padre ! gli risposi allora,
Dunque io scampo a te dall' ima io deggio
Yoragin cbe del mar l' acque divora T
Ma come In tanta gloria or ti riveggio
Di sacre armato e inimltabll penne ?
Dimmi : egli è questo il tuo beato seggio?
Lasso ! a noi quanto inaspettaU venne
Quell' ora in cui smorto ne' membri guasti
Trofeo di morte il corpo tuo divenne!
Oh Irrevocabil ora , in cui lasciasti
I rasi al tuo sparir foschi e selvaggi
Tuoi patri! Udì cbe gii Ulto amasti I
Non dar! il Sol ne' curvi suoi viaggi
Altro a noi giorno più di luce muto
Di quel eh' ultimo a te spense i tuoi raggi.
Se dì lagrime pie l’ ampio tributo
Bllor potesse al Fato 1 furti amari ,
Ah! 1 nostri pianti allor l'avriaa potuto.
Niuo duol fu mai cbe rispondesse pari
Di dolersi al desio, come l'affanno
Clic i lumi anche turbò di stille avari;
Chè in mirar te steso sull’ atro panno.
Quanto taciti più,parean loquaci
Ne' tristi modi die i soli ocdii sanno.
Altri già spente le funeree faci ,
Stretto abbracciando il tuo gelato frale ,
V'imprimcan misti fra i singulti ì baci ; [le
Altri olfrian gl' inui c i voti ali' immolla-
Anima tua , cbe sul cadavcr santo
Scesa forse banca per gaudio l’ale.
lo più dir volli ; ma pietà me tanto
Mosse , clic balbettò la lingua e strise ;
E la voce ntaucò tronca dal piamo.
Egli intrecciando coll' usale guise
Sovra il placido scn le caste palme.
Morte, disse, da voi noti mi divise;
Chè a lei sol lice alle caduche salme
Toglier lo spirto, ma non può sua fona
Spegner l' eterno amor delle nud’ alme.
Questua v oi mi rannoda, e insicm mi sfor-
A riguardar dai fortunali chiostri [*»
La terra ove sepolta è la mia scorsa.
Nè avviai giammai qualora a me Dio
mostri
Ch’ci pel vostro fallir empio s’ adiri ,
Che all' altissimo trono io non mi prostri ,
E non inviti de' beali giri
Qualunque spirto di pleiade amico
A confonder i suoi co’ miei sospiri.
Con questi io t’ impetrai conira il nemico
Della tua pace Amor gli acuti lampi ,
Cile tua ragion scosser dal sonno antico,
Ferreo si e cupo in que' fallaci campi ,
Cile libcrtade in lei spenta credesti
Fra i molli obbietti e i lusinghieri Inciampi:
E sciolto forse di tua cruda andresti
VII servitute; ma in disciome 11 nodo.
Ah misero! tu stesso il ri tessesti ,
E in te destasti l'ingannevol frodo.
Che dal retto sentier ti svolse , e degno
Tì fé* di morte con s) orribil modo.
Or lo reggendo te scopo al suo sdegno
Pel lungo obblio delle divine leggi , [gno.
Ti trassi ove ha vendetta il tempio e 11 re*
VISIONE. Mi
Perdi* il tuo do! la colpa tua pareggi .
E 8 fuiavin tolga alla Piotate offesa.
Rimira In tanto il fatai scritto e leggi.
Levai lo sguardo , e tal semema stesa
Lessi ne’ duri bronzi in su l’esterna
Porta con ceppi di diamante appesa:
Il libero Voler, che l' uom governa
Reo dell’ iniquo oprar, questo alzò tempio
Alla Giustizia ultriee e all’ Ira eterna.
Gli error miei gravi e del mio giusto
scempio
L’editto, ebe in que’ carmi aperto scorse
L'anima conscia a sè del suo cor empio ,
Ferri, che mentre il condottiermi porse
La man per superar le soglie insieme ,
Gran tempo stetti di seguirlo in forse ;
Ma da lui preso alAn conforto e speme ,
Posi tremante il piè dentro I secreti
Aditi sempre chiusi all’ uman seme.
Giuugean al Ciri le fulgide pareti
Scarehe di tetto, che al chlaror diviso
Dell'aere sacro il penetrarle vieti, [ciso:
Nel mezzo eretta un’ ara , e in quella in-
lo son principio e fine ; a cui dintorno
Sette fra i eberubin più ardenti in viso
Davan Incensi , e ne rendean il giorno
Annebbiato da fumi, e il tempio stesso
Di maestà fra dubbia luce adorno.
Poiché adoralo umile ebbi con esso
L'invisibil di Dio gloria tremenda ,
Che a trai guardo mirar non è permesso ;
Sbigottito scoprii negli atti orrenda.
Schiera, che ovunque voli avvien per tutto
Che fra eccidio e dolor le nubi fenda, [lo
Vedi, ei soggiunse alk>r,qual traggefrat-
L'alma dal vaneggiar de’suoi pensieri ,
Vedi quei che a recar la morte e il lutto
Stanno sull’ale pronti , aspri guerrieri
Crii’ occhio attento In aspettar il cenno.
Contro cui scampo arte o valor non speri.
Quclcbe calcante armi e trofei t'accen-
È l’angiol che mutò Nabuccoin belva, [no,
E tolse a lui coll'alterezza il senno,
8 d* ogni cruda fiera che s’inselia
Lo fe’ compagno, onde co' suol muggiti
Del grand’ Eufrate empiè Tacque e lasciva.
L'altro ch'agita in aria I vanni arditi ,
È quel che nella notte in Cicl segnata
Lo squallor mise negli egizj liti ,
E scanno i primi figli; e sguainata
Ancor tenea la fulminante spada,
Che di sanguigne strisce era bagnata.
Quegli cui par ebe dalla fronte cada
Grappo di lampi al suol per cener farne ,
D’ Asfalle nella fertile contraila
Vibrò le fiamme ultrìci a divorarne
L'infame terra , e la consunsc , ed arse
Degli empj abita tor l' ossa e la carne.
L’ altro cui scritto sulle ciglia apparso
Stennlnator, colle man preste e fiere
Di Slloein riva II sangue assiro sparse,
E serba ancor delle svenate schiere
All' asta, che ne’ petti armati immerse.
Le ravvolte da lui caldee bandiere.
Questi nella Giudea , mcntr’egìi offerse
In sacrifizio a Dio vittime tante.
La strada all’ aure venerate aperse [avantc:
Del buon re sciolto in pianto agli occhi
Vedi che ancor la feral tazza aggira'
D’orribile furor colina c fumante.
Cent' altri poi , da cui vendetta spira ,
Ei m’additò scelti al terribil uso
Della celeste, irreparabil ira;
Ond'io dall'atra Vision confuso
Con fioca voce: Oimè ! Padre, gli dissi ; [so.
GrandeèilmiofaUoe non T ascondo o scu-
ffia per que’ carmi all' alle porte affissi,
Poich’egli è ver che liberlade è rea,
Spiega come finor libero io vissi ,
E come avvien che la divina idea ,
In cui d’ogn’uom l'opra futura è Impressa,
Arbitre in loro oprar l'aline poi croa.
Ed egli a me : M’ avveggio ben che op-
La mente tua da una vertigin lolla [pressa
Vorriada immobil fato esser compressa;
Bla fra la nebbia tna pel ver discùtila
Intenderai del tuo poter interno
Grave da me argomento; e tu m’ascolta.
Poiché havvl Immenso in Dio saper eter-
Dubbio non è che tali egli potesse [no,
Crear sostanze col valor superno ,
Che fosser pur esse cagioni , ed esse
Di lor medesme virtù avendo attiva ,
L’adoprasscr intera entro sé stesse.
Dell’ uom l’alma è fra queste, acuì nati-
Dio forza infuse pel terreo cammino [va
Ne’ desir suoi liberamente viva.
Or quand’ egli con provvido destino
Le cose appresta all' avvenir serbate,
Prescrive ancor col suo voler divino
Quel che d’invitta dee necessitate
L’alma soffrir, c quel che d’ ogni incarco
Sciolta oprar sua ragion può in liberiate ;
Cbè ben mille entroT uom schiudoosi il
varco
Mali aspri e affanni, cui porre egli il frette
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SEMILInlCA.
Non vale, e non gli è dato Ime mai scarco.
Quanto ordini d’ eterniti nel seno
Il supremo Voler, nel tempo elice,
E ai voler sorge egual l' effetto appieno ;
Chè diverso all’effetto esser non lice
Da quell' orditi che in lui stabìl ordio
L’onnipotente sua causa e radice.
Tu a prova il sai, che, benché a te restio
Contrasti 11 cor, che fervido s'adopra
Ad invescarti nel pcgglor desio.
Puoi col tuo ragionar levarti sopra
Que’ moti impressi in te dalla vii salma,
E sospender ad essi c negar l' opra, [ma
Tu puoi moverti ovunque brami ,o in cal-
Del mare, o In mezzo alle llorissim' acque,
Chè a scerre anche i perigli arbitra è l’ al-
ma ;
Anzi non puoi non esser tal ; chè nacque
Indivisa da te questa possente
Lena che giunger tcco a Dio già piacque.
Primo libero è Dio, primo volente,
Qual ragion pri ma, i n cui pieno s’ accoglia
Quant' è il voler d' ogni creata mente -,
Ond’essa, quando avvicn che il desio
Poiché libera in sè fatiaèda lui, [scioglia,
Debite voler, com' egli vuol che voglia.
Nè Dio col preveder le geste altrui
Cangia agli enti natura, e il puro offende
Dono di liberti ne' moti sui ; [splende,
Chè il sommo antiveder, clic in lui ri-
Da giustizia e pietà se lo dividi.
Indifferente applen per l' uom si rende ;
In quella guisa che se tu dai lidi
Un errante nel mar naufrago scopri.
Perchè tu il guardi a naufragar, noi guidi:
Cosi Dio scorge quel clic pensi ed opri,
Ma non t' astringe a far quel eh' egli vede,
Nè II vedrà mai, se divers'atto adoprl.
Qual la memoria tua, che ti fa fede
Di prische opre, non fu mai per te dura
Forza a far ciò che al ricordar tuo riede,
Ma averlo fatto è la ragion, che in pura
Immago offrasi all' alma, e tu il rivegga ;
Tal la prescienza in Dio d'opra futura
Non è destin violento che il tuo regga
Spirto a far quel che eseguirai dipoi;
Ma il farlo tu è cagion eli’ essa il prevegga.
Eroe felice, 1 sacri accenti tuoi.
Io gli soggiunsi , han già disciolta I ' ombra
Che annebbio l' alma mia ne' dubbj suoi.
Ma un novo buio in me sorge e m' ingom-
mine in noi regni e liherlade e grazia, [bra,
Deli! tu, che solo il puoi ,tu me ne sgombra.
Troppo chiedi, el gridò. Mente che spa-
In corpo fral, non cape i sensi eletti [zia
Di che nel centro del saper si sazia;
Pur m'odi ; e mentre lume al fosco aspetti
Ingegno tuo, nell' immortai tua parte
Imprimi e serba ognor questi miei detti ;
Chè allorché veri intendi obbietti a parte
Necessari in ragion, che poi mistero
Congiunti fan d'argomentar nell’arte.
Se unirli insietu non lice al tuo pensiero,
Non dubitar di lor concordia c pace ;
Perchè il vero non mai distrugge il vero.
Poiché pregio è di Dio solo, in cui giace
L’eterna a par di lui boutade immensa.
Che sua grazia diffonde ove le piace-, [sa.
Nè avvicn che ogni alma libera, che pcn-
Le voglie a ben oprar non abbia pronte.
Se pria non è dal divin raggio accensa.
E non saria un ruscel sceso dal monte
Ingiusto vantator, che sue chiamasse
Le dolci limpld' acque e non del fonte?
Or ella, che dal sen pietoso trasse
I doni suoi, ncll'uman cor non trova
Merlo per cui sua grazia in lui spirasse ;
Perchè il principio, onde ogni merlo ha
È l’unica di Dio Bontà sublime, [prova.
Che sè stessa in altrui sparsa rinnova.
Ella nell’ uom le grazie Infonde prime.
Che accolte in lui dan varco alle seconde.
Purché arbitro di queste ei non s' estinte :
Come le prime acque del rio feconde,
Se sgombre di ritegno abbian le strade,
Traggon placide seco ancor l'altr’onde.
Soave spira l’ immortai Boutade
Grazia all' uinan voler ne' moti incerto,
E l’atto del voler è llberlade;
E libertà, che il ben elegge, è merto.
Perchè il Motor de’ corpi ai corpi unisce
Legge ul, che gli sforza a un ordin certo ;
Ma gli arbltrj dell'alma anzi abbellisce
Co' lumi suoi, che sovra lei rivolse,
E la invita a que' rai, non la rapisce, [se
Qucstailmiospirto ne’verd’annìaccol-
Grazia del Ciel, per cui tenero spinsi
II piè sul cammio aspro, ov’ ella il volse.
Tenacemente a questa io si mi strinsi,
Cile a schivo ebbi i piacer di fango aspersi,
E con ferrate spine i lombi io cinsi : [si
Per essa gli occhi e i mici pcnsier corner»
Alle dure vigilie e ai pianto io tenni,
E il pianto e il duro vigilar soffersi :
Con lei dal Lazio, ove orator sostenni
Le sacre leggi, al nido, in cui già nacqui,
VISIONE.
La mìa diletta greggia a pascer renai :
Per Ielle ingiurie onde sognato giacqui,
Qual uom cui di ragion mancati gli uffici,
Mi furo dolci e care ; e muto lo tacqui.
Questa poi, che alte in me pose radici.
Empiè le mie d’amor opre c parole
Pei cor ingrati ; ed io gli amai nemici.
Rapito alfin, come colomba suole
Dalla nebbiosa ralle ergersi fuori.
Cercando aere miglior che la console,
Salii nel cerchio de' beati cori.
Ove grazie ai sospir che rendo in terra
Fur l'esca amara de’ miei di migliori, [ra
Le rendo al mio squallor, che dee sotier-
La sua cangiar nel Sole ombra notturna ;
Le rendo a quei clic mi dier tanta guerra ;
Ch ’ io scorgo ora dal Cici la taciturna
Fronte piegar sulle mie gelid'ossa,
E porger voti alia mia pallili’ urna.
Ben l’ immensa di Dio virlude mossa
Dall'altrui preci anche 1 miei membri
Renderì illustri nell’ opaca fossa, [spenti
Cbèal mio picn del suo nome ubbidienti
Vedrai le pesti e l’atra fame esangue,
Il procelloso mar, le nubi, i venti.
SSL
Le febbri ascose nei torpordel sangue,
L’ acerbe piaghe e l’ implacabil morte ;
Ch’ove grazia abbondò, poter non langue.
Tacque; e l’altare sfavillò si forte,
Ch* lo non so come a quel balco rivolsi
Il piede fuor delle tremende porte;
Nè più il tempio rividi : c mentre volsi
Smarrito al Elei io sguardo, e fuggitivo
Negli occhi miei subitamente accolsi
Di tre fonti di luce un fonte divo,
Dintorno a cui scritto da folgori era :
Mistero incomprensibile ad uom vivo.
Ei spinto ardentemente alla sua sfera
Disse, stringendo al mio l’ amico lato.
Va, pensa, impara e prega e piangi e spera;
E in abbracciarmi il sen mostromml ar-
D’un’aurca croce e da una face bella, [maio
Come servo d’amore il cor lustrato;
Ed 1 vibrati rai da questa a quella
Tal ricco di splendor dilfondean fiume,
Qual se gli scintillasse ivi una stella.
All’alto allora ei dispiegò le piume,
E quanto ascese piò, men chiaro apparve ;
Alfin perdendo il suo nel maggior lume.
Si mise dentro al gran mistero e sparve.
VISIONE SECONDA.
Per la morte di Anna Enricbclla di Borbone, figlia del cristianissimo re Luigi XV.
Dal nembifero mosse alto Appennino
D’atri vapor nitrosi un turbin carco
Sull’ albeggiar del rorido mattino;
F. l’opposto fendendo acre piò scarco,
D’ oscure le copri nubi spezzate,
Che a lungo stese e poi ricurve in arco
Scendesti, salian or sciolte, oraggrup-
E dopo l’urto divideansi rotte [pale;
Da lampi lucidissimi e segnate,
E dal vortice ovunque cran condotte
Ratto più che non è colpo di fionda,
Seco traean grandine, vento c notte.
Del re de’ Gami alla populea sponda [se
M’ avvidi il plen d’orror nembo appressar-
Pcr io increspar retrogrado dell’onda,
Pel lume fler che sovra i’argin arse,
E per la polve attorcigliata In suso,
Che si folta negli occhi a me si sparse,
Ch’io colle man difesi il ciglio chiuso.
E allor fra le addoppiate ire del vento,
Fra la tempesta e i fulmini confuso,
S’ io cadessi non so ne’ sensi spento,
E lo Spirto di Dio nuove infondesse
Idee nell’ alma assorta In quel momento;
0 se più lieve il corpo mio rendesse
L’ agitato sul Po turbin che apparve
SI, che l’eterea via t arcar potesse ;
So clic su ’n erto colle esser mi pani-
si certo spettator di quel eli’ io vidi,
Clic fora colpa il dubitar di larve.
Eran alberghi di silenzio fidi
Del colle i poggi, ove nè armento rara
Orma Imprimca, nè augel formava ì nidi :
Lo vestia terra ingrata e d’erbe avara,
E P adombra van le ramose piante
Del sacro incenso c della mirra amara.
Muta era l’aria; ma in que’ sassi infrante
Tratto tratto s’ udian d’un pianger fioco
Note come di suon da lungi errante :
Lume tranquillo Ivi spiendea,niapoco;
E pur un non so che d’ interna pace
Mi rcndea dolce, ancor che triste, il loco.
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SEM1LIRICA.
Mentre in profondo meditar »en giace
L'alma gl' ignoti obbietti : E perchè vai
Pensando a quei che tua ragion ti tace?
Gridò una voce ; e d' improvvisi rai
Un angelico volto il mio coperse,
Tal che attonito caddi e l'adorai, [verse
Sorgi, ei soggiunse, e serba a chi con-
Nei tuo spirto e nel mio l'antico nulla,
Quel culto umll che il tuo stupor m’olTerse;
Serbalo a chi da una mortai Fanciulla,
Ancor che In sè beatamente eterno,
Nacque per te raccolto in rozza culla. [no,
Chè un servo io son del suo voler super-
Delle galliche insiem piagge e de' fiumi
Invitto difensor scelto a) governo;
Ed or l'Immenso Donato del lumi
Per quest’ aere benigno a te m'invia,
Perch'io il tuo fosco immaginar allumi.
Tu giunto sci per si mirabil via
Al colle sacro alla Pietà celeste;
L’aria che tu respiri è sacra e pia; [queste
Sacro è il terren che premi : e ben fra
Balze il soave lagrlmar, che puomme
Intenerir non chiuso in fragil veste,
B il suolo dalle rupi ime alle somme
Stcril di fiori, e gli alberi stillanti
D'incenso e mirra le odorate gomme
Mostrati a te che I puri voli e i pianti
E le voglie dei reo piacer nemiche
Saigon quai fumi eletti a Dio davanti, [clic
Ma perchè tu comprenda all' alme ami-
Di virtù quanto sia dolce II perdono,
Quanto il premio maggior delle fatiche ;
Vieni, e della Pietà divina al trono
Volar uno vedrai Spirto innocente,
Chè di Pietade anche innocenza è dono.
Delizia un tempo fu di re possente,
Or lagrimevol cura c lungo affanno
Nella memoria della franca gente; [hanno
Fu già Enriciietta in terra ; or più non
Altro di lei le galliche contrade
Che la sua morta spoglia e il vivo danno.
Placida nel suo volto era oncstade.
Rigida sol nel core, e le splendea
In ogni atto gentil grazia c umiltade;
AI virginale onor pregio accrescea
L'età fiorita, ed alidade li senno,
K nata al regno anzi che al re parca.
Ben a tante virtù premj si donno
Pari al diviuo amor clic in lei le accese.
Ma vieni ornai, vieni, ch’io l’ale impenno ;
Poggia tu meco olirà le vie scoscese,
Poiché il tuo piede al loco, ove pria giunse,
La costa solo e non la cima ascose.
Alzossi e l’aer forte cosi disgiunse,
Che questo spinse me fino alla vetta,
Mentre al mio tergo in sè si ricongiunse.
F.ra la, cima una pianura eletta
L’ erbe e i fiori a nutrir, non da confine.
Non damonte maggior ombrataestretta;
Immense turbe Ivi giaceansi chine
In atto umil, del!' adorato! segno
Fregiatellvolto infra le cigliae il crine.
Nel centro delle turbe il sacro Legno
Da terra alto s'ergea, su cui fu vinto
Dall'eterna Pietà l'eterno Sdegno;
li cui tronco di sangue ancor dipinto,
L’ orme serbava in sè tenere e crude
Del divin Figlio fra le plaghe estinto.
A lato della Croce una che chiude
Candida nube nel secreto seno
La terrlbil di Dio gloria e virtude.
Stendessi a lungo fino al elei sereno,
E il suo bianco fendea vortice spesso
Or coll’iride pinta, or col baleno t
Staratisi al cerchio della nube appresso
Gli angeli della pace, a cui ne' lenti [so;
Sguardi 11 suo raggio area Pietate impres-
Ed essi a rammentar quell' opre intenti.
Per cui s’ arrese un di grazia al delitto,
Alternavan fra loro i casti accenti.
Questi dicea : L’empio Manasse affililo
Fu ne’ ceppi caldei, dov’egli giacque
Pel gi usto ai falli suoi fine prescritto ; [que,
E pur, gran Dio, tanto il suo duol ti plac-
che il regno a racqitistar tu lo serbasti ;
E mostrò i ceppi, c sospirando tacque.
Soggiunse un altro : Tu Sanson mirasti
Sotto il fler Filisteo, che il cor gli franse.
Gemer coi lumi insanguinati e guasti ;
E il suo pentir l’arco tuo teso infranse
SI, che rendesti a lui le chiome ultrid;
E in rammentarne il piantoci dolce pianse.
Quegli narrò le lagrime felici
Di Nlnlve e l’ eterua ira che langue,
E le pendenti afirena ore infelici
Contro al re Assiro de’ flagelli esangue
Fra la cenere, U lutto e lo squallore;
E I flagelli scopri sparsi di sangue.
Un fra l'opre cantò l’opra maggiore
Di Pietade e d’ Amor, che il Paradiso
Empiè di bella invidia e di stupore :
L’Agnel di Dio spietatamente ucciso.
Ostia peri’ uom sul tronco offerta al Padre;
E abbracciò il tronco e impallidissi in viso.
Ma ripigliando poi le sue leggiadre
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VISIONE. S»
Forme e la gloria a cui fu scelto erede.
Forte gridò fra le beate squadre :
L’Onnipotente abita in questa sede.
Ei tutto può, resister sol non puote
Od cor umani ai pianto ed alla fede.
Dall' increspar del ciglio e dall' immote
Mie luci in terra II duce tnlo s’ avvide
Che me dubbio rendean l’ ultime note ;
E con quella che al labbro ognor gii arride
Grazia, cui diede il Ver sue voci in cura,
Sdogliea gii il freno alle parole fide, [pura
Quando in pien coro udissi : Ab ! tieni, o
Alma aspettata ; il Cicl per te sospira;
Che te rapì fuor della valle impura.
Ei cangiò sensi e mi soggiunse : Or gira
Lo sguardo delie turbe al lato manco.
Ecco Enrichetla ; a lei ti volgi e mira.
Ella venia delia Pietade al fianco,
E l’aria avea leggiadramente umile.
Come d uo volto per dolcezza stanco:
Cìograno i gigli dell' elenio aprile
Le nere chiome, ed ombreggiavan lieve
Degli occhi neri lo splendor gentile;
Nè il serto, ebe in candor l incea la neve,
Era al bruno color misto al vermiglio
Delle sembianze sue discorde e greve.
Presso alla nube che asconde il consiglio
Della divinità, ebe in un Dio solo [glio,
U Padre abbraccia c il divo Amore c il Fl-
Ella piegò le sue ginocchia al suolo,
E ubbidienza in lei vinse II desio
D’ erger al centro suo l’ ultimo volo,
Allor Pleiade incominciò : Tu, Dio,
Tu, Padre, invita nel tuo seti bealo
Quest’alma tolta al career suo natio.
Questa delle mie cureè un pegno amato,
Ch’ lo fin d' allor clic Fede a te la strinse,
Le tenni Speme c Carilade a lato :
Questa il terreno amor schiva rispinsc
Dal casto core e i’ amor tuo v' accolse,
E dove l'un ardeo, l’altro s’estinsc :
Questa il rcal, virginco piè rivolse
Sull’ orme tue pei sentier aspri e duri,
Nè dell’asprezza lor giammai si dolse.
Poiché tu sci puro amalor del puri.
Cangiale in manto di perpetue stelle
L' orror sofferto de’ suoi giorni oscuri :
Tergi dagli occhi suoi, tergi tu quelle,
Che già sparse per tc ne' tristi tempi
Del suo peregrinar, lagrime belle;
El'inebbria di gaudio, e la riempi
Della tua stessa Deitade, e in lei
Tu la tua graziaelasua gloria adempi.
Chiamala dunque dagli amplessi miei
Per la tua trionfai, diletta Croce
Ai beni immensi, ove bear la dei,
Chè non fia più che l'invido veloce
Tempo o la Morte isterilisca o rube.
Tacque Pietade; c sorse un'altra voce
Con suono emulator di mille tube :
A terra, angeli c turbe, amore e acquisto
Del dis ia Sangue ; e allor s' aprlo la nube,
E in un abisso incomprensibil misto
Di retti rai, d' infranti c ripercossi ,
La santa apparve umanità di Cristo.
lo caddi al suol per lo stupor, nè mossi
Le pupille a mirar l'iinmagin diva; [si.
Quando il prosteso anch'ei mio Ducealzos-
E disse : Vedi ; e «idi o allor più viva
Diè il Cielo agli ocelli miei forza secreta,
0 un’ altra in lor creò i irtù visiva)
Vidi del Verbo in sen quell' alma lieta,
die le impresse d' amore il bacio in fronte,
E la fronte brillò come un pianeta.
Or chi al rozzo mio slil darà le pronte
Note all’ obbictto eguali, ond' lo lei pinga
Immersa del piacer vero nel fonie?
Ah! che il solo pensier cieca è lusinga
D'ingegno umao,cui tanto ardir non lice.
Se pria dei fonte stesso ei non attinga
Quella divinizzata alma felice
Sulle piume d’ Amor, che la governa,
La florida seorrca sacra pendice;
E rammentando altrui la breve, interna
Guerra che fe’al suo cor, quand'egli visse,
Parca stupir della mercede cierna.
Mentri ella al suo parlar tenca si fisse
L’ altri alme pie da maraviglia ingombre.
Strinse il mio Duce a me la destra, e disse :
Tu dubitasti già. Tempo è clic l’ ombre
In te sorte all' udir clic Dio nonpossa[brc.
Resister fermo ai preghilo sciolga e sgom-
Bencliè quanto da immenso amor com-
mossa
Sia per lo spirto limali la Mente immensa,
Visto abbi tu cinto di nervi c d’ossa,
Pur intender non puoi la forza intensa
Dì tanto amor, chè ignoto è a tc l' luterò
Valor il’ un’ alma che in sè vuole e pensa ;
Chè l'apprezzarla appien serbasi al vero
Conoscitor di lei, che la compose
Nella fecondità del gran pensiero,
E la sua ìmuiagm santa in lei nascose,
E dell’ Immago per diritto effetto
Indiviso compagno Amor vi pose, [fello.
Or poich’ ci fra gli amanti è il più per»
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$40 SEM1L1RICA.
Conveniente fu ne’ moti sul,
Cbe alle leggi d' Amor fosse soggetto ;
E perchè amore era infinito in lui,
Dovean pur infiniti esser i segni,
Cb’ei ne mostrasse apertamente altrui; igni
Tal che se chiede Amor eh' ci non disde-
Morir per l' Com gii reo, cui vano fora
Altro meno a placar del Clel gli sdegni,
D’uop’ è che ceda, e l’ immortai ancora
Natura sua vesta di corpo, e Morte
In sembianza di servo alTrontl e mora;
E scenda nel sepolcro, e colla forte
Sua virtù la sua spoglia avvivi c sleghi,
Sè stesso in ravvivar, le altrui ritorte.
Or s’ el tal amator è che non neghi
Per l’ Uom ribelle abbandonar la vita,
Com’ esser può clic ne resista ai preghi?
E dell’alma contrasti al voto e aita
Ricusi a lei, che fra 1 sospir si duole,
Men'r’egli stesso a sospirar la invila?
Del duce mio le angeliche parole
Sclolser dai mici pensicr la nebbia grave,
Clic la ragion fra i sensi adombrar suole,
E m' infuscr conforto al cor soave ;
Quando si volse a me l'anima bella,
Che più nel suo gioir noti spera o pavé,
E disse : Il corpo tuo, che rinnoveila
Col molo l’ ombre sue, mostra clic vivi
Mortale ancor sotto la bassa stella ;
Perù se avvien clic a ricondur tu arrivi
Nell’ acre fosco la tua frale spoglia.
Col mio trionfo la mia gloria scrivi :
Scrivi al reai mio gcnitor, che foglia
Dal cor l’ affanno, c dileguando II lutto
Scemi alla madre pia l’acerba doglia;
E che la stirpe sua col ciglio asciutto
Renda altrui noto e col sereno volto,
Qiiauto ebbi grato di mia morte il frutto.
Gli' io fior non fui da cruda falce colto
Per onta o sdegno, ma sull'alta sfera
Tra i più bei fior dalla Pleiade accolto;
E a me non si fe’ notte innanzi sera;
Ma i mici giorni d'assai lunghi mi furo,
Per cui rinacqui entro la luce vera, [duro,
Scrivi ch'io mi rammento ognor quel
Ultimo addio ch'ei diemmì, e l'affannata
Mia voce rese a lui fra il labbro oscuro;
Ch’ei mi è padre anche in Gel; che a
me beata
Di gaudio il pianto suo nulla soltragge;
Ma ch'io non deggio esser col pianto ama-
Poi, se la faci! via colà ti tragge, [la.
Ove la mia germana alberga e affrena
Gli abitator delle parmensi piagge.
Dille che arresti ai lagrimar la piena,
Che amaro fe’ sugli occhi suoi ritorno
Mille fiate con sì larga vena ;
Cli’ io vidi lei dal lieto mio soggiorno
Chiudersi fra i silenzi c i tristi orrori,
E odiar la luce dell’ingrato giorno:
Dille eh’ io non obblio fra i nuovi onori
Del commi sangue e del gemello nodo.
Che nei nascer ci avvinse, i primi amori ;
Che questi io serbo, e con mirabil modo
De’ mici pensier sulle felici penne, [do.
Mcnlr'clla iman mi piange, a lei m'anno-
Tacquc c a paro del Sol chiara divenne,
E sull’ altr’ aime il foco suo diffuse,
E parte in sè dell’altrui foco ottenne;
E mentre in essa e in lor dolce s’infuse
I,’ alterno fiammeggiar del lume vago.
Ella nel centro de’ suoi rai si chiuse,
E del colle e di lei sparve l'immago.
VISIONE QUINTA.
La Peste di Messina.
Dal porto, dove il mar sembra che stagni ,
lo colla guida , qual amante figlio
Che la tenera sua madre accompagni ,
Presi via d'orror carca e di periglio.
In cui morte di mille umane spoglie
Lordo rcndea l’insanguinato artiglio.
Fuor dell'abbandonate, Immonde soglie
Glacean gli avanzi della plebe abbietta
Su vili paglie c infracidile foglie;
Altri con gola orrendamente infetta
Di gangrenose bolle; altri avvampati
li petto da fatai febbre negletta ;
Altri da lunga farne ornai spossati.
Non pel velen , ma pel languore infermi,
Fra l'altrui membra putride sdraiati;
Ed altri in ter natio vigor più fermi ,
Benché lasciati sotto i corpi estimi ,
Sorti fra l' ossa accatastate e i vermi ;
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VISIONE. J4t
Ma di squallor mortifero dipinti,
E per orecchie rose e labbra moaze,
Dai Tolti umani in modo fler distinti.
Le illustri donne a par delle più rozze
Al comun fonte per attinger Tacque
Gian nude il piede, e il crin incoltce sozze;
E chi di lor nel sonno eterno tacque
A un lieve sorso, e chi raminga e sola
Pria di giunger al fonte esangue giacque.
Gli amici, cui parte d’ affanno Invola
L’alterna vista, si guatavan fiso
Nel mesto incontro senza far parola;
Poi fra il duol ristagnato all'Improvviso
Si dirotte spargean lagrime acerbe ,
Clic avrlan un sasso per pietà diviso.
Talor silenzio, qual avvicn che serbe
L’aria muta fra inospiti deserti
Colmi di sabbia, ed’ acque privi e d’erbe ;
E singhiozzi talor docili ed incerti;
Poi strida alte e ululali , e In flebil metro
Querele erranti per gli spazi aperti :
Si che il lor suon acutamente tetro
Crcscea più raddoppiato e In sè confuso,
Dal mar, dai monti ripercosso indietro.
Ogni tempio era infaustamente chiuso ;
Immoti i sacri bronzi , c alle notturne
Lampade tolto di risplcnder l' uso:
Le armoniose canne taciturne;
E senza T immortai vittima T are ,
E senza nenie pie le squaliid’ urne.
In mezzo a valle solitaria e vasta
Stridea scoppiando fra le vampe ingorde
Di cento adusti ceppi ampia catasta, [de
Con picche armate In ferro adunco.e lor-
Di melma, tratti eran que' corpi al rogo,
Cui più vita si dura II cor non morde :
Sacerdoti e fanciulle, e quel che il giogo
Maritai strinse, ignudi , c insicm confusi,
Da vidn tolti e da rimoto luogo : [scusi
E fra questi [ab ! citi Ila che adombri o
D’alta necessitate il gran delitto?)
Vivi che ancormovean gli occhi non chiusi ,
Ma palpitanti col ronciglio Otto
Nella gola i sosplr versando, e il sangue
Dal collo In si crudel foggia trafitto.
Strascinata ogni donna ed uom esangue
Ad arder con pietà tanto inumana ,
Come striscia per terra Ignobil angue ,
La faccia avea deformemente strana ,
E questa si , die non serbava alcuna
Orma insè lieve di sembianza umana.
Sorta era già quella che il mondo Imbru-
Pur le tenebre sue folte allumava [na;
L’ ardor dei rogiti e la splendente Luna.
Unvecchioalior mirai, che immobll sta-
Presso alia pira, e le rugose e smunte [va
Gote di lagrimoso umor bagnava. [te
Egli, torvo negli occhi, eal petto agglun-
Le Incrocicchiate man, sciolse tremando
Tal voci a spesso sospirar congiunte :
Ahi misero ! perchè non perii quando
Da me T amala figlia il crudo mise
Colpo di morte eternamente in bando?
0 perchè almeno allor me non uccise
Duolo, Ira e orror, di’ io T insepolte e gra-
Sue membra vidi in brani esser di vise ? [me
Mentre scagliate su putrido strame ,
Oh memoria forai ! fur de’ voraci
Cani serbate a saziar la fame.
Clie far potei privo di spirti audaci
In curva età , povero d’ agi e d'oro
Tolto a me dalle ree destre rapaci ?
Cliè il mio guerra mi fe’ ricco tesoro
Più die II tosco mortai fra le sconvolte
Leggi, c un empio poter maggior di loro.
Oh fortunate appien T anime sciolte.
Cui T ultimo destili l' ultimo porse
Scampo fra tante pene insicm raccolte!
Oimè ! T aria , in cui sparto il veicn corse
Fra T infocata estate e I roghi accesi ,
Rende la vita del respiro in forse.
L'acqua dei fonti, In miglior stella illesi,
Or calda e di maligni atomi carca.
Ributta i labbri nel gustarla offesi.
La terra stessa non appar mai scarca
Di sordidezza marcida e di lezzo ,
E il piede ognor vermi e putredin varca.
S’ io miro , il guardo ai dolci obbietti av-
vezzo
S' infosca ai fumo c sol forme atre scorge,
Che gelido nel cor destan ribrezzo : [porge
S' l’ascolto, aspra all’ orecchio orìgin
D’ Inconsolabil lutto il fremer tronco
D'urli e di lai , che disperato sorge.
La mano il tatto abborre, e fin un bronco
Arido sfugge d’ afferrar, e al braccio
Sta giunta come ad un marmoreo tronco.
Ah pronta ecco la vìa d’uscir d’impaccio:
Nè v’ ha d’ uopo a dar line agli anni oscuri
D’ acuto ferro , o d’ annodato laccio.
Già m’invita la pira ardente; I duri
Affanni questa accolga , e le Invan sparse
Lagrime , e ali’ ombra mìa pace assecuri.
Disse; e debii, ma fler venne a glttarse
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SEMI LIBICA.
m
Fra l' altissime Camme , ore la un punto
S' abbronzò , frisse abbrustolato ed arse.
Da questa del furore ostia disgiunto
Fui per la guida, e dietro alle sacr'onnc
Presi un sentier che all'onde era eongiun-
E in una torre un ragionar informe [lo ;
Udii, e qual suol ne' delirj incerto;
Poi col crine irto vidi un uom deforme,
Che piombò sulle selci aspre dall'erto
Col capo tolto , e ne schizzar le miste
Cervella al sangue fuor del cranio aperto.
Io torsi gli occhi dali'immagin triste ;
Maio quel momento altra crudel m’assal-
Yergata il volto di livide liste [se.
Furente donna il viciu tetto salse ,
E in pianti vaneggiando e In folli risa
Si giltò dentro alle vnragin salse.
Scorsa la via poco dal mar divisa,
Io teneri mirai bambin leggiadri
Con bocca di marcioso umore intrisa ,
Succhiar il tosco dalle spente madri;
E altri miseri meno in fra le troppe
Sventure lor presso gli afflitti padri
Di capre miti le villose coppe [latte
Stringer scherzando ; e queste ad essi il
Docili porger con benigne poppe.
Mentre all' occaso eran le stelle tratte
Col pianeta minor dai raggi smorti ,
Con cui l' ombra la prima alba combatte ;
Scoprii fra il frombo di percosse forti
Un giovane gucrricr sparuto e Bacco ,
Ferri agitando a doppia fune intorti.
Non armato venia d’ elmo e di giacco,
Ma coperto le ingorde ulceri solo.
Che tutto lo rodcan, d'ispido sacco.
Un cadaver parca ritto sui suolo;
Pur sulla fronte un non so qual soave
Cipiglio avea d' invidlabll duolo.
Talor, poiché più lena il piè non ave,
Languiade’ servi in braccio, e poi movea,
Raddoppiandosi I colpi , il passo grave.
Menlr’ei di aè lo strazio orribil fea.
Rinforzando alla voce 11 debil suono.
Gridò : Figlio di Dio, che a questa rea
Anima il divo sangue offristi in dono ,
Perch’ella «le' pensier empj e dell’ opre
Chiegga e inquel sangue trovi ancor per*
dono.
Eccola ai piedi tuoi. Più non la copre
l.a sua ribelle a te misera carne.
Che ulcerata e corrosa i nervi scopre.
0 Immenso , o invitto Amor ! die per
All'eterno penar, si breve prova (sottrarne
Di duol volesti a nostro scampo darne ,
Quanto la tua pleiade in me rinnova
Il rimembrar de’ falli miei più crudo !
Ali ! lagrime non gii, ma sangue piova
Il moribondo cor, che in petto io chiudo.
Guardami : a le le man gelate io stendo;
Quelle apri tu del sacro corpo ignudo ,
E le mie tcco stringi al tronco orrendo.
Tu le tue piaghe desti a me, che amasti;
Ed io quai piaghe vili, oimè, ti rendo!
In cosi dir gli omeri enfiali e guasti
Si duro flagellò, eh' io gridai quasi :
Deh cessa, e tanto scempio ornai ti basti !
Ei dall' ossa poiciiè svelti ebbe e rasi
Gli egri, carnosi brani, in seno a quelli
Che gli fean scorta negli estremi casi ,
Appoggiò il capo e fra i languor novelli.
Dolcissima spiegò sul volto pace,
E gli occhi fisi al Ciel sembrar più belli ;
Poi , come suole semiviva face.
Che nel ratto sparir più s’ avvalora ,
Lieto sciamò : ti seguo , ove a te piace
Guidami tu. Diodi boutade. Allora
Muto e ombrato dagli ultimi pallori
Spirò l'anima pia verso l'aurora.
VISIONE SETTIMA.
I) Terremoto di Lisbona.
V ore presso al meriggio eran gii corse,
Quando muggirò i sotterranei fochi
Per la nova che il Cielo esca lor porse.
Ben delia terra in pria languidi e fiochi
I moti fur; ma il solforoso nido
Più ardendo scosse anche I più sodi lochi.
Dirotto rimbombò quindi uso strido
Del popol tutto, a Dio chiedendo pace;
E altamente mugghiarne i coiti e il Bdo.
li pian divenne ai ilubbj piè fallace
Nel raddoppiar le scosse, e co' sonanti
Bronzi non tocchi dier segno verace
Di mina fatai le vacillanti
Testuggini de’ tempj e le più ferme
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VISIONE. U»
Torri orila «rena «ria ondeggiami.
Io ratto corsi ore eretici vedermc [la,
Salvo dal suol, che incerto or a' erge, or ca-
Air ina soglia ; e alle mie membra inferme
Pel terror dii il terror più fcrvld’ala,
E della porta fra le arcate bande
Fuggii saltando la tremante scala.
N'assordò allor mirabilmente grande ,
Precipitoso scroscio, e d' ogu' intorno
Scoppiò qual tuon ebe mille tuoni spande.
Immenso polverio coperse il giorno,
E delia luce desiata invece
Mestissime apparirò ombre dattorno;
E in men che scorre una sei volte in diecc
Divisa parte di volubil ora ,
Squallido la cittì cumol si fece
Di rotte pietre addentro miste e fuora
Fra spezzate finestre, ardii e colonne
Nozze, altre stese, altre pendenti ancora.
L’eccidio fler, di cui non mai polronne
Vivi ritrarre i danni c lo smarrito
Sole e I’ alterno urlar d’ uomini e donne
E il volto della guida impallidito,
Cb' lo non so come aggiunta erasi meco ,
Mi rimembrar l' estremo di compito
Delie terrene cose ; e per quel cieco
Aere temei sulla fulminea nube
L'elenio rimirar giudice bieco
E le angeliche udir ultime tube;
Ma la guida , che pria giacque pensosa ,
Qual coniglio che in macchia ascoso cube,
Ripigliando vigor, disse : Gii posa
Stabile il piano, i tetti mal sicuri
Ha questa sede, e l' altra pur dubbiosa
Che a fronte stassi. Incerti serba i muri.
S' apre al fuggir la via. Vincer fa d’ uopo
Col senno e coli' ardir colpi si duri : [po
Seguimi. Ei mosse ; ed io gualandol, do-
lio profondo sospir, ne seguii l'orale
Ignaro della strada e delio scopo.
Stranamente il sentiers’ e rgea difforme,
Asprissimo e scosceso in rozzi mucchi
Dipietre,c in massa inegualmente enorme
Dì travi eìntortiferrie marmi «stucchi,
E seggi e letti c deschi ancora tinti
Di sparsi cibi e di pampinei succhi :
Pur da necessitate i piè sospinti
Bancali quel calle, e s'arrestavan lassi
Dal cammin spesso malagcvol vinti.
Oh quante volte in alternar I passi
Caddi, e abbracciai caldo cadaver pesto
Scoperto allor da sgretolati sassi !
E quante , arrampicandomi al funesto
Monte di tetti o affatto svelti, o scemi ,
Dal tetro fondo udii io strider mesto
De' semivivi, che ne' casi estremi
Voce «leticali fra que' spiragli acuU, [mi ?
Sciamando: Olmè perchè ne calchi c prò-
L’ orrida via d' ogni conforto muta ,
E di rutile e di fiaccate o rase
Ossa, e dì membra luride tessuta.
Fiero obbietto in' offerse : onde rimase
Si oppresso il cor , che il novo agli occhi as-
Supcrò quel delle pendevo! case. [ saito
Marmorea fascia nel piombar datt'allo
Uom guasto avea, che da soggetta loggia
Tentonne forse il disperato salto.
Sovra le iutaltc sponde in cruda foggia
Senza capo giacca l’ informe tronco
Lordo c grondante di sanguigna pioggia.
L'unbraccioel'altro bruttamente uiou-
Per le strappate mani, e trite in mille [co
Pezzi le canne fuor del collo tronco.
Il duce mio sotto quell' atre stille
Varcò II sentier ; ed io con lena stanca
Ristetti c con attonite pupille;
Quand’ci mi disse :l passi tuoi rinfranca,
Chè siam presso al confili. Vanae vii tema
I piè l' annoda ed a te il v olio imbianca,
il suo dir e l’oprar destò l' estrema
Forza ne’ miei smarriti spirti c feo
L’ anima dei terrore inulil scema :
Tal ch'io vinsi passando il cammin reo,
E alla meta arrivai timo del sangue
Che il palpitante ancor busto perdeo.
Qui nel mirar giov ane madre esangue.
Piansi ; e ben tratte avria l’acerbo caso
Lagrime da un’irala orsa, o da un angue.
Precipitato largo trave a caso
Sull' imbrunite e stritolate cosce
Dell' infelice donna era rimaso.
Non lungi in quella eli che non conosce
1 propri danni , un vago pargoletto
Figlio accresceva a lei l'tiUime angosce, [te
Sciogliendo ella con man smorta lo stret-
Vei sulle poppe, benché infranta e nppres-
Cbiamaval dolce all’ amoroso petto : [sa ,
Ed ei carpone invan moveasi, ed essa
Sospirando e guardandolo sembrava
Dogliosa più di lui che di sè stessa.
Noi con pronto vigor, die ne prestava
Di caritate il zel, trarla d'impaccio
Tentammo , edal gravoso arborchc stava
Su lei rappresa orna! dal mortai ghiaccio:
Ma per quante scegllessc arti l' ingegno.
Ahi ! non fu pari ai buon v oler il braccio.
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544 SEMIL1RICA.
La donna allor : persi bell'opra il degno
Culderdon serbi a voi , disse , l’ Immensa
Pietà, che In dar merce varca ogni segno.
Me delle piaghe mie la doglia intensa,
E il terribile colpo a morte spinge ,
E già m’ annebbia I ral caligln densa.
Or questo parto mio, che nel suo pinge
Volto l'aita che per lui richieggo,
Fugga il destin che di perigli il cinge.
Per voi salvo egli vi va, altro non chieggo;
E allor morte mi fia riposo c gioia.
Ma dove è il figl io mio, ch’io pi 0 noi veggo?
Ab ! date a me fra l’ affannata noia
Dell'almae il palpitarde'membrl estremo,
Che almen lo stringa al seno anai eh' io
lo coll’ uffizio di pietà supremo [mola,
li fanciui presi, caqucl languente il porsi
Petto pieno d’ amor, di forze scemo ;
Ed ella, che senti l’amato porsi
Pegno nel grembo, di più forti armala
Spirti ed affetti ai cor materno accorsi ,
L’ annodò , lo baciò colia gelata
Bocca, sdamando : Il Cici ti doni un padre.
E tenera e dolente ed agitata
Le molli del bambin carni leggiadre
Troppo in morir compresse, ed In un punto
Spirò l'anima il figlio e Insiem la madre.
Da spcttacol si amaro ebbi compunto
Cotanto il sen, eh' io colla guida sparsi
Largo di pianti umor ai primi aggiunto.
Salimmo indi ambo ove parca levarsi
li piano in facil colle, e per I folti
Pini e cipressi ombrosamente ornarsi :
Ed ecco vacillar da strano colti
Tremore i colli , e in screpolosi fondi
Spesso i corpi ingoiar vivi sepolti.
0 infausta e crudel terra , che fecondi
Modi d' acerbità varia produci.
T’apri, e In te guasti e stritolati ascondi
D’ un popolo gli avanzi ! Ah ! le mie lud
L’aspetto llerpiù tollerar non ponno.
Guidami tu , gridai , che mi conduci ,
A mcn orribil loco , ov’ io sia donno
Jn pace almen fra Unti affanni stanco
Di chiuder gli occhi nel perpetuo sonno.
Ed ei rispose : Affrettali sul manco
Sentiero ad abbracciar robusta pianta ,
Chè innanzi o indreto li piè portare iiffanco
Ci vieta 11 terren fesso. Allor con quanta
Lena potei corsi , e del duce sotto
La scorta un pino strinsi; e appenaalanla
Velocità bastevol fu il dirotto
SI corto spazio , in cui novo c diverso
Tremito ammarginò del cammln rotto
I cupi abissi, ove poc’anzi asperso
Di sangue e polve un uom fra sassi e arene
Non (ungi a me precipitò sommerso.
Cessò in breve la scossa, e nelle vene
Tornò al sangue il color, per cui del monte
Poggiammo all'erta con mcn dubbia spene.
ivi dappresso a una turbata fonte
Vidi all' ispano Pier del tempio sacro
Diroccati ambo i lati e l’ ampia fronte ,
E dell’ acque sorgenti entro al lavacro
I Iraportati e pel terren tumulto
Confusi avanzi insiem del simulacro.
Sovra un marmo sedemmo ancor non
sculto
Scelto del fonte a intonacar la sponda :
Ma,oimd chcacerboanoi crebbe il singul-
Dal sommo in rimirar nella profonda [ to
Sua foce enfiato II Tago,e l’Oceano
Scorso sui lidi altissimo coll' onda.
Divorò il flutto 1 fuggitivi invano
Dagli agitati colli uomini e belve ,
Scampo cercando su più fermo piano ;
E col moto onde avvien che il mar s’ in-
selve *
Gonfio, in secche portò non mai solcate
Le armate navi entro l’ opache selve.
Volgemmo il mesto sguardo all’atlerrate
Case , c di sotto alle ruinc sparse
Nubi scorgemmo d' atro fumo ombrate
In mille giri verso il Ciel levarse.
Che orribile ne dlcr prova che tutte
QueU'estrcmc dovean spoglie esser arse.
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ELEGIE. MS
SALOMONE FIORENTINO.
Io morte della sua sposa.
Pur quasi serbi ancora c senso c mente,
Aid, che più non m’ode, e muta giace,
Talor rivolgo II mio parlar dolente, [gace
Abi sposa, ahi sposa ! un voi d'ombra fu-
Fu il breve trapassarde’ tuoi verdi anni ,
E un voi fu la mia gioia c la mia pace.
Mira del tuo fedel gli acerbi atTanni ;
Mira, al tuo dipartir come s'accuora ,
Vedovo, sconsolato, In negri panni.
Qual resta il fior se una nemica aurora
Trattien sul grembo l’ umida rugiada ,
Che il curvo stelo e l’ arse foglie irrora ;
Tale io restai poiché l’ adunca spada
Di Mone a me tl tolse e lunge spinse
Teper ignota, interminabil strada, [vinse.
Ma ,come il fato in pria nostre alme ar-
Epoi quaggiù provvido amor cl unìo
Sicché due salme In una salma strinse ;
Scemo della meli dell’ esser mio ,
Or cerco te , come assetata cerva
Neil’ ardente slagion ricerca II rio.
Cosi parlo e vaneggio : e benché l’ ferva
D' un insano deslr, tanto é l' inganno ,
Che ragion signoreggia, e vuol che serva.
Però qualor sovra l’usato scanno
A mensa ì’ siedo, ove in un cerchio i figli
Chini d'intorno e taciturni stanno;
Foria é che ne'lor volti io mi consigli.
E or questo or quel vo' che mi venga allato,
Qual più alla madre panni che assomigli.
Pasco alcun poco il ciglio affascinato :
Ma ia dolce illtision fugge, e m’accorgo
Che la sposa non é quella eh’ io guato.
Sul desco allora smanioso i’ sorgo ,
E a temprar la bevanda c condir l' esca ,
D’amarissimo pianto un fiume sgorgo.
Timor nuovo ne'Jìgli avv ieri che cresca ;
Tutti tendon le braccia, ognun mi dice!
Deh, padre, per pietà, di no! rincresca.
Orfani della cara genitrice ,
Per noi chi resta 1 a noi , pensa che or sei
Tu genitor, tu madre e tu nutrice.
SI dividon cosi gli affetti mici :
Tenerezza, cordoglio, amoree peni;
Quello che mi restò , quel che perdei.
Il rimorso della coscienza.
M'apparve in truce aspetto, ed ogni vena
11 Ber rimorso ad agghiacciar si accinse :
Indi armato d'artigli c di catena ,
Senza pietà mi lacerò , m’ avvinse.
Quale, oh Dio, mi scoperse orrida scena !
In qual tetri color la penna tinse
Per linearmi in ogni parte scritto
P giudice, la pena e il mio delitto!
Volgea la notte : e notte unqua più nera
DI quella non vld’ lo. Torbidi, inquieti
S’aggiravan fantasmi; e priva eli’ era
De’ suol momenti placidi e segreti :
Pareanml estinti In la stellata sfera
E gli astri erranti e 1 lucidi pianeti ;
Tante ombre e tante noie Ivano attorno ,
Che al Ciel chlcdea.per respirare, il giorno.
E il di pur venne : allor su l'universo
Fosco vedea caliginoso velo;
Sbiadate l'erbe, ed ogni arbusto asperso
Di quel color di cui lo Unge il gelo :
Pallido, altrove ciascun fior converso ,
Da me torceva l'aduggiato stelo :
Parca sospiro 11 moto delle fronde ,
Flebil lamento il mormorar dell' onde.
Forse cosi, seguito il reo consiglio,
L'Eden comparve al genitore antico.
Invan spirava odor la rosa e il giglio,
E il lusingava invano il rezzo amico;
Ch’ovunque egli temea danno o periglio,
Seco portando il suo crudel nemico ,
E, da terribll suon I' orecchie Ingombre,
Sen già tremante a ricovrar fra l' ombre.
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SKMIUR1CA.
SONETTI STORICI.
FRANCESCO COPPETTA.
La morie di bidone.
Dolci, mentre! Gel volle, amate spoglie.
Prendete ornai queste reliquie estreme
Della mia vita , e disciogliete insieme
L' alma dal petto e l' amorose doglie.
Vissi regina ;al gran Sicheo fui moglie;
L’alte mura fondai che Libia teme :
Vidi d’ edotto e non di pena sceme
Deir avaro fratei r inique voglie.
Felice , olmè , troppo felice , s’ io
Vietava il porto a quel Troiano Infido
La cui salute ogni mio ben sommerse!
Or si salii il credei del sangue mio.
Cosi dicendo , l' infelice Dldo
L'amata spada in sè stessa converse.
ZAPPI.
Sopra la statua di Giulio Cesare.
0 della stirpe deli’ Invitto Marte
Verace figlio, a cui cedè pugnando
Ogni del mondo più remota parte, [mando:
Non ch'il Belga, il Herman, l'Anglo, il Nor-
Parmi dal Tebro in quel gran di mirarle.
Quando la forte destra in mar rotando ,
La manca in allo sostenea le carte , [do.
Posto lo scudo al dorso e in bocca il bran-
Ed oh , qual sci qui fermo oltre il co-
Tal fossi stato al Rubicone in riva [stume,
Fermo, sema spronar di qua dal fiume 1
Chè il Tebroc Il mondo ali non ai rian ve-
Nè la patria al tuo pii! gemer cattiva, [duto
Nè te steso nel sangue appiè di Bruto.
CASSIANI.
Il ratto di Proaorpina.
Diè un alto strido, gittài fiori, evolta
All'Improvvisa mano che la cinse.
Tutta In sè per la tema , onde fu colta.
La siciliana vergine si strinse :
Il nero Dio la calda bocca involta
D' ispido pelo a ingordo bacio spinse,
E di stigli fuligin con la folta
Barba l' eburnea gota e ’l sen le tinse.
Ella gii In braccio al rapitor, puntello
Fea d'una mano al duro , orribil mento ,
Dell' altra agli occhi paurosi un velo.
Ma gii il carro la porta ; c Intanto il Gelo
Feriali d' un rumor cupo il rio flagello ,
Le ferree ruote e’I femmlnil lamento.
Psiche.
Sovra lo sposo al guardo suo disdetto
Con la lucerna ad una man sospesa ,
L' altra opponendo a farne a' rat difesa,
Pcndea Psiche a spiar l' ignoto aspetto.
Ma scoppiò il lume, ed a ferir lo schietto
.Omero diurno ima favilla scesa,
Svcgliossi , e ratto alla mortai sorpresa
Amor lasciò l'insidioso Ietto;
E via fuggendo della violata
Cortina irato co'svolaui spense,
E al suol la rea versò lampada ingrata.
Scomposta il crin dall’ agitar dell'ale
Pianse allor Psiche fra qucU'ombre dense
Le vuote piume c l’ ardir suo fatale.
FRUGONI.
Annilnle sull’ Alpi.
Ferocemente la visiera bruna
Alzò sull' Alpe l’ affricati guerriero ,
Cui la vittricc militar Fortuna
Ridea superba nel sembiante altero.
Rimirò Italia : e qual citi In petto aduna
11 giurato sull'ara odio primiero.
Maligno rise , non credendo alcuna
Parte secura del nemico Impero.
E poi col forte immaginar rivolto
Alle ventore, memorande imprese.
Tacito e In suo pensier tutto raccolto;
Seguendo II Genio che per man Io prese.
Coll’ ire ultrici e le minacce in volto,
Terror (l’Ausonia c del Tarpeo discese.
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LIRICA SACRA
LORENZO DE’ MEDICI.
Cerca per ogni dorè Iddio.
'0 Dio, o sommo bene, or come fai?
Chè te sol cerco, e non ritrovo mai.
Lasso , s’ io cerco questa cosa o quella.
Te cerco in esse, o dolce Signor mio;
Ogni cosa per te è buona e bella ,
E muove come buona il mio disio ;
Tu se’ pur tutto in ogni luogo, o Dio,
E in alcun luogo non ti truovo mai.
Per trovar te la trista alma si strugge;
II d) m’ affliggo, e la notte non poso :
Lasso, quanto più cerco, più si fugge
11 dolce e disiato mio riposo :
Deli dimmi. Signor mio, dove se’ ascoso ;
Stanco già son. Signor, dimmelo ornai.
Se a cercar di te. Signor, mi muovo,
in ricchezze , in onore, o in diletto;
Quanto più di te cerco, men ne truovo;
Onde stanco mai posa il vano allctto.
Tu hai del tuo amore acceso il petto;
Poi se' fuggito, e non ti veggo mai.
La vista In mille varie cose volta
Te guarda e non ti vede, c sei lucente :
L’orecchio ancor diverse voci ascolta;
E ’l tuo suono i per tutto, e non ti sente,
La dolcezza comune ad ogni gente
Cerca ogni senso , e non la iruova mai.
Deb perchè cerchi, anima trista, ancora
Beata vita in Unti affanni e pene?
Cerca quel cerchi pur; ma non dimora
Nel luogo, ove tu cerchi questo bene :
Beata viu, onde la morte viene,
Cerchi ; e vita, ove viu non fu mal.
Delli occhi vani ogni luce sia spenta,
Perch’io vegga te, vera luce amica :
‘Questo o i duecomponimenii che seguono,
danno saggio delle Laudi spirituali di cui
è gran numero, e le quali il popolo fiorentino
Assorda i miei orecchi , acclocch' io senta
La disUta voce , che mi dica :
Venite a me chi ha peso o fatica;
Ch'io vi ristori , egli è ben tempo ornai.
Muoia in me quesu mia misera viu,
Acciocché io viva, o vera vita, in le.
La morte io moltitudine infinita
In te sol viu sia , che viu se’.
Muoio, quando te lascio e guardo me ;
Converso a te , io non morrà giammai.
Allor l'occhio vedrà luce invisibile,
L’ orecchio udirà suon eh’ è senza voce ;
Luce e suon, che alla mente è sol sensibile ;
Nè il troppo offende , o a tal senso nuoce.
Sundo a piè fermi correrà veloce
L’ alma a quel ben, che foco è sempre mal.
Allor vedrò, o Signor dolce e belio.
Che questo bene o quel non mi contenU:
Ma levando dal bene c questo e quello.
Quel ben che resta il dolce Dio diventa :
Questa vera dolcezza e sola scnu
Chi cerca il ben : questo non manca mai.
La nostra eterna sete mai non spegne
L'acqua corrente di questo oquei rivo;
Ma giunge al tristo foco ognor più legne :
Sol ne contenta il fonte eterno e vive.
0 acqua sanU, se al tuo fonte arrivo,
Berò ; e sete non arò più mai.
Tanto disio non dovria esser vano;
A te si muove pure il nostro ardore;
Porgi benigno l’una e l'altra mano.
0 Gesù mio , tu se’ infinito amore,
Poiché hai piagato dolcemente il core,
Sana tu quella piaga che tu fai.
cantava nelle chiese e negli oratori, appro-
priando ad esse la musica dello canzoni pro-
tane pili note.
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S48
LIRICA SACRA,
per 1» nascita di Cristo.
Peccatori, > su tutti quanti,
Rallegrianci con disio :
Questo è il di eh' ha fatto Dio;
Ciascheduno esulti e canti.
Peccator, la Morte è morta ;
Questa morte vita dona;
E la pena ognun conforta :
Dolce pena e morte buona !
Oggi 11 Servo s' incorona ,
Dello Inferno rengon Santi.
Oggi al Ciel la spiga arriva
Di quel gran, che in terra t morto;
Questo gran , se non moriva ,
Frutto alcun non aria porto :
Questo frutto oggi neil’ Orto
Di Maria conforta i pianti.
Questa spiga il suo bel frutto
Ila cresciuto e fatto un pane ;
Santo pan, che pasce ’i tutto
Alle mense quotidiane.
0 felici vite untane ,
Che mangiate il pan de’ Sauli !
Cieca notte, ben se’ santa,
Che 1) vedesti suscitare;
Nelle tenebre tue tanta
Luce al mondo non appare;
L'ombre tue furon più chiare.
Che del Sole razzi tanti.
Mostra II cammin dritto e certo
La colonna nell’ oscura
Nolte al popol nel deserto ;
Agl! Egizi fa paura.
L’ infero’ a tal luce pura
Trlema , e ’n Ciel cantano 1 Santi.
0 beata notte e degna !
Tuo Fattor gran ben ti vuole;
Benché ’l Sol forte ne sdegna ,
Tu vedesti più bel Sole :
Tanta gloria con parole
Non si lauda , o mortai canti.
Ciaschedun lasci la vesta
Della notte tenebrosa;
Della luce l’arme vesta;
Luce In noi sia ogni cosa.
Nostra vita in Cristo ascosa ,
Luce in Dio ; cantate , o Santi.
POLIZIANO.
A Maria.
Vergine santa, immacolata, degna
Amor del vero amore,
Che partoristi il Re, che nel Ciel regge
Creando II Creatore,
Vergine rilucente
Per te sola si sente
Quanto bene è nel mondo :
Tu sci degl’ affannali buon conlorto,
E del nostro navi! se' vento e porto.
0 di schietta umiltà (erma colonna
Di carità coperta.
Accetta di pietà gentil Madonna,
Per cui la strada aperta
Insino al Ciel si vede.
Soccorri al poverelli.
Che son fra lupi agnelli,
E divorar ci crede
L’ inquieto nemico , che ci svia,
Se tu non ci soccorri, alma Maria.
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SONETTI E SALMI.
M»
DELLA CASA.
A Dio.
Io che l’etA solea viver ne! fango,
Oggi mutato il cor (la quel chT soglio,
D’ ogni immondo pensier mi purgo e spo-
glio,
ET mio lungo fallir correggo e piango.
DI seguir falso duce mi rimango;
A te mi dono, ad ogni altro mi toglio ;
Nè rotta nave mai parti da scoglio
SI pentita del mar, com’lo rimango.
E poi eh’ a mortai rischio è gita invano,
E sema frutto i cari giorni ha spesi
Questa mia vita, in porto ornai l’ accolgo.
Reggami per pìetì tua sanU mano.
Padre del Ciel ; chè poi eh’ a te mi volgo ,
Tanto t’ adorerà, quant’lo t’ offesi.
FRANCESCO COPPETTA.
La Creazione.
Locar sopra gli abissi i fondamenti
Dell'ampia terra, e come un picciol velo
L’aria spiegar con le tue mani e il cielo,
E le stelle formar chiare e lucenti ;
Por leggi al mare, atte tempeste, ai venti,
L’ umido unire al suo contrario e il gelo
Con inflnita providenza e zelo,
E creare e nudrir tutti 1 viventi,
Signor, fu poco alla tua gran possanza ;
Ma clic tu re, tu creator, volessi
E nascere e morir per chi t’ offese;
Cotanto l’opra de’ sei giorni avanza,
Cb’ lo dir non so, non san gii angeli stessi :
Dicalo il Verbo tuo che sol l' Intese.
BERNARDO TASSO.
Prega Iddio ad infiammarlo d'amore per lui.
Io so, sommo Motore,
E T confesso , eh' indegno
Son del tuo santo amore;
Ma tu. Signor, ben degno
Sei, eh' lo t’ ami ed onore.
Quanto dee creatura il Creatore :
Ben degno far men puoi,
Se coi foco gentile,
Ch’ arde de’ servi tuoi
li cor contrito, umile,
Arder l' alma mi vuoi ;
Onde in nuovo uomo mi rivesta poi.
Io son secco terreno ;
Non sterile, infecondo;
A cui, se bagni il seno,
E fertile e fecondo,
Come pratcl di fieno.
Mostrerà il petto suo di frutti pieno.
Bagnalo, Signor mio,
Con quel iicor soave
Del tuo perpetuo rio;
Con cui le macchie lave
Del peccato empio e rio;
Si come padre liberale e pio :
Chè di frutti e di fiori.
Come campo ben colto,
Di diversi colori
Gii Tedrai pinto il volto;
E de’ tuoi bei tesori
Carco sempre mostrare il grembo fuori.
Nè perchè ingrata Ha
A te di tanti doni
La fral natura mia ;
Giusto sdegno ti sproni ;
Chè questa carne ria
Sovente il suo dover. Signore, obblia.
Come dinanzi a fiato
Di vento orientale.
Che talor soffia irato,
Spiegan le nebbie l’ale
Si, che ’1 Cielo turbato
Alior, allor si fa sereno c grato;
Cosi dinanzi al vento
Delle preghiere mie.
Benché debile e lento
Spiri la notte e T die.
Signore, in un momento
Sen fugga l’ira tua, di cui pavento t
Onde sereno e chiaro
Torni il mio giorno ancora,
E s' asciughi l' amaro
Piamo, che d’ ora in ora
Spargo, ch'altro riparo
Non ho, che te. Padre benigno e caro.
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sto
LIRICA SACRA.
Boli bui» a cantar Dio s’ Egli stesso non l’ ispiri.
Con ({Dai lodi , o Signore ,
Cantari la mia lira
li tuo supremo onore}
Chi questa snoda, e gira
Lingua, o la voce e P intelletto inspira?
Non può mortai pernierò
Troppo a tanl' opra ardito,
Pur adombrare il vero
Del tuo pregio infinito-,
Non cbe voce , o parlar terso e fiorito.
Non ò li angusto vaso
Di unto ben capace;
Poter l' Orto e P Occaso,
È speranza fallace.
Tutto allumar con picciolelta face.
Come debil del Sole
Vista i raggi affisare
Non può ; cosi parole
Umane, laudare,
Nè pensier la tua gloria immaginare :
Alto, divino oggetto
Non vede e non comprende
Nostro umano intelletto :
Lume, che troppo splende, [de :
Gli occhi abbarbaglia e nostra vista offir.»
Ma se col tuo lucente
Splendore, apri e rischiari
La tenebrosa mente.
Si eh' io vidi di pari
A quei spirti che qui ti fur gli cali;
Andrò la notte e T giorno
Il tuo nome cantando
Per queste piaggie intorno;
E P anime chiamando.
Che dietro ai senso van sviate errando.
O fonte eterna o vira,
Onde per molti rami
La luce si deriva
In quei che ’n Ciel tu chiami , [ami ;
Della tua grilla; in quei eh' appresi ed
Illumina l’oscura
Mente cip un velo negro
Di mondana e vii cura
Adombra -, sicché allegro
E sano P occhio, ora dolente ed egro.
Veggi! la tua gran gloria;
E T ben, cbe tu' bai promesso ;
E avendo vittoria
Coutra me di me stesso.
Or muoia qui, per poi viverti presso.
BENEDETTO DELL’ UVA.
Vice sila Musi di cantare le Sei Giornale.
Musa, prendi la lira,
E sacri inni cantando
I desir vaghi del mio cor affiena :
Chò se desio mi spira
Lo Ciel , poner in bando
Ogni altra ben debb' io voglia terrena.
Or con fronte serena
Tessi al gran Re de’ regi
Qual puoi serto dì fiori :
E le corone e i fregi
Sieno i suoi propri onori.
DI coin’ egli primiero
Creò la terra e ’1 cielo
Informe e rozzo, e fe’ di luce adonto
L' uno c P altro cmlspero,
tene Dee il velo
Egualmente spiegando ad ambo intono :
E poscia il Sole, il giorno,
E con la vaga Luna,
Le stelle erranti c fisse
Diede alla notte bruna,
E lor legge prescrisse.
Indi comanda all’ acque,
E ratto fuggon P onde
A ratinarsi subito in un loco,
E nel suo letto giacque
Il mare, c per le sponde
Dell' ampio lito franse il flutto POCO,
Avresti a poco a poco
Visto sorger le cime
De’ monti, e per le valli
Aprir Perbene prime
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CANZONI.
I fior Termici e glaffl.
Poi d* un istesso Mine
Canti, come formasse
II garrulo augelletto e 1 muto pesce ;
E questo alzarsi teme,
E nel suo nido stasse,
K quel spiega le penne, e di fuor esce :
Ed in progenie cresce
L’uno e 1* altro Infinita;
Chi con legge d'amore
Volse eternar lor sita
I) sagace Fattore.
Canta, come la terra
Produsse ad un suo cenno
Fera selvagge e mansueto gregge.
Nfe da principio guerra
CU orsi e le tigri fenno
Agl’ Inermi animai, come si legge,
Finché la bella legge,
MI
E ’l vero secol d* oro
Durò, che durò breve
Spazio, e nacque fra loro
Odio e timor non leve.
Ecco dispone alfine,
E par che si consigli
Con sè mcdesmo a far piò nobilopra :
Opra, che alle divine
S’ agguagli, e a Dio somigli,
E la bonU di lui comprenda e scopra:
Aura Immortai di sopra
Giunse a terrestre limo,
E formò l’ uomo. Oh quanti
Doni ebbe ! E rcge c primo
Fu sugli altri animanti.
Ma poi che qui son giunto,
Canzon, fermar ti dei ;
Citò qui fin ebbe appunto
L'opra de' giorni sei.
CELIO MAGNO.
Beus.
Del bel Giordano In su la sacra riva
Solo sedeaml ; ed al pensoso volto
Stanco lo facea della mia palma letto :
Quand’ecco tra splendor che d'alto usciva,
I3n dolce suon, ver cui lo sguardo volto,
E pien di gioia e meraviglia il petto;
Scorsi dal Gelo in rilucente aspetto
Bianca nube apparir d’angioli cìnta,
Ch’ln giù calando alfin sopra me scese,
E In aria si sospese.
Restò tutta a que’ rai confusa c vinta
L’alma; e certa clic Nume ivi s’ asconda,
Le divote ginocchia a terra inchina.
Rotta la nube allur tosto s’aperse :
E nel suo cavo sen tre Dee scoperse
Tutte In vista si vaga e pellegrina,
E tanto nel mio cor dolce e gioconda ,
Oh’ unian pcnsier non è eli’ a lei risponda :
Ma la prima clic sparse In me sua luce,
Parca dell’ altre due rclna e duce.
Questa In gonna d’un vel candido e puro
Coronato di stelle il crine avea
Co’luml bassi e tutta in sè romita.
L’ altra In verde e bel manto un cor sicuro
Mostrando, le man giunte al Clel tcnca
Con gli occhi e col peusiero In lui rapita.
D'ostro ardente la terza era vestita,
E frutti c fiori ond'avea colmo U uno,
Spargea con larga c non mai stanca osano.
La prima iu sovrumano
Parlar disciolse alla sua lingua il freno :
Ed : 0 cicca , a me disse , o stolta mente
Di voi mortali , o miscrabil urne.
Mentre (unge da Dio ven gite errando.
Ed a' vostri desir pace sperando,
Ovo tra guerra oguor si piange e geme!
Quel sommo eterno Amor tanto fervente
In tua salute, or grazia a le consente.
Clic ’t vero ben da noi ti si dimostri :
Tu nel cor serba alleino 1 detti nostri, [te,
Apre nascendo Tuoni pria quasi al pian*
Ch'all'arla gli occhi : c ben quinci predice
Grati tormenti a' suoi futuri giorni.
Nè qua giù vive altro anima) , die lauto
Sla di cibo e vestir privo o infelice.
Nè ch’ili corpo più Trai di lui soggiorni.
L'accoglie poi tra mille insidie e scorni
Il mondo iniquo : e’n labirinto eterna
Di travagli c d’errori' intrica e gira;
CU’ognor brama c sospira
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SM LIRICA
Olir» Il suo stato : sente un verme interno,
Che le midolle ognor consuma e rode.
Chi d' or la sete , o dì diletti appagai
Chi mai d' ambirlo» termine trova?
E , se pur dolce in tanto amaro prova,
DI soave veleno unge la piaga ,
E dì mortai sirena al canto gode : [de :
Chè quel ben toma a maggior danno e fro-
Ancor eh’ ei ben non sia , ma sogno ed
ombra ,
Che non si tosto appar, che fugge e sgom-
ita che dirò della tremenda e fera [bra.
Falce, onde Morte ognor pronta minaccia
Si, ch'aver sol dal Cielo un cenno a tienile ?
Ahi quante volte, allor eh' altri più spera
La sua man lungi e che più lenta giaccia.
Giunge improvvisa e 'I crudo ferro stende !
Voi , le cui voglie sazie a pena rende
Il mondo tutto, e, quasi eterni foste,
Monti ognor sopra monti in aria ergete :
Voi , voi tosto sarete
Vii polve ed ossa in scura tomba poste.
E tu ancor che m’ascolti, e’1 fragil vetro
Del viver tuo saldo diamante credi;
Egro giacendo, e di rimedio casso
TI vedrai giunto al duro, ultimo passo :
E gli amici più cari e i dolci credi
Con ogni tuo deslr lassando addietro,
Fredda, esangue n'andrai soma in feretro.
Oltrache spesso avvlen eh’ uom muoia co-
Fera sema sepolcro e sema nome, [me
Misera umana vita, ove per altra
Miglior nata non fosse, e un sospir solo
Dell’aura estrema In lei spegnesse il tutto.
Suo peggio fora aver mente si scaltra :
Chè’l conoscer il mal raddoppia il duolo :
E buon seme darla troppo reo frutto.
Ma questo divin lume In voi ridutto
Giammai non more ; in voi l’anima regna ,
Che del corporeo vel si vèste e spoglia.
Lg qual, s’ognl sua voglia
Sprona a virtù, del Ciel sì rende degna ;
E quanto prova al mondo aspro ed acerbo,
Spregiando fa parer dolce e soave.
Ma, eom'uom possa a tanta speme aitarsi ,
M’ascolta, o figlio : e benché siano scarsi
Tutti umani argomenti ove a dar s' ave
Luce dell'alto , incomprensibil Verbo,
Quando umiliò non pieghi il cor superbo ;
Tu però , che di sete ardi a' mìei raggi ,
Yo'che ’l fonte del ver nei rivi assaggi.
Mira del corpo univcrsal del mondo
Il vago aspetto e l'animate membra.
SACRA.
E qual han dentro occulto spirto Infuso.
Mira dell' ampia terra il sen fecondo
Quante cose produce , e quanto sembra
Ricco del bello intorno a lui diffuso ;
E leco di ; questo mìrabil chiuso
Vigor, eh' in tante e si diverse forme
Tutto crea , tutto avviva e tutto pasce;
Onde move? onde nasce?
Qual fu '1 maestro a tanta opra conforme ?
Qual man di questo fior le foglie pinse ,
E gli asperse l' odor, la grazia e '1 riso?
Chi l'urna e Tonde a questo fiume presta?
E 'I volo e’I canto in quel bel cigno desta?
Chi dal lidi più bassi Iva *1 mar diviso,
E per quattro slagion l'anno distinse?
Chi 'I ciel di stelle , e chi di raggi cinse
La Luna e’1 Sole, e con perpetuo errore
SI costante lor diè moto e splendore ?
Non son, non son il mar, la terra e’1 cielo
Altro, che di Dio spccchj e voci e lingue ,
Che sua gloria cantando innalzali sempre :
E ne Sa certo ognun che squarci il velo
Che degli occhi dell'alma il lume estingue :
E che l'orecchic a suon mortai non stem-
pra.
Ma l’uom , più ch'ai tri , in chiare e vive tem-
Dec risonar l' alia Bontà superna , (pre
Se de' suoi propri onor grato s'accorge,
E in sè rivolto scorge
Quanto ha splendor della bellezza eterna.
EI di questo mondati teatro Immenso
Nobil re siede In più sublime parte :
Anzi del mondo è pur teatro el stesso,
E del gran Re del Ciel, che mira In esso
La sua sembianza, e tante grazie sparte.
Tutto ver lui d’amor benigno accenso.
Ahi mal sano intelletto, ahi cieco senso 1
Cora’ esser può, che sì continua e fosca
Notte v’ingombri, e'I Sol non si conosca?
Chè, benché fuor di queste nebbie aperto
Scorgerlo in van procuri occhio mortale.
Tanto splende però, che giorno apporta.
Questo in ogni cammin più oscuro ed erto
È fido lume e giunge ai piedi l’ale;
E d’Incffabil gioia i cor conforta.
Questo ebber già per solo duce e scorta
Mille lingue divine e sacri spirti :
Che’lferoln voci e’n carte altrulsl chiaro:
E che’l mondo spreglaro
Tra boschi e grotte in panni rozzi ed irti.
E voi , eh’ in tanta copia, alme beate.
Palma portaste di martirio atroce ;
Oh dì che ferma in Dio fede splendeste!
CANZONI. $51
Mentr' or sott’ empia spada il collo preste
Porgete, e di tiranno aspro e feroce
Col mar del rostro sangue I piè bagnate ;
Or di gemiti in vece , inni cantate
Fra l’aspre rote e fra le fiamme ardenti.
Stancando crudeltà ne’ suoi tormenti.
Noi fummo alior vostra fortezza, e vostre
Dolci compagne in quei supplicj tanti :
Chè frale e vano ogni altro schermo fora.
Cosi son giunte ognor le voglie nostre
D’ un foco accese in desir giusti e santi ,
Nè l'ulta senza l'altra unqua dimora.
Dio c'inviò per fide scorte ognora
Dell'uomsl caro a lui diletto figlio,
Onde seco per noi si ricongiunga ,
Ed io sua patria giunga. [glio,
Ma quella lo son, ch'ai ver gli allumo il ci-
E d' aperto mirarlo il rendo degno :
Ore cieco salir per sè non basta:
E dove giunto ogni altro ben disprezza.
Tu meco dunque a contemplar t'avvezza,
Ed a lodar con mente pura e casta
L’alto Signor di quel celeste regno
Dietro a me per la via ch’ora t’insegno :
Ma mentre le mie voci orando segui,
Fa che’l mio cor più clic la lingua adegui.
0 di somma bontate ardente Sole,
A par di cui quest' altro è notte oscura ,
Vera vita del mondo , e vero lume ;
Tu ch'ai semplice suon di tue parole
il producesti, e n’hai paterna cura :
Tu,ch’hai’l poter .quanto il voler presume:
0 fonte senza fonte, o immenso fiume ,
Che stando fermo corri, e dando abbondi,
E senza derivar da te derivi :
Tu ch'eterno in te vivi,
E quanto più ti mostri, più t'ascondi :
Tu clic quand'alma ha di tua luce vaghi
1 suoi desir, le scorgi al Cielo il volo
Rinnovata fenice a’ raggi tuoi ;
Se nulla è fuor di te , che solo puoi
Esser premio a te stesso ; se tu soio
Dai ’i ben, l'obbligo avvivi e ’i merlo paghi;
S’ognlopra adempì, ogni desire appaghi ;
Dal Cicl benigno nel mio cor discendi,
E gloria a te con la mia lingua rendi.
Mentre cosi cantava e del suo foco
Divin m'ardea la bella duce mia;
L' altre ancor ia scguian col canto loro
E degli angioli insieme il sacro coro:
Del cui concento intorno il Clel gioia
Sembrando un nuovo paradiso il loco.
ConobbialtorcheTsapernostroè un gioco:
E clic quel clic di Dio si tien per fede ,
Certo è via più di quel die l’occhio vede.
CFIIABRERA.
L'Assunzione di Maria.
Quando nel grembo al mar terge la fron-
Dal fosco della notte apparir suole [te,
Dietro a bell’alba il Sole,
D’ammirabili raggi amahil fonte,
K gir su ruote di ceruleo smallo
Fulgido, splendentissimo per l’aito.
Gli sparsi per lo del lampi focosi
Ammira il mondo, die poggiar lo scorge :
E se giammai risorge
I.' alma fenice dagli odor famosi,
E per l’aure d'Arabia il corso piglia.
Sua beliate a mirar, qual meraviglia!
Stellata di bell'or l’albor dell’ ali,
II rinnovato scn d'ostro colora,
E delia folta indora
Coda le piume a bella neve eguali ;
E la fronte di rose aurea rìsplende,
E tale al Ciel dall’arsa tomba ascende.
Santa, die d'ogni onor porti corona.
Vergine, il veggio, I paragon son vili :
Ma delle voci umili
Al suon discorde, al roco dir perdona,
Chè T colmo de’ tuoi pregj alti, infiniti
Muto mi fa, benché a parlar m’inviti.
E chi potria giammai, quando beata
Maria saliva al grand' impero eterno,
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SM UBICA
Dir del campo superno
Per suo trionfo la milizia armata?
Le tante insegne gloriose, e 1 tanti
D1 indile trombe insuperabil canti ?
Quanti soo eerchj nell'Olimpo ardenti
Per estrema letizia alto sonare,
E tutti allor più chiaro
Vibrare suo fulgor gii astri lucenti ;
E per l’eteree piagge oltre il costume
Rise seren d' incstimabil lume. [piede
Ed ella oriundo ovunque impresse il
I fiammeggianti calli, iva sublime
Ultra l' eccelse cime
Del Cido eccelso all' insalibii sede,
SACRA.
Ove 11 sommo Signor seco l' accolse,
E la voce immortal cosi disdolse :
Prendi scettro e corona : e I* universo
Qual di reina a' cenni tuoi si pieghi ;
Nè sparga indarno i prieghi
Mai tuo fedel a te pregar converso :
E la tua destra a' pecca tor gl' immensi
Nostri tesori a tuo voler dispensi.
Cosi fermava : e qual trascorsa età te
Non vide poi su tribolata gente
Dalla sua man demente
(smisurata traboccar pietate?
E benché posto di miserie in fondo
Non sollevarsi e ricrearsi il mondo?
per santa Lucia.
Muse, che Pindo ed Elicona insano
A scherno vi prendete,
E lungo il bel Giordano
Aurei cordi] tessete,
Giordan, che in suo sentiero
Il Tebro accusa e '1 neghittoso Ibero.
Gigli, che all' Alba, e per le valli ascose
Più candidi fiorire;
Candidissime rose
Oggi da voi desiro,
Per far sacro monile
Di Sirarusa all' Krinellin gentile.
Oh se mie vere lodi, oli se miei prieghi
Poggino al Cielo ardenti,
Sicché benigna pieghi
Quaggiù gli occhi lucenti,
E con atti soavi
I miei caduchi rassereni e lavi!
Ma che? s’clla fra noi gii si cerviera
A’ suoi fe' si gran guerra,
Pura Vergine altera.
Vera fenice in terra.
Alma Aurora de* cieli,
Per cui non è Timo che si quereli.
Vago nocchi or, che pelago di lodi
Va solcando veloce.
Ansi che lieto approdi ,
Può traviar sua foce ;
A tale arte s'appiglia
Chi di fallace onor fa meraviglia.
Qual vanto di Sicilia a' pregj acquista
Alpe che ai Gioì sì Ieri,
E verdeggiante iu vista
Tra fontane e tra aeri
Inverso gli altri giri
Or nembo oscuro, or vivo incendio spiri?
E ver che alto boli’ Etna, alto fiammeg-
Dai cavernoso fondo, [già
Onde sovente ombreggia
A mezzo giorno il mondo,
Ma su tra 1' auree stelle
Lingua eterna non v’ha che ne favelle.
Non ciò che in terrai sensi infermi atte**
Anco nel Cielo aggrada; [ta
Indarno Alfeo s' affretta
Per così cieca strada,
Ei dentro il mrir rinchiusa
Porta sua dolce fiamma ad Aretusa.
La gran piaggia del Ciel sempre serena
D'alme gentil s'infiora;
E di questa terrena
S’ìnvaga e s’innamora,
Quand'ella fior produce,
Che in lei traviato eternamente luce.
Ma qual fior tra’ più cari c tra’ più puri
Poi colse il Cido, o pria.
Che in candidezza oscuri
I gigli di Lucia?
Cor mio, spiega ie penne,
E per aura si dolce alza le antenne.
Ma » di lei che tutto il Cid consola
Gli ultimi pregj iodico,
Mio dire almen sen vola
Di ventale amico;
K se qui il mondo mira
L’ arte del suo lodar eadragb in ira.
Ch’ei pure ai sogni ed a menzogne zp-
Turba l’Orto e l'Occaso. [presso
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SONETTI.
0 Pindo, o vati Permesso,
0 lusinghicr Parnaso,
E lor fonie derisa.
Se in terra occhio di lìnee unqua l' affisa.
Non di stridula cetra favolosa
Ha Lucia sua mercede,
Eletta di Dio sposa.
Si gli riluce al piede ;
sss
Ed è posta da Lui
Pur quasi Dea sovra la luce altrui.
Altri trofei delle sue ciglia afflitte
Stan di Slonnc In cima ;
Sue palme eccelse , Invitte
Giordano alto sublima;
K nell’ eterno giorno
Le fa sonar Gerusalemme intono.
ZAPPI.
Giuditta.
Alfin col teschio d’atro sangue intriso
Tornò la gran Giuditta, e ognun dicea :
Viva l' eroe: nulla di donna avea.
Fuorché il tessuto inganno e ’l vago viso.
Corscr le verginelle al lieto avviso;
Chi T piè , di' il manto di baciar godea.
La destra no , di' ognun di lei temea
Per la memoria di quel mostro ucciso.
Cento profeti alla gran donna intorno,
Andrà , diccan , chiara di te memoria [no.
Finché li Sol porli e ovunque porti llgior-
Forte ella fu ncU'Immortal vittoria;
Ma fu più forte alior clip fe’ ritorno :
Starasi tutta umile in tanta gloria.
n Nascimento di Hans.
Quando In Ciel arse il memorando sdegno
( Ahi può dunque lo sdegno in Cid eotao-
Che si gran parte del felice regno ftolj
Trasse in catene alla magion del pianto;
Gli altri che in Dio scorgean qualfca di-
segno
D’ empier le vuote sedi a loro a canto ,
Sdegnar parean che s’innalzasse a tanto
L’ umn per natura e più percolpa indegno.
Ma poi vista costei, clic sotto i piedi
Premca la colpa , c lieta avanti a Dio
Scorgca d'Adamo i fortunati eredi;
Ciascun dal Ciclo ad incontrarla uscio,
E non che contrastar le vote sedi.
Le sue ciascuno alla gran Donna olfrio.
MANFREDI.
La vista di Gesù in croce lo guida a
pentimento.
Ahimè, eh’ io sento II suon delle catene,
E fischiar odo la tempesta atroce
De’ feri colpi, e la sanguigna croce
Alzarsi , ove Gesù languisce c sviene, [ne
Ahimè, cheli eormi manca e non sosti e-
Cosl novo spettacolo feroce.
O frena 11 suon di si pietosa voce ,
Od ella alquanto di sua forza affieno.
Ma qual dolcezza a poco a poco lo sento
Nascermi In petto, eli’ ogni duol discaccia ;
E di pace mi colma e di contento I [eia ?
Duro mio cor, perchè pregar ch’ei tac-
Se col duolo ei li guida al pentimento ,
Parli finché ti rompa c U disfaccia.
Per Monacazione.
Vergini , che pensose a lenti passi
Da grande uficio e pio tornar mostrate;
Dipinta avendo In volto la pictatc,
E più negli occhi lagrlmosl c bassi;
Dov’ è colei , rhe fra tuli’ altre stassi
Quasi Sol di bellezza e d' onestate?
Al cui chiaro splendor l'alme ben nate
Tutte scopron le vie d’onde al Clel vassi?
Rispondon quelle: Ah non sperar più mai
Fra noi vederla : oggi il bei lume è spento
Al mondo , che per lei fu lieto assai, [lo
Sulla soglia d’un chiostro ogni ornamen-
Sparso.c gii ostri e le gemme al suol vedrai,
E II bel crin d’oro se ne porta II vento.
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URICA SACRA.
SM
ZAMPI ERI.
COITA.
Il Santuario del monte Gargano.
L' Esisterla di Dio.
Le nere querce che fanti’ ombra c vesta
Ampia a Gargano, vacillar repente,
E d'improvvisa luce un nembo ardente
Alluminò lo speco e la foresta ;
Quel giorno che a Michel fe' manifesta
Sua voluntatc , all' atterrita gente
K 'I novo culto nacque e la recente
Ara fumò per onorar sua festa.
K pur lieto ed amico apparve in atto :
Che fu vederlo quando stuol ribelle
Per lui dal Clel catleo vinto e disfatto?
Parean suoi sguardi turbini e procelle;
K dietro al fabbro del prlmler misfatto
La terza parte rovinò di stelle.
Nume non v* è , dicea fra sé lo stolto ,
Nume non v’ò, che 1’ universo regga, [to.
Squarci l’empio la benda, ond'cgllèavvol-
Agli occhi Infidi, esev’haNumeei vegga.
Nume non v 'è ? Verso del elei rivolto [ga;
Chiaro il suo inganno in tante stelle ei leg-
Speglisl, c impresso nel suo proprio volto
Ad ogni sguardo il suo Fattor rivegga.
Nume non v'è? De' fiumi ipuri argenti,
L'aer clic spiri, il suolo ove risiedi,
Le piante , i fior, l’ erbe , l' arene e I venti.
Tutti parlan di Dio; per lutto vedi
Del grand' esser di lui segni eloquenti
Credilo, stolto, a lor, se a te noi credi.
AGOSTINO PARADISI.
Il Natale.
Cantate, o sacre Muse: a voi rispondono
Lunghi concenti di celesti celere ,
Cui , mentre per lo ciclo si diffondono ,
Gode fra nube c nube Eco ripetere.
Per l'acre invisibili s'ascondono
Gli alati abltalor del lucid’ etere,
K le tenebre che la notte ingombrano
D'insolito fulgor lampi disgombrano.
I raggi che nel mondo si diffusero
Son certo di celeste scaturigine,
E tnovon dalle soglie die si chiusero
Al primo fallo della prima origine,
E l genitori c l’ egra prole esclusero
Contaminata d'infcrnal caligine;
lo l'odo aprirsi , e raggirate stridere
E in curvi solchi il pavimento incidere.
La terra al elei risponde. Ai di che vcrnn-
Intempesiive ecco l’crbettc crescere, [no
Non gli Aquilon protervi 11 elei governano
Col fiato, chepiù suole ai campi incresce re;
Ma Zelfircttl che il lor volo alternano ,
Godono all' aure fresche 1 tepor mescere,
Né gii mai v len che all' acr nostro ridiano
Senza gli odor , che dai Sabei depredano.
Ecco a sgombrar l'antica amaritudine
Amiche voci nel deserto suonano,
Clic per l’ampia, arenosa solitudine [nano.
D’ un Dio che giunge a noi, d' un Dio ragio-
Gii strai clic temprò l' ira in su l'incudine
Non paventinsi gii), se i cicli tuonano:
I fragor cupi un Dio clic parla indiano,
E in lor favella il nostro scampo additano.
Or mentre i preghi osiam verso il Cicl er-
gere
Noi dell'aulico Adam tarda propagine.
Nasci, o Fanciui bealo, e vieni a tergere
II lezzo dell’aulica seclleragine
Si, clic non osi ingrata macchia aspergere
L’immorlal soffio ch’ha di Dio l'Immagine.
Deh 1 le dolci del eie! rugiade movano ,
E le formulo nubi il Giusto piovano.
Vano il voto non ò ; chi gii discendono
Saltile c Grazia al inondo afllilto emisero.
Carmi die l’avvenire in lor comprendono.
Ai padri, agli avi di sperar promisero:
E le novelle età già corso prendono,
Che le note fatidiche promisero.
Veggio Detieni, veggio i’umll tugurio;
Ivi adempiuto Coniai l'anticoaugurio. [re
Quei clic col piede eterno uso è di premi—
Le penne agli Aquilon , quando s' adirano ;
Quei che fa per le nubi il turbiti fremere ,
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SONETTI E CANZONETTE. 5i>7
Onde le sette vacillar si mirano;
Quei che nell’ occan fa rauchi gemere
I fluiti che le spume In alto aggirano;
Quegli or vagisce in breve runa, e il velano
Spoglie d’uomo mortai che il Nume celano.
Dunque dal tronoadamantino immobile
Veggiain suU'umil terra un Dio discendere?
Dunque capanna angusta e letto Ignobile
Accolgon lui, cui non può il del compren-
dere?
Ov’ è, Signor, la tua grandezza, o il nobile
Trono di gloria, ond’usi in Ciel risplendere?
Quegli se’ pur che Mosè vide attonito
Cingere il Slna tra le fiamme c'I sonito.
Tu se’ pur quegli , la cui voce udirono
I-c cose tutte clic dal nulla sorsero
Ubbidienti, e’1 Creator sentirono
Nell’ urto primo allor che scosse corsero,
E del moto nel turbine fuggirono
Irrequiete, c indietro mai non torsero,
E’I Tempo le segnò per senticr labile
D’anni e di lustri al corso infaticabile.
Tu parli, e ad affidar le genti pavide
L’ onde eritree nel doppio muro sorgono.
Tu parli, e al popol tuo le nubi gravide
QUIRICO ROSSI.
La Presentazione al Tempio.
Io noi vedrò, poiché il cangiato aspetto, Che Ila allora, che Ila, quando tal frutto
E la vita che sento venir meno Corrai dall’arbor sospirala? oh quanto
MI diparte dal dolce aer sereno. Si prepara per te dolore e lutto!
Nè mi riserba al sanguinoso obbietto. Cosi largo versando amaro pianto
Ma tu. Donna, vedrai questo diletto 11 buon vecchio dicca ; con ciglio asciutto
Figlio che stringi vezzeggiando al seno, Maria si stava ad ascoltarlo intanto.
D'onte, di strazj e d’amarezza pieno
Spietatamente lacerato il petto.
TORNIELLI.
CANZONETTA IN ARIA MARINARESCA.
La Concezione di Maria Vergine.
Chi fe’ sperarti, serpente malnato, Con piè di latte ti serra la bocca. (no
D' avvelenar tutto 11 mondo col fiato ? E ancor tra l' ombre del chiostro mater-
ico Fanciulla, da tc non mai tocca, Col ehlar de’ gigli abbarbaglia l’Inferno.
Esca soave in facil nembo porgono.
Tu parli, c le città d'assalto impavide
DI fcral tuba al suon cader si scorgono.
Tu parli , c i sommi gioghi c I monti ondeg-
giano ,
E gli ardui cedri al Libano fiammeggiano.
Dunque il tuo folgor, perchè piu non
mentano,
I vocali recessi arda e dlsculminc,
E i simulacri clic dall’ are ostentano
La mano armata d'impotente fulmine
Cadano al suolo , ed abbattuto sentano
De’ templi loro rovesciarsi il culmine;
E tu vieni sul soglio , a cui l' affrettano
Le genti tutte, che II tuo regno aspettano.
Vieni a reggere il fren del vasto imperio,
Che tutto abbraccia e per confili non ter-
mina,
Nè dove notte involte 11 suol cimmerio.
Nè dote l’ ombre eoo mattina estermlna :
Messaggera olirà l’Indo, olirà l'Esperio
Scorra la donna , a cui l'ulivo germina ;
I ferrei giorni al suo cliiaror s’indorino,
E T lor Messia le salve genti adorino.
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URICA SACRA.
M
Lo padre Adamo piangendo d'amore.
Sue macchie asconde Ira tanto candore.
Ed ecco, grida, quell’ unica Figlia,
Che al geuitore non punto somiglia.
Non la coprite di frasche c di foglie.
Per me son questa, e per Ei a mia moglie.
Ahi tristo mondo, che bella tua sorte,
Se costei era mia prima consorte l
Cosi dicendo, si sente alla gola
Tornar lo pomo e troncar la parola.
0 lei beata, lei pura, lei beila.
Che tien crescendo qual alba novella!
Tutte le notti sant' Anna sua madre
Sogna di lei mille cose leggiadre.
E sempre dorme tra candidi oggetti
Dicevi e gigli, e di bianchi augelletti.
Gii da meri’ anno lo buon genitore
Pieno ha lo capo di Soli e d' aurore.
Su per sereno senlier di xadìri
Veder gli par, ebe la Figlia ai giri :
E che per star sotto piante si intatte,
SI Uri Cinzia tre volte nei Ulte.
In quell'istante, che perla si eletta
Entro conchiglia gentil fu concetta;
L'alma Innocenza discesa dal Cielo,
Re renne in terra calandosi il velo :
E ritornata al lerren paradiso,
He' mesti Dori dipinse il suo riso.
Si screnaron le cime de’ monti,
E tornar limpide tutte le fonti,
E il cherubino, che guarda quel loco.
Ruppe U punta alla spada di fuoco.
Giunl'era intanto momento più beilo,
Cbe s’ animasse quel caro gioiello.
Prima die l’ alma con candido voto
Scendesse a porsi nel bel corpicciuoto ;
Girò U in Cicl per l' angeliche etere
A corre baci da tolte le schiere.
Carca di grazie, di doni, di amori.
Lieta parilo da' musici cori.
Qual ape torna dall' erbe odorose.
Tal entro il sen pargoletta s’ascose.
Ah ben tei semi, leggiadra FanciulU,
Cile il tuo Fattore con te si trastulla.
Allor a Dio fe' dono sincero
Del primo affetto, del primo pensiero.
0 le beau, te bella, te pura.
Che tanto adorni la nostra natura!
Lo tuo principio qiiant’ alzasi e saie
So' r' ogni sfera d'origin muriate!
Tu nata in gioia, noi miseri in pena;
Tu in libertadc, noi nati in catena;
Tu nata figlia, noi servi rubelii;
Tu d'amor degna, noi d' odio e flagelli.
0 te beala, te bella, le pura,
Cbe tanto adorni la nostra natura!
Di quel candore onde tanto se’ lieta.
Deh fanne parte al tuo poter poeta.
Sopra la Natività di Maria Vergine.
Tu dunque nasci, celeste Angioietta?
Deb quanto tempo cbe il mondo t'aspetta!
Se' tu colei, che suii'arpa dorata
Lo re profeta n’ aveva cantata ?
Se’ tu colei, quella bella Maria,
Che in tanti modi ne pinsc Isaia?
Ob ecco spunta la figlia del giorno;
Deb quanta notte le fugge d'intorno!
Oh ecco s'apre la candida perla ;
Deb quanto spese lo Gel per averla!
Tu nasci appunto qual arcobaleno,
Che n'assicura 1’ eterno sereno.
Tu nasci appunto qual limpida fonte
AI pellegrin, che no bagna la fronte :
Qual tra T arsure freschissimo vento
All* usignuol, che ne forma concento.
O forte, o bella, Giuditta c ltachcle !
0 ombro liete del vecchio Israele!
0 Sara madre, o Ester regina.
Già vi conosce la bella Bambina ;
E voi di gioia piangete in vedendo
Gentil Fanciulla cbe nasce ridendo.
Quand’olia nacque, scendò I* Allegria,
E disse ai pianto : Lontau da Maria.
Presso le Aglio ne vengon lor padri.
Tra vaghe tinte di manti leggiadri.
Lo vecchio A bramo con barba d'argento
Ne vlen portando lo gran Testamento :
Ne vien Giacobbe, che zoppica ancora
Per la gran lotta, che tanto l'onora.
Ne vien Isacco, qual era sul colle
Pel sacrifizio, che il Ciclo non volle.
Mira Giuseppe, quel casto ed invitto,
Che il crine indora di spiche d'Egitto.
Vedi Giosuè, che con l’orrida spada
Al Sole accenna, che innanzi non vada.
Mira Mose con la verga stillante.
Mira Davidde con Tarpa sonante.
Vedi II buon Giobbe con bassa la testa.
Che ancor si mira, se piaga gl! resta.
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CANZONETTA IN ARIA MARINARESCA.
Oh quante barbe di regi e profeti!
Oh quanta pompa di code e tappeti !
Sant’Anna intanto non sa dose porre
Lo mondo antico, che in casa concorre :
Lo stuol sereno deli’ombre tranquille
Di mille affetti riscaldasi e mille. [la :
Chi le un giunge, cbi piange, chi can-
VI va la bella, la pura, la santa!
Stancan di baci la tenera faccia,
Chi la manina, chi 'I piede le bacia, [la;
Qual busca untino, qual scheggia la cul-
L'un ruba all’altro la cara Fanciulla.
Già d’ esser morta Rachele scordando.
Per darle il latte s'andava provando.
Tìensela stretta il buon rocchio Tobia,
Che seco al Limbo recar la vorria.
E già movea da' cori superni
Un drappelletto di spiriti eterni.
Vago cangiante di vario bel lume
Ne' manti brilla e udì' auree piume.
Qual porta cuna, qual fascie novelle,
Chi sparge fiori, chi perle, dii stelle.
Con mille scherzi giocando d’inganno,
Sul santo tetto girando sen vanno.
Poi tutti a un colpo con presta rapina
Ne portan via la bella Bambina.
Qual sparavicrc che il volo seconda,
Con larghe rote la preda circonda;
E quando d' essa non par che gli caglia.
Con presto piombo sovr' essa si scaglia ;
Tal simulando lor danze e tornelli,
Rubar la Putta quei bel cattivelli.
Eh là gridava la Santa Famiglia :
0 noi in Cielo, o in terra la Figlia.
Ma già sui Cieli le danze godea
De' bel pianeti, che in lume vincea,
Quand’ella apparve nell'aureo case,
Lo Sole in volto le macchie si rase,
E la sorella per farsi più adorna
Lisciò l'avorio dell' umide corna.
Saturno ancora, quel bieco, quel tristo,
La prima volta sorrider fu visto.
Venere in casa s’asconde e sequestra,
E va gridando da un'alta finestra :
Deh che leggiadra, che bella tu sic,
lemmi il rossor delle favole mie.
I .a Fanciulletia non degnala e passa,
E dalia stella mirar non si lassa.
Giunta più presso alla fulgida corte,
Tutte s'aperser le dodici porte;
Onde tra nembi di luce ridente
Dall’alte stanze discese la gente.
Vieni, Angioletta, citò solo n’ ò degno
Il tuo candore di questo bel regno.
Viene al gran trono la santa Bambina,
E al Padre eterno stende la manina :
E balbettando, tal note scolpio :
V' adoro ed amo, mio Padre, mio Dio.
La prese In braccio lo gran Genitore,
E se la pose nel mezzo del cuore.
E in sen le infuse gran parte di quella
Immensa forza, che il mondo livella.
Lo Verbo eterno la cinse e l’ascose
Entro la luce d' altissime cose.
Lo santo Amore tra canti e tra suoni
Ad uno ad uno contolle 1 suoi doni.
Disser a Dio gli eterni attributi :
Che più ti serbi, se nulla rifiuti?
Tra' Geni in tanto dihattesi, come
La Fanriuliclta si chiami per nome ;
Già Palla corte l' adora c l' inchina,
E in pieni cori la cantati regina :
Ala più bel nome a lei vo’ clic si dia.
Disse il Signore : si chiami Maria.
Appena udissi quel nome si caro,
Tutte là in Cielo le trombe squiilaro.
Là in su que' colli ripeter s' odia,
Là in quelle valli : Maria, Maria.
Ogni angioletto si pinse sull’ale
La bella cifra del nome immortale.
Ogni parete, ogni seggio ne brilla,
E in ogni nuoto Maria sfavilla.
Maria in Ciclo si forte s' intuona.
Che tino in terra rimbomba e ri suona.
Anzi ne vanno le voci beate
A portar guerra tra P ombre dannate.
Che nome è questo, che gioia si viva
Ne' cherubini cantando deriva? [ride?
Che nome ò questo, che il mondo ne
Che nome è questo, clic Pioto ne stridei
Che nome è questo, che Infiamma e inna-
mora
L'un polo e P allro, l'Occaso c l'Aurora?
Che P ombre molcc, clic Paure serena.
Che I labbri impegna, clic I cuori incatena?
Quest' è Maria de' nomi lo fiore;
Ognun P inchini, lo vanti, l’onore :
Quest' è Maria la stella del mare:
Dammi il barchetto, che vo’ navigare.
Con questa luce salpando dal lido,
Tutta del mare la rabbia disfido.
Dirò Maria, se il turbine infuria.
Se il mar mi batte, se il vento m' ingiuria.
Dirò Maria, se l’onda minaccia,
Se il Ciel m’ avventa la torbida faccia.
Dirò Maria, dirollo si forte,
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SCO lirica
Che n’ avran tema I naufragi e la Morie.
Atlor vedrò la mia «iella divina
Brillar sui nembi dell' onda marina.
Vedrò il bel nome con lume vermiglio
Guidar in calma lo stanco naviglio.
Ed io varcando, farò clic si scriva
Sud'ogni scoglio, ogni spiaggia, ogni riva:
E canlerollo su celerà d'oro
Sin tra l’arena dell’ Indo e del Moro.
0 Anna dolce, la figlia gii riede.
Deh llenne cura, cliè il Cicl te la diede.
SACRA.
Pensa che ad ella si regge ed attiene
Dì mille regni la gioia e la spene.
Tu ne governa le cune e le fascio.
Nò d'altra mano toccar te le lascie.
1 santi amori, le belle virtudi
Pian suoi trastulli, suoi teneri studi.
D'Èva Infelice lo folle ardimento
De’ suoi vagiti sari l'argomento.
Ma quando piange, porrommclc acanto,
Per farle sonno co’ versi c col canto.
M1NZON1.
La Morte del Kcdcnlore.
Quando Gesù nell’ ultimo lamento
Schiuse le tombe e le montagne scosse,
Adamo sbigottito e sonnolento
Aliò la testa e sovra 1 piè rlzzosse :
l.e torbide pupille intorno mosse
Pieno di meraviglia e di spavento,
E palpitando additnaudò chi fosse
Lui che pendeva insanguinato e spento.
Come lo seppe, alla rugosa fronte,
Al crin canuto ed alle guance smorte
Colla pentita man fe' danni ed onte.
Si volse lagrimando alla consorte,
E gridò si, che rimbombonne il monte :
lo per te diedi al mio Signor la morte.
GIANNI.
la Morte di Giuda.
Allor che Giuda dì furor satollo
Piombò dal ramo, rapido si mosse
L' instigator suo demone e scontrollo
Battendo l’ ali come fiamme rosse ;
Pel nodo che al fellon rattorse il collo
Giù nel bollor delle roventi fosse
Appena con te scabre ugno rotollo,
Ch’arser le carni e sibilarmi Posse;
E in mezzo al vampo della gran bufera
Con diro ghigno Satana fu visto
Spianar le rugltc della fronte attera :
Poi fra le braccia si recò quel tristo,
E con la bocca fumigante e nera
Gli rese il bacio che avea dato a Cristo.
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PETRARCHESCHI
t
GIUSTO DE’ CONTI.
Natura crea la pili degna forma di donna.
Giunge a Natura il bel pensler gentile ,
Per Informar tra noi cosa novella ,
Ma pria miti’ anni immaginò , che a quella
Faccia leggiadra man ponesse e stile.
Poi nei più mansueto c nel più umile
Lieto ascendente di benigna stella,
Creò questa innocente fera bella
Alla stagion più tarda , alla più vile.
Ardea la terza sfera del suo cielo ,
Onde si caldamente amor s’ informa ,
Il giorno che il bel parto venne in terra.
E Dio mirava la più degna forma.
Quando vesti d'un si mirabil velo
Quest'anima gentil che mi fa guerra.
LEONELLO ESTENSE.
Dnotsi d’ Amore e chiedcgli aiuto.
L' Amor m’ ha fatto cieco, e non ha tanto
Di carità , che mi conduca in via ;
Mi lassa per dispetto In mia balia,
E dice : Or va tu che presumi tanto.
Ed io perche mi sento in forze alquanto
E stimo di trovar chi man mi dia,
Vado, ma poi non so dove mi sia ,
Tal che mi fermo dritto su d'un canto.
Allora Amore, che mi sta guatando.
Mi mostra per disprezzo c mi ostenta ,
E mi va canzonando in alto metro.
Nò '1 dice tanto pian, eh’ io non lo senta;
Ed io rispondo cosi barbottando :
Mostrami almen la via che toma Indietro,
LORENZO DE’ MEDICI.
Dolcissime rimembrante.
Spesso mi torna a niente , anzi già mai
Non può partir dalla memoria mia
L’abito c’1 tempo e’I lungo dove pria
La mia donna gentil fiso mirai.
Quel che paresse allor, Amor, tu ’l sai ;
Chè con lei sempre fosii in compagnia;
Quanto vaga, gentil, leggiadra e pia ,
Non si può dir nò immaginar assai.
Quale sovra I nevosi ed alti monti
Apollo spande il suo bel lume adorno ,
Tale 1 crin suoi sovra la bianca gonna.
Il tempo c ’l luogo non convien ch’io con-
Chèjdov’ d si bel Sole, i sempre giorno ; [ti:
E paradiso ov’è si bella donna.
Sempre beila, aia ridente o sdegnata.
Tante vaghe bellezze ha in sò raccolto
Il gentil «iso della donna mia.
Ch’ogni nuovo accidente che In lui sia,
Prende da lui bellezza e valor molto.
Se di grata pietà talora ò involto.
Pietà già mai non fu si dolce e pia ;
Se di sdegno arde , tanto bella c ria
È l'ira, eh’ amor trema in quel bel volto.
Pietosa e bella ò in lei ogni mestizia ;
E se rigano i pianti il vago viso, [gno.
Dice piangendo Amor: Quest’ è il mio re -
Ma quando il mondo cieco è fatto degno
Che mova quella bocca un soave riso,
Conosce allor qual ò vera letizia.
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562
PETRARCHESCHI,
Tool doterai di lei ; poi la canta di bel nuovo.
Allor ch'io penso di dolermi alquanto
De’ pianti e de’ sospir miei loco, Amore ;
Mirando per pietà raglino core,
L’Immagin veggo ili quel viso santo.
E panni alior sì bella c dolce tanto,
Cbc vergognoso il primo pensier more;
Nascerlo un altro poi con uno ardore
Di ringraziarla , e le sue laudi canto.
La bella immagin clic lodar si seme,
Come dice il pensier che lei sol mira ,
Sen fa più bella c più pietosa assai.
Quindi sorge un desio novo in la mente
Diveder quella ch’ode, parla e spira,
E tomo a voi, lucenti e dolci ral.
Chiama «è stesso il ma)
Amor, veggio che ancor non se' conten-
Alle mie antiche pene [to,
Ch’ altri lacci c catene
Vai fabbricando ognor più aspre e forte
Delle tue usate, tal ch’ogni mia spene
D' alcun prospero evento
Or se ne porta 11 vento.
Nè spero liberti se non per morte.
0 cieche, o poco accorte
Menti de’ tristi amami'
Chi ne' bei lumi santi
Avrc' però stimato tant’ asprezza?
Nò parea che durezza
Promettessimo a noi i suoi sembianti.
Cosi dato mi sono in forza altrui.
Nè spero esser già mai quel che già fui.
Io conosco or la liberiate amica ;
E ’l tempo onesto e lieto,
E il mio stalo qtlicto,
Che già mi diè mia benigna Fortuna.
Ma poi, coni’ ogni ben ritorna indrieto.
Mi diventò nemica.
Ed a darmi fatica
Amore c lei se n’ accordorno a una ;
Come assai non fosse una
Parte di tanta forza
A chi per sè si sforza
Di rilegarsi ognor più c più stretto :
E come semplicetto
Non mirando più oltre che la scorza'.
Con le mie man gli aiutai Tare i lacci,
Acciò clic tanto più servo mi facci.
Un uccelletto o semplice animale,
Se gli vien discoperto
A una Violetta.
0 bella Violetta, tu se’ nata
Ove già ’l primo mio bel desio nacque ;
lagrime triste e belle furon l’ acque
Che t’ han nutrita e più volle bagnata.
Pielate in quella terra fortunata
Nutrì il desio, ove il bel cesto giacque ;
La bella man ti colse, e poi le piacque
Farne la mia per si bel don beata.
E mi pare ad ognor fuggir ti voglia
A quella bella mano onde or tl legno
Al nudo petto dolcemente stretta;
Al nudo petto, che desire e doglia [gno.
Tiene in loco del cor: chè il petto liasde-
E slassi, onde tu vieni, o Violetta.
ior nemico di sua pace.
Un inganno, che certo
Si mostri turbalor della sua pace,
Tiene al secondo poi più l’ occhio aperto t
Ch’ è ragion naturale,
Ch’ogni uom fugga II sno male.
Ed lo clic veggo clic m’inganna e sface.
Di seguir pur mi piace
La via nella qual veggio
Il mal passalo, e peggio,
Come s’Io non avessi esempi cento.
Ma in tal modo ha spento
Amore in me d’ogni ragione il seggio,
Ch’ io non vorrei trovar rimedio o tempre.
Che mi togliesse il voler arder sempre.
Tanto han potuto gli amorosi inganni,
E ’l mio martirio antico,
Ch’io non ho più nemico
Alcun d’ogni mia pace, che me stesso;
Nè cerco altro o per altro m'aOàUco,
Se non coni’ io m'inganni:
Ed arrogo a’ mìei danni,
E chiamo mia salute male espresso :
Godo, se rii’ è concesso
Stare in sospiri e ’n doglia:
Ho In odio chi mi spoglia
Di scrvitule, e cerca liber farmi ;
E vedendo legarmi,
Panni, chi il fa, dar liberta mi voglia.
Così del mio mal godo c del ben dolgo ;
E quel ch'io cerco, io stesso poi mi tolgo.
Cosi Fortuna e ’l mio nemico Amore,
Tra speiie oscure c incerte,
Pene chiare ed aperte
M‘ han tenuto e passato un lustro intero ;
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CANZONI. b6l.
E «otto mille pelli e rie coverte
Della mia etatc il flore
Soli' un crude! «ignoro
Ho consumalo, e più gioir non spero.
Amor, sai pur il vero
Della mia intera fede.
Che dovre' di mercede
Aver dimostro almen pur qualche seguo;
Or sou si presso al regno
Di quella, qual fuggir folle è chi 'I crede.
Che essendo l| resto rii mia vita lieto
Quanf esser può, non pagherà i'addrieto,
Canion mia, teco i tuoi lamenti serba,
E nostra doglia acerba
Tu non dimostrerà' in alcuna parte;
Ma tanto cela il tuo tormento amaro,
Che Amor, Morte, o Fortuna dia riparo.
POLIZIANO.
Parla ad ogni testimonio del ano amore.
Monti, valli, antri e colli
Pien di Sor, frondl ed erba,
Verdi campagne, ombrosi e folti boschi ;
Poggi, ch’ognor più molli
Fa la mia pena acerba,
Struggendo gli occhi nebulosi e foschi ;
Fiume, che par conosciti
Mio spielato dolore.
Si dolce meco piagni ;
Augel, che n'accompagni
Ove con noi si duo! coniando Amore ;
Fiere, Ninfe, Aer, Venti,
Udite il suon de' tristi miei lamenti.
Giù sette e sette volte
Mostrò la bella Aurora
Cinta di gemme orientai sua fronte ;
Le corna Ita gi.1 raccolte
Delia, mentre dimora
Con Tcti il fratrl suo dentro il gran fonte ;
Da che il superbo monte
Non segnò il bianco piede
Di quella donna altera.
Che ’n dolce primavera
Converte ciò che tocca, adombra o vede :
Qui 1 fior, qui l'erba nasce
Da' suoi begli occhi, e poi de' miei si pasce.
Pasccsi del mio pianto
Ogni foglietta lieta,
E vanne il fiume più superbo in vista.
Ahimè, deh perchè tanto
Quel volto a noi si vieta.
Che queta il Ciel qualor più si contrista?
Deh se nessun l’ ha vista
Giù per ('ombrose valli
Sceglier tra verdi crbelte
Per tesser ghirlanUette
I bianchi e rossi fior, gli azzurri e I gialli,
Prego die me la Insegni,
S’ egli è che In questi boschi pietà regni.
Amor, qui la vedemo
Sotto le fresche fronde
Del vecchio faggio umilmente posarsi;
Del rimembrar ne Iremo;
Alti come dolci l’onde
Faceano 1 bei crin d' oro al vento sparsi !
Com’agghiacciai, confarsi,
Quando di fiori un nembo
Vedea rider d’ intorno,
( 0 benedetto giorno ! )
E pien di rose l'amoroso grembo!
Suo divin portamento
Ritrai tu. Amor, eli 'io per me n’ho pavento.
I' (enea gli occhi intesi
Ammirando, qual suole
Cervello in fonte vagheggiar sua Immago :
Gli occhi d' amor accesi,
Gli atti, volto e parole,
E 1 cauto che Tacca di si il Ciel vago.
Quel riso ond'io m’appago.
Ch’arder farebbe i sassi,
Che ia per questa selva
Mansueta ogni belva,
E star l' acque correnti. Oh s’ lo trovassi
Dell’ orme, ove i piè move,
l' non avrei de) Cielo invidia a Giove.
Fresco rosee) tremante.
Ove ’l bel piede scalzo
Bagnar le piacque, o te quanto felice ! t
E voi, ramose piante.
Che ’u questo alpestro balzo
D' umor pascete l' antica radice |
Fra quai la mia Beatrice
Qjgitizfid by
PETRARCHESCHI.
Mi
Sola ulor sen viene!
Ahi quanta Invidia l' aggio,
Alto e muschio*) faggio,
Che tei stato degnato a tanto bene !
Ben de’ lieta godersi
L’aura ch'accolse i suoi celesti versi.
L’aura I bei versi accolse,
E In grembo a Dio gli pose
Per far goderne tutto il paradiso.
Qui I flor, qui l'erba colse,
Di questo sjiin le rose ;
Quest' acr serenò col dolce riso.
Ve’ l’acqua clic T bel viso
Ragnolle. Oh dove sono?
Qual dolcezza mi sface ?
Coni’ venni in tanta pace?
Chi scorta fu? con chi parlo o ragiono?
Onde si dolce calma ?
Che soverchio piacer via caccia l’alma?
Selvaggia mia Canzone innamorata,
Va secura ove vuoi,
Poi che ’n glo' son conversi i dolor tuoi.
CAR1TEO.
Le dimanda solo uno sguardo.
Per Dio, madonna, un dubbio mi sol veto
Nel qual penso e vaneggio, anzi mi doglio.
Parria forse onesti Uni' aspro orgoglio,
Che li saluti ancor non mi rendete ?
Qual sorte mia vi tien , che non vedete
Ch'altro checasto amor di voi non voglio ?
Ma dc'begli occhi io più legnar mi soglio,
Cile già mai verso me non gii volgete.
Nel viso aperto, aperto il cor v i mostro,
Nel qual si vede ch'altro io non desio ,
Cli’uu dolce aspetto sol del lume vostro.
Ricco sarei del desiderio mio [tro:
Più che chi beve in gemma e dorme in os-
Tanto a ciascun gran cosa è'i suo desio.
BERNARDO ACCOLTI.
Amore lo accusa d’iogniitudifie.
DI fiammeggiante porpora vestila
Era la mia celeste, Immortai Dea,
Che nel volto e nell'abito parea
Allor ailor dal Cieio essere uscita.
Tutta fra sè di se stessa invaghita
Con lai sembianti i begli occhi volgea.
Che in lei divinamente si vedea
Beltà con leggiadria essersi unita.
lo con la mente all' usalo infiammala
Avea stupor di contemplarla c gioco,
Ch'era pur cosa oltre natura usata.
Seco era Amor. che a me sdegnato un po-
Dicea gridando: guarda, anima ingrata,) co
Guarda coni 'io t' accesi in gentil foco.
DELLA
Prega le Muse di dargli stile sublime quanto
la aua donna.
Poi ch’ogni esperta, ogni spedita mano,
Qualunque mosse mal più pronto stile,
Pigra in seguir voi fora Alma gentile,
Pregio del mondo e mio sommo c sovrano :
Nè potria lingua od intelletto umano
Formar sua loda a voi par nè simile ; [le
T roppo ampio spazio il mio dir tardo, timì-
Dietro al vostro valor verrà lonUno :
E più mi fora onor volgerlo altrove;
Se non rhe'l desir mio tutto sfavilla,
Angei novo del Ciel qua giù mirando.
Oli, se cura di voi, figlie di Giove,
Pur suoi destarmi al primo suoli di squilla
Date al mio sili costei seguir volando.
CASA.
lai Gelosia.
Cura, che di timor li nutrì e cresci ,
E più temendo maggior forza acquisti;
E mentre con la fiamma il gelo mesci ,
Tutto '1 regno d'Amor turbi e contristi ;
Poi che'ii brcv'ora entr’al mio dolco hai
Tutti gli amari tuoi, del mio cor esci : [misti
Toma a Oocito, ai lagrimosi c tristi
Campi d’inferno : ili a te stessa incresci.
Ivi senza riposo i giorni mena ,
Senza sonno le notti ; ivi ti duoli
Non mcn di dubbia, che di certa pena.
Vattene : a che più fera clic non suoli ,
Se’l tuo venen m’è corso In ogni vena,
Con nuove larve a me ritorni c voli?
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SONETTI E CANZONI.
666
Sertith d' Amore.
Dolci (on le quadrelli ond' A mor punge:
Dolce braccio le avventa : e dolce e pieno
Di piacer, di salute 6 'I suo vencno :
E dolce il giogo ond’eì lega e congiunge.
Quando, Donna, da lui vissi nonlunge,
Quanto portai suo dolce fuoco in seno ;
Tanto fu T viver mio lieto e sereno,
E fia , Anelli la vita al suo An giunge.
Come doglia fin qui fu meco e pianto,
Se non quando diletto Amor mi porse ,
E sol fu dolce amando il viver mio ;
Cosi Aa sempre : e loda avronnee vanto;
Chi scriverassi al mio sepolcro forse :
Questi servo d’Amor visse e morto.
Visse c vivrA solo iti lei.
Sagge c soavi, angeliche parole :
Dolce rigor, cortese orgoglio e pio ;
Chiara fronte e begli ocelli ardenti, ond' io
Nelle tenebre nfle specchio ebbi e Sole :
E tu , crespo oro fin , là dove suole
Spesso al laccio cader colto il cor mio :
£ voi, candide man, che'l colpo rio
Mi deste, cui sanar l'alma non vuole;
Vold'Amor gloria siete unica, e’nsieme
Cibo e sostegno mio, col quale ho corso
Securo assai tutta l' età più fresca.
Nè fia già mai, quando'l cor lasso freme
Nel suo digiun, ch'i'ml procuri altr'esca;
Nè stanco altro che voi cerchi soccorso.
Duolsi d'essere
Arsi , e non pur la verde stagion fresca
Di quest’ anno mio breve, Amor, ti diedi :
Ma del maturo tempo anco gran parte.
Libertà chieggio, e tu m'assali e Aedi,
Com'uom ch'anzi’1 suo di del rarcer esca.
Nè prego vaimi 0 fuga o forza od arte.
Deh qual sarà per me oscura parte;
Qual folta selva in alpe, o scoglio in onda
Chiuso Aa che m'asconda?
E da quelle armi ch’io pavento e tremo,
Della mia vita affidi almen l'estremo?
Ben debb'io paventar quelle crude armi
Che mille volte il cor m' hanno reciso:
Nè contra lor An qui trovato Ito schermo
Altro, che tosto pallido c conquiso
Con roca voce umil vinto chiamarmi.
insegna ad un uccelletto a difendersi dalla
sua donna.
Vago augelletto dalle verdi piume,
Che peregrino il parlar nostro apprendi;
Le note attentamente ascolta e’ntendl.
Che madonna dettarti ha per costume :
E parte dal soave e caldo lume
De' suol begli occhi l’ ali tue difendi :
Chè al foco lor se com'ìo fel t'accendi, [ me,
Non ombra o pioggia e non fontana o fiu-
Nè verno allentar può d’alpestri monti ;
Ed ella ghiaccio avendo I pensier suoi ,
Pur dell'incendio altrui par che si goda.
Ma tu da lei leggiadri accenti e pronti,
Discepot novo , impara; e dirai poi,
Quirina, in gentil cor pietalc è loda.
Uccelletto ammaestrato da lei.
Quel vago prigioniero peregrino
Ch’ai suon di vostra angelica parola
Sua lontananza c suo career consola ,
E ’n ciò mcn del mio fero ave destino ;
Permesso tutto, e ’l bel monte vicino
Vincer potrà, non pur Calliope soia;
Da si dolce maestra , e ’n tale scola
Parlar ode ed impara alto e divino.
Ben lo prego io ch'attenta mcnteappren-
Con quai note pietà si svegli, e come [da
Vera eloquenza un cor gelato accenda :
Si dirà poi che tra si blonde chiome
E’n si begli ocelli Amor già mai non scenda:
Questo è notte e vencno al vostro nome.
amante canuto.
Or che la chioma ho varia, e'I fianco infer-
Ccrcando vo selvaggio loco ed ermo [mo,
Ov’io ricovrì fuor della tua mano,
Chè’l più seguirti è vano;
Nè fra la turba tua pronta c leggera
Zoppo cursore ornai vittoria spera.
Ma, lasso me , per le deserte arene,
Per questo paludoso, instabll campo
Hanno i ministri tuoi trovato il calle ,
ChT riconosco di tua face il lampo,
E’I suon dell’arco eh’ a piagarmi viene :
Nè l’onda vaimi o T gioì dì questa valle;
Nè’l segno è duro, nè i' arder mai fslle.
Ma perch’età cangiando ogni valore
dosi smarrito ha'l core,
Com'erba sua virtù per tempo perde;
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566 PETRARCHESCHI.
Secca è la speme, c’I deslr solo è verde.
Rigido gì à di bella donna aspetto
Pregar tremando, c lagrfmando volli;
£ talor ritrovai ruvida benda
Voglie e pcnsier coprir sì dolci c molli.
Che la tema c’i dolor volsi In diletto»
Or chi sarà che mie ragion difenda ,
0 i miei sospiri intempestivi intenda?
Roca è la voce , e quell* ardire è spento.
Ed agghiacciarsi sento,
E pigro farsi ogni mio senso interno,
Com 'angue suole in fredda piaggia ib erno.
Rendimi il vigor mio che gli anni avari
Tosto m* han tolto , c quella antica forza
Che mi fea pronto : e questi capei tingi
Del color primo ; chè di fuor la scorza
Come vinto è quel d* entro non dichiari;
Ed alto a guerra far mi forma c fingi ;
K poi tra le tue schiere mi sospingi ;
Ch*io noi ricuso e*l non poter tu’ è duolo.
Or nel tuo forte stuolo
Che face più gucrrier debile e veglio?
Ubero farmi il tuo fora e *1 mio meglio.
Le nubi e *1 gelo e queste nevi solo
Della mia vita. Amor, da me non bai,
E questa al foco tuo contraria bruma.
Nè grave esser li dee che frale ornai
Lungi da te con l'ali sciolte i’vole :
Però che augello ancor d' inferma piuma
A quella tua che in un pasce e consuma.
Esca fui preso : e ben dee viver franco
Antico servo stanco
Suo tempo estremo, aliuèn ià dove sia
Cortese e mansueta signoria.
Ma perchè Amor consiglio non apprezza.
Segui pur mia vaghezza ,
Breve Canzone, ed a madonna avante
Porta i sospiri di canuto amante.
FRACÀSTORO.
Creazione delia sua donna.
Gli Angeli, il Sol, la Luna erano intorno
Al seggio di Natura In paradiso.
Quando formaron , Donna , il vostro viso
D* ogni beltà perfettamente adorno.
Era Paer sereno e chiaro il giorno ;
Giove alternava con sua figlia il riso :
E tra le belle Grazie Amore assiso
Scavasi a mirar voi suo bel soggiorno.
Indi qua giù per alta maraviglia
Scese vostra beltà prescritta in Cielo
Di quante mai fiali belle eterna Idea.
Abbiati altre begli occhi e belle ciglia,
Rei volto, bella man , bel tutto il velo:
Dio sol da voi tutte le belle crea.
COSTANZO.
Lo sue querele faranno fede dell'onestà di
sua donna.
Chiaro mioSol, se più eli* io non vorrei
li mio foco rispìende in qualche parte.
Ed io non uso per cercarlo ogni arte ,
Come forse altrui par che far dovrei ;
N'è sol cagion, che i piauli e i dolor miei,
E le giuste querele ai vento sparte
Spero saran miil’auni in vive carte
Dell’ alta onestà vostra ardii e trofei.
Nè si dirà che fu di quegli amori
In cui mal la ragion guarda e governa
Il cor da’ vili ed inonesti ardori.
Si eh’ io non curo se mia fiamma interna
Spinge alcune faville ardendo fuori,
Pur eh’ a voi n’esca lode e gloria eterna.
Come siagli fatto dono della vita.
Ch' lo viva e spiri , ed alcun tempo goda
Per questa de* mortai fallace piaggia
La dolce aura vitale, e che non aggis
Reciso Atropo il fit eh’ ancor m’annoda;
Tutto è don vostro, e vostra inclita loda
Sempre sarà, reai , pudica e saggia
Alma , la cui gran fama , erma o selvaggia
Parte al mondo non fia ch’ornai non oda.
Chèque) tetro palior che l'empia Morte
Precorrer suol, già nel mio volto impresso
Mostrava ben eh’ eli’ era in su le porte;
Quando il vostro per me celeste messo.
Con note alteramente umili e scorte
Venne a rendermi al mondo cd a me stesso.
I tormenti gli sarebbero dolci se potesse
sperarla vicina.
Poi che vo’ ed io varcate avremo V onde
Dell'atra Stige, e sareiu fuor di spene
Dannali ad abitar P ardenti areno
elle vaUi d' inferno ime e profonde ;
SONETTI E
lo .spererei eh' assai dolci c gioconde
Mi farebbe i tormenti e 1* aspre pene
Il veder vostre luci alme e serene,
Che superbia e disdegno or mi nasconde :
E voi mirando il mio mal senza pare ,
Temprereste il dolor de’ niartir vostri
Con l’ intenso piacer del mio penare.
Ha temo, oimè, di’ essendo i falli nostri
Per poco U vostro, il mio per troppoamare,
Le pene uguali futi , diversi i chiostri.
BERNARDO TASSO.
Alla sua donna che va a marito.
Poi che la parte men perfetta e bella ,
Ch’ai tramontar d’ un di perde ii suo fiore.
Mi toglie il Cielo, c fanne altrui signore ,
Ch’ebbe più amica e graziosa stella;
Non mi togliete voi l’alma, eh’ ancella
Fece la v ista mia del suo splendore ;
Quella parte più nobdc e migliore.
Di cui la lingua mia sempre favella.
Amai questa belli caduca e frale.
Come immagin dell’altra eterna e vera,
Cbe pura scese dal più puro Cielo.
Questa sia mia, c d’altri l’ombra c’I velo,
Ch’ai mio amor, a mia fi salda ed intera
Poca merci saria pregio mortale.
La Notte.
Come potrò giammai. Notte, lodarti
Si, die conforme sia l'opra al desio;
E de’ tuoi degni pregj lo giunga al vero?
Qual Musa, qual Apollo il canto mio
Alzerà In parte, dove i' possa darti
De’ merti tuoi il guiderdone intero?
0 Virgilio, o Omero
Lumi di poesia ciliari ed ardenti
Dettatemi I pensieri c le parole :
Chi con pace del Sole
Dirò, die furo i suol raggi lucenti
Vinti dal lume U' una notte bolla.
Siccome il suo splendor vince ogni stella.
Mai notte più tranquilla e più serena
Non vide il Cicl dal di, che gli ocelli aperse
A mirar l’oprc varie de’ mortali :
L'aria di si bel manto si coperse,
Che l’ umid' ombre si scorgeano appena ;
Il tacito silenzio sotto l' ali
CANZONI.
Portava agli animali
I dolci sonni e i tenebrosi orrori :
Temendo il lume della bella notte,
Nelle selvaggi!' grotte
Slavan nascosti, e non uscivan fuori;
Ma sol le pellegrine aure ed estive
Scberzavao per le piagge e per le rive.
1 lieti campi col fiorito lembo
Accogliean la rugiada, fresca e pura,
Che cadeva dal volto della Luna :
E d’ un vago cristallo oltre misura
Lucido e chiaro, s’ adornava il grembo
L’erba assetala c dell' umor digiuna:
Le stelle ad una ad una
Ne scoprir an dal Cielo I torbe’ rat;
Ed essa bianca di Latona figlia
Colle tranquille ciglia
Senza turbar o scolorarsi mai.
Forse mirando il caro Endimtone,
Si dimostrava dal sovran balcone.
Pace fra loro avean gli scogli, e Tonde
Rendute pure c di color d’argento
Dal raggio di Lucina ardente e chiaro.
E col solito lor vago ornamento
Sulle minute arene delle sponde
Danzava Dori ed Arciusa a paro.
E for dei fondo amaro
Sovra i delfini di vermiglie rose
Coronati, la vaga Panopca
Efire e Galatca
Spruzzando il salso umor, con amorose
Voci rivolte al raggio d’ Oriente
Cantando incominciar soavemente :
Posati pur nell’ acque oltre l’usato,
Or che si bella notte adorna il ciclo,
Pastor d’ Admeto ; e non portar il giorno :
Chi non fu mal dal di, rhe caldo c gelo
Veste c dispoglia del suo verde il prato,
Di così chiara luce II mondo adorno :
E se ne prendi scorno.
Lasciando il novo di nel grembo a Teli
Specchiali ne' suoi lumi, or cbe riluce :
Chi da sua vaga luce
Si farauno i tuoi rai più ardenti e lieti,
E l'acre con la tua nova bellezza
Di gentil s'ornerà strana vaghezza.
0 compagna d’ Amore, c di diletto
Conforto, e degli amanti unica spenc,
Notte più d’altra a me chiara e felice;
In quai si lucide onde o ’n quali arene
Ripiena di genlil, corlese alletto,
T' ha dato il latte la bella nutrice,
0 ’n qual lieta pendice
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PETRARCHESCHI.
D’ Esperia, Teli l’ ha adornalo il crine
Per farti più che T «il lucida e vaga?
Per te l’alma s’appaga.
Per le beve II desio scorto al suo fine
Negli occhi di colei, che mi governa,
Un piacer vero, una dolcesaa elema.
Deh ferma il passo, e non portar nel
Del vasto mar la vera gioia oda, [fondo
Fa qui co’ miei diletti ancor dimora :
Chè benché tornio teco in compagnia;
Mentre che veste il Sol di luce il mondo,
Amoroso desio sempre m’accora :
Ma lasso, ecco l’Aurora,
Che col carro vermiglio il giorno apporta :
Vattene lieta, che t’ accoglie il mare
Con le Ninfe più care
Ne' suoi pregiati alberghi : e riconforta
Ne’ prati d' Occidente I tuoi destrieri,
Perchè siano al tornar presti e leggieri.
Canaon, se T Sol si lagna,
Ch' io rendi oscura la sua antica gloria,
Diralli, il tuo celeste, almo splendore
Giammai nel mio Signore
Non lasciò di piacer breve memoria ;
Però fon’ è, che gli alti pregj dica
Di questa notte a' suoi diletti amica.
FRANCESCO COPPETTA.
Amore gl* insegna a levarsi di terra.
Voi che ascoltate l’ulta e l’altra lira
Degli onorali due fra noi migliori,
Sapete ben che con diversi ardori
Lalage questi, c quel Laura sospira :
Perchè colei clic il terso ciclo gira,
Fu qua giù madre di gemelli Amori,
E ch’ambo pronti ad impiagare i cori,
L’uno vii voglie e l’altro oneste ispira.
A die col volgo dite : Un arcier solo
Punge ogni petto, c va sotto a un'insegna
Socrate ancor fra l’ amoroso stuolo ?
Crediate ornai, che chi nel mio cor regna,
Non è nudo nè cieco ; e coi suo volo
Di levarmi da terra ognor m’insegna.
JACOPO MARMITTA.
Quanto possa il guardo della sua donna.
li negarmi talora un guardo solo
Può tanto in me. Donna gentil , che obblio
Quanto ha di dolce amor, di vago e pio
E mi rammenta ogni passato duolo.
Similemente allor eh’ un pur n’involo,
0 ’I move in me cortese e bel desio.
Passami gioia al cor si nova, ch'io
Al Cicl con l’ ale del piacer roen v olo.
Quinci penso a quel benché provar suole
L’alma, che scarca del peso terreno
S' affisa su nel sommo, eterno Sole.
Cosi mi pasco, e cosi vengo meno
In voi mirando ; e mi dilcttaeduole,[neno.
Ch'or beo con gli occhi ambrosia, ed orve-
SIMONETTI.
Domanda alle Muse soccorso per cantar la
sua donna.
Alma inventrice della sacra oliva
Che intorno onoran queste piagge apriche,
E tu, Cirrea, Il cui tuono le Piche
Misere fc' sulla castalia riva ;
Se soccorreste mai la voce viva
D' alcun pittor delle memorie antiche;
Pregovi siate alla mia penna amiche,
Ch’ altramente non so com'ora scriva.
La bella imperatrice del cor mio,
0 soavi parole! oggi nti disse :
Se degna son di voi, vostra son io.
lo ch’ai bel volto avea le luci fisse,
Risposi : Sol vostro voler desio :
E l'alto Amore In bel diamante scrisse.
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CANZONI.
M»
FIRENZUOLA.
A’ luof ai in che la ride per la prima volta.
0 fiere aspre e selvagge,
O amorosetli augelli.
Saltanti capre e voi lanosi armenti,
Che ’n queste verdi spiagge
Lungo I freschi ruscelli
(ìodete i vostri amor lieti e contenti ;
Salir lascivi e attenti
Con le incerate canne
Gabbar le pastorelle
Che in queste grotte c ’n quelle
Rinchiuse statisi, o per le Ior capanne;
Quest’ è il prato, u' mi piacque
Chi per mio piacer nacque.
Qui si scontraron gii occhi
Della mia donna, c ’l core
Arse d' entrambi in amoroso foco :
Qui furo i desir tocchi
D’ ugual voler: qui Amore
N’ aperse via d'onesto c dolce gioco :
E quinci, o gentil loco !
Con amoroso zelo,
Fra le scherzanti aurette
Con le tenere erbette,
D’ ambedue strinse e cinse l’ alma e ’l velo
Di laccio si soave,
Che libertà m'è grave.
E però volentieri
Calcando le tue spalle.
0 bel Bisenzio, a te sovente torno,
E dico : Qui l’allr'icri
Fui seco, e ’n questo calle
Vidi farle ombra i rami di quell' orno:
Qua entro si posorno
1 pargoletti piedi :
Ecco die ancor qtiesl'erba
Quelle bell' orme serba;
E quel bel tronco ch'or fiorito vedi,
Già secco, al suo apparire
Incominciò a fiorire.
Potess'io con mie rime
Far palese la gioia
Ch’ ebb’ io merce d' Amor, tra questi fiori;
Come saricn le prime
Quelle a chi Amore annoia,
Che porgerieno il petto a’ dolci ardori
Dicanlo quest] allori,
De’ qual l’aspra durezza
Di donna ebbe già forza
Mutarli in fronde e scorza,
Ch’anco, la sua mercè, tanto s’apprezza,
Coni’ è gentile e vaga
Chiunque d’ amor si impiaga. [schi,
Canzon,se ben sei nata in mezzoai bo-
Ben spesso rozza gonna
Covre leggiadra donna.
SALYAGO.
Al Silenzio.
Deh lascia l’antro ombroso,
Lascia gli usati orrori ,
Sacro e santo Silenzio, e intento ascolta
Ciò che a te dir sol oso ,
E altrui non scopro fuori :
Qual vorrai mia ragione o breve o molta
Sarà, ma cheta e occolta,
Perchè col mio pensiero
Starai dentro al mio petto
Sicuro e pronto ad ogni tuo diletto.
Poi del mio stato interno Inteso il vero ,
Potrai starti o partire,
E seguir la tua usanza , o ’l tuo desir*.
Io amo , lo ardo , e ’l celo :
Ah non m'odano i Venti,
Ch’ essi ancor son fallaci e senza fede :
L’amore al caldo, al gelo
Porto fra spirti ardenti
In mezzo al cor : ivi pauroso siede ,
Se ben pon legge al piede
0 che vada o che torni ,
0 che si fermi accanto
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PETRARCHESCHI.
A lei che d'ogni pregio ha '1 grillo e'I vanto.
Se ben vuol clic mia vista erri o soggiorni
Intorno a tal chiarezza.
Che qual l’ abbaglia forse non la prezza.
L'ardor che m' arde è ardore
Ch' altrui gii mai non arse :
Cessi ’i favoleggiar de* finti amanti :
Perchè per gli occhi ai core
Scendendo , entro mi sparse [tl
D’immortai fiamme l'alma, i sensi c quan-
In me son spirti erranti.
Ma quel eh' accresce il danno
È, eh' alta non dileggio, [gio.
Perchè temo il mio meglio, e seguo il peg-
Tal che quantunque il mio amoroso a (Tanno
Sormonti al par del foco ,
Non so veder clic 'I tempri o molto o poco.
Nasce la secrelezza
Da immenso e gran desirc
Ch' ho d’ aggradirle c non spiacerle mai j
Ch’ a tanta e tal bellezza
È giusto ogni martire.
Onde amando e tacendo avanzo assai.
Oh s’ ella sapri mai
Quanto per lei sopporto
Da amor vero e celato,
Chi sari in terra più di me beato ?
Sorgeri allor dal mio martir conforto
Da mia morte mia vita ,
Felice forse allor, quanto gradita.
Di due eli' aver dovria
Parli qualunque amante.
Prima l’ amare , e poi l’ essere amato ;
Con l'ima tutta mia
L’ amo , anzi adoro in quante
Guise d’amare a un casto amante è dato.
Con I’ altra tn’ ha sforzato
Temenza a non tentarla.
Nè con atto amoroso
0 sospir mezzo, o con parlar dubbioso;
Dicendo: Troppo ardisd in troppo amarla:
Tu basso, indegno e vile
A par di lei celeste alma e gentile.
Dice in questo la speme
Nè dubbia nè sicura :
Amore a nullo amato amar perdona.
Se 'I rio timor li preme ,
Sforza la tua natura
Rispettosa e modesta. Osa , ragiona.
Poi tace , e ni’ abbandona
Perchè riede il timore
Che l'alma turba ed ange, [*«•
Ch'or teme.or spera, or s’assicura,orpian-
Millc pensier, mille desii nel core
Ho ben ancor sepolto ; [tolto!
Ma chi adombra 11 mio ardir? chi me l’ ha
Caro Silenzio, quanto
Quanto lieto ed altero esser dovrei
Se tu accennassi a lei gli adotti miei !
MICHELANGELO.
Ad Amore.
Dimmi di grazia, Anior, se gli ocelli miei
Veggono iì ver della beltà ch’io miro, [ro,
0 $’ io la ho dentro il cor; eh’ ovunque io gi-
Yeggio più bello il volto di costei.
Tu ’I dei saper, poiché tu vlen con lei
A tornii ogni mia pace , ond’ io m’ adiro :
Benché né meno un sol breve sospiro,
Nè meno ardente foco chiederei.
La beltà che tu vedi, è ben da quella;
Ma cresce poi eh’ a miglior loco sale.
Se per gli occhi mortali all* alma corre.
Quivi si fa divina, onesta e bella ,
Come a sé si in il vuol cosa immortale : [re.
Questa, e non quella agii occhi tuoi precor-
* Il concetto è dei comuni fra i petrarche-
schi ; ma il sonetto sta qui per dar saggio dei
centoni italiani, e crediamo che ai lettori sarà
TOM1TANO.
SONETTO CENTONE.
Teme e spera.
Questa bella d' Amor nimica e mia
Tal d’armati sospir conduce stuolo,
Che l’alma trema per levarsi a volo
Yeggendola passar si dolce e ria.
Pur lei cercando, che fuggir dovria,
Ad or ad or a me stesso m’involo ,
E vo fra gli antri sospiroso e solo
Pien d’ un vago pensier che mi disria.
Tanto l’iio a dir, che incominciar non oso;
Ma a celare il mio mal preso consiglio,
Allor raccolgo l’ alma, c poi eh’ io aggio
Rasserenato in parte il cor doglioso.
Scorgo fra ’l nubi toso, altero ciglio.
Ben, s'io non erro, di pietale un raggio '•
abbastanza ; perché un centone fatto da senno
c con gravità di pensieri, è pretta pedanteria.
Ausonio avea dato altro esempio.
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CANZONE.
STI
CELIO MAGNO.
Ad A mure.
A che dagli occhi , A mor , vaghi e sereni,
Dorè come in tuo eie! tl giri e moti ,
Folgorando in me piovi
Si minaccioso eterne fiamme e strali?
Ben Giove Irato al mio pensier rinnovi ,
Allor che sovra i mostri empj, terreni
Tra si spessi baleni
Fulminando atterrò lor posse frali.
Benché per tante lue piaghe mortali
Saette a ministrar, vcrrebbon manchi
D’ Etna i martelli allor bastanti e forti.
Non cerco insidie ond’ io voglia deporti
Dal regno tuo, ni che tua gloria manchi.
Ma se quest1 occhi stanchi
Non vedi mai pur nel tuo nido intenti ,
I miei desiri ardenti
N'incolpa solo, e non inganno od arte,
Cir acquetar non si sanno in altra parte.
Anzi io t'adoro , Amor, nei santo lume
Di quel bel ciglio ond' hai cura e governo :
E prego il Ciel , eh’ eterno
Duri il tuo seggio in si gradito loco.
Ma , lasso , altro nemico occulto scemo,
Ch’ indi scacciarti, e non in van, presume.
E gii suo Ho costume
Opra in te sordamente a poco a poco ;
Ch’or un strai ti rintuzza; or del tuo foco
Un carbon spegue ; or un laoduol ti solve,
E l’or del vago crin ti fura ii ladro ;
Or uno spirto ardente, almo e leggiadro
Di quel hel viso estingue, e ’n fumo solve,
Perchè ailìn ombra e polve
Rimanga il corpo in cui tu regni e vivi :
E te non solo privi
D'ogni tuo ben; ma’l seco! nostro indegno,
Che non ave dal Ciel pià caro pegno.
Deh, pcrchèmentrea faro! traggiointen-
Al bel volto leggiadro, all’ aurea testa, [de
Ed al tuo mal s’appresta.
Non è ’l erudcl nelle tue forze colto?
Perché dentro il suo cor fiamma non desta
II bel guardo divin eh’ un ghiaccio accen-
Perchè . s’ ogni alma prende , [de ?
E lui quel vago crin non tiene involto?
Tal che d’ ogni altra cura in tutto sciolto
Fcrmasseil corso, e In nn col Ciel si stesse
Immota a contemplar l’alta brltade:
E chiudendo al morir tutte le strade.
Sol una faccia sempre il mondo avesse ;
Nè più tornar potesse
In braccio al suo Titon la bella Aurora:
E tal di fosse allora ,
Ch’ anch'io mi ritrovassi intento e fiso
All’ elemo piacer del vago viso.
Ma stolto, che bram' lo, se nulla vale
Dal suo corso fatai punto ritrarlo?
Ecco, menu-’ or ti parlo,
Ch’ ei pur sen vola al tuo danno passando :
E già mi par di vineltor mirarlo,
Rollo a te l'arco, e spennacchiale l’ale;
E con doglia Immortale
Dal tuo nido gentil tenerti In bando.
Nè ciò tanto devria dolerti , quando
Potessi altrove riparar tuo stato,
E ’n si begli occhi aver si caro albergo :
Ma, come nulla, s’io mi volgo a tergo ,
Donna veggio slmil nel tempo andato;
Cosi non fa beato
Altra di lai bellezze il seco! nostro.
Nè di s) nobil mostro.
Di sì raro miraeoi di Natura
Si vanterà già mai l’età futura.
Misero, che farai? Tosto al tuo danno
Clangerà ’l tuo nemico empio ed avaro :
Nè v’ ha schermo o riparo ,
Clic te dal suo furor difenda e copra, [ro
Ma qual Grazia or m’ispiri, e ’l modo chla-
Mi mostra da temprar tno duro affanno T
E con illustre inganno
Farli a quel crudo rimaner di sopra?
Qual deslin vuol ch'io per tu ben lo scopra?
Nè , perchè cosi pronto a’ miei martiri
Tl provi . Amor, ciò ti nascondo e taccio ;
Ma come tuo fedel palese il faccio ,
Perchè tu quinci a tua salute aspiri.
Non ha , se drillo miri ,
Più bel don da Natura umana mente,
Od arte più possente
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M J PETRARCHESCHI.
A cose oprar meravigliose e nove,
i)i quella, clic le Muse al canto move.
Leva questa di terra alto e sublime
Nostro intelletto a più beala sorte :
E con soavi scorte
La via gl' insegna onde sen poggi a Dio.
Questa con voci ognor leggiadre e scorte
Vaghi pensier tessendo in versi e ’n rime,
Di qual tormento opprime
Più l'alma, induce dilettoso obblio :
Questa col canto suo frenar s' udio
Spesso I fiumi nel corso, e 1 monti e i sassi
Seguaci far di sua rara dolcezza :
Questa di Morte ancor le leggi sprezza
E nell’inferno aperta strada fassi :
Quinci agli spirti lassi
Dalle cure del mondo ave ristoro
Giove nel sommo coro ,
Mentre Febo cantando in dolci note
L'armonia tempra alle celesti rote.
Di quei di' a tal favor degnan le stelle,
ITi solo scegli , c tei procaccia amico :
Chi del tempo nemico
Ei sol dar ti potrà vittoria e palma ,
E lodando i begli occhi e T cor pudico ,
E gli atti e le parole e queste e quelle
Doti pregiate e belle
DI cosi gloriosa c nobil alma :
Farà soggetto alla tua dolce salma
Per fama eterna ogni cor empio e duro :
E rinnovando andrà le tue faville
Sempre negli altrui petti a mille a mille :
E saria pronto ancor con piè sicuro
Scender nel regno oscuro.
Poi eh' ella fosse estinta , e lieto duce
Qua su tornarla in luce.
Se non che come sua cara e diletta
Per darle ampia corona il Ciel 1’ aspetta.
Ma pria che sovra alcun sentenza cada
Ch’ a tanta impresa dar debba di piglio ;
Apra la mente il ciglio ,
Ed al deliberar spazio consenta.
Perchè , s’ al ver si mira , ogni consiglio
Che prenda frettoloso incerta strada ,
Raro avvlen che non vada
In precipizio, e del suo error si penta.
Quanti ne sono al tuo pensier rammenta:
Quei però che t'apriro I petti suoi ,
E che '1 bei guardo di tua donna infiamma.
Chè chi non arde all’amorosa fiamma.
Scema grazia cantando a' pregj tuoi.
Colui s' elegga poi ,
Oli' in amar primo ha più per le sofferto.
Nè curar eh’ altri a morto
Di prove e di valor gli vada innanzi
Sol eh’ In ciò glorioso ogni altro avanzi.
Scalda ogni fredda lingua ardente voglia,
E di sterili fa l' alme feconde.
Nè mai deriva altronde
Soave fiume d’ eloquenza rara.
Quinci altri col suo dir ne' petti infonde
Allegrezza, timor, speranza e doglia:
E come al vento foglia ,
Le menti a suo voler volge e prepara.
Ma non si tegna in ria prigione amira
Qualunque avrai persi bel vanto eletto:
Nè mercè lagrimando indarno chieda :
Ch'ingegno In cui gran duol continuo lìedc;
Par che 'I canto e le rime aggla In dispet to:
E dal gravoso affetto
Che respirar noi lascia oppresso e stanco ,
Sul cominciar vien manco:
0 se descrive pur suo duro scempio,
E di tua crudeltatc indegno esempio.
Fa ch'anzi lieto ognorgridandoci chìa-
Te signor grato , c sè felice amante, 'mi
E che d'aver si vante
Quanto puote venir d'onesto dono.
Volgi pietoso in lui le luci sante.
Con cui da morte a vita altrui richiami.
Rendi a lui dolci gli ami ,
Ove i cor presi a tanto strazio sono.
Da quel saggio parlar cortese suono
Movi talor per consolar sua speme ,
E rinverdirla a più soave frutto:
Tal che sempre lontan da doglia c lutto
Con l’ardor senta il refrigerio insieme.
E ciò fecondo seme
In lui sarà del tuo sperato onore :
Chè dolcezza e stupore
Versando in cantar lei , sua gran bcltate
Porterà viva ancor per ogni etate.
Deh t’avess’io,Canzon,plù che altra ador.
Onde tua vista a pien cara c gradita |na :
Fosse ad Amor eh' in que’ begli occhi ha
Pur ti rassetta e ripoliscl ed orna , [vita.
Ed allo specchio torna ,
Fin eh' ogni macchia tua l’arte corregga.
Indi , perch' el ti vegga ,
Movi sicura ove '1 mio cor comprenda
Ch’a suo poeta me destini e prenda.
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SONETTI E CANZONI.
MJ
REDI.
La Scuola d' Amoro.
Lunga è l’arte d'Atnor, la vita 6 breve,
Perigliosa la prova , aspro II cimento,
Difficile il giudizio e a par del vento
Precipitosa l'occasione e lieve.
Siede in la scuola il fiero mastro, e greve
Flagello impugna al crudo uffizio Intento:
Non per via del piacer, ma del tormento ,
Ogni discepol suo vuol die s’ alleve.
Mesce i prcmj al castigo, e sempre amari
I premj sono , e tra le pene involti
E tra gli stenti, e sempre scarsi e rari.
E pur fiorita è l'empia scuola , e molti
(Ma vi son vecchi, e pur non v' è chi impari;
Ami imparano tutti a farsi stolti.
Per morte della sua donna.
Donne gentili devote d’ Amore,
Che per la via della pietà passate ,
Soffermatevi un poco, e poi guardate
Se v’ è dolor ch'agguagli il mio dolore.
Della mia donna riscdea nel core ,
Come in trono di gloria , alta onestate
Nelle membra leggiadre ogni beliate ,
E ne' begli occhi angelico splendore.
Santi costumi, e per virtù baldanza.
Baldanza umile , ed innocenza accorta ,
E fuor che In ben oprar, nulla fidanza.
Candida fé , che a ben amar conforta ,
Avea nel seno, e nella fè costanza:
Donne gentili, questa donna è morta.
MANFREDI.
Alla sua donna fatui monaca.
Donna , negli occhi vostri
Tanta e si chiara artica
Maravigliosa, altera luce onesta.
Che agevolmente uom ravvisar potea
Quanta parte di Cielo in voi si chiude;
E fece dir : Non mortai cosa è questa.
Ora si manifesta
Quell’ eccelsa vlrtude
Nel bel consiglio, che vi guida ai chiostri ;
Ma perché I sensi nostri
Son ciechi incontro al vero ,
Non lesse uman pensiero
Ciò che diceanque’ santi lumi accesi.
Ioli vidi, e gl'intesi,
Mercè di chi Innalzomml : e dirò cose
Note a me solo e al vulgo ignaro ascose.
Quando piacque a Natura
Di far sue prove estreme
Nell’ ordir di voslr’ alma II casto ammanto,
ma ed Amor si consigliato insieme ,
Siccome in opra di comune onore ,
Maravigliando pur di poter tanto.
Creacea II lavoro intanto
Di lor speme maggiore ,
E col lavoro al par crescea la cura ,
Fin che l'alta fattura
Piacque all’ anima altera ,
La qual pronta e leggiera
DI mano a Dio, lui ringraziando, uscia,
E raccogliea per via ,
Di questa spera discendendo in quella ,
Ciò ch’arde di più puro in ogni stella.
Tosto , che vide il mondo
L’ angelica sembianza ,
Ch'avoa l'anima bella entro il bel velo:
Ecco , gridò , la gloria e la speranza
Dell' età nostra : ecco la bella Imago
SI lungamente meditata In Ciclo :
E in dò dire ogni stelo
Si fea più verde e vago ,
E l' aer più sereno e più giocondo.
Felice il suol , cui '1 pondo
Premea del bel piè bianco,
0 del glovenil fianco,
0 pcreotea lo sfavillar degli occhi ,
Ch’ Ivi 1 fior visti , o tocchi ,
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M4 PETRARCHESCHI.
Intendean lor bellezza, e cheque’ rai
Mo'can più alto, che dal Sole assai.
Slavasi nostra mente
Paga intanto e serena ,
D’alto mirando in noi la sua virtude,
Vedca quanta dolcezza e quanta pena
Destasse in ogni petto a lei rivolto,
E lidia sospiri e tronche voci e mute ;
E per nostra salute
Crcscca grazie al bel volto
Ora inchina ndo II chiaro sguardo ardente,
Ora soavemente
Rivolgendolo fiso
Contra dell' altrui viso ,
Quasi coi dir: Mirate, alme, mirate
In me che sia beliate :
Che per guida di voi scelta son io ;
E a ben seguirmi eondurrowi in Dio.
Qual io mio [essi allora ,
Quando il leggiadro aspetto
Pien di sua luce agli ocelli miei s’olTrlo,
Amor, tu'! sai , che il debile intelletto
Al piacer confortando, in lei mi fesll
Veder ciò che vedrem tu solo ed io ,
E additasti al cor mio
In (piai modi celesti
Costei l'almo solleva e le innamora:
Ma più d* amore ancora
Ben voi stesse il sapete ,
Luci beate c liete ,
Ch'io vidi or sovra me volgendo altere
Guardar nostro potere.
Or di pietadc in dolce atto far mostra,
Senza discender delia gloria vostra.
Oli lenta c male avvezza
In alto a spiegar l’ale
Umana vista, oh seusi infermi e tardi!
Quanto sopra del vostro esser mortale
Alzar poicavi ben Inteso un solo
Di quo’ soavi, innamorati sguardi I
Ma il gran piacer codardi
Vi fece al nobil volo ,
Che avvicinar poteav! a tanta altezza :
Chi nò altrove bellezza
Maggior sperar poteste ,
Folli , e tra voi diceste.
Quella mirando allor presente e nuova t
Qui di posar ne giova
Senza seguir la scorta del bel raggio ,
Qual chi per buon sogglornoobbliail viag-
Vcdele or come accesa [glo.
D’alme faville e nuove
Costei corre a compir l’alto disegno:
Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove,
Qual si fa II paradiso , e qual ne resta
Il basso mondo, che di lei fu Indegno.
Vedi il bealo regno
Qual luogo alto le appresta ,
E in lei dal Cicl ogni pupilla Intesa
Confortarla all’impresa.
Odi gli spirti casti
Gridarle : Assai tardasti :
Ascendi , o fra di noi tanto aspettata,
Felice alma ben nata.
Si volge ella a dir pur di' altri la siegua ,
Poi si mesce fra i lampi c si dilegua.
Canzon, se d'ardir troppo alcun ti sgri-
Digli ette a te nou creda , [da.
Ma venga inlìncliè puote egli , e la veda.
Tardo sdegno, c pietà dopo morte.
Poiché di Morte in preda avrem lasciate
Madonna cd lo nostre raduche spoglie ,
E 11 vel deposto che veder cl toglie
L’ alme nell’ esser lor nude e svelate ;
Tutta scoprendo lo allor sua rrudeltale.
Ella tutto l’ardor che in me s’ accoglie.
Prender dovriancl alfin contrarle voglie ,
Me lardo sdegno , e lei tarda pleUte ;
Se non eh’ io forse nell' eterno pianto.
Pena il mio ardir, scender dovendo, edella
Tornar sul Ciclo agli altri angioli a canto :
Vista laggiù fra i rei questa ru bella
Alma, abborrir viepiù dovramml : lo tanto
Struggermi più, quanto allor Ila più bella.
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PINDARICI E ORAZIANI
CHIABRERA.
Per Giovanni ile’ Medici.
E» tolto di fasce Ercole appena.
Che pargoletto, ignudo,
Entro il paterno scudo
Il rlponea la genitrice Alcmcna;
E nella culla dura
Traea la notte oscura.
Quanti' ecco serpi a funestargli 11 seno
Insidiose e rie
Cura mortai non spie,
Se pur sorgesse il gemino veleno;
Ch£ ben si crede allora
Ch' alto valor s’ onora.
Or non si tosto i mostri ebbe d’ arante,
Che con la man di latte
Erto sui piò combatte,
Gii fatto atleta il celebrato infante,
Stretto per strani modi
Entro 1 viperei nodi.
Alila le belve sibilanti e crude
Disanimate stende,
E cosi vien che splende
Anco ne’ primi tempi alma virtude,
E da lunge promette
Le glorie sue perfette.
Ma troppo iia che sulla cetra io segua
Del grande Alcide il vanto :
A lui rivolsi il canto
Per la bella sembiatua onde l’adegua
Nel suo girar degli anni
11 Medici Giovanni.
E già tra I gioghi d* Appennln canuti,
Vago di Ber trastullo
Solea schernir fanciullo
Le curve piaghe de’ cignali irsuti;
E più gli orsi silvestri ,
Tcrror de’ boschi alpestri.
Indi sudando in più lodato errore
Vesti ferrato usbergo.
Allor percosse il tergo
L'asta tirrena al belgico furore ;
E di barbari gridi
Lungi sonaro I lidi.
Cosi Icon, se alla cruda nutrice
Non più suggendo il petto,
Ha di provar diletto
T ra gregge il dente c l’ unghia scannatrice.
Tosto di sangue ha piene
Le mauri tane arene.
Ma come avvicn,cbe se Orlon si gira,
Diluvtosa stella.
Benché mova procella.
Ella pur chiara di splendor s' ammira;
Tal ne' campi funesti
D'alta beltà splendesti.
Or segui invitto, e con la nobil spada
Risveglia il cantar mio :
Intanto ecco t’invio
Mista con biondo mel dolce rugiada :
Fanne conforto al core
Fra il sangue e fra il sudore.
Per Francesco Goniaga.
Chi super gioghi alpestri
Andrà spumante a traviar torrente,
AJèor di'ti nette in fuga aspro fremente
Gli abitstor silvestri,
E depredando intorno
Va con orrlbll cornei
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57t» PINDARICI
O chi nel gran furor*
Moverà contro fier Icon sanguigno?
Salvo chi di diaspro o di macigno
Recinto avesse il core;
E la fronte e le piante
Di selce c di diamante.
Muse, soverchio ardito
Son lo, se d' almi eroi sema voi parto :
Muse, chi l'onda sostener di Carlo
Poteva, o '1 Ber ruggito,
Quand’el l'Italia corse
Di sè medesma in forse?
Chi di tanta vittoria
Frenar potea cor giovinetto, altero? [ro?
Chi, se non del bel Mincio il granguerrie-
Specchio eterno di gloria,
Asta di Marte, scoglio
Al barbarico orgoglio.
Non udì dunque in vano
Dal genltor la pellegrina Manto,
Quand'el lingua disciolse a fedel canto
Sovra il regno lontano,
E di dolce ventura
F*' la sua via secura.
Figlia, dlss' egli, figlia.
Del cui bel Sol volgo i miei giorni alteri ;
Sol dell'anima mia, Sol de’ pensieri,
E ORAZIANI.
Se non Sol delle ciglia;
Dolce è udir nostra sorte,
Pria che ’1 Clel ne r apporto.
Lunge dalle mie braccia,
Lungc da Tebe te n' andrai moli anni ;
Ne tl sla duol, che per senticr d' affanni
Verace onor si traccia :
Per cui chi non sospira,
Indarno al Ciclo aspira.
Ma Nilo e Gange il seno
Chiude a' tuoi lunghi errori, alma diletta ;
Sol le vestigia de’ tuoi piedi aspetta
Italia, almo terreno.
Li 've serene fonde
Vago il Mincio diffonde.
Lì de' tuoi chiari pregi
Suono anderì sovra le stelle aurate ;
Lì di tuo nome appellerai citiate ;
Quale alma di regi.
Regi, eh' a' cenni loro
Volgerà secol d'oro.
E su fulminea spada
Mai vibreran nei cor superbi e rei;
Non fia chi '1 vanto degli eroi cadmel
A questi Innanxl vada ;
Benché Erimanto vide
Con si grand’arco Alcide.
Per vittoria delle galee toscane contro i Turchi.
Quando il pensiero umano
Misura sua possanza
Caduca e frale, cl sbigottisce c teme;
Ma se di Dio la mano,
Ch'ogni potere avanza,
Ei prende a riguardar, cresce la speme,
Ira di mar che freme
Per atroce tempesta,
Ferro orgoglioso che le squadre ancida,
Non turba, e non arresta
Vero ardimento che nel Clel confida.
Sento qua giù parlarsi ;
Un piccioletto regno
A vasto impero perchè dar battaglia?
Alpe non può crollarsi ;
E di ieon disdegno
Non è da risvegliar, perchè t'assaglla.
Meco non vo' che vaglia
Si sconsigliata voce,
Ed ella Gcdcon già non commosse.
Quando scese feroce
Nell'Ima valle, e Madian percosse.
Ei gran tempo raccolto
Di numerose schiere
Vegghlava a scampo del natio paese;
E da lunge non molto
Spiegavano bandiere
GII stuoli pronti alle nlmiche offese
Ed ecco a dir gli prese
Il re deli’ auree stelle :
Troppa gente è con te ; parte sen vada :
Crederebbe Israeli*
Vittoria aver per la sua propria spada.
Quivi II fedel campione
Di gente coraggiosa
Sol trecento guerrier seco ritenne :
Poscia per la stagione
Dell’ aria tenebrosa
Le squadre avverse ad assalir sen venne.
Poco II furor sostenne
La nimica falange;
Ei gli sparse e disperse in un momento.
Febo eh' esce dal Gange
Le nebbie intorno a sè strugge più lento.
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CANZONI.
Cosi gli empj sen vanno,
S« sorge il gran Tonante,
Della cui destra ogni vittoria è dono :
Il Trace è un gran tiranno :
Ma sue Ione cotante
Nè di diaspro, nè d' acciar non sono.
Forse Indarno ragiono?
Ah no, ch’oggi sospira
-Alger de' regul suol l’aspra ventura:
E Prevesa rimira
De’ bromi tonator nude sue mura.
Diffonde Elruria gridi.
Gridi che vanno al cielo,
Al del seren per nostre glorie e lieto.
Cosi ne’ cori infidi
Spandi temenaa e gelo,
Gran Ferdinando, per dlvin decreto.
Mal volontier m'accheto :
Nocchier che 1 remi piega
In bella calma, empie di gaudio il petto ;
E cantor che dispiega
Consigli di virtù, prende diletto.
Popolo sciocco e cieco.
Che militar trofei
Speri da turba in guerreggiar maestra;
Quali squadre ebbe seco
Sanson tra’ Filistei,
Quando innalzò la formidabil destra?
Ei da spelonca alpcstra
S'espose in larga pioggia
A spade ed aste del suo strazio vaghe,
Quasi fera selvaggia
Data in teatro a popolari piaghe.
Ma sparsi in pezzi I nodi.
Onde si trasse avvinto,
D’acerba guerra suscitò tempestai
Per si miseri modi
All'esercito vinto
La forza di sua man fe’ manifesta :
E sull' ora funesta
Per lui non s’armò gente,
Nè di faretra egli avventò quadretta;
Ma vibrò solamente
D' un estinto asine! frale mascella.
Alfìn, chi lo soccorse
Dentro Gaza, lì dove
Le gratissime porte egli divelse?
Dio fu, Dio che lo scelse,
E di fulgidi ral
Si chiaro il fece ed illustrano allora.
Nè perirò gii mai
Chi s' arma e del gran Dio le leggi adora.
Per Giovanni de’ Medici.
Se dell' indegno acquisto
Sorrise d’ Oriente il popol crudo ,
E ’l buon gregge di Cristo
Giacque di speme e di valore ignudo;
Ecco che pur, l' empia superbia doma ,
Rasscrenan la fronte Italia e Roma.
Se alzar gli empj giganti
Un tempo al Clel 1’ altere corna, alfine
Di folgori sonanti
Giacquer trofeo tra Incendi * tra ruine ;
E cadde fulminata empia Babelle ,
Alior che più vicln mirò le stelle.
Sembrava al vasto regno
Termine angusto ornai l’ Istro e l’ arene;
Novo Titano a sdegno
Già recarsi parea palme terrene.
Posto In obblio qual disdegnoso il Cielo
Serbi alt' alte vendette orribil telo.
Spiega di penna d'oro,
Melpomene cortese , ala veloce ,
E ’n suoli lieto e canoro
Per l' italiche ville alza la voce :
Risvegli ornai negli agghiacciati cori
Il nobll canto tuo guerrieri ardori.
Alza l’umido ciglio,
Alma Esperia, d’ eroi madre feconda.
Di Cosmo armato il figlio ,
Mira deU’lstro in su la gclid' onda,
Qual ne’ regni dell’ acque immenso scoglio
Farsi scudo al furor del tracio orgoglio.
Per rio successo avverso
In magnanimo cor virtù non iangue.
Ma qual di sangue asperso
Doppia teste e furor terribil angue ,
0 qual della gran Madre il figlio altero ,
Sorge cadendo ognor più invitto e fiero.
D’ immortai fiamma ardente
Fucina è là su' luminosi campi ,
Ch’alto sonar si sente
Con paventoso tuon fra nubi e lampi ,
Qualor di bassi regni aura v' ascende
DI mortai fasto, e l'ire e i fochi accende.
Sull' incudl immortali [ti ;
Tempran l'armi al gran Dio Steropi e Bron-
30
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5T 8 PINDARICI
Iti gli accesi strali
Prende e fulmina poi giganti e monti ;
lari nell' ire ancor, nò certo In vano ,
S' arma del mio Signor l' invitta mano.
Quinci per terra sparse
Vide Strigonia le superbe mura ;
Quinci et nell’ armi apparse
Qual funesto balen fra nube oscura ,
Ch* alluma il mondo , indi saetta e solve
Ogni pianta, ogni torre in fumo e ’n polve.
Ob qual ne’ cori infidi
E ORAZIANI.
Sorse terror, quel fortunato giorno !
I paventosi gridi
Bisanzio udi , non pur le valli intorno,
E fin nell' alta reggia al soo gran nome
Del gran tiranno inorridir le chiome.
Segui ; a mortai spavento
Lunge non fu gii mai roina e danno :
Io di nobil concento
Addolcir* de* bei sudor P affanno t
lo della palma tua con le sacr’ onde
Cultor canoro eternerà le fronde.
Per Latino Orsino.
Or che a Parnaso intorno
Cogliendo già del giovinetto aprile
Qual più gemma è lucente ,
E ne sperava adomo
Ad onta della morte il crln gentile
Dell’ italica gente -,
Gii non credeva, o Spinola, repente
Far di lagrime un fiume,
E pianger dell’ Italia un si bel lume.
Ma non si tosto accende
Febo nell’ alto I suol destrlcr focosi ,
Che Insuperati sorte
Piega grand’ arco c ’l tende,
E spinge incontra noi strali dogliosi,
E saette di morte :
Forte è fra I venti procellosi e forte
Scoglio fra 1’ onda insana ;
Ma non è forte la letizia umana.
0 chiaro, o nobil dace.
Ben dietro a Marte accelerasti il piede
Per sentlcr di sudore j
Ma qui tra l’ aurea luce
Non fu man pronta in dispensar mercede
Al degno tuo valore.
Ed or eh’ orrida morte in tetro orrore
Ha gli occhi tuoi sepolto ,
Nò pur piotate in sua memoria ascolto.
È forse fatta Ingrata
La bella Italia alla maggior fortezza
Dei cavalieri egregi 7
0 pur stima beata
Per st medesma la virtule , e sprezza
Ch’ altri P adorni e fregi ?
Giù lungo il Xanto infra i tindarei regi
Non fece Achilie altero
Sull’ ossa di Patroclo un tal pensiero.
Poscia clic i mesti uffici
A fine ei trasse, e coi supremi ardori
Forni gli atti funesti;
Disse : 0 principi amici ,
Son di vera virtù premio gli onori
Per P anime celesti.
Su dunque P armi, e sè medesmo appresti,
E con amiche prove
Gli onor ciascun del mio guerrier rinnove.
Quinci bellezze elette
Beine d’ Asia incatcuatc offerse
Ai gloslrator vìncenti ;
Offerse armi perfette.
Spoglie dì gemme e di grand' or cosperse :
Ed aratori armenti ,
Cosi dardi volanti , archi possenti,
E corridor veloci
Mossero in prova i cavalier feroci.
Ma or di qua! pictate,
0 son di qual amor tuoi metti in terra,
0 bon Latin , gradili 7
Qual ò che pompe annate
Ti sacri , o Roma , che il tuo cencr serra
Pur a pregiarlo inviti 7
£ forse assai , che dì Savona ai liti
In solitaria riva
Altri ne canti lagrimoso e scriva.
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CANZONI.
bit
U Horta di Fabbfiiio Colonna
Deb qual mi fla concesso
Stil di tanto dolore ,
Onde accompagni il core
Nell’ aita angoscia oppresso)
O Febo, o re dell’ immortai Permesso,
Se v’ ha Musa pietosa ,
QT ove Morte ne fora
Anima gloriosa
Usi di lagrimar l’aspra ventura:
Ella dal Ciel discenda
E meco a pianger prenda.
Lasci la bella luce
La beila diva , e mesta
Rechi cetra funesta ,
Poi che Morte n’adduce
A lamentar de'Colonnesl ii duce.
Nobile pianta altera
Svelta da' nembi e doma
Sui Sor di primavera ,
Forte sostegno e rocca aita di Roma ,
Folgoreggiata a terra
Con lagrimevol guerra.
0 nato In lieta sorte
Di genitor felici ,
Come tristi, infelici
Corscr tuoi giorni a morte)
Fervida destra, coraggioso e forte
Sangue di stirpe antica.
Sempre di schiere armate.
Sempre di pugne amica.
Gii non dovea sulla più verde etate
Dura Morte involarle
Senza prova di Marte.
Ahi che se a te più lente
Giungean l'oro del pianto,
Forse perde* suo vanto
Un di l’empio Oriente;
Ma dove II sno ferir vlen più dolente,
Morte coli più punge ,
E più gii strali ha pronti;
Cosi (Tltaila lunge,
O bell’alba d’Italia, ora tramonti,
E si vicn teco a meno
Tanto del sno sereno.
Cruda, barbara scola,
Ch’altrui blasma i sospiri,
0 s’ altri I suoi martiri
Col lagrimar consola ;
A me non scenda in cor si ria parola;
Chi dolce è far querele
Coli dove n’ offese
Dura Morte crudele.
Ed è di nobil core atto cortese
Dare amorosi accenti
Alle più chiare genti.
Certo s alma è fra noi
Del tuo morir men pia.
Certo , o Fabbrizlo , obblla
I suol si chiari eroi;
Ma vide in armi pria Ravenna, e poi
Vide Alcide in periglio.
Se della nostra gloria
Per forza c per consiglio,
Deggia Italia tener breve memoria ;
0 anime reine
Delle virtù Ialine.
Sun lungo d' Ambra l lidi
Di Prospero gli allori ,
Mille armali sudori ,
Mille onorali gridi :
E poco dianzi in Campidoglio io vidi
Novi titoli egregi,
E giù da' nobili archi
Scorno a’ barbari regi
Render faretre insanguiiute ed archi,
E mille spoglie appese
A piè gran Colonnese.
Caro, giocondo giorno ,
Quando all' amiche voci.
Quando al bronzi feroci
Tonava il Cielo intorno ,
E d’auree gemme e di ghirlande adono
Su candido destriero
Trionfator romano
Traca sua pompa altero
Alla reggia di Pietro in Vaticano:
Dolce pompa a mirarsi
E dolce ad ascoltarsi.
Allor tu, pargoletto,
Emulator paterno
D'alto valoreterno
Tutto infiammasti il petto;
Ma Morte tuo valor prese in dispetto.
Dunque alla patria riva
Gente barbara e strana
Non condurrai cattiva)
Oh conversa in dolor gioia romana.
Oh glorie , oh nostri vanti
Fatti querele e pianti 1
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5*0
PINDARICI E ORAZIANI.
Alla Granduchessa di Toscana,
Cetra de' canti amica,
Cetra de’ balli amante,
D’ altrui musica man dolce fatica ;
lo dalla spiaggia di Parnaso aprica
Moto sull'Arno errante;
E se le membra bo polverose , umile
Pur sulla fronte porlo
Edera e lauro attorto ,
Vago ristoro di sudor gentile ;
E te fra le mie dila ,
Cetra, dagli alti eroi sempre gradita.
Tu le campagne ondose ,
Ampio regno de’ venti ,
Tu meco sai varcar l' alpi nevose :
Tu, s’invermiglia aprii vergini rose
In sul mattln ridenti,
E tu, s’il Gel sotto l'acquario verna,
E col gel frena i rivi
Rapidi, fuggitivi.
Fissa al fianco mi sui compagna eterna;
Nè sorte rea trass'arco,
Clic mal da me t’allontanasse un varco.
Gii per la prima etate
Cantasti in forme nove
L'acerba d una Dea vaga beliate;
Indi tra T sangue delle schiere armate
Vittoriose prove
Quando temprava alle sUgion più liete
Dell’alta Roma I danni,
E 1 gotici tiranni
Diedcr le braccia e ’l collo ai gran Narscte,
E per l’Italia allegra
Tonò Vitcllio come Giove in Flcgra.
Or de' soavi amori
Lascia le corde In pace.
Fin che Amor desti in me novelli ardori,
E lascia il suon dell’ armi ai rei furori
D'altra stagion pugnace;
E perdi' lo sla d’un’ alta gloria degno ,
Le corde agl'inni tendi,
E tal concento rendi ,
Ch' alta orecchia reai noi prenda a sdegno;
Anzi benigna intenda
Quanto l' arco discenda e quanto ascenda.
Ma se nou non hai ,
Clic giugno aquila viva.
Quando del Sol poggia dorato I rai;
Val sopra loro un bel silenzio assai.
Quando viltà ne schiva
Là nel Permesso, che Toscana inonda,
Strozzi neture beve.
Puro cigno di neve ,
Ch’ove canta primier Febo seconda:
E 1 duo nobili augelli ,
Cara coppia di Gio, Pitti e Martelli.
Questi con varj accenti ,
Ch’Anfrlso udir solea,
Quando U reltor del Sol reggeva armenti,
Tengon dell’alta donna 1 sensi Intenti ,
Onde l'Arno si bea ;
Ed ella In terra dolcemente avvezza
All’armonia celeste ,
Come tuoni e tempeste
Udrebbe canto di minor dolcezza ;
Chè ’l guardo anco s'adira ,
Se dopo gemma un vetro vii rimira.
Cetra , chè stai pensosa ?
Tu del gran corso temi,
E stimi il tuo valor troppo vii cosa?
Rassembri legno, ove ingolfar non osa.
Ch’alto sospendi 1 remi:
Su su , vien meco , e mie vestigie segna ;
Chè smisurato ardire
Suolsi quaggiù gradire,
S' Amore e Fè tra sua famiglia il degna.
Io dell’umil tuo suono
Al regio piè dimanderò perdono.
Reina , al cui bel crine
Glunser Fati benigni
Compagni a gran valor gemme divine;
L' anime a te congiunte peregrine
Ben son canto da cigni :
Ma s’ impeto di fede altrui consiglia;
Alzar la voce frate ,
Benigna alma reale ,
Come colpa d'amore in grado U piglia;
Nè patisca rifiuto
D' una povera man picciol tributo.
Per foce erma e negletta
Volvesi rivo ancora,
E pur ricco del Gange il mar l'accetta;
E dove a Febo innanzi Alba s'aflrclta ,
Stridulo auge! s'onora:
Questa di cetra umil, roca armonia
Anco destar diletto
Potrà nel nobil petto.
Se con sorte s’ accorda : intanto sia ,
Se ’i ripregar nd lice,
Tcco quanto fcdcl, tanto felice.
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CANZONI.
581
Per Villoria delle galee i
Voi (tal tirreno mar lungo spingete
I predatori infidi ;
E ne’ golfi sicuri
Dell' imperio ottoman voi gli spegnete.
L’ Egeo sei sa , che d'Aiessandria scerse
Dianzi ululare i lidi ,
Quando in ceppi si duri
Poneste il piè delle gran turbe avverse,
E sotto giogo acerbo.
II duce lor superbo,
Oh lui ben lasso ! oli lui dolente a morte !
Che in rcglon remote
Non più vedrassi intorno
l.'alnia beiti della gentil consorte.
Ella, in pensar, piena di ghiaccio il core,
Umida ambo le gote ,
Alto piangeva un giorno
Il tardo ritornar del suo signore :
E così la nudrice
Parlava all'inreiice :
Perchè t'afliiggi in van ? l'angoscia affre-
A clic tanti martiri ? [na :
Deh fa eh’ io tra' bei ral
La cara fronte tua miri serena.
Distrugge i rei Cristian, perù non riede
Per altre Vittorie de’
Cosmo, si lungo stuol, lieto in sem-
bianza,
Che a' tuoi piedi s'atterra , oggi dal seno ,
Perchè franco Io fai , letizia spande.
Ei dee ben conservar la rimembranza
Di questo giorno : e tu di lui non meno :
Chè quante volte in terra anima grande
Feliciti comparte
D’assomigliarsi a Dio ritrova l'arte.
Sforza dunque, omio Re, l'alto pensiero,
Onde gli scettri tuoi splendono chiari.
So che di torri e che di mura eccelse
È forte quel che tu governi impero ,
0 guardi l’Alpi , o pur difenda i mari :
So che i suoi nidi In lui Cerere scelse j
E che le genti industri
Son di Minerva nelle scuole Illustri.
icane sopra le lurcliesche.
il signor clic desiri.
Ma comparte oggimai
Tra’suoi forti guerrier le fatte prede;
E serba a tue bellezze
Le più scelte ricchezze.
Cosi dicea : nè divinava come
Egli era infra catene
Li 've con spessi accenti
Mandasi al ciel di Ferdinando il nome.
0 verdi poggi di Firenze egregia,
0 belle aure tirrene.
Ed o rivi lucenti ;
Si caro nome a gran ragion si pregia :
0 lieti, a gran ragione.
Gli tessete corone.
Che più bramar dalla borni superna
Tra sue grazie divine,
Salvo che giù nel mondo
Sia giustizia e piotate in chi governa?
lo non apprezzo soggiogato impero,
Benché d'ampio confine.
Se chi ne regge il pondo
È di tcsor, non di virlude , altero :
Ambizione è rea;
Vero valor ci bea.
i scaoi contro i Turchi.
Ma contrastati , se ne van repente
Tai pregj al vento. Ecco la terra argiva
Langue tra' ceppi e di catene è carca.
E dell’aspro Quirln l'inclita gente.
Quando di palme eterne alma fioriva.
Calpestando superba ogni monarca ;
Trionfò tanto e vinse
Perchè la spada infathcabil cinse.
Dannata vista, e di mirarsi indegna,
Gioventù che di gemme orni le dita.
Che increspi il crine , e che di nardo oduru
Eli' bassi da mirar sotto l’ insegna ,
Che scotendo cimier, minacci ardita,
Che dallo sguardo fier versi furori ,
E che d'onor ben vaga.
Esponga il petto a mcuiorabil piaga.
PINDARICI E ORAZIANI.
Per 1’ Edificazione di Livorno *.
Inclita Ninfa dell’argivo bromo,
E reina d'Asopo ,
Tebe , d’ orgoglio non gonfiare il «eno.
Noi ti gonfiare; io ben esperto c chiaro
So quali eccelsi prcg]
A meraviglia II tuo bei nome ornare :
50 cbe d’eterei carmi
Già rispondesti e di dedalei marmi.
Anastrofe.
Io so, che agli anni .che di Lete all’on-
S’ invola il grande Alcide, [da,
E sen vola per l'alto Epaminonda;
Ma non per tanto fra lusinghe Indarno
Ergi la fronte , ed osi
Or far contrasto alla cittì dell* Arno ;
Ed indarno diffuse
Han sue menzogne a tuo favor le Muse.
Epodo.
Estro ingegnoso, che d’aonìl fiori
Acqua distilla, ad ingannar possenti ,
Onde appo I cor delle leggiadre genti
Vaga bugia qual verità s* onori.
Strofe.
Per l'universo infaticati gira
Fama volando e canta
L’opra immortai dell’ anfionla lira.
Quando per l'alto suon mossero 1 passi
Dall’ erte cime , c pronti
Per lungo calle s'alTrettaro i sassi;
Ed indi preser cura
Di crescer gloria all' echionie mura.
Anastrofe.
Io non son schifo, e non m’ assai disde-
Se il popol di Parnaso [goo,
Talor di verità trapassa 11 segno.
Adornar la virtù non è mentire ;
E sollevare al cielo
Sommo valor non è Plasmato ardire;
Io talor sui Permesso
Di cosi far ben consigliai me stesso.
Epodo.
Ora non già, che perlai modo altero
Risplcndc il merlo del signorche io canto ,
CbC fora vii favoleggiato il vanto;
51 fatto appar per sè niedesmo il vero.
Strofe.
Voi che dì stelle , e non di gemme e
0 Cosmo , o Ferdinando, [d’ ostri.
Avete seggio in su gli eterei chiostri ,
Chinate il ciglio a riguardar Uvoreo;
E vedete siccome
Rapido move , e come a lui d' Intorno
In sn fervide rote
Corre il campo di gloria 11 gran nipote.
Anastrofe.
Ei di pregio volgar non si consiglia.
Pianta nuova citiate,
Cbe degli altrui pensier fia meraviglia.
E chi vedendo per sentier quieti ,
Infra terrestri alberghi
Ognora passeggiar l'instabll Tetl,
Avrà scarsa la mano ,
In dar belle ghirlande al mar toscano.
Epodo.
Onde il Sol cade, ed onde sorge, ed onde
Soffia Austro ed Aqullon , nocchier ver-
E colini il petto di stupor vedranno [ranno.
Rizzarsi ampia citladclngrcmboaH'onde.
Strofe.
Non sia chi faccia a sè medesmo froda t
Là dove ozio verdeggia ,
Indi non suole uscir frutto di loda ;
Dell’ Iniquo adoprar mercede è l’ onta.
E quando il vizio sorge.
Ogni chiarezza deli* onor tramonta.
Nulla alfin fra’ diletti
Anima grande , salvo biasmo , aspetti.
Anastrofe.
Se de' greci guerrier l' ampio drappello
Facea soggiorno in Lenno,
L’or non godca del celebrato vello ;
Nè la stella, che in ciclo anco riluce,
Rinnoverebbe 11 vanto
Pur oggidì della spartana luce,
Se a lui sembrava reo
Il cotanto sudar nel campo eleo.
Epodo.
Credesi il vulgo d’ Ignoranza carco
Salire al Cicl per diletlose strade,
Nè folle sa che in precipizio cade.
Se da Virtù non se gli mostra il varco.
■ Questa e la seguente canzone sono per saggio dei metri nuovi che il Cbisbrera ha introdotti
fra noi, imitando Greci e Latini.
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CANZONI.
SM
Per 1* lutili iope di Citano TUI.
Scuoto la cetra, pregio d'Apolline,
Che alto rtsuona ; to’ che rimbombino
Permesso , Ippocreoe , Elicona ,
Seggi asciti delle Ninfe asc ree.
Ecco l’Aurora, madre di Mennooe,
Sferza le ruote fuor dell' Oceano ,
E seco ritornano I’ Ore,
Care tanto di Quirino ai colli.
Sesto d’ agosto , dolci luciferi ,
Sesto d’ agosto , dolcissimi Esperi ,
Sorgete dal chiuso orizzonte
Tutti sparsi di fallile d* oro.
Apransi rose , rotino irffiri ,
L’ acque scherzando cantino Tetide ,
Ma nembi , d’ Arturo ministri ,
Quinci lunge dian timore ai Traci.
Questo , che amato giorno rirolgesì ,
Fece monarca sacro dell’ anime
Urbano , di Fiora superba
Astro sempre senza nubi chiaro.
Atti festosi , note di gloria ,
Dio celebrando , spandano gli uomini ,
Ed egli col ciglio adorato
Guardi il Tcbro, guardi l'alma Soma.
TESTI.
Centra ua Patente superbo.
Ruscelletto orgoglioso,
Ch’ ignobll Oglio dì non chiara fonte,
li naia! tenebroso
Aresti In fra P orror d' ispido monte ,
E gii con lenti passi
Posero d' acqua isti lambendo 1 sassi ;
Non strepitar cotanto ,
Non gir si torvo a flagellar la sponda;
Chi , benché maggio alquanto
Di liquefatto gel t' accresca P onda.
Sopravverrà ben tosto
Essicator di tue gonfiezze agosto.
Placido In seno a Teli
Gran re de’ fiumi il Po discioglie il corso :
Ma di velati abeti
Macchine eccelse ognor sostici! sul dorso ;
Nò per arsura estiva
In più breve confili stringe sua riva.
Tu le gregge e i pastori
Minacciando per via spumi c ribolli ,
E di non propri umori
Possessor momentaneo il corno estolli
Torbido, obblìquo; c questo
Dei tuo sol hai , tutto alieno è il resto.
Ma fermezza non tiene
Riso di cieio , e sue vicende ha 1’ anno,
la nude, aride arene
A terminar i tuoi diluvj andranno :
E con asciutto piede
Un giorno ancor di calpestarti ho fede.
So che P acque son sorde,
Raimondo , c eh’ ò follia garrir col rio ;
Ma sovra aonic corde
Di si cantar talor diletto ba Clio ,
E in mistiche parole
Alti sensi al vii vulgo asconder suole.
Sotto tic! non lontano
Pur dianzi intumidir torrente io vidi,
Che di iropp’ acque insano
Rapita 1 boschi e divorava i lidi ,
E gir credea del pari
Per non durabil piena ai più gran mari.
Io dal fragore orrendo
Lungi m'assisi a romit' alpe in cima,
In mio cor rivolgendo
Qual era il fiume allora e qual fu prima.
Qual facea nel passaggio.
Con non lcgitiim' onda ai campi oltraggio.
Ed ecco, U crin vagante
Coronato di lauro, c più di lume.
Apparirmi davante
Di Cirra U biondo re, Febo il mio Nume,
E dir : Mortale orgoglio
Lubrico ha il regno c ruiuoso 11 soglio.
Mutar vicende c voglie
D' Instabile Fortuna è slabil arte :
Presto dì , presto toglie ,
Viene ct’ahhraccia, indi t’abbarreeparle;
Ma quanto sa si cange.
Saggio cor poco ride e poco piange.
c,
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M4 PINDARICI
Prode è il noccliicr cbc il legno
Salva tra fiera, aquilonar tempesta ;
Ma d’ egual lode e degno
Quel cb' a placido mar fede non presta,
E dell’ aura infedele
Scema la turgidezza in scarse vele.
Sovra ogni prisco eroe
lo del grande Agalocle il nome onoro,
Che delle vene eoe
Ben sulle mense el folgorar fe’ 1' oro ;
Ma per temprarne 11 lampo ,
Alla creta patema anco diè campo.
Parto vii della terra ,
La bassezza occultar de' suoi natali
Non pud Tìfco : pur guerra
ORAZIANI.
Move all’ alte del Clel soglie immortali.
Che Ila ? soli’ Etna colto
Prima che morto, ivi riman sepolto.
Egual finger si lenta
Saimonco a Giove allor che tuona ed arde ;
Fabbrica nubi , Inventa
Simulati fragor, fiamme bugiarde.
Fulminator mendace
Fulminato da senno a terra giace.
Mentre I’ orecchie io porgo
Ebbro di maraviglia al Dio facondo ,
Giro lo sguardo e scorgo
Del rio superbo inaridito il fondo,
E conculcar per rabbia
Ogni armento più vii la secca sabbia.
E
Prega che Cinzia non neghi pih a lungo d' aprirgli le porte.
Cinzia, la doglia mia cresce con l'ombra,
E alle tue mura Intorno
Vo pur girando il piè notlumo amante :
Tuffato II carro ha gii nel mar d' Atlante
Il condollior del giorno,
E caligine densa il Cielo adombra ;
Alto silenzio ingombra
La terra tutta, e nell' orror profondo
Stanco dall' opre ornai riposa il mondo.
Io sol non poso, e la mia dura sorte
Su queste soglie amale
Nell'altrui pace a lagrlmar mi mena.
Tu pur odi II mio duol, sai la mia pena ;
Apri, deh per pietate
Apri, Cinzia cortese, apri le porte.
Sonno tenace e forte
Della vecchia custode occupa I sensi ;
Apri, Cinzia, apri , bella ; oimè, che pensi?
Vuol tu dunque, crude), ch'io qui mi
Mentre più Incrudelisce [mora,
La golid’aria del notturno cielo?
D’ ispide brine irta è la chioma ; il gelo
Le membra istupidisce; [cora?
Qual foglia io tremo, e tu non m'apri an-
Durissima dimora;
Ma tu dormi fora’ anco, e ’l mio tormento
Non ode altri ebe l’ombra,a!trl cbe’l vento.
0 Sonno, o de’ mortali amico Nume,
Sopitor de’ pensieri,
Sollevator d' ogni affannato core,
Deh s’egli è ver ch'ardessi unqua d'amore,
Da que' begli occhi alteri
Che stan chiusi al mio mal, spiega le piume;
Tornerai pria ch'allume
L* bell' Aurora 11 clel ; vanne soltanto
Che Cinzia oda il mioduol senta il mio pian-
Vanne, Sonno gentil, vattene ornai ; [to.
Cosi luce nemica,
0 strepito importun mal non ti svegli.
Cosi d'onda Ictea sparsa 1 capegli
La tua leggiadra amica
Ti dorma in seno, e non sen parta mai.
Sonno, ancor non tcn vai ?
Dimmi, Nume Insensato, amico Dio,
Dimmi, Sonno crudel, che t’ho fati' io?
Tu dell'Èrebo figlio e dell'oscura
Morte fratcl, non puoi
Maniere usar, se non atroci ed empie.
Possansi inaridire in sulle tempie
1 papaveri tuoi,
E siati Pasltea sempre più dura,
E per maggior sciagura
Vigilia eterna ognor t’ opprima e stanchi
Si, ch'agli occhi de) Sonno il sonno manchi.
Porte, ma voi, voi non v’ aprite ; ab per»
Chi dall' alpine balze
T rasse per voi formar, la querciae T cereo ;
Cingasi pur d’ inespugnabll ferro,
E vallo e mura Innalze
Citta, ch’oppressa è da nimica schiera;
Ma se tromba guerriera
Qua non giunge col suono, or quai sospetti
Munir ci fan con tanta cura i tetti?
Oh mille volte e mille età beata,
Quando all' ombra de' faggi
Dormian senza timor le prische genti !
Ricco allora 11 pastor di pochi armenti,
Non paventava oltraggi
Di ladro occulto, o di falange armata;
Avarizia mal nata
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CANZONI. 58S
Fu che pose ai tesor guardie e custodi,
E mostrò i furti ed insegnò le frodi, [vano
Porte, sorde agli amanti, adunque In
Di giacinti odorosi
Ho tante volte a voi ghirlande inteste?
0 venti, o pioggie, o fulmini, o tempeste,
Stendete impetuosi,
Stendete voi le dure porte al piano;
E tu, lenta mia mano.
Invendicata ancor l' ore ten passi ?
Se ti mancan le Gamme, eccoti i sassi.
Lasso, mache vaneggio? In ciel già rare
Scintillano le stelle ;
Gii s’ intreccia di Gor l’ Alba le chiome.
Santi Numi del Ciel, s' In vostro nome
D'odorate Gammelle
Arder fec' io più d’ un divolo altare,
Delle mie pene amare
Pietà vi punga, e se giustizia ha il polo,
Levatemi di senso, ovver di duolo, [glia.
Voi che mutate all'uom sembiante espo*
Ch’altri volar per l'etra,
Altri fate vagar disciolto In onda,
V oi che Narciso in Gor, che Dafne in fronda
Cangiaste, in dura pietra
He trasformate ancor su questa soglia.
Cesserà la mia doglia,
E godrò ch'ai mattino, ove si desti,
Cinzia col piè mi prema e mi calpesti.
Sulla caducità delle umane grandezze e sulla pace della vita privala.
Scioglie dal lito ispan ligure abete,
Che d' immensi tesori.
Prede al mar destinate, il ventre hacarco:
Come scitico strai spinto dall'arco,
Vola fra I salsi umori,
Gravido I tesi lin d’aure quiete.
Ecco improvviso il Clcl balena e tuona ;
Dall’antro Eolo sprigiona
La turba impetuosa; orrida cresce
L’ onda, cui più d' un vento agita e mesce.
Sospiroso II noccbicr cala le vele,
E con provvida destra
Fra le cieche procelle il llmon gira :
Ora l'indica pietra, ora il ciel mira.
Ma null’arte maestra
Giova contra il furor d' Austro crudele :
Egli delle tenaci ancore adonche
Già le ritorte ha tronche :
Onde al noccbicr, nell'ultimo periglio,
somministra il timor sano consiglio.
Nelle miserie ste prodigo ei fatto,
Sazia del mar le voglie;
Getta le merci entro le vie profonde.
Sparse veggonsf allor notar per P onde,
Le preziose spoglie.
Che Gn dall’ India avida gente ha tratto ;
Degli ori intesti e de’ filati argenti
Fansi ludibrio i venti :
Ma il legno, che parea pur dianzi assorto,
Scarco di lor, se ne ricovra in porto.
Frale, so ben clic 'I procelloso regno
Ov’ba Nettuno impero,
Soicarnon vuoi con temeraria prora : [ra ;
ala il mar del mondo ha i suoi perigli anco-
E non senza mistero
Del provvido nocchlcr l’arte t’insegno.
Quel lusinghicr desio, che si l’ alletta,
Sgombra dall'alma e getta
Quelle speranze ingannatrici : e l’alma
Nelle tempeste sue troverà calma, [nome
Non hanno (ed a me 'I credi; altro che 'I
Di vago e specioso [pclla.
Queste che '1 mondo insan grandezze ap-
Faccia amico desilo, propizia stella
Che d'ostro luminoso
Ti cinga un giorno il Vatican le chiome:
Nel grado eccelso, infra gli onori immensi.
Guerra Taranti i sensi
Nè più lieto sarai di me, che privo
D’ogni splendor, fra queste selve or vivo.
Tur che grandini acerbi, o nebbie oscu-
Dcgli angusti mici campi [re.
Scender non miri a dissipar le spiche;
Pur che d' autunno, in queste piagge apri-
Vegga imbrunir ai lampi [che,
Di temperato Sol l’uve mature;
Più quelo i’ dormirò fra le nud’erbe,
Ch'altri sotto superbe
Cortine d'oro, ov' albergar non ponno
Lunga stagion la sicurezza e 'I sonno.
0 più dell' alma mia caro a me stesse,
Tu rompi le mie paci.
Tu col tuo duol turbi i miei di sereni.
Deb, lascia i sette colli, e qua ne vieni,
Qua, dove alle mordaci
Cure non è di penetrar concesso.
Chè se '1 Ciel ti destina alte venture,
In queste selve oscure
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5SC PINDARICI
Ben trovarli saprà. Più d'Argo ei vede,
E spcaso Innalza più chi men sei crede.
Voto il cor di speranza e di desto,
Fra solinghe campagne
Il pastorello ebreo l' ore spendea :
E allor eh* in Oliente il di nascea.
Uscirà a pascer 1' agire
Sulla costa del monte, o lungo il Ho;
Kd ei d’ arpa gentile al suono intanto
Dolce snodata il canto,
E consacrava in mezzo agii antri ombrosi,
ORAZIANI.
Al Motor delle sfere inni festosi.
Ecco re di Slonne, U del l' elegge
In mezzo alle foreste ;
E di sacro liquor 1’ unge il profeta.
0 prudenza ineffabile e segreta
Della Mente celeste!
Alle bell’ opre tue cbl può dar legge?
Cangiar la verga in scettro io un momento,
E di rettor d' armento
Farsi rettor d’ eserciti e d’imperi?
Cosi va : molto avrai se nulla speri.
E
Contro gli eccessi del lusso.
Poco spazio di terra
Lasciai! ornai ('ambiziose moli
Alle rustiche marre , ai curvi aratri :
Quasi che muover guerra
Del del si voglia agli stellati poli.
S’ergono mausolei, s’alzan teatri;
E si iocan sotterra
Fin sulle soglie delle morte genti
Delle macchine eccelse i fondamenti.
Per far di travi ignote
Odorali sostegni ai tetti d'oro;
Si consuman d’ Arabia i boschi interi.
Di marmi ornai son vote
Le ligustiche vene : c I sassi loro
Men belli son, perchè non son stranieri :
Fama Itati le più rimote
Rupi colà dell’ Africa diserta ;
Perchè lode maggiore 11 prezzo mcrta.
Cedon gli olmi e le viti
AU'edrc e ai lauri ; c fan selvagge fiondi
Alle pallide ulive indegni oltraggi :
Sol cari e sol graditi
Son gli ombrosi cipressi e gl’infecondi
Platani c i mai non maritati faggi :
Dagli arenosi liti
Trapiantaci i ginepri ispidi il crine;
Chè le delizie ancor stan nelle spine.
li campo ove matura
Biondeggiava la messe , or tutto è pieno
Di rose c gigli , di viole e mirti :
I.a feconda pianura
Si fa novo diserto ; e il prato ameno
Boschi a forza produce orridi ed irti ;
Cangia il loco natura ;
E del moderno elei tal è l'influsso,
Che la sterilita diventa lusso.
Non son , non son già queste
Di Romolo le leggi ; e non fur tali
0 de’ Fabrìzi o de' Calon gli esempli.
Ben voi fregiati aveste,
0 dell’ aitila citta Numi immortali,
Quai si dovea, d’ oro e di gemme i templi ;
Ma di vii canna inteste
Le case furo , onde con chiome incolte
1 consoli di Roma uscir più volte.
0 quanto più contento
Vive io Scita, a cui natio costume
Insegna d'abitar citta vaganti!
Van , col fecondo armento ,
Ove più frescaè l’ erbae chiaro il fiume ,
DI liete piagge i cittadini erranti ;
Dan cento tende a cento
Popoli albergo : ed è delizia immensa
Succhiar rustico latte a parca mensa.
Noi , di barbara gente
Più barbari e più folli, a giusto sdegno
La Natura moviamo, il mondo e Dio ;
E nell’ozio presente
Istupidito è si l'incauto ingegno
Che tutto ha l' avvenir posto in abbilo ;
Quasi che riverente
Luuge dai tetti d’or Morte passeggi ,
E 11 Cicl con noi d' eternità patteggi.
AU* IlaliR.
Ronchi , tu forse a piè dell’ Aventino
0 del Celio or L'aggiri. Ivi tra l'erbc
Cercando i grandi avanzi e le superbe
Reliquie vai dello splendor latino.
E fra sdegno e pietà, mentre che airi
Ove un tempo s’ alzar templi e teatri.
Or armenti muggir, strider aratri ;
Dal profondo del cor teco sospiri.
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CANZONI.
Ma dell’ antica Roma incenerite
Ch'or sian le moli, all'età ria s'ascriva :
Nostra colpa ben è eh' oggi non viva
Chi dell’antica Roma i tìgli imitc.
Ben moli’ archi e colonne in più d’ un se-
Serbandel valor prisco al ta memoria; [gno
Ma non si vede già , per propria gloria
Chi d’arci)! c di colonne ora sia degno.
Italia, i tuoi si generosi spirti [spenti.
Con dolce inganno ozio c lascivia han
E non t’avvedi, misera, e non senti
Cbe i lauri tuoi degeneravo in mirti?
Perdona ai delti mici. CUI tur tuoi studi
Durar le membra alla palestra, al salto;
Frenar corsieri ; in bellicoso assalto
Incurvar archi , impugnar lance e scudi.
Or, consigliala dal cristallo amico,
Nutri la chioma, e tu l’increspi ad arte;
E nelle vesti, di grand’or cosparte,
Parti degli avi il patrimonio antico.
A profumarli il crine Assiria manda
Della spiaggia salica gii odor più lini;
E ricche tele , preziosi lini ,
Per fregiartene il colio, ìnlessc Olanda.
Spumati nelle tue mense, in tazze aurate,
Di Scio pietrosa i pellegrini umori;
E del Falerno, in sugli estivi ardori ,
Doman l’annoso orgoglio onde gelate.
Alle superbe lue prodighe cene
Manda» pregiaU augei Numidia e Fasi ;
E fra liquidi odori, in aurei tasi,
Fuman le pesche di lontane arene.
Tal non fosti già tu, quando vedesti
I consoli aratori iu Campidoglio,
E tra ruvidi fasci , in umil soglio
Seder mirasti i dittatori agresti.
Ma le rustiche man clic dietro ai plau*
Stimolatali pur dialisi i lenti buoi , [stro
Fondarti il regno, e gii stendardi tuoi
1 mutando portar dal Borea ali' Austro.
Or di tante grandezze appena resta
Viva la rimembranza : e mentre insulta
Al valor morto, alla virtù scpulta.
Te barbaro rigor preme c calpesta.
Ronchi , se dal letargo in cui si giace
Non si scuote l' Italia, aspetti un giorno
(Cosi menta mìa lingua] al Tebro intonai
Accampato veder il Perso o’i Trace.
l'baldo paria a Rinaldo fuggito dal palazzo d' Armida.
Già della maga amante
L’ incantala magion lasciata arca
A più degni peosier Riualdo inteso ;
E su pino volante
Dell'indico Ocean l'onda correa,
A tuli’ altri nocchier camini» conteso.
Ma dell' incendio acceso
Restava ancor nell'agitata mente
Del cavaiier qualche reliqua ardente.
Ei nell'amata riva,
Cbe di lonlau fuggia , non se tu' afTanuo ,
Tatti lo sguardo immobilmente liso.
Di colei che mal viva
Abbandonò pur dianzi , Amor tiranno
Li figurava ognor presente il viso :
Onde a lai , che conquiso
Per desio , per pietà si venia meno ,
Più d’ un caldo sospiro uscia dal seno.
Ma eoo ricordi egregi
Ben tosto incominciò dei cor turbato
L'amico Ubaldo a tranquillargli i sensi :
0 progenie di regi ;
T errar dei Trace; a cui riserba il Fato
Tulli d’ Asia i trofei ; che fai ? che pensi ?
Frena quei mai acceusi
Sospir che versi ; e pria eh’ acquisii forca,
La fiamma rinascente affatto ammorza.
Se credi al vulgo insano ,
Amor è gentil fallo iu cor guerriero,
E gran scusa a peccar è grau bellezza ;
Ma consiglio più sano
Somministra Virtule. Ella il pensiero
Con rigor saggio a più degn'opre avvezza.
Non è minor fortezza
Il rintuzzar di duo begli occhi il lampo,
Ch’il debellar dJ mille squadre uu campo.
Che vai condursi avanti
Ai carro trionfante , in lunga schiera,
Incatenate le proviocie c i regni;
Mentre che ribellanti
S'usurpino del cor la reggia interà.
Mal grado di Ragione , affetti indegni ?
S’in te stesso non regni,
Se soggetta non rendi a le tua voglia ,
Guerrier nonsci.senondi uomeespogha.
Sovra il lucido argento
Delle porte superbe impresse Armida
Di famoso cauiplon l'arme e gli amori.
Con cento legni e cento
Fende il icucadio seno; e non ddMi
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588 PINDARICI
PUnlar in riva al Tcbro egìzi allori :
Ha fra I bellici orrori ,
In poppa che di gemme d‘or riluce,
L’adorata belli seco conduce.
Con l' armata latina
Cozzan del Nilo i coraggiosi abeti :
Pari è II valor, e la vittoria è incerta.
Ma la bella reina,
Ch'atro mira di sangue il seno a Teli ,
Volge i lini tremanti a fuga aperta :
E dietro all' inesperta
E timida compagna Antonio vola;
E l’imperlo del mondo Amor gl' invola.
Or qual darti poss' lo
Di traviato cor più vivo esempio ,
Di quel ch’a te l’idoi tuo stesso espresse?
U Nobiltà
Superba nave a fabbricar Intento,
Dal Libano odorato ì cedri tolga
Industre fabbro ; e sciolga
Lucida vela di tessuto argento ;
Seriche slan le funi , e con ritorto
Dente l'ancora d'ors' sfrondi in porto:
Non per Unto avverrà che meno ondose
Trovi le vie de’ tempestosi regni ;
E a’ preziosi legni
Le procelle del mar sian più pietose ;
Nè che forza maggior i’argentee vele
Abblan contro il furor d’ Austro crudele.
Che giova all’uom vantar per anni eliistrl
Degli avi generosi il sangue c'i merto,
E In lung’ ordine e certo
Mostrar srulli o dipinti i volti illustri ;
Se ’l nobile e ’l plebeo con cgual sorte
Approda a' liti dell’ oscura Morte ?
Là dove i neri campi di sotterra
Stige con zolfo liquefatto inonda,
E con la frtid’onda.
Dell’ inferita città l’ adito serra ;
Sussi nocchicr che con sdruciu barca
La morta gente all' altra sponda varca.
Ivi il guerrier del rilucente acciaro
Si spoglia; ivi il tiranno umll depone
GII scettri c le corone ;
E l' amato tesor lascia l'avaro:
Cltè ’l passegger della fatai palude
Nega partir se non con l' ombre Ignudo.
0 tu, qualunque sei, che gonfio or vai.
Più degli altrui che de' tuoi fregj adorno ;
Dopo l’estremo giorno,
Più cortese nocchier già non avrai ;
ORAZIANI.
Te cerca il popol pio ,
Te chiama a liberar dal tiran empio
La sacra tomba e ie provinole oppresse :
E , quasi in obblio messe
La fè , la gloria , in vii magion sepolto
Tu resterai, idolatrando un volto?
Aspra , Rinaldo , alpestre
È la via di Virtù; da’ regni suoi
Vezzi, scherzi e lascivie han bando eterno.
Accoppia a forte destre
Anima continente ; e I prischi eroi
Scemi di gloria in tuo pareggio i' scemo.
Quell' è valor superno
Ch’ in privata tenzon col proprio afTetlo
Sa combattendo eserciure un petto.
è la Viriti.
Ma nudo spirto , ombra mendica e mesta ,
Varcar ti converrà l’onda funesu.
Orgoglioso pavone, a che ti vante
Del ricco onor delie gemmate piume?
Gira più basso 11 lume
De' tuoi fastosi rai: mira le piante.
Coprirai! breve sasso , angusu fossa ,
Le tue superbe si ma fracid'ossa.
Da preziosa fonte 11 Tago uscendo.
Semina i campi di dorata arena ;
Ma, qual ruscelch’a pena
Vada con poche stille il suol lambendo,
Sen corre al mar ; nè più fra ì salsi umori
Raffigurar si pon gii ampi tesori.
Del tiranni alle reggie , ed ai tuguri
De’ rozzi agricoltor, con giusta mano
Picchia la Morte. Insano
È chi spera sottrarsi al colpi duri.
Grand’ urna i nomi nostri agita e gira,
E cieca è quella man che fuor li tira.
Sola Virtù, delTeropo invtdo a scherno,
Toglie l'uom dal sepolcro, c ’l serba In vita.
Con memoria gradita
Vive del grande Alcide II nome eterno ,
Non già perchè llgliuol fosse di Giove ,
Ma per mille ch’ei fece illustri prove.
F.Ì, giovinetto ancor, in doppio calle
Sotto il piè si rnirù partir la via.
A sinistra s’ apria
Agevol il sentier giù per la valle :
Fiorite eran le sponde ; e rochi e lenti
Quinci e quindi scorrean liquidi argenti.
Ripida l’altra via, scoscesa, alpestre,
Salia su per un monte ; e bronchi e sassi
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CANZONI.
Ritardavano i passi.
Generoso le piante ei volse a destra :
E ritrovò il sentler dell' erto colle ,
Quanto più s' innoltrava, ognor più molle.
Onda fresca , erba verde , aura soave
Godean l'eccelso c fortunate cime.
Quivi tempio sublime
Sacro all' Eterniti, con aurea chiave,
Virtù gli aprio: quindi spiegò le penne,
E luogo in Gel fra gli altri Numi ottenne.
Quanto le umane opere aieno fuggevoli.
Trita è la via che ne conduce a Stlge :
Noi per l'altrui vestige
E per le nostri altri verran. Bellezza,
Pudicizia, Virtù Morte non prezza.
Vezzosa Elcna fu si che potco
Mover dell' Asia ai danni ,
Sol per lei racquistar. Sparta e Micena :
E pur tanta bellezza alfln cadrò ;
E 'I tempo Ingordo e gli anni
Viva ne lasciati la memoria appena.
VII polve e poca arena
Son or Penelopi , Lucrezia e Laura ,
E '1 grido del lornome è un soffio d'aura.
Dura necessitò seco ne traggo :
Ciò eh' in terra i di vago ,
Sasso o bronzo sia pur, l' età divora.
Chi di Rodi or mi mostra in su le spiagge
La celebrala imago
Del Dio ch’ln oriente il di colora ?
Chi della casta suora
Nelle paludi dell’ efesio suolo
Or m'addita il bel tempio, o un marmo solo?
Nocchieri, o voi , se la riviera aprica
Abbandonaste e i colli
U’ fUman di Vulcan gli atri cammini ;
0 se di Creta , ai gran Tonante antica ,
0 di Tiro , o dai molli
Regni di Citcrea scioglieste I lini;
Dei fortunali pini
Deh raffrenate il volo in quella parte
Che dall' Ionio mari' egeo diparte.
Trascorrete con l' occhio i fluid amari ;
Cercate di Nettuno
E 1' una e l' altra sponda: Ov’è Corinto?
Ove il gemino porto c di duo mari
li commercio opportuno ,
Onde il Tebro d' onor quasi fu vinto ?
Ei , col suo nome , estinto
Ora scn giace ; e '1 lido inculto e voto
Al pcscator d' Acaia appena t noto.
FILICAIA.
Vienna assediata.
E fino a quanto inulti
Flan, Signore, I tuoi servi? E Ano a quanto
Dei barbarici insulti
Orgogliosa n’andrò l’empia baldanza?
Dov’è,dov’è, gran Dio, l'antico vanto
Di tua alta possanza ?
Su’ campi tuoi , su’ campi tuoi più culti
Semina stragi e morti
Barbaro ferro, e te destar non ponno
Da si profondo sonno
Le gravi , antiche offese e I nuovi torti ?
E tu 'I vedi e comporti ,
E la destra di folgori non armi ,
0 pur gli avventi agl' insensati marmi ?
Mira , oimè , qual crudele
Nembo d’ armi e d’armati, e qual torrente
D' esercito infedele
Corre l' Austria a inondar : mira che il loco
A tanl' empito manca c a tanta gente.
Par che l’ Istro sia poco ,
E di tanl' aste all' ombra II di si cele :
Tutte son qui le spade
Dell' ultimo Oriente, c alla gran luna
L’ Asia s' unto qui tutta ,
E quei che 'I Tana! solca , e quei che rade
Le sai-maliche biade,
E quel che calca la bistonia neve ,
E quel che 'I Nilo e che l' Orante beve.
Di cristian sangue tinta
Mira dell' Austria la diti relna
Quasi abbattuta e vinta
Mille c mille raccor nel fianco Infermo
Fuliniti temprali all’ infornai fucina.
Mira che frale schermo
«
Digitìzcd I
VM PINDARICI E
Son per kl l’ alte mura , ond' ella è cinta :
Mira le palpitanti [da;
Sue rocciie ; odi, odi il suon ebeamorte sfl-
Le disperate strida
Odi e i singulti e le querele e i pianti
Delle donne tremanti
Che al fiero aspetto dei comun perigli
Stringonsi al seno I vecchi padri e I figli.
L’ onnipotente braccio , [ornai ,
Signor, deh stendi, e sapplan gli empj
Sappiati che vetro e ghiaccio
Son lor armi a’ tuoi colpi, e che sei Dio.
Di tue giuste rendette ai caldi rat
Struggasi il pnpol rio.
Qual porga il collo al ferro, equalc al laccio,
E come fuggitiva [ga.
Polve avvien clic rabbioso Austro disper-
Cosl persegua c sporga
Tuo sdegno ì Traci, e sull' augusta riva
Del Danubio si scriva t
Al vero Giove i'otloman Tifeo
Qui tento di far guerra , e qui radeo.
Del re superbo assiro
Gli aspri arieti di Sion le mura
So pur che in ran colpirò ;
E tal poi monte d* insepolti estinti
Alzasti tu , che inorridì Natura.
Guerrier dispersi e vinti
So ebe vide Betulia ; e '1 duce siro
Con memorando esempio
Trofeo pur fu di femminella imbelle.
Sulle teste rubelle
Deh rinnoveila or tu l'antico scempio.
Non è di lor men empio
Quel che seri aggio or ne minaccia c morte;
Ni men fidi slam noi, ni tu più forte.
Che s' egli i pur destino,
E ne’ volumi eterni ha scritto il Falò
Chi deggia un di afi’ Eusino
Servir r Ibera e l’alemanna Teli
E ’l suol cui parte l’ Apennìn gelato ;
A’ tuoi santi decreti
Plon di timore c d’ umiltà m'inchino.
Vinca , se cosi vuol ,
Vinca lo Scita ; c ’l glorioso sangue
Versi r Europa esangue
Da ben milk ferite : i voler tuoi
Legge son ferma a noi :
Tu sol se' buonoegiusto,egiustaebuona
Quell' opra i sol ch'ai tuo voler consuona.
Ma sari mai di' io veggia
Pender barbaro aratro all’ Austria il seno,
E pascolar la greggia
ORAZIANI.
Ove or sorgon cittadl , c senza tema
Starsi gli arabi armenti in riva al Renot
Nella mina estrema
Fia che dell’ latro la famosa reggia
D' ostile incendio avvampi ;
E dove siede or Vienna , abiti 1' Eco
In solitario speco ,
Le cui deserte arene orma non stampi T
Ah no , Signor, tropp' ampi
Son di tua grazia i fonti ; e tal flagello
Se in Cielo è scritto, a tua pietà n' appello.
Ecco d' inni devoti
Risonar gli alti templi ; ecco soave
Tra le preghiere e i voti
Salire a te d' arabi furai un nembo.
Gli i lesor sacri , ond’ ci sol Genia chiave ,
Dall' adorato grembo
Versa il grande Innocenzo, e i non mai roti
Erari apre e rompane.
Gii i Cristiani regnanti alla gran lega
Non pur commuove e piega ,
Ma in un raccoglie le milizie sparte
Del teutonico Marte ;
E se tremendo e fier più che mai fosse
Scende il fulmin pollino, et fu che ’l mosse.
Ei dall' esquiiio colle
Ambo in ruina dell’ orribil Gela ,
Mosi novello, cstolk
A te le braccia , clic da un Iato regge
Speme, e Fede dall’ altro. Or chi ti vieta
li ritrattar tua legge,
E spegner l’ ira clic nel seti U bolle ?
Pianse e pregò I’ afflitto
Buon re di Giuda , c gli crescesti etate.
Lagrime d’ umiliate
Ninive sparse, e si cangiò ’l prescritto
Fatale, infausto editto.
Ed esser può che ’l tuo pastor diroto
Non tl sforzi, pregando, a cangiar veto?
Ma sento , o senti r parme
Sacro furor, che di si m’ empie. Udite,
Udite o voi che 1’ arme
Per Dio cingete : al tribunal di Cristo
Gii decisa in prò vostro i la gran lite.
Al giurioso acquisto
Su su , pronti movete : In lieto canne
Tra vai canta ogni tromba.
E ’l trionfo predice. Ile , abbattete.
Dissipate , struggete [ha.
Quegli ctupj, e l' Islro ai vinto stuol sta torn-
ii’ alti applausi rimbomba
I-a terra ornai : chi più tardale? Aperta
£ gii la strada, c la vittoria è certa.
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CANZONI.
Ut
Liberazione di Virai*.
Le corde d'oro elette
Su su, Muse, percuoti, e al trionfante
Gran Dio delle vendette
Goapon d'inni festosi aurea ghirlanda.
Chi è che a lui di contrastar si Tante ?
A lui che in guerra manda
Tuo»! c tremimi! e turbini e saette?
Li fu che ’l tracio stuolo
Ruppe, atterrò, disperse; e ’l rimirarlo,
Struggerlo e dissiparlo,
E farne polve c pareggiarlo al suolo,
Fu un punto, un punto solo :
Ch'ei può tutto ; c diti scinta di mura
È ehi ha fede in sè stesso e Dio non cura.
Si crederon quegli empj
Con ruinoso turbine di guerra
Abbatter torri e tempj,
E sver da sua radice il sacro impero.
Empier pensaron di trofei la terra.
Ed oscurar crederò
Con più illustri memorie i vecchi esempj ;
Edisser: l'Austria doma,
Domerem poi l'ampia Germania;eall'Ebro
Fatto vassallo 11 Tebro,
A turco ceppo il pie rasa la chioma
Porgerò Italia e Roma. [da
Qual Dio, qual Dio delle nostr’ anni all’on-
Fia che d' oppor si vanti argine o sponda?
Ma 1 temerari accenti.
Qual tenue fumo alzaronsi e svanirò,
E ne fer preda 1 venti :
Che sebben di vai d’ Ebro attrasse Marte
Vapor che si fer nuvoli e s’ aprirò,
E piovver d'ogni parte
Aspra tempesta sull' austriache genti ;
Perir la tua diletta
Greggia, Signor, non tu però lasdasli ;
E all'empietà mostrasti,
Ch’arriva e fere,allor che men s’aspetta,
Giustissima vendetta.
Il sanno i fiumi che sanguigni vanno,
E ’l san le fere, e le campagne il sanno.
Qual corse gel per l' ossa
All'arabo profeta e al sono Anubl,
Quando l' ampia tua possa
Tutte fe' scender le sue Furie nitrici
Sulle penne dei Venti e sulle nubi!
L' orgogliose cervici
Chinò Rizanzio, e tremò Pelio ed Ossa ;
E le squadre rubelle
Al Clel rivolta la superba froate,
Videro starsi a fronte
Con l’arco teso I Nembi e le Procelle,
E guerreggiar le Stelle
Di quell’ acciar vestite onde s’armaro
Quel di che coutro a' Cananei pugnaro.
Tremar l’ insegne allora.
Tremar gli scudi e palpitar le spade
Al popoi dell'Aurora
Vidi ; c qual di salir l’ egro talvolta
Sognando agogna, e nel salir giù cade:
Tal ei senti a sè tolta
Ogni forza, ogni lena; e in poco d’ori
Sbaragliato e disfatto, •
Feo di sè monti e riempieo le valli
D’ uomini e di cavalli
Svenati o morti, o di morire In atto.
Del memorabil fatto
Qii la gloria s* arroga ? lo già noi tàccio :
Nostre fur Tarmi, c tuo, Signor, fu ’lbrac-
A Te dunque de’ Traci [do.
DebeUator possente, a Te che in una
Vista distruggi e sfaci
La barbarica possa, e al cui decreto
Serve suddito il Fato c la Fortuna;
In trionfo si lieto
Alzo la voce, c I secoli fugaci
A darti lode invito.
Saggio c forte se’ Tu. Pugna il robusto
Tuo braccio a prò del giusto;
Nè indifesa umiltà, nè folle ardito
Furor lascia impunito.
Milita sempre al fianco tuo la gloria,
E al tuo soldo arrolata è la vittoria.
Là dove T Istro beo
Barbaro sangue, e dove alzò poc'anzi
Turca empietà moschee;
Ergonsi a Tc delubri : a te cui piacque
Salvar di nostra eredità gli avanzi,
Fan plauso I venti e P acque,
E dicono in lor lingua : A Dio si dee
Degli assalti repressi
Il memorando sforzo : a Dio la cura
Dell' assediale mura [di' essi:
Rispondon gli antri, e ti fan plauso an-
Vcggio I macigni stessi
Pianger di gioia , e gli alti scogli e i monti
A Te inchinar l’ossequlose fronti.
Ma se pur anco lice [ghi;
Raddoppiar voti e giunger priegbi a prie-
Digitizoo Ay C
PINDARICI E ORAZIANI.
!>92
l a spada vincitrice
Non ripongasi ancor. Pria tu l’ indegna
Stirpe recidi , o fa che ’1 collo pieghi
A senini ben degna.
Pria, Signor, della tronca, egra, infelice
Pannonia I membri accozza ,
E riunirli al capo lor ti piaccia.
Ah no, non più soggiaccia
A doppio giogo in sè divisa e mozza.
Regnò , regnò la sozza [deggia
Gente ahi pur troppo : tempo è ornai che
Tutta tornare ad un pastor la greggia.
Non chi vittoria ottiene.
Ma chi ben l’usa, Il glorioso nome
Di vincitor ritiene.
Nella naval gran pugna onde divenne
Lepanto illustre , e per cui rotte e dome
F ur le sitonie antenne ,
Vincemmo , è ver ; ma l’ idumee catene
Cipro non ruppe unquanco :
Vincemmo , c noeque il vincitore al vinto.
Qual fia dunque, che scinto
Appenda il brando, e ne disarmi il fianco?
Oltre, oltre scorTail franco
Vittorioso esercito, e le vaste
Dell' Asia Interne parti arda e devaste.
Ma la caligin folta [tergo
Chi dagli occhi mi sgombra? Ecco che T
Del fuggitivi a sciolta
Briglia.Signor, tu incalzi j ecco gli arresta
li Rabbe a fronte, ed han la Morte a tergo.
Con la gran lancia In resta
Veggio che gU gli atterrì e metti in volta ;
Veggio ch’urti e fracassi
Le sparse turme, e di Bizanzio ai danni
Stendi si ratto i vanni ,
Che gii i venti e ’l pensiero Indietro lassi ;
E tant’ oltre trapassi,
Che vinto è gii del mio veder l’ acume ,
E alio stanco mio voi mancan le piume.
A Sobieschi, re di Polonia.
Re grande e forte, a cui compagne in
Militan virtù somma, alta ventura; [guerra
lo che Teli futura
\ ogllo obbligarmi, c far giustizia ai vero ,
E mostrar quanto in te s'alzò Natura;
Nei sublime pensiero
Oso entrar, che tua mente in sè rinserra :
Ma con qual scale mai , per qual sentiero
Fia che tant' alto ascenda?
Soffri, Signor, che da si chiara face,
Più di Prometeo audace.
Una favilla gloriosa lo prenda ,
E questo stil n’accenda ,
Questo stil che quant' è di me maggiore ,
Tanto è , rincontro a te, di le minore.
Non perchè re sei tu, si grande sei;
Ma per te cresce , c in maggior pregio sale
I..i maestà regale.
Apre sorte al regnar più d’una strada :
Altri al morto degli avi, altri ai natale,
Altri ’l debbe alla spada :
Tu a te medesmo c a tua virtute 11 dei.
Chi è che con lai passi al soglio vada?
Nel di che fosti eletto,
Voto Fortuna a tuo favor non diede ,
Non palliata fede,
Non timor cieco; ma verace affetto,
Ma vero merlo e schietto.
Fatto avean tue prodezze occulto patto
Col regno ; c fosti re pria d’ esser fatto.
Ma che? stiasl lo scettro ora in disparte
Non lo col fasto del tuo regio trono ,
Teco bensì ragiono, [dato
Nè ammiro in te quel eh’ anco ad altri è
Dir ben può quante in mar ie arene sono.
Chi può di rime armato ; sparte
Dir, quanteln guerra, equantein pace hai
Opre ammirande , in cui non ha l' alalo
Vecchio ragion veruna.
Qual è alle vie del Sol si ascosa piaggia,
Che contezza non aggia
Di tue vittorie , o dove il Giorno ha cuna ,
0 dove l’aere imbruna,
0 dove Slrio latra , o dove scuote
li pigro dorso a’suol destrier Boote ?
Sallo il Sarmato infido, e salto il crudo
Usurpator di Grecia: il dlcon l’armi
Appese al sacri marmi,
E tante a lui rapite insegne e spoglie ,
Allo soggetto di non bassi carmi.
Non mai costà le soglie
S’aprir di Giano, che tu spada c scudo
Dell’ Europa non fossi. Or chi mi toglie
Tue palme amiche e nuove
Dar tutte in guardia alle castalie Dive?
Fiacca è la man che scrive,
Forte è lo spirto che a più alte prove
• •gnor la instiga e muove ;
Fi quei die a’ Venti le grand’ ale impenna ,
Quei la spada a te regge , e a me la penna.
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CANZONI. à93
Svenni e gelai poc’ anzi , allor eli' io vidi
Oste A orrenda tutti i fonti e tutti
Quasi dcU’lstro i flutti
Seccar col labbro, c non bastare a quella
Del frigio suolo e dell'egizio i frutti.
Oimè ! vid' io la bella,
Regai donna dell' Austria in van di Odi
Ripari armarsi , e poco tnen che ancella
Porger nel caso estremo
A indegno ferro il piede. Il sacro busto
Del grande impero augusto
Parca tronco giacer del capo scemo ,
E 'I cenere supremo
Volar d'intorno, e gran dttadi e ville
Tutte fumar di barbare faville.
Dall' ime sedi vacillar già tutta
Pareami Vienna, e in panni oscuri ed adri
Le spaventate madri
Correre al tempio ; e detestar degli anni
L’Ingiurioso dono i vecchi padri,
L'onte mirando e i danni
Della misera patria arsa c distrutta
Nel comun lutto e nel comuni affanni.
Ma se miserie estreme
E incendj e sangue c gemiti e rulnc
Esser deveano alfine ,
Invitto re, di tue vittorie il urne:
Di tante accolte insieme [glio ,
Furie, ond’ebbe a crollar dell'Austria ilso-
Soffra eh’ lo ’l dica il Clel, più non mi do-
Della tua spada al riverito lampo [glio.
Abbagliala già cade, e già s'appanna
L’empia luna oltomanna.
Ecco rompi trlnclere, ecco t'avventi,
E qual fiero Icon che atterra e scanna
Gl’impauriti armenti,
Tal fai macello sull'orribii campo,
Che 'I suol ne trema. L’abbattute genti
Ecco spergi e calpesti :
Ecco spoglie e bandiere a un tempo togli,
E 'I duro assedio sciogli :
Ond' e eh’ lo grido e griderò : Giugncsti ,
Guerreggiasti e vincesti.
SI , si , vincesti , o camplon forte e pio ,
Per Dio vincesti, e per te vinse Iddio.
Se là dunque ove d'inni alto concento
A lui si porge , spaventosa e atroce
Non tuona araba voce ;
Se colà non atterra impeto folle
Altari e torri ; e se empietà feroce
Dai sepolcri non lolle
Il cener sacro e non lo sparge al vento ;
Sbigottito arator da eccelso colle
Se diroccate ed arse
Moli e rocche giacer tra sterpi e dumi ;
Se correr sangue i fiumi,
Se d'abbattuti eserciti e di sparse
Ossa gran monti alzarse
Non vede intorno, e se deil'lstro in riva
Vienna in Vienna non cerca; a te s’ascriva.
S’ascriva a te, se'l pargoletto In seno
Alla svenata genitrice esangue
Latte non bcc col sangue :
S'ascriva a te, se inviolate e caste
Vergini e spose, nè da morso d'angue
Vìolalor son guaste ,
Nè In sè puniscon l'altrui fallo osceno.
Per te sue faci Aletto e sue ceraste
Lungi dal Ren trasporta.
Per te, di santo amor pegni veraci,
Si danno amplessi e baci
Giustizia c Pace ; e la già spenta c morta
Speme è per te risorta t
E tua mercè , l'insanguinalo solco
Senza tema o periglio ara il bifolco.
Tempo verrà , se tanto (unge io scorgo,
Che fin colà ne’ secoli remoti
Mostrar gli avi ai nipoti
Vorranno il campo alla tenzon prescritto.
Mostreran lor, donde per calli ignoti
Scendesti al gran conflitto,
Ove pugnasti , ove in sanguigno gorgo
L’Asia immergesti. Qui, diran, l'invitto
Re polono accampossi ;
Li ruppe il vallo, e qua le schiere aperse,
Vinse, abbattè, disperse :
Qua monti c valli, c là torrenti e fossi
Feo d' uman sangue rossi :
Qui ripose la spada, e qui s' astenne
Dall' ampie stragi e ’l gran deslrler ritenne.
Chedlran poi.quandosapranchei fianchi
D'acciar vestisti non per tema e sdegno ,
Non per accrescer regno ;
Non perchè eterno inchiostro a tc lavori
Fama eterna e per te sudi ogn’ ingegno ;
Ma perchè Iddio s’onori ,
E al suo gran nomeadorator non manchi?
Quando sapran che d’ ogni esemplo fuori ,
Con profondo consiglio,
Per salvar l'altrui regno, il tuo lasciasti?
Ch' il capo tuo donasti
Per la Fè, per l'onore al gran periglio;
E il figlio isicsso, il figlio
Della gloria e del rischio a te consorte ,
Teco menasti ad affrontar la morte?
Secoli che verrete, io mi protesto
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(M PINDARICI
Che al ver fo ingiuria , e men del vero è
Ch'io ne scrivo e favello. [quello
Chi crederi l'eroico dispregio
Di prudenza c di le , che assai più bello
Fa di tue palme il pregio?
Chi crederi che a te medesmo infesto,
E a te negando il macstevoi regio
Tuoi, di mano in mano
Sia tu in battaglia ai maggior rischj accin-
Non dagli altri distinto, [to ,
Che nel vigor del senno e della mano ,
Nel comandar sovrano ,
Nell' eseguir compagno, e del possente.
Forte esercito tuo gran braccio e mente ?
Ma in quel eh’ io scrivo, d’altri allor la
fronte
Tu cingi c nuore sotto ferreo arnese
Tenti e più chiare imprese.
Or dà fede al mio dir. Non lol'ascreo
Che già la sete giovani! m’ accese ,
Torbido fonte beo :
Mia Clio la croce, e mio Parnasoè’l monte.
Quel monte in cui la grande Ostia cadeo.
Se per la Fi combatti.
Va, pugna c vinci ; sull'odrisia terra
Rocche e cittadi atterra,
E gli empj a un tempo e l’empieladc abbat-
Esereiti disfatti [ti.
Vedrai .vedrai, pe'tuoi gran fatti; Il giuro.
Cader di Buda e di Bizanzio li muro.
E ORAZIANI.
Su su , fatai guerriero , a te s’ aspetta
Trar di ceppi 1' Europa e'1 sacro ovile
Stender da Battro a Tiic.
Qual mai di starti a fronte avrà balia
Vasta bensì, ma vecchia, inferma e vile
Cadente Monarchia
Dal proprio peso a ruinar costretta?
Sei ver mi dice un'alta fantasia.
Te r usurpata sede
Greca , te '1 greco inconsolabU suolo
Chiama; te chiama solo.
Te sospira il Giordano ; a te sol chiede
La Galilea mercede :
A te Betlemme, a te Sion si prostra ,
E piange e prega e 'I servo pie ti mostra.
Vanncdunqur, Signor ; se la gran tomba
Scritto 4 lassù che in poter nostro torni.
Che al suo pastor ritorni
La greggia, e tutti al buon popol di Cristo
Corran dell’ uno c l' altro polo i giorni :
Del memorando acquisto
A te l’ onor si serba. Odi la tromba ,
Che in suon d’ orrore c di letizia misto
Strage alla Stria intima.
Mira come or da) Cielo in ferrea veste ,
Ver te campion celeste
Scenda , c l’ empie falangi urti e reprima.
Rompa , sbaragli , opprima.
0 qual trionfo a te mostr'io dipinto!
Vanne, Signor : se lu Dio confidi, hai vinto.
GUIDI.
AL DUCA Di PARMA.
Gli Arcadi in Roma.
0 noi d’Arcadla fortunata gente,
Clic dopo T ondeggiar di dubbia sorte,
Sovra i colli romani abbiam soggi orno 1
Noi qui miriamo intorno
Da questa illustre, solitaria parte
L’alte, famose membra
Della città di Marte.
Mirate là tra le memorie sparte.
Che glorioso ardire
Serbano ancora infra l'orror degli anni
Delle gran moli i danni,
E caldo ancor dentro le sue mine
Fuma il vigor delle virtù Ialine.
Indomita e superba ancora è Roma,
Benché si veggi* col gran busto a terra :
La barbarica guerra
De’ fatali Trioni,
E l'altra che le diede il tempo irato,
Par che si prenda a scherno:
Son piene di splendor le sue sventure,
E 11 gran cenere suo si mostra eterno;
E noi rivolli all’ onorate sponde
Del Tebro, invitto fiume,
Or miriamo passar le tumld’onde
Col primo orgoglio ancor d* esser rein e
Sovra tutte l’ altere onde marine.
Là siedon Torme dell* augusto ponte.
Ove strldcan le rote
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CANZONI.
595
Delle spoglie dell' Asia onuste e gravi :
K 11 pender solcano insegne e rostri
Di bellicose, trionfate nati:
Quegli è il Tarpco superbo
Che tanti in seno accolse
Cinti di fama cavalieri egregi ;
Per cui tanto sovente
Incatenati i regi
De' Parli e dell' Egitto
Udirò il tuono del romano editto.
Mirate il la formidabil ombra
Dell'eccelsa di Tito immensa mole,
Quanl'aria ancor di sue ruine Ingombra.
Quando apparir le sue mirabil mura,
Quasi Peti feroci
Si sgomentaro di recarle offesa,
E guidaro dai Barbari remoti
L'ira e il ferro de’ Goti
Alla fatale impresa.
Ed or Tedete i gloriosi avanzi.
Come sdegnosi dell' ingiurie antiche
Slan minacciando le stagion nemiche.
Quel che v’addito, è di Quirino il colle,
Ove sedean pensosi i duci alteri,
E dentro ai lor pensieri
Fabbricavano i freni.
Ed i servili affanni
Ai duri Daci, ai tumidi Britanni.
Ora il bel colle ad altre voglie è In mano,
Ed è pieno di pace e d'auree leggi,
E soggiorno vi fan cure celesti.
In mezzo ai di funesti
Spera solo da lui nove venture
Adii Ita Europa e slanca
D'avere II petto e il tergo
Eutro il ferrato usbergo
In cui Marte la serra c lienla il Fato.
Magnanimo Pastore, a te Qa dato
Che sul bel colle regni.
Entro il cor de' potenti
Spegner Pire superbe e i feri sdegni.
Quanto di sangue beve
L’empia Discordia ancora.
Ed a quante provinole oppresse e dome
Volge le mani irate entro le chiome!
Non serba il Vatican l'antico volto,
Che sulle terga eterne [colto.
Ha maggior tempio, e maggior Nume ac-
Scendcrc il vero lume or si discente
Sugli altari di Febo e di Minerva :
Nè gii poggiaro In Cielo
I lusingati augusti.
Nè fur conversi in luce alta, immortale :
Chè solo P alme al vero Giove amiche
Sede si fanno dell' eccelse stelle ;
E sacri sono ai lor celesti esempli
Quel ch’or veggiamo simulacri e templi.
Ampi vestigj di colossi augusti.
Di cercltj, di teatri e curie immense,
Eie Terme, che il tempo ancor non spense,
Fan dell' alme romane illustre fede,
l’area del Lazio la vetusta gente
In mezzo allo splendor de' geni suoi
Un popolo d' croi :
Ma, reggie d'Asia, vendicaste alfine
Troppo gli affanni che da Roma aveste:
Con le vostre delizie, oli quanto feste
Barbaro oltraggio al buon valor latino!
Fosse pur stata Metili al Tebro ignota,
Come I principi son del Nilo ascosi ;
Chè non avresti, egizia donna, i tuoi
Studj superbi e molli
Mandati ai sette colli,
Nè fama avrebbe il tuo fatai convito:
Romolo ancor conoscerla sua prole.
Nè P aquile romane avrian smarrito
,11 gran cani min del Sole.
Ma pur non han le neghittose cure,
Tanto al Tarpco nemiche,
Spento l'inclito seme
Delle grand' alme antiche,
Sorgere in ogni etate
Fuor da queste ruine
Qualche spirto reai sempre si scorse.
Che la fama del Tebro alto soccorse.
Oh come il prisco onore erse e mantenne
Co’ suol tanti trofei
L' eccelsa stirpe de' Farnesi Invitti
Sempre d'ardire armata,
E di battaglie amica!
E quando resse il freno
Alla cittì sublime
Per man de’ sacri figli,
Oltre P Alpi fugò Pire e I perigli,
E trasse Italia dall' ingiurie ed onte
Di fero Marte atroce,
E le ripose il bel sereno in fronte :
Di meraviglia piene allor furi' ombre
De' latini monarchi
In sul tanto apparir teatri ed archi,
E templi c reggie ed opro eccelse c grandi,
Onde sostenne il rogai sangue altero
La maestl di Roma e dell' impero.
Quasi signor di tutte l' altre moli
Alta regge la fronte il gran Farnese,
Chiaro per arte e per illustri marmi,
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PINDARICI E ORAZIANI.
Ù96
E forse ancor per lo splendor de’ carmi
Che meco porto, e meco fa soggiorno.
Or movo il guardo al Palatino intorno,
Del nostro arcade Evandro almo ricetto,
Ed oh quanto nel cor lieto sospiro!
A te verremo, o gloriosa terra,
Con le ghirlande d'onorati versi,
E di letizia e riverenza gravi
Ornercm le famose ombre degli avi.
La Fortuna.
Una donna superba al par di Gluno
Con le trecce dorate all’aura sparse,
E co’ begli occhi di cerulea luce
Nella capanna mia poc’ anzi apparse ;
E come suole ornane
In su l' Eufrate barbara reina,
Di bisso e d’ ostro si coprla le membra ;
Nè verde lauro, o fiori,
Ma d'indico smeraldo alti splendori
Le fean ghirlanda al crine :
In si rigido fasto ed uso altero
Di bellezza c d’ impero,
Dolci lusinghe scintillaro alfine,
E dall' interno seno
Uscirò allor inaravigliosi accenti,
Che tutti erano intenti
A torsi In mano di mia mente il freuo.
Ponml, disse, la destra entro la chioma,
E vedrai d' ogn’ intorno
Liete c belle venture
Venir con aureo piede al tuo soggiorno :
Allor vedrai eh' io sono
Figlia di Giove ;e che germana al Fato
Sovra il trono immortale
A lui mi siedo allato.
Alle mie voglie l’Ocean commise
Il gran Nettuno, e indarno
Tentan l'Indo e il Britanno
Di doppie ancore e vele armar le navi,
S'Io non governo le volanti antenne,
Sedendo In su le penne
De’ miei spirti soavi.
Io mando alla lor sede
Le sonanti procelle,
E lor sto sopra col sereno piede :
Entro l’ eolie rupi
Lego l’ali de' Venti,
E soglio di mia mano
De’ turbini spezzar le rote ardenti,
E dentro i propri fonti
Spegno le fiamme orribili, inquiete,
Avvezze in cielo a colorir comete.
Questa è la man che fabbricò sul Gange
I regni agl'indi, e sull' Orante avvolse
l-e regie bende dell’ Asslrla ai crini :
Pose le gemme a Babilonia in fronte,
Recò sul Tigri le corone al Perso, .
Espose al piè di Macedonia i troni :
Del mio poter fur doni
I trionfali gridi
Che al giovane Peleo s'alzaro intorno,
Quando dell’Asia ei corse.
Qual fero turbo, 1 lidi;
E corse meco vincitor sin dove
Stende gli sguardi il Sole :
Allor dinanzi a lui tacque la terra,
E fe’ l' allo monarca
Fede agli uomini allor d’ esser celeste,
E con eccelse ed ammirabil prove
S'aggiunse al Numi, e si fe’ gloria a Giove.
Circondato più volte
I miei geni reali
Di Roma i gran natali;
E l' aquile superbe
Sola in pr'ma avvezzai di Marte al lume,
Ond'alto in su le piume
Cominciato a sprezzar l'aure vicine
K le palme sabine :
lo senato di regi
Sul sette colli apersi :
Me negli alti perìgli
Ebbero scorta e duce
I romani consigli :
lo coronai d’ allori
Di Fabio le dimore
E di Marcello 1 violenti ardori :
Africa trassi In sul Tarpeo cattiva,
E per me corse il Nil sotto le leggi
Del gran fiume latino :
Nè si schermirò I Parti
DI fabbricar trofei
Di lor faretre ed archi :
In su ie ferree porle infransi i Daci ;
Al Caucaso ed al Tauro 11 giogo imposi,
Alfin tutte de’ Venti
Le patrie vinsi, e quando
Ebbi sotto a' miei piedi
Tutta la terra doma,
Del vinto mondo fei gran dono a Roma.
So che ne' tuoi pensieri
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CANZONI.
Altre figlie di Giove
Ragionano d’imperi,
E delle voglie tue fansi rcine:
Da lor speri venture alte e divine :
Speran per loro i tuoi superbi carmi
Arbitrio eterno In su l’ età lontane,
E già dal loro ardore
Infiammala tua mente
Si crede esser possente
Di destrieri e di vele
Sovra la terra e Tonde,
Quando tu giaci in pastorale albergo
Dentro l'inopia e sotto pelli irsute,
Nè v'è cbl a tua salute
Porga soccorso : io sola
Te chiamo a novo e glorioso stato :
Seguimi dunque, c l' alma
Col pensier non contrasti a tanto invito;
Chè neghittoso e lento
Già non può star sull’ ale il gran momento.
Una felice donna ed immortale,
Che dalla mente è nata degli Del,
Allor risposi a lei.
Il sommo impero del mio cor si tiene,
E questa I miei pensieri alto sostiene,
E gli avvolge per entro il suo gran lume.
Che tutti i tuoi splendori adombra c prc-
E se ben non presume [me.
Meritare il mio crin le tue corone,
Pur sull' alma i’ mi sento
Per lei doni maggiori
Di tutti i regni tuoi,
Nè tu recargli, nè rapirgli puoi.
E come non comprende il mio pensiero
Le splendide venture.
Cosi il pallido aspetto ancor non scorgo
Delle misere cure :
L'orror di queste spoglie,
E di questa capanna ancor non vede :
Vive fra T auree Muse;
E i favoriti tuoi figli superbi
Allor sarian felici,
Se avesser merlo d’ascoltarsi un giorno
L’eterno suono de’ mici versi intorno.
Arse a’ miei detti e fiammeggiò, siccome
Suole stella crudel ch'abbia discioltc
Le sanguinose chiome;
Indi proruppe in minaccevoi suono :
Me teme il Daco, e me l'errante Scila,
Me de’ barbari regi
Pavcntan T aspre madri,
E stanno in mezzo all' aste
Per me in timidi affanni
I purpurei tiranni;
E negletto pastor d' Arcadia tenta
Fare infili de' mici doni anco rifiuto?
II mio furor non è da lui temuto?
Son forse l'oprc de’ mici sdegni Ignote?
Nè ancor si sa che l’Oriente corsi
Co* piedi irati, e alle provinole impressi
Il petto di profonde orme di morte?
Squarciai le bende imperlali c il crine
A tre gran donne in fronte,
E le commisi alle stagion funeste :
Ben mi sovvien, che il temerario Sorse
Cercò dell'Asia con la destra armata
Sul formidabil ponte
Dell’ Europa afferrar la man tremante;
Ma sul gran di delle battaglie il giunsi,
E con le stragi delle turbe perse
Tingendo al mar di Salamòia il volto,
Che ancor s' ammira sanguinoso e bruno,
lo vendicai l’ insulto
Fatto sull’ Ellesponto al gran Nettuno.
Corsi sul Nilo, c dell' egizia donna
Al bel collo appressai T aspre ritorte,
E gemino veleno
Implacabile porsi
Al bel candido seno :
E pria nell’antro avea
Combattuta e confusa
L’africana virtute,
E al Punico feroce
Recate di mia man l’aire cicute. [bo
Per me Roma avventò le fiamme in grem-
All' emula Cartago, [ta,
Ch' andò errando per Libia ombra sdegna-
Sinchè per me poi vide
Trasformata T immago
Della sua gran nemica :
E allor placò i desiri
Delia feroce sua vendetta antica :
E trasse anco i sospiri
Sovra l'ampia mina
Dell' odiata maestà latina.
Rammentar non vogT io T orrida spada
Con cui fui sopra al cavalicr tradito
Sul menfìllco Ilio;
Nè la crude! che il duro Calo uccise,
Nè il ferro che de’ Cesari le membra
Cominciò a violar per man di Bruto.
Teco non tratterò l’alto furore,
Sterminator de' regni :
Chè capace non sei de’ miei gran sdegni,
Come non fosti delle gran venture :
Avrai dell'ira mia piccioli segni :
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598 PINDARICI
Farò che 11 suono altero
De’ tuoi fervidi carni
Lento e roco rito bombe,
E che l' unii siringhe
Or sembrino uguagliare anco te trombe.
Indi levossi furiosa a solo,
E chiamati da lei
E ORAZIANI.
Sulla capanna mia Tennero I nembi :
Venner turbini e tuoni,
E con ciglio sereno
Dalle grandini irate allora I’ ridi
Infra baleni e lampi
Divorarsi la speme
De’ miei poveri campL
In morte del bsron $ Aste , ucciso sulla breccia di Buda.
Vider Marte e Quirino
Aspro fanciullo altero
Per entro il sno pensiero
Tener consiglio col valor latino :
Poi rider le Tarlile
Del sno primiero ardire
Sull' Istro aitarti, c far men belle l’ Ire
Del procelloso Achille.
Come nube die splenda
Infra baleni e lampi,
E poscia avrien che avvampi,
E tutta In Ira giù dal ClcI discenda j
Tale II Romano Invitto
Venne a tonar sul Trace,
E nel vibrar sdegnoso asta pugnace,
Fe' il grande impero afflitto.
Allo, giocondo orrore
Arca Roma sul ciglio
In ascoltar del figlio
L' aspre battaglie c il coraggioso ardore :
Sulla terrlbil arte
Ammlravan gli Dei
Lui, che ingombrar solea d’ampi trofei
Cotanta via di Marte.
0 se per lui men pronte
Giungcan l'ore crudeli!
Sotto a’ tragici veli
L'ardir dell’ Asia calerla la fronte :
Soffrirebbe dolente
L’ alte leggi di Roma,
E di lauri orneria l' eccelsa chioma
All' ilalica gente.
Oggi a ragion sen vanno
Sui germanici fidi
I trionfali gridi
Tutti conversi In toc! alte d'affanno.
Dure vittorie ingrate
Di si bel sangue asperse!
Qual ria ventura mai cotanta offerse
Ai cor doglia e piente?
Flcbìl pompa a mirarsi
I vlndlor famosi
Gir taciti e pensosi,
E co' propri trofei talor sdegnarsi!
Ah non per certo invano
D' alla mestizia è pieno
II bavarico duce e il Ber Loreao,
Sul buon sangue romano!
Il si bel lume è spento
Della staglon guerriera :
Alla milizia altera
È tolto il suo feroce, alto talento.
Sperava esser soggiorno
Roma all’ antica gloria,
E funesta di pianto aspra memoria
Le siede ora d'intorno.
Oh quante volte corse
inver le palme prime
Il cavalier sublime,
E i più bel rami Mia Germania porse!
Ma alle grand' opre ardite
Qual corona si diede?
Non mai si vide dispensar mercede
A sue belle ferite.
Sol del valore amica
L'immortale Cristina
Al chiaro eroe destina
Schermo fatai contro all’età nemica:
Vuole degli anni a scherno,
Che delle belle iodi
I potenti di Febo eterni modi
l’rendan cura c governo.
Non mentirà mia voce :
Vedrete, augusti, c regi.
Cardie de’ suoi gran pregi
Mie vele uscir fuor deH'aonia foce :
E mentre voi sarete
Di maraviglia gravi.
Col romano guerriero audran le navi
Oltre ai gorghi di Lete.
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CANZONI.
59»
Per reiezione d’ Innocenzo XII.
Ioni, dell’ alma mia prole immortale,
Jr mando to) ver la diti latina,
Come II Ciel vi destina.
Gii voi poteste circondar con l’alo
L’ampio albergo reale
DI lei che forse di li sn vi mira.
Noi tempreremo la tebana lira,
E con aspetti trionfali e lieti.
Quasi Illustri pianeti
Di sacra luce aspersi,
Entrar tedransi in Vaticano i versi.
E come il Cielo alla gran corte vede
DI Giove Intorno al luminoso trono
Vegliare il lampo e il tuono :
Cosi del Lazio intorno all’ aurea sede
Fermi l'eterno piede
Schiera de’ carmi miei, guardia celeste.
Chi mai potè per la dircee foreste
Scemar le penne a' mici destrieri alati?
Io del Tempo e de’ Fati
Sento gli sdegni e i danni.
Ma son signori i versi miei degli anni.
Roma, sui sette colli or lieta senti
Giunger di Febo 1 gloriosi modi,
E delle belle lodi
Risonarti d'intorno i primi accenti.
E so ben che consenti
Ne’ tuoi gran Geni, alma cittì di Marte,
Che dell’ eterno suono illustre parte
Di Partenope ai lidi anco discenda.
Ed è ragion che splenda
Di gloria aita mercede
Intorno a lei che il trono tuo provvede.
Non dai felici augusti, o dalle belle
Venture tue disi gran fama piene.
Tanta luce ti viene.
Come da un figlio suo, che dalle stelle
Portò voglie novelle,
E virtù nove anco a te stessa ignote.
Rammenta pur le Irionfali rote,
I tanti tuoi, che s' appressare al Numi
Per Invitti costumi;
Chè tal sembianza in vano
Cercasi in grembo allo splendor romano.
Ardea sull’alma ai chiari duci tuoi
Sdegno regale e bellicoso ardire,
E quel fatai desire
Di sempre incatenar regi ed eroi ;
E cosi I figli suoi
Vide del tuo signor la stirpe altera
Tanto infiammarsi alla stagion guerriera:
Ed ebbe sempre o H forte Scipio allato,
0 il buon Kabbrizio armato;
Nè invan dielle il Destino
1 nomi grandi del valor latino.
Tracia sci sa, ch’olire all' anguste foci
Pallida e fuggitiva in Asia corse,
Quando sopra si scorse
Con la grand’ira i cavalier feroci.
Oh qual orride voci
Mandò Blzanzio! a lui tremò la mente.
Ma d' ampio grido armala anco èpresente
Fama d’altre battaglie, c d’altri pregi,
E in tanti fatti egregi
Il buon sangue risplende,
Che con la gloria dei gran re contende.
Mirabil vista, di Nereo sull' onde
Degli Ettori mirar l' inclite navi
D’ immense palme gravi
Gir del Sebeto a rallegrar le sponde!
Ridcan le vie profonde
Tutte tranquille de’ marini regni ;
Sorgean d'intorno ai generosi legni
Del mar le Ninfe Inghirlandate, e i suoni
Spargean lieti i Tritoni,
E presso ai pini alteri
Godea frenar Nettuno i gran destrieri.
Ma degli avi guerrier le vie non tenne
Il magnanimo eroe elle noi cantiamo.
Se ben di Marte è ramo,
Egli per altro mar spiegò F antenne :
Ei domator divenne
Entro il suo cor della virtù feroce,
Chè il giovanti desio sorgea veloce
A chieder Faste e i sanguinosi allori.
I militari ardori
Vincere a lui fu dato,
E in ciò lottò l'alma reai col Fato.
Arti illustri di pace ed auree cure,
E celesti pcnsier gli erano intorno
Sul memorabil giorno
Con le belle d'onor sacre venture,
E queste poi d’oscure
Nubi talora si vclaro il volto.
Ma se F onor delle corone è tolto
A una chiara virtute, altra ne sorge,
Che soccorso te porge,
E provvida c possente
Vince I consigli alla Fortuna In mente.
Ben sofferenza a debellar s’ accinse
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600 PINDARICI
Glt aspri pensier della turbala sorte.
Quando tacita e Torte
Al nobll cor del saggio eroe s' arvlnse.
Ed i Fati costrinse
A porre i Treni alle slagion nemiche,
E a Tar corona all’ immortai Tatlcbe
Con l’ ampia gloria dei Telice impero,
Che sovra il mondo Intero
Dal Valican discende,
E sua ragione anco sugli astri estende.
Non rammentava alle Tortune avverse
L’ anima eccelsa I Taticosi lustri.
Che dì sudori illustri
Entro le reggic de’ monarchi asperse :
Ma tutta si converse
Dentro l'interno di sua chiara luce,
ORAZIANI.
Ove d'opra maggior Taltasl duce
L'idec raccolse, e nel pensier compose
L'ordine delle cose
Con arti c leggi nove
Qual si Tornava entro il desio di Giove.
Tanta celeste mole allor che scorse
Sorgere a prò de’ miseri mortali.
Il Fato spiegò l'ali,
E per doppia cagione a lui sen corse,
E di sua man gli porse
L’alto diadema in Tronte, ed or discente
Lui che rivolto alle bell’ opre eterne
In riva al Tebro il gran disegno espone.
Oh Telice stagione!
Non mai l’ aurate porte
Possegga de’ tuoi <11 l’ ombra di morte.
E
MAZZA.
All’ Armonia.
Se buon lavor di cetra.
Cui tempra il vero, al rigido
Veglio sta saldo come al vento pietra,
Prendi quest' inno, o Musico
Genio, che vola disloso a te.
E gii le rcvolubili
Stagion cinque (late in sè tornarono,
Ch' io ti To segno a’ delfici
Strali che ai saggi suonano,
Onde a me Dirce la Tarctra empiè.
Pensier di senno armati,
Idee che II senso Tuggono,
Fur penne che m’ alzaro In grembo a Fati,
lo ressi all’ ineffabile
Splendore dell' archctipa beltà.
Io di lucenti immagini
Effigiai le infigurate, armoniche
Forme eterne, die creano
1.’ ordin concorde c vario
In cui Natura si governa c sta.
A me di Tele impura
Dar voce osi di biasimo
Bocca di vulgo clic virtù non cura :
Sogno pur chiami I mistici
Sensi che 11 primo Vero a me spirò.
Dunque fia sogno c Tavola
La sovrana beltà, perchè le tenebre,
Che de' protali! all’ anima
Stupidità raddoppia,
Con l'immortal suo raggio aprir non può?
Quegli cosi, cui fiede
Buio natale, il limpido
Aureo liquor del di menzogna crede ;
Nè finger sa che pingasi
Natura di vivaci, almi color.
Ma il suolo, il mare c l’aere
S'ornan del manto che confusi inlessono
L' igneo plropo e 'I cenilo
Zaffiro c quel che l’ Iride
Bec dall’ opposto Sol, vario tesor.
Deb il simulacro altero.
Che In cieche menti indocili
Pirrone alzò sconoscltor del vero,
Aifin dia loco, e splendere
Nell'uom, raggio di Dio, torni Ragion!
Torni, e dal dubbio emergere
Vedrassi libello de' sonori numeri,
E disparir l' inutile
Capriccio e 'I genio instabile.
Prole di malvcggentc opinion.
Verace, eterna Idea
il la bellezza armonica.
Che fa paga ragion, V orecchio bea,
Se In ben adatti avvolgasi
Modi, che son quaggiù lingua del Ciel.
Essa leggiadre c varie
Prende sembianze, e ia dissimil indole
Muove di quanti pascono
La sitai aura eterea
Dall’ ignea Calpe all' iperboreo gel.
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OD!.
601
Essa nel lume splende
Del Sole Inestinguibile,
Che di suo raggio ogni bellezza accende,
Che a' desir nostri allacciasi.
Ministro di bontà, nunzio del ver.
Della, se lei somiglia,
L’arte che regge il tremolar melodico;
Della, se a quel durabile
Splendor colora i numeri
Che tanto sopra l' uom hanno poter.
Come dal curvo grembo
Stilla di errante nuvola
Fecondo, irrigator, placido nembo.
Che l’arse valli e i vedovi
PoggJ ravviva di be’ frutti e fior :
Tal per la via che provvida
Natura aperse, susurrando all'animo
Musical aura, i docili
Semi ricerca ed agita
Di bontà, di virtù, di pace e amor.
Domini feo di belve,
Che in uman volto erravano.
Il Vate che col suon trasse le selve;
Prese dolcezza i ferrei
Petti, e alla gioia social gli apri.
Per dissipar la gelida
Cura d' Averno, onde Saul rodeasi,
Modulò P arpa Isaida;
E vinse il cor Timoteo
Di lui che accompagnò, vincendo, il di.
FANTONI.
Sullo ciato dell* Europa del 1787.
Cadde Vergennes ; del germano impero
L’eroe vecchiezza nella tomba spinse.
Pace smarrita cuoprl il volto, c cinse
Marte il cimiero.
Risc Discordia, non chiamato auriga,
Saltò sul carro apportator di guerra,
E con un guardo misurò la terra
Dalla quadriga.
All'armi,all'armi con sembiante orrendo
Gridò sferzando i corrldor fuggenti ;
All’ armi, ali'armi replicar le genti
Stolte fremendo.
D'ailor percossa da maligna sorte
Par ebe di sdegno tutta Europa avvampi ;
Spira sui mesti, abbandonati campi
Aura di morte.
Tinge di tema l’avvilita faccia
Scherno del Prusso il Datavo discorde,
Le labbra il Franco per vergogna morde,
L’Anglo minaccia.
Scende il Sabaudo a nuovi acquisti In-
Sul contrastato, rustico confine, [tento
Cinta d'olivo ancor Liguria il crine
Corre al cimento.
Guata la Grecia, e nuove schiere appresta
L'adriaca donna all’ausburghese invito;
Mentre di Libia fulminando il llto
L’ire ridesta.
Gli antichi duci sul Tlbisco aduna
Deli’Istroilfortee 1 gran pensieri occulta.
Dal freddo Ponto Caterina insulta
L’Odrisia Luna.
Impugna l'asta, e alfin prorompe all’onte
Fremendo ilTrace al minacciato danno;
Le bende al molle, orientai tiranno
Tremano in fronte.
Da un Dio di pace, eccelsi re, tutori
Dati all’ afflitta umanità, che Iangue,
Dal crin togliete di fraterno sangue
Lordi gli allori.
Ma, ahimt! D'estinti la campagnaèpicna!
Veggo chi spira, e chi rivolto al Cielo .. . !
Musa, ricuopri di pietoso velo
L’ orrida scena.
A SEBASTIANO BIAGINI DI LERICE.
Il Vaticinio.
Lungi, profani. Ti assidi, e tacito,
Riagini, ascolta. Le selve tremano;
Voci dall'antro Ignote
Mugghiano ! Un Dio mi scuote.
S'ergon le chiome. Rabbia fatidica
M’ Inonda il petto. Qual luce insolita !
Chi mi squarcia l’oscuro
Vcl che cuopre U futuro ?
26
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602 PINDARICI
A me d’ intorno schierarsi i secoli
Veggo, e gli eventi ... Gl’ Imperj cadono :
La Liberti si asside
Fra le rulne e ride.
Dal profanato Tarpeo discendono
Gli eguali agli avi romani intrepidi;
Si desta Italia, Impugna
L’asta e corre alla pugna.
GII empj tiranni dispersi fuggono,
LA s'ardon tutu, qua vinte traggonsi
Con la turba cattiva
Sulla libera riva.
Roma rinasce, Flora rinnovasi ,
Aifea risorge, freme Partenope,
E nuove giorie agogna
La feroce Bologna.
Si destan Siena, Crotone, Taranto,
Del Po la donna, la donna adriaca;
Nè grida, all’ armi, invano
L' aurea figlia di Giano.
Madre feconda di biade e d'uomini,
Italia, salve... Vittrice assiditi
E ORAZIANI.
Sovra le tombe gravi
Della gloria degli avL
Per te ) costumi modesti e rigidi.
Per te gli antichi giorni ritornano,
E ai fasti lor presiede
lncoipabil la Fede.
Che vuoi dall’Alpi, schiatta d’Arminio?
Perchè ci chiami? Forse sei libera?...
Cessi fra noi lo sdegno.
Prendi la destra in pegno.
Oh tnobii troppo Gallia magnanima.
Di te che fia?... Gli anni s'offuscano
Di tua grandezza.. . Ah, il Fato
Alfin tcco è placato. [torbido
Veggo, che regni... veggo... AbL, guai
Nembosi destai... D’atra caligine
L’ universo circonda
Una notte profonda !
Tutto disparve. .. tutto. . . Abbandonami
Il Nume...! Ah, occulto, sento, che invo-
Senle fischiar per l’ etra [tasi . . .
La fuggente faretra.
CERRETTI.
Alla Posterità.
Idolo degli croi, terror degli empi;
Spesso delusa in tanti bronzi e marmi ;
Posterità; se a te ne’ tardi tempi
Giungo» miei carmi,
Odili, nè temer clic de' nepoti
Tradisca il voto, o falso a te ragioni :
Chè a me de' ricchi e de’ potenti ignoti
Furono i doni.
Unico'forse, delle ascrce sorelle
Infra I seguaci, io libero, io ne’ gravi
Modi d’ Alceo franco tonai fra Imbelle
Popol di schiavi.
E mentre offrir godcan plebei cantori
Ai coronati vizj aonio serto,
Io le neglette osai cinger di fiori
Are del Mcrto.
Ahi, qual età! qual l’indo! Ov'è chi ao-
Vanti fra noi di patrio zelo il seno? [censo
Chi un Omero oggi Imita, o chi P immesso
Lume d’Ismeno?
Chè se, tra II crocidar d’ immondi augei,
Qualche emerge talor voce sublime.
Qual obbictto, qual segno a di si rei
Scelgon sue rime?
Quanti a te giungeran nomi d’ ingegni
Ammirandi alla plebe e vili al prode?
E quanti obbiio ne coprirà che degni
Eran di lode !
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MORALI
FAZIO DEGLI UBERTI.
Duoltì di sua povertà.
Lasso . che quando immaginando regno
II forte e crudel punto dov’io nacqui ,
E quanto più dispiacqui
A questa disputala di Fortuna,
Per la doglia crudel che al cor sostegno
»i lagrime conrien che gli occhi adacqui ,
E che ’l riso ne sciacqui ,
Ch’ogni duoloc sospiro al cuor s’aduna:
Come farò io, quando In parte alcuna
Non trovo cosa che aiutar mi possa ,
E quanto più mi levo, più giùcaggio?
Non so : ma tal viaggio
Consumato ave si ogni mia possa.
Ch’io vo chiamando Morte con diletto,
SI m’è venuta la vita in dispetto.
l’ chiamo, i’prego, ('lusingo la Morte,
Come divota, cara e dolce amica,
Che non mi sia nemica ;
Ma vegna a me come a sua propria cosa ;
Ed ella mi Uen chiuse le sue porte ,
E sdegnosa ver me par eh’ ella dica:
Tu perdi la fatica,
CIi ’ io non son qui per dare a’ tuoi par posa:
Questa tua vita cotanto angosciosa
Di sopra data tl *, se ’l ver discrrno;
E però il colpo mio non ti distrugge.
Cosi mi trovo in ugge
A’Clcli, ai mondo, all’acqua edall’inferno,
Ld ogni cosa eh' ha poder mi scaccia;
Ma sol la Povertà m'apre le braccia.
Come dal corpo di mia madre usci’ lo
Così la Povertà mi fu da lato ,
E disse: Tè fatato.
Ch’io non mi veggia mai da te partire;
E s'tu volessi dir come ’l so io:
Donne che v’eran me 1’ hanno contato;
E più manifestato
M è per le prove, fio non to' mentire.
Lasso , che più non posso soflerire ;
Però bestemmio in prima la Natura
E la Fortuna con chi n’ ha potere
Di farmi si dolere;
E tocchi a chi si vuol , ch'io non ho etua;
Chè tanto è ’l miodolore e la mia rabbia.
Che io non posso aver peggio ch’io m'abbiì.
Però eh’ io sono a tal punto condotto.
Ch’io non conosco quasi ov’io mi sia;
E vado per la via,
Com’ uom ch’è tutto Dior d’ intendimento;
Nè io altrui nè altri a me fa molto.
Se non alcun che quasi come io stia ;
Più son cacciato via,
Che se di vita fossi struggimento.
Ahi lasso me, chè cosi vii divento
Che Morte sola al mio rimedio chegglo*
11 cuore, il corpo e la voce mi trema;
lo ho paura e tema
Di tutte quelle cose ched io veggio;
Ed ancor peggio m’ indivina il core*.
Che sema fine sarà 11 mio dolore.
Mille fiate il di fra me ragiono:
Deh che pure fo io, che non m’uccido!
Perchè me non divido
Da questo mondo peggior che ’l veleno!
E riguardando II tenebroso suono.
Io non ardisco a far di me micido:
Piango , lamento e strido,
E com' uom tormentato cosi peno;
Ma quel di ch’io verrò piuttosto meno
Si è, ch’io odo mormorar la gente.
Che mi sta più che ben, se lo ho male;
E ch’è gente cotale.
Che se Fortuna ben ponesse mente
In meritargli quel che sanno fare,
E’ non avrebbon pan da manicare.
Canron , io non so a cui lo mi ti scriva;
Ch’Io non credo che viva
Al mondo uom tormentato com’Jo sono;
E però t’abbandono,
E vanne ove tu vuol , che piu ti piace;
Chè certo son ch’io non avrò più pace
i
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«04
MORALI.
ANDREA DEL BASSO.
Contro la sua donna morta.
Risorga dalla tomba arara e lorda
La putrida tua salma, o donna cruda.
Or che di spirto nuda
E cieca e muta e sorda
Ai vermi dai pastura;
E dalla prima altura
Da fiera Morte scossa
Fai tuo letto una Tossa.
Notte, continua notte
Ti divora ed Ingbiotte,
E la puzza ti smembra
Lesi pastose membra,
E ti stai fitta fitta per dispetto,
Come animai immondo al laccio stretto.
Vedrai se ognun di te mettrà paura,
E fuggirii come garzon la sera
Dall’ombra lunga e nera
Che striscia per le mura;
Vedrai se alla tua voce
Oedran l' alme pietose;
Vedrai se al tuo invitare
Alcun vorrà cascare ;
Vedrai se seguiranti
Le turbe degli amanti,
E se il di porterai
Per dove passerai,
0 pur se spargerai tenebre c lezzo :
Tal clic a te stessa verrai In disprezzo.
E tornerai dentro l’ Immonde bolge
Per minor pena della tua baldanza.
La tua disonoranza
Allora in te si volge;
E grida : 0 sciaurata
Che fosti si sfrenata :
Quest' è il premio che toma
A chi tanto s' adorna,
A chi nutre sue carne
Senza qua giù guardarne,
Dove tutto sfi volvc
In cenere ed in polve,
E dove non è requie o penitenza,
Fino a quel di dell’ultima sentenza.
Dov’ e quel bianco seno d' alabastro
Ch’ondoleggiava come al margin flutto?
In fango s'è ridulto.
Dove gli occhi lucenti ,
Due stelle risplendenti?
Ahi che son due caverne
Dove orror sol si sceme.
Dove il labbro si bello
Che parca di pennello?
Dove la guancia tonda?
Dove la chioma bionda?
E dove simmetria di portamento?
Tutto è smarrito come nebbia al vento.
Non tei diss’io tante fiate e tante?
Tempo verrà che non sarai più bella,
E non parrai più quella,
E non avrai più amante.
Or ecco vedi II frutto
D' ogni tuo antico fasto.
Cos' è che non sia guasto
DI quel tuo corpo molle?
Cos’ è dove non bolle
E verme e putridume
E puzza e sucidume?
Dimmi, cos’ è, cos’ è che possa piuc
Far a’ tuoi proci le figure sue?
Dovevi altra mercè chieder che amore.
Chieder dovevi al Cielo pentimento.
Amor cos’ è? un tormento.
Amor cos' è? un dolore.
E tu, gonfia e superba,
Ch’ eri sol fiore ed erba
Clic languon nati appena,
E le credevi piena
Di balsamo immortale,
Credevi d’aver l'ale
Da volar sulle nubi,
E non cri che Anubi
Adorato in Egitto oggi e domane
In la sembianza di molosso cane.
Poco giovò eh’ io ti dicessi : Vanne,
Vanne pentita a’ piè del confessoro.
Digli : Frate, io moro
Nelle rabbiose sanne
Deli' inrernal dragone.
Se tua pietà non pone
Argine al mio fallire.
Io vorrei ben uscire :
Ma si mi tiene il laccio, ;
Che per tirar ch'io faccio,
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CANZONI
Romper noi posso punto;
SI che oramai consunto
Ho lo spirito e l’alma, e tu puoi solo
Togliermi per pietà fuori di duolo.
Allor si ebe ’l morir non saria amaro,
Chè morte a' giusti è sonno e non e morte.
Vedesti mai per sorte
Putir chi donnei raro
Raro chi non s’ allevi
Dai sonni anche non brevi.
Tu saresti ora in alto
E SONETTI. 605
Sopra il stellato smalto,
E di lì nella fossa
Vedresti le tue ossa
E candide e odorose
Come I gigli e le rose.
E nel di poi dell’ angelica tromba
Volentier verna l’alma alla tua tomba.
Canion, vanne lì dentro
In quell’orrido centro :
Fuggi poi presto, e dille che non spera
Pietà chi aspetta di pentirsi a sera.
CINGOLI.
La Virtù e la Fortuna.
Virtù sola vivace sempre splende.
Caduca e frale ogni altra cosa giace :
Virtù dona quel ben che mai non splace ;
Non teme morte in chi Virtù s'accende.
Virtù fa nobiltà, non come Intende
11 vulgo indotto, quella Dea fallace
Che sempre rota, e sì come a lei piace,
Stato, onor e riccheue toglie e rende.
Può far d' un Codro in breve tempo un
Fortuna , e può levar in alto stato [Crasso
Un uom qual vuoi di plebe infimo o basso;
Ma non può dar al mondo un altro Calo,
Col suo giocare e col suo errante passo :
Non s’acquista Virtù per sorte o fato.
TIBALDEO.
l'na sposa moribonda parla allo sposo.
Parte dell’alma mia, caro consorte,
Che vivrai dopo me qualch'anno ancora,
Se vuoi che In pace ed in quiete io mora ,
Tempra tanto dolor sfrenato e forte.
Il vederti attristar tu’ è doppia morte;
E se pur pianger vuoi , deh fa dimora
Tanto che ’l spirto se ne voli fuora ,
Ch’ esser già per uscir sento alle porte.
Al mio partir sol ti dimando un dono ;
Che servi fede al nostro casto letto
Che In la mia verde età freddo abbandono.
E perchè accade pur qualche dispetto
Tra consorti talor; chieggo perdono,
lo vo ; rimanti in pace ; In Clel t' aspetto.
LEONARDO DA VINCI.
Che cosa s’ abbia a volere.
Chi non può quel che vuol, quel che può vo-
Chè quel che non si può folle è volere: [glia;
Adunque saggio è l'uomo da tenere.
Che da quel che non può suo voler toglia:
Però ch’ogni diletto nostro e doglia
Sta in si e no saper voler potere :
Adunque quel sol può , che col dovere
Ne trae la ragion fuor di sua soglia, [te;
Nè sempre è da voler quel che l'uom puo-
Spessopar dolce quel che toma amaro;
Piansi gli quel ch'io volsi, poi ch’io l 'ebbi.
Adunque , tu lettor di queste note ,
Se a te vuol esser buono , agli altri caro,
Vogll sempre poter quel che tu debbi.
COSTANZO
SONETTI
lo morte del figliuolo.
I.
Dell’età tua spuntava a pena il fiore.
Figlio, e con gran stupor già producea
Frutti maturi , e più ne promettea
L’incredlbil virtute e ’l tuo valore.
Quando Atropo crudel mossa da errore.
Perchè senno senile In te scorgca ,
Credendo pieno 11 fuso ove attorcea
L’aureo tuo stame, il ruppe in sì poch’ore,
E te della Natura estremo vanto
M Ise sotterra : e me eh' Ir dovea pria , [to.
Lasciò qui In preda al duol eterno, al pian»
Nè saprei dir se fu più Iniqua e ria
Troncando un germe amato e caro tanto,
0 non sterpando ancor la vita mia.
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«oc
MORALI.
II.
io (i produssi al mondo , e poi fur tali
L’almo virtù dì che tu t’ adornasti ,
Che quanto mi dovei già mi pagasti
Di case eterne per caduche e frali.
to, figlio , ti vestii delle mortali
Membra , onde poi si ratto ti spogliasti ,
E per premio di cib tu mi lasciasti ,
Qie ti fui padre sol , lode immortali :
Chè si videro in te, ramo felice,
Spuntar si dolci e si soavi fiori ,
Che ancor ne odoro lo secca, umii radice.
Cosi colui che si da presso adori
Faccia partecipar l’ alma infelice
Del ben ch'or godi in quei superni cori.
Ili.
Nè ai mcrto tuo, nè alla pietà patema,
Alessandro , convlen eh’ un di trapassi ,
Ch' io non tenie i miei versi umili e bassi
Alzare a far di te memoria eterna.
Mail duo! che asuo voler regge e governa
L' intelletto e la mente e i sensi Lassi ,
Fa che ciascun di ior l' impresa lassi
Per dar soccorso alla mina interna.
Perù ristretti a sospirar col core ,
Con far dei viver mio l’ ore più corte ,
Cercan per altra via di farti onore.
Chè alla futura età le genti accorte,
Potran pensar qual fusse il tuo valore ,
Se mi uccise il dolor della tua morte.
DELLA CASA.
Pentest degli amori profani e chiede mercè s Dio.
Errai gran tempo; c del cammino incerto
Misero peregrìn molti anni andai
Con dubbio piè scnticr cangiando spesso ;
Nè posa seppi ritrovar gii mai ,
Per plano calle o per alpestre ed erto
Terra cercando e mar, lungi e da presso ,
Talché ’n irae ’n dispregio ebbi me stesso,
E tutti i mici pcnsicr mi spiacquer poi ,
Ch' io non polca trovar seorta o consiglio.
Ahi cieco mondo, or veggio i frutti tuoi
Come in tutto dal fior nascon diversi !
Pietosa istoria a dir quel eh' io sollersi
In cosi lungo csiglio
Peregrinando , fora : [ra ;
Non già eh’ io scorga il dolcealbergo anco-
Ma'l mio santo Signor con nuovo raggio
La via mi mostra ;e mia colpa è, s'io caggio.
Nova mi nacque in prima al cor vagbcz-
S1 dolce al gusto in su 1* età fiorita , [sa,
Che tosto ogni mio senso ebbro ne fuc.
E non si cerca o libcrtate , o vita ,
Os* altro più di queste uom saggio prezza
Con si fatto desio , coni' io le tue
Dolcezze, Amor, cercava : ed or di due [no
Begli occhi un guardo, or d’una bianca ma-
Seguìa le nevi : e se due trecce d' oro
Sotto un bel velo fiammeggiar lontana,
0 se talor di giovanetta donna
Candido piè scoprio leggiadra gonna
(Or he sospiro e ploro)
Corsi, com’augcl fosse
Che d’ aito scenda , ed a suo cibo vole.
Tai fur, lasso, le vie de’ pcnsicr miei
Ne' primi tempi , e cammin torto fei.
E per far anco il mio pentlrpiù amaro.
Spesso piangendo altrui termine chiesi
Delle mie care c volontarie pene ,
E ’n dolci modi lacrimare appresi;
E nn cor pregando di pictate avaro
Vegliai le notti gelide e serene ;
E talor fu , cb’ io ’1 torsi ; e ben conrene
Or penitenzia e duol l' anima lave
De’ color atri e del terrestre limo,
Ond’ ella è per mia colpa infusa e grave:
Chè se 'I Ciel me la diè candida e Uve,
Terrena c fosca a lui salir non deve.
Nè può , s' io dritto estimo ,
Nelle sue prime forme
Tornar già mai, che pria non segni l’ orme
Pietà superna nel cammin verace ,
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CANZONI E SONETTI.
E la tragga di guerra e ponga in pace.
Quel vero amor dunque me guidi e scor-
cile di nulla degnò si nobil farmi ; [ga ,
Poi per sè 1 cor pure a sinistra Tolge ,
Nò l' altrui può nò il mio consiglio aitarmi:
Si tutto quel che luce ali' alma porga ,
Il desir cieco in tenebre rivolge.
Come sentendo pure ai Un si svolge
Stanca lalor fera dai lacci e fogge ;
Tal io da lui , eh’ al suo vencn mi colse
Con la dolce esca.ond'ei pascendo strugge,
Tardo partinim! e lasso a lento voto :
Indi cantando il pio, passato duolo ,
In sè P alma s’accolse ,
E «fi desir novo arse ,
Credendo assai da terra alto levarse:
Ond’ io vidi Elicona , e I sacri poggi
Salii, dove rado orma è segnata oggi.
Qual peregrln, se rimembranza il punge
Di sua dolce magion , talor sè 'mia
Batto per selve e per alpestri monti ;
Tal mcn gir’ io per la non plana via
Seguendo pur alcun ch’io scorsi Innge ,
E fur tra noi cantando illustri e curiti.
Erano I piè men del desir mio pronti ;
Ond' io del sonno e del riposo l'ore
Dolci scemando , parte aggiunsi ai die
Delle mie notti anco in quest’ altro errore,
Per appressar quella onorata schiera.
Ma poco aito salir concesso m’era
Sublimi, elette vie.
«07
Onde T mio vicino
Lungo Permesso feo novo cammino.
Deh come seguir voi miei piè fur vaghi 1
Nè par eh' altrove ancor l’ alma s’ appaghi.
Ma volse 11 penslcr mio folle credenza.
A seguir poi falsa d’ onore insegna :
E bramai farmi ai buon di fuor simile;
Come non sia valor, s' altri noi segna
Di gemme e d’ostro ; o come virtù senza
Alcun fregio per sè sia manca e vile.
Quanto piansi io , dolce mio stalo umile ,
I tuoi riposi , e i tuoi sereni giorni
Volti in noni atre e rie, poi eh' io m'accorsi
Che gloria promettendo, angoscia e scorni
Dì il mondo ; e vidi qua! pensieri ed opre
Di letizia lalor veste c ricopre I
Ecco le vie eh’ io corsi
Distorte : or vinto e stanco , fon ,
Poiché varia ho la chioma, Infermo ilflan-
Voigo quantunque pigro indietro i passi ;
Chè per quei sentler primi a morte vasai.
Picciola fiamma assai lunge riluce,
Canzon mia mesta; ed anco alcuna volta
Angusto calle a nobil terra adduce.
Cbè sai , se quel pensiero infermo e lento
Ch’ io mover dentro all’ alma afflitta sento,
Ancor potrò la folta
Nebbia cacciare , ond' io
In tenebre finito ho il corso mio,
E per sicura via, se 1 Gel Fafiìda ,
Si com’ io spero , esser mia luce e guida 7
Teme che il suo pende eoa si» tardo.
Or pompa ed ostro, ed or fontana ed elee
Cercando, a vespro addutla ho la mia luce
Senza alcun prò, pur come loglio o felce
Sventurata , che frutto non produce ;
E bene il cor del vaneggiar mio duce
Vie più sfavilla che percossa selce
Si torbido lo spirto riconduce
A chi si puro in guardia e chiaro dielee.
Misero! c degno è ben eh' ci frema ed ar-
Poichè ’n sua preziosa c nobil merce [da;
Non ben guidata, danno e duol raccoglie ;
Nè per Borea gii mai di queste querce,
Come trema io , tremar l' orride foglie :
Si temo eh' ogni ammenda ornai sia tarda.
Duolsi delle indegne some di cito si gravò.
Già lessi, ed or conosco in me si, come
Glauco nel mar sì pose uom puro ecbiaro;
E come, sue sembianze si mischiaro
Di spume e conche, e fersì aiga sue chiome.
Però cltc’n quest’Egeo.ehe vita ha nome.
Puro aneli' io scesi, e in queste dell’ amaro
Mondo tempeste; ed elle mi gravaro
1 sensi e l’ataia, ahi di che indegne some ,
Lasso ! e sovv iemmi d' Esano , che l'ali ,
D'amoroso pailor segnate ancora,
Digiuno per lo Gelo apre e distende.
E poi satollo indarno a volar prende:
SI il core anch'io, che per se lieve fora.
Gravato ho di terrene esche mortali.
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£08
MORALI.
A UtlA Selva
0 dolce selva solitaria , amica
De' miei pensieri sbigottiti e stanchi.
Mentre «urea ne' di torbidi e manchi
D’orrido gel l'aere e la terra implica;
E la tua verde chioma ombrosa , antica
Come la mia, par d'ogn'inlorno imbianchi,
Or che ’n vece di fior vermigli e bianchi,
Ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;
A questa breve, nubilosa luce
Vcrispensando, che mi avania, e ghiaccio
Gli spirti anch' io sento e le membra Tarsi:
Ma piudi tedentroed' intorno agghiac-
cio:
Che piùcrudo Euro a me mio verno addu-
Più lunga notte e di più freddi e scarsi, [ce,
Volgesi a mirar le maraviglie dei mondo.
Questa vita mortai chc’n una o ’n due
Brevi e notturne ore trapassa oscura
E fredda , involto avea fin qui la pura
Parte di me nell'atra nubi sue.
Or a mirar le graiic tante lue
Prendo ; chè frutti e fior, gelo ed arsura ,
E si dolce del Ciel legge e misura ,
Eterno Dio , tuo magisterio fue :
Ansi ’l dolce aer puro e questa luce
Chiara,che ’l mondo agli occhi nostri sco-
Traesti tu d'abissi oscuri e misti: [pre,
E tutto quel che ’n terra o ’n Ciel riluce ,
Dì tenebra era chiuso, e tu l'apristi;
E ’l giorno e ’l Sol delle tue man son opre.
BERNARDO TASSO.
Sulla feliciti pastorale.
0 pastori felici.
Che d’ un plcciol poder lieti e contenti
Avete i Cieli amici;
E lungi dalle genti,
Non temete di mar ira, o di venti.
Noi vivemo alle noie
Del tempestoso mondo cd alle pene;
Le maggior nostre gioie
Ombra del vostro bene,
Son più di fel che di dolcezza piene.
Mille pensier molesti
Ne porta in fronte il di dall' Oriente;
E di quelli e di questi
Ingombrando la mente,
Fa la vita parer trista e dolente.
Mille desir noiosi
Mena la notte sotto alle fosch’ ali,
Che turbano i riposi
Nostri e speranze frali,
Salde radici d'infiniti mali.
Ma voi, tosto che l’ anno
Esce col Sole dal Monton celeste ;
E che del fero inganno
Progne con voci meste
Si lagna, e d'allegrezza il di si veste;
All' apparir del giorno
Sorgete lieti a salutar l'Aurora,
E ’l bel prato d' intorno
Spogliate ad ora ad ora
Del vario fior, che ’lsuo bel grembo onora.
E ’nghirlandati II crine.
Di più felici rami gli arbuscelli
Nelle piaggle vicine
Fate innestando belli ;
Ond' innalzano al elei vaghi capelli.
E talor maritate
Ai verd' olmi le viti tcnerelle,
Ch’ al suo collo appoggiate,
E di foglie novelle
Vestendosi, si fan frondose e belle.
Poi ch'alia notte l’ore
Ritoglie il giorno, dal securo ovile
La greggia aprite fuore ;
E con soave stile
Cantate il vago e dilettoso aprile.
E ’n qualche valle ombrosa,
Ch'ai raggi ardenti di Febo s' asconde
Lì, dove Eco dogliosa
Sovente alto risponde
Al roco mormorar di lucld’ onde,
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odi. co*
Chiudete Iu sonni molli
Mele Papi ingegnose;
Gii occhi gravati; spesso i bianchi tori
Latte puro le pecore lanose.
Mirate per li colli
Voi, mentre oscuro velo
Spinti da’ loro amori
Il vostro chiaro elei nasconde c serra ;
Cozzar insieme ; e lieti ai vincitori
Mentre la neve e ’l gelo
Coronate le corna;
Alle piagge fa guerra;
Onde si veggion poi superbi e feri
Lieti de’ frutti della ricca terra.
Alzar la fronte adorna ;
Or col foco, or col vino,
E gir In vista alteri,
Sedendo a lunga mensa in compagnia.
Come vittoriosi cavalieri.
Sprezzate ogni destino;
Spesso, da poi che cinta
Ne amore o gelosia
Di bionde spiche il crin la State riede,
Dagli usati diletti unqua vi svia.
Coll' irta chioma avvinta
Or tendete le reti
Di torta quercia, il piede
Alla gru pellegrina, alia cervella;
Vago movendo, con sincera fede
Or percotete lieti
In ampio giro accolti,
Con Tromba, o con saetta
La figlia di Saturno alto chiedete;
La fuggitiva damma e semplicetta.
E con allegri volti
Voi quiete tranquilla
Grati ( come devete )
Avete, e senza afTanno alcun la vita;
L’aitar del sangue a lei caro spargete.
Voi non noiosa squilla
Sovente per le rive
Ad altrui danni invita;
Colle vezzose pastorelle a paro
Ma senza guerra mai pace infinita.
Sedete all’ ombre estive;
Vita gioiosa c queta
E senza nullo amaro
Quanto t’invidio cosi dolce stato!
Sempre passate 11 di felice e chiaro.
Che quel che in te s'acqueta,
A voi l' Autunno serba
Non solo è fortunato;
Uve vestile di color di rose;
Ma veramente si può dir beato.
Pomi la pianta acerba;
A LELIO CAPILUPt.
Va sospirando la pairia lontana.
Lello, qui dove il Sole
Qual fuor del suo licore
Con l’obliquo suo raggio, .
Pesci smarriti e spenti
ISè d’ aprii, ni di maggio
Stan, per lungo cammino;
Fa, come altrove suole,
M’ ha scorto il miolnfelice, empio destina
Dilettoso il terreno
Qui misero, qui vivo;
A mille varj fiori aprire il seno ;
Se chiamar si può vita
Ove l'orrido Verno
Questa, lasso, che invita
Tiene il nevoso regno,
L'uomo di gioia privo
E pien d' ira e di sdegno
In dolorose tempre
Si fa di Flora scherno :
A sospirar, a lacrimar mai sempre.
Ov' Aquilone irato
E se talor mi volto
Copre di gelo ogni monte, ogni prato.
In quella parte bella,
Ove il ghiaccio aspro e duro
U’ la mia fida stella
Pon freno al fiumi vaghi;
Con rugiadoso volto
E i freddi stagni c 1 laghi
Mi chiama da lontano.
Nascondono il suo puro
E mi sospira lungamente in vano ;
Fondo, qui dove il Gelo
Prendo tanto conforto
Si veste ogn’ or di tenebroso velo :
Da quel Cielo amoroso,
Fra queste strane genti;
Ch’ogni stalo noioso
Dove virtù ed onore,
Pongo in obblio; ma corto
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,
- - , .
fio MORAI.I.
È quel diletto e frale, •
Poiché lontano * H ben, presente il male.
0 patria illustre, o madre
D’ Imperadori e refi ,
Che co’ ior fatti egregi
Rendono oscure ed adre
Tutte l’ opre onorate
Dell' anime più chiare e più lodate :
0 patria illustre, o albergo
Di quanto ben ci mostra
Questa terrena chiostra,
A te in’ innalzo ed ergo ;
E t’onoro ed esalto.
Quanto le rime mie posson gir alto.
Felice noi, felice
Tre volle, e più, ebe il giorno
In si lieto soggiorno
Passate, ove non lice
Veder ciò che non sia
Tutto pien di virtù, di leggiadria.
Voi solingo talora
Toltovi al volgo Ignaro,
Con l’ altre Muse a paro.
Dove Zefiro e Flora
Spargon le lor ricchezze.
Cantate le divine, alme bellezze
Di quella che prescrive
1 chiari giorni vostri :
Talora con gl’ inchiostri
Purgati, per le rive
Vergate d’ un bel rio
Carte secure dall’eterno obblio.
0 se benigna sorte
M'aprc dall' Oriente
Quel di chiaro e lucente.
Ch'ai bel desio mi porte;
Chi più di me contento
Spargerò voci d’ allegrezza al vento?
Nocchiero accorto e saggio,
Ch'ha guardata la nave
Da tempesta atrae grave;
Giunto al fin del viaggio
Appende sulle sponde
I.' umide vesti al Dio delie sala’ onde.
lo gli sproni e ’l cappello,
Qual stanco pellegrino,
Che da lungo cammino
Venga, ad un ramuscejla
D’ un pino e d’ un abete
VjZgicrar alla Dea della quitto;
Indi gioioso c lieto
Neil' onorato monte,
or orna la bella fronte
Del gran Salerno, qocto
Mirar or nelle chiare
Onde scherzar gl' ispidi Del del mare:
E Dori e Galatea
Di perle e di coralli
Cinte, amorosi balli
Guidar con Panopea;
F,d arder co’ sospiri
I.’ acque nel foco de' Ior bei destri.
E I lascivi Tritoni
Talor andar guizzando.
Desiosi cercando
I più preziosi doni
Per coronarne II crine
Delle lor Ninfe vaghe e pellegrine.
Talor con la vezzosa
Mia pastorella e lieta.
Quando il sovran pianeta
Rende vaga ogni cosa ;
E col raggio fecondo
Orna di varie sue bellezze il mondo ;
Ne' mattutini albori.
Mentre i soavi augelli
Sopra i verdi arbusceill.
Che spiran mille odori,
Salutan lieti il die.
Dolcemente cantar le pene mie :
E fra 11 canto, alle rose
Delia purpurea bocca.
Onde Amor vibra e scocca
Le sue gioie più ascose.
Involar dolci baci ;
E far con Icr garrendo e guerre e paci.
Or con le Muse amiche.
Che stan meco sovente.
Cantar lieto c ridente
L’ onorate fatiche
Dei mio Signor gentile,
Con colto, vago c dilettoso stile.
0 di chiaro, lo ti sacro
Questa penna; e se mai
A me lieto verrai,
Ti farò un simulacro
Nelle viraci carte,
V fian le glorie tue pinte e cotparte :
Sicché miU’ anni, e poi
Lo genti che verranno,
Come al più bel dell' anno,
Alzin agli onor tuoi
Ricchi c festosi altari,
E vivi ognor fra più famosi e chiari.
• 1
t
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CANZONI.
CELIO 31 AGNO.
Per l’anniversario della morte del Padre.
Sorgi dell' onde fuor pallido e mesto,
Faccia prendendo al mio dolor simile ,
Pietoso Febo , e meco a pianger riedi.
Questo è *1 dì cb'a rapirl'alma gentile [sto,
Dei mio buon padre, oimè, fu 'I Ciel sì pre-
Restando gli occhi mici di pianto eredi.
E ben lagnar nti vedi
A gran lagion : poi che si Cda e cara
Scorta all’ entrar di questa selva errante
In un momento mi sparlo datante.
Cruda mia sorte avara,
Che la mi tolse; e ’n questa pena acerba
Mostra a quant’ altre ancor mia vita serba.
Da troppo dura, ingiuriosa parte
Ver me Fortuna incominciò suo sdegno ;
E da tropp’ erto monte al pian mi stese :
Ch* in un punto a' suoi colpi esposto segno
Me scorsi , al vento mie speranze sparte ,
Con troppo debil petto a tante offese
Dir si polca cortese
Sua crudeltà d’ogni altro acerbo danno,
Senza il sangue bramar di questa piaga:
O l’era pur d'uccider lui si vaga;
Per temprar U suo affanno
Far, ch’ei vedesse innanzi all’ore estreme
A vidn frutto in me fiorir sua speme.
Arca duo lustri , e'I terzo quasi , il Sole
Volti dal di eli' alla sua nova luce
Nudo parto infelice uscir mi scorse ,
Che ti partisti , o mio sostegno e duce ,
Da me : tu '1 sai ; e forse ancor tcn dole ;
Chè ciò grave ferita al cor tl porse.
Nè meno al dnol concorse,
Lasso, che meco ad nn tre figli tuoi ,
Che cbiedean latte ancor nei sen materno ,
Abbandonavi per esilio eterno.
De’ quali una da poi
Pura angiolrtta tati veloci penne
Al Ciel per l’ orme lue lieta sen venne.
0 lei fritte, o dipartir beato.
Ove ’n quella età nè sua miseria scorse ,
Nè fu serbata a si penosi guai !
Omie gioie c speranze ora converse
lo doglia e pianto ! 0 caro allor mio stato,
Che nella vita tua me stesso amai !
Cbi più tranquille mai
Voglie, o dolci pensier chiuse nel petto?
Chi provò della mia più lieta sorte
Fin eh’ a me non li tolse invida Morte?
Ma tal pace e diletto,
Lasso, ebbi allor, perchè più grave poscia
Giungesse al cor la destinata angoscia.
Semplice augello in fortunato nido
Mi giacqui un tempo alla tua dolce cura :
E sotto l’ali lue contento vissi.
Quanto ebbi l’aria allor grata c sicura:
Mentre innanzi spiegando il volo fido
T* ergevi al Ciel, pcrch’ io dietro seguissi !
Ed io , gli occhi in te fissi ,
Volar tentava il tuo camrnin servando :
Nè percb’ io rimanessi assai loutauo ,
Eran le penne mie spiegate in vano :
Chè più sempre avanzando,
In me di pur salir nova vaghezza.
In te sempre crescea speme e dolcezza.
Ma mentre è tutta in noi tua cura intenta,
E in grembo a tua pietà nostri desiri
Godcan tranquilla c riposata pace;
Ecco, che qual arder di' ingordo miri
A nova preda, iti te suo strale avventa,
E te n’uccide Morte empia c rapace.
Nè ’n ciò pur si compiace
L’ ira dei Od , chè la tua fida moglie ,
Dolce a noi madre, in cui sola s’accolse
La nostra speme , ancor per sé ritolse.
Ahi , chè giammai non coglie
D’ un sol colpo Fortuna ove fa guerra,
E sol pianto e miseria alberga in terrai
Clic dovea far? donde sperar pietade?
Donile attender soccorso orbato e solo
Dell’ nno c l’altro mio dolce parente?
lo che bisogno avea di scorta al volo ,
1.’ altrui regger convenni , c'n verde clade
Vestir puro fanciul canuta mente.
Onde le luci Intente
Portai sempre a fuggir le reti e ’l visco :
K s’ allor pur piegai, Grazia celeste
Mi fc’ l’ al! a scamparne accorte c preste ,
Mcnibrando in ogni risco
Quel die tu presso a morte in mesi pie
Oigitized
MORALI.
«12
Gii per norma segnasti al viver mio.
Giacevi infermo , e per gravarti il ciglio
Stendea Morte la man l' ultimo giorno
Che pose Ane alia tua degna vita.
Tacita e mesta al caro letto intorno ,
Priva d'ogni speranza e di consiglio
Stava la tua famiglia sbigottita.
Tu, tu che di tua partita
Alto martir premei nel saggio core ;
Con fermo viso in parlar dolce, accorto
Pregavi al nostro duol pace e conforto.
Indi con santo ardore
La tua pietate, in me le luci Asse,
Queste parole in mezzo ’l cor mi scrisse :
Figlio , se questo è pur l’ estremo passo
Della iniavlta,ond’ioson sazio e stanco,
Se non per voi, miei cari pegni e spenc;
Cedi al voler divln, cedi al crin bianco,
E Morte scusa in me , se 'I corpo lasso
Vincendo ornai , l’ usato stil mantiene.
Ecco pronta al tuo bene
Per me la madre tua Adata e pia.
Tu fa' del suo voler legge a te stesso, [so ;
Volto sempre al catnminpcrcui t’ bo mes-
E poi che l’alma Oa
Sciolta da me di puro ardor ripieno ,
Prega il Signor che la raccolga in seno.
CiAdetloa pena, alla gii fredda lingua
Eterno pose , olmi , silenzio ; e i lumi
Per non aprirgli più, mancando, chiuse.
Fia mai giusto dolor eh' altrui consumi ,
Del miopiù acerbo? o lume altro s’estingua
DI chiare doti in più degn'alma infuse?
Caro a Febo e alle Muse,
Caro delle Virtuli al santo coro,
Spirto d' ogni valor ricco e fecondo ,
Or del Cicl ornamento e giù del mondo ;
Ahi , mio nobll tesoro [to !
Che '1 soverchio mio duol tronca il tuo v an-
Ma sempre alinen t'onorerò col pianto.
Canzon , vattene in Cielo
Sull' ali che'l desio veloce spiega:
E ricercando Infra quei santi cori ,
Tranne il mio gcnitor col guardo fuori.
Poi riverente il prega ,
Che del duolo ond' io sento il cor piagarmi.
Scenda in sogno talora a consolarmi.
Meditazioni sulla morte vicina.
Me stesso io piango; e della propria mor-
Appa rocchio l' esequie anzi eh' io pera : [te
Ch'ognor in vista fera [eia.
M’appardavanli,e 'I cor di tema agghiac-
Cbiaro Indicio, che gii l'ultima sera
S' appressi, e ’l fin di mie giornate apporle.
Nè piango , perchè sorte
Largae benigna abbandonar mi spiacela:
Anzi or con più che mai turbata faccia
Fortuna provo a farmi oltraggio intenta.
Ma se in rotai pensieri’ anima immersa
Geme c lagrime versa,
E del suo amato nido uscir paventa ;
Natura il fa , che per usata norma
L’imagine di Morte orribil forma.
Lasso me , che quest’ alma c dolce luce ,
Questo bel Ciel , quest’ aere onde respiro,
Lasciar convegno ; e miro
Fornito il corso di mia v ila ornai :
E l’esalar d’un sol breve sospiro
A’ lancimi’ occhi eterna notte adduce :
Nè perlor mai più luce
Febo , o scopre per lor più Cinzia I raì.
E tu lingua, e tu cor, ch’i vostri lai
Spargete or meco in dolorose note;
E voi , piè , giunti a’ vostri ultimi passi ;
Non pur di spirti cassi
Sarete , e membra d'ogni senso vote ;
Ma dentro alta funesta , oscura fossa
Cangiati in massa vii di polve e d'ossa.
0 di nostre fatiche empio riposo,
E d'ogni uman sudormela infelice,
Da cui torcer non lice
Pur orma , nè sperar pleiade alcuna !
Che vai , perdi’ altri sia chiaro c felice
Di gloria d’av i, o d’ oro in arca ascoso ,
E d’ogni don gioioso
Che Natura può dar larga e Fortuna ,
Se tutto è falso ben sotto la Luna,
E la vita sparisce a lampo eguale ,
Che subito dal Ciclo esca e s' asconda?
E s'ove è più gioconda,
Più acerbo scocca Morte il crudo strale?
Pur ier misero io nacqui : ed oggi il crine
Di neve ito sparso, e gii son giunto al Ane.
Nè per s) corta via vestigio impressi
Senz'averdi mia sorte onde lagnarme
Chè dall'empia assaltarne
Vidi con alte ingiurie a ciascun varco.
Conira la qual da pria non ebbi altr’ arme.
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— . *1
CANZONI.
CI3
Che lagrime e sospir dall' alma espressi.
Poi de’ mici danni slessi
L’uso a portar m’agevolò l’ incarco.
Quinci a studio non suo per forza l’arco
Rivolto fu del mio debile ingegno
Tra’l roco suon di strepitose liti :
Ove I di più fiorili [gno;
Spesi, e par che'l prendesse Apollo a sdc-
Chè se fosscr gii sacri al suo bel nome ,
Forse or di lauro andrei cinto le chiome.
Ma qual colpa n’ebb’ io, se ’l Cielo av-
verso
Par che mai sempre a’ bei desir contenda?
E virtù poco splenda ,
Se luce a lei non dati le gemme e l' oro ?
Nè quanto il dritto e la Natura oITcnda
S'accorge ilmondoin tal errar sommerso?
Al qual anch' io converso
Delle fortune mie cercai ristoro :
Ren che parco bramar fu ’l ndo tesoro ,
Con l’alma in sè di liberta sol vaga,
Ed’ ouesl’ ozio più che d'altro ardente:
Resa talor la mente.
Quasi per furto, infra le Muse paga;
Chè de’ prlm' anni mici dolci nodrici ,
Fur poi conforloa' mici giorni Infelici, [de.
Un ben, eh’ ogni mal tinse, il Ciel mi die-
Quando degnò della sua grazia ornarmi
L’ alta mia patria , e farmi
Servo a sè , noto altrui , caro a me stesso.
Onde umil corsi ov’ lo sentii chiamarmi ,
A piu nobil camrnin volgendo il piede.
Cosi all'ardente fede
Pari ingegno e valor fosse concesso,
0 pria sì degno peso a me commesso,
Chè saldo almen sarebbe in qualche parte
L’Infinito dover che l'alma preme.
Quinci in quest' ore estreme
Ella con maggior duol da me si parte:
Ch’ove all' obbligo scior la patria Invita,
Non pon mille bastar, non eli’ una vita.
Dunque, s’ora il mio fil tronca la dura
Parca , quanti ho de’ mici più cari e fidi
Amor cortese guidi
Al marmo in ch’io sarò tosto sepolto:
E la pietà che in lor mai sempre vidi ,
Qualche lagrima doni a mia sventura.
E se pur di me cura
Ebbe mal Febo , aneli’ ei con mesto tolto
Degni mostrarsi ad onorar rivolto
Un fcdol servo, onde rea Morteli priva.
Prestili le Muse ancor benigno c pio
Officio al cencr mio :
E sulla tomba il mio nome si scriva :
Acciò, se ’1 taceri d'altro onor casso
La Fama , almen ne parli il muto sasso.
Andresti tu piùch'altrialfiilloesmorto
A versar sovra me tuo pianto amaro,
Mio germe unico e caro,
S'in tua tenera età capisse il duolo.
Ahi che simile al mio destino avaro
Provi; ch’a pena anch'io nel mondo scorto,
Piansi infelice il morto
Mio gcnitor, restando orbato e solo.
Misero erede : a cui sol largo stuolo
D'afianni io lascio in pura povertade.
Chiudendo gli occhi, oimè, da te lontano.
Porgi, o Padre sovrano.
Per me soccorso all'innocente ctade:
Ond’ ci securo da' miei colpi acerbi
Viva , e dcll’ossa mie memoria serbi.
Ahi eh’ anzi pur, Signor, pregar dovrei
Per le mie grav I colpe al varco estremo :
Dove pavento e tremo
Dalla giusl’ ira tua, mentre allor guardo.
Tu, cui condusse in terra Amor supremo
A lavar col tuo sangue 1 falli miei ;
Tu clic Fatlor mio sei;
Volgi nell’opra tua pietoso il guardo.
Ch’ or è pronto il pcntir, se fu ’l cor tardo
Per la tua strada c volto a' propri danni :
E con lagrime amare il duol ne mostro.
Tu dall' infernal mostro
L’alma difendi , da perpetui affanni :
Tal che d'ognl suo peso c nodo sciolta ,
Di tua grazia gioisca in Ciel raccolta.
Lì su , lì su , Canzon , la vera eterna
Patria n'aspetta : a Dio sen torni l’alma ,
Che sol bear la può d' ogni sua brama.
E poi che gii mi chiama
A depor questa fral, corporea salma :
Prestimi grazia alla partita innanzi ,
Cb'almen qualch'oraa beo morir m'avanzi.
/
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«14
MORALI.
MARINO.
Ui Bellezza è caduca.
Beiti, dei sommo Sole
Rigido no, ma baleno
Tra noi rbplender sole,
Ma subito vien meno.
Quasi installi! sereno
Di verno, o pioggia estiva,
Quanto pii cara altrui, più fuggitiva.
Innanzi a fari, o lampi
Nebbia vaga, ombra leve :
A foco, a Sol, ch'avvampi,
Tenera cera, o neve
È più salda, e men breve.
Che fior di giovinezza.
Oh’ ha con molto piacer poca fermezza.
Alato Amor sen vola,
E seco 11 Tempo avaro .
L'mel' altro ne ’nvola
il dolce. Il bello, Il caro.
AI di lucente e chiaro
Notte oscura succede.
Ed * sempre del riso II pianto erede.
Di che dunque ti gonfi,
0 gioventie etade?
Di ebe tanto trionfi,
0 terrena beltade?
Non s) rapido cade
Precipitoso fiume.
Come di duo begli occhi il vivo lume.
Folle chi pon sua spcne
In pompa di Natura,
Lo cui caduco bene
Aura leve ne fura.
Passa passa e non dura
Quaggiù felice stato,
E ’n mostrarsi presente è gii passato.
Fuggc fugge il soave,
Amoroso diletto,
E con più lento e grave
Segue noia e dispetto. *'
Oggi è pur giovinetto,
Dinian l’anno si muta,
E la chioma eh’ Ita verde avrà caduta.
Come tosto sparisci,
0 tesoro mortale;
Come ratto svanisci,
0 dote, o gloria frale!
Il più veloce strale.
Che scocchi il cieco arderò
DaU’ arco d’ un bel ciglio ù men leggera.
Non hanno eterne tempre
Nel mondo il caldo e ’l gelo :
Non serba un tenor sempre
La terra, e non il cielo.
I.a bella Dea di Deio
Or in cerchio, or in corno
Tal giammai qual parti non fa ritorno.
L'aria or serena splende,
Or dì nembi s' Inveire :
Il foco or vivo incende.
Or è cenere e polve :
Il mar si cangia e vulve
Di placido in cruccioso,
E sol ne' moti suoi trova riposo.
Ciùche nel sen di Flora
Vide fresco e ridente
Stamane in su l’Aurora
I.udfero nascente,
Aridelto e languente
D’onor privo ritnaso
Esperti rivedrà poi nell’ Occaso.
Beilo è il ligustro e bella
La rosa, occhio de’ fiori :
Questo alfin langue, e quella
Smarrisce I bei colori.
Tal anco orba d’onori
N’ andrà (non andrà molto}
dii ligustri ha nei sen, rose nel volto.
Cosi suoi fregj perde
L’ umana primavera,
Vaga il mattino e verde.
Secca e brutta la sera.
Quando più lusinghiera
Spuntar fra noi si scorge
Cade, c caduta poi, mai piò non sorge. |
Qnante reggie famose,
Quante dltà superile
Fra le rulnc ascose
Coproii l' arene e l’ erbe!
Or qual lie mai clic serbe
Vigor? qual avrà schermo
, Contro chi tutto atterra oggetto infermo?,
L’ ombra deh iloti t' inganni,
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CANZONI E
0 bellezza tradita;
Col vaneggiar degli anni
In apparir sparita
Si dilegua la vita,
E con l’ età fugace
R ben, che si si pregia, il bel, che piace.
Non prestar fede ai guardo.
Che Tero unqua non dice
Nel consigller bugiardo
L’imago adulatricc
Cotrsta allcttalrice
Tua forma e (se noi sai)
Più die ’l cristallo tuo fragile assai.
Codi mentre verdeggia
in sua stagione aprile.
Questo eh’ or si lampeggia.
Vivo spirto gentile
Convien che cangi stile;
E quegli occhi omicidi
Fien sepolcri d' amor, come son nidi.
Verrà con crespe gote,
Con mal sicure piante,
Con vene essangul e vote
La Vecchiezza tremante
Il leggiadro sembiante.
Fatto diforme e vecchio
Odiar cedrassi il Sol, fuggir Io specchio.
L’ ostro vivace, e l’ oro
Sarà pallido argento :
Delie perle il tesoro
Cadrà qual foglia al vento ;
E fieno In un momento
Di solchi e di pruine
SONETTI. g!5
Arato il volto e seminato il crine.
Del Tempo, che io strugge,
Trofeo resta il bel viso :
Irrcvocabil fugge
La gioia, il gioco, il riso
Del fasto di Narciso
Altro aitili non avanza,
Che pentimento c duo! nella tnembraBa.
Che prò dunque ti Ila,
0 gioventù mal saggia
in grembo a leggiadria.
Qual serpe iu lieta piaggia,
Nodrir voglia selvaggia?
Cogli, cogli il tuo fiore,
Cbè quasi in un sol punto e nasce e mora.
La Vita umana.
Apre l’uomo infelice aiior che nasce
In questa vita di miserie piena, [pena
Pria di’ al Sol, gli occhi ai pianto, e nato a
Va prigionier fra le tenaci fasce.
Fanciullo poi , che non più latte il pasce,
Sotto rigida sferza i giorni mena ;
Indi in età più ferma e più serena
Tra Fortuna ed Amor more e rinasce.
Quante poscia sostimi tristo c mendico
Fatiche e morti , in fin che curvo e lasso
Appoggia a debil legno il fianco antico 1
Chiude al fin le sue spoglie ai) gusto sasso
Ratto cosi, clic sospirando lo dico :
Dalla cuna alia tomba è un breve passo.
FILICAIA.
La Provvidenza
Qual madre i figli con pietoso affetto
Mira , e d’ amor si strugge a lor davaute ,
E un bacia in fronte ed un si stringe al pet-
tino tlcn sui ginocchi, un sulle piante : [lo,
E mentre agli atti,ai gemiti, all’ aspetto
Lor voglie intende sì diverse c tante , [lo,
A questi un guardo,aqueì dispensa un det-
E se ride o s’adira , è sempre amante ;
Tal per noi Provvidenza alta, infinita
Veglia , e questi conforta eque! provvede ,
E tutti ascolta e porge a lutti aita.
E se niega talor grazia o mercede ,
0 niega sol , perchè a pregar ne Invita ;
0 negar finge , e nel negar concede.
MENZINI.
L’ Invidia.
Per più d’un angue al fero teschio attor
Veggio, di' atro veleno intorno spiri , [to
Mostro crude!, che il livid’ occhio e torto
Sullo splendor dell' altrui gloria giri.
Il perverso tuo cor prende conforto
Qualor più afflitta la Virtù rimiri:
Ma se poi della pace afferra il porto,
Ti s’apre un mar dì duolo e di sospiri.
Deh se giammai nell' immorlalsoggior-
Le mie preghiere il Cicl cortese udiile, [no
Oda pur queste, a cui sovente io torno.
Coronata di lucide faville
Splenda Virtute; abbia Letizia intorno;
Abbia la Gloria ; e tu mill’ occhi e mille.
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CIC
MORALI.
ZAPPI.
Similmente sopra l'Invidia.
Quand'ìo men vo verso l’ascrea montagna
NI si accoppia la Gloria al destro fianco :
Ella dì spirto al cor, fona al piè stanco,
E dice : Andiam , eh' io ti sarò compagna.
Ma per la lunga, Inospita campagna
MI si aggiunge l'Invidia al lato manco,
E dice : Aneli’ lo son teco : ai labbro bianco
Veggo il vclen che nel suo cor si stagna.
Che far degg'iolSc indietro io volgo I pas-
Soche Invidia mi lassa e m'abbandona : [si,
Ma poi fia che la Gloria ancor mi lassi.
Con ambe andar risolvo alla suprema
Cima del monte. Una mi dia corona,
E l'altra il vegga e si contorca e frema.
MANFREDI.
Sopra la Nobiltà.
Dietro la scorta de’ tuoi chiari passi ,
Signor, ne vengo , d' una in altra date ,
Fra’ nostr’avi a cercar di nobiltate
Le insegne, onde lalun si altero sussi.
Ma più che in quel cammino addietro
Scorgo la rozza, antica PoverUte, [vassi ,
Semplici mense in umil foggia ornate ,
E schiette vesti e tetti oscuri e bassi :
Infin che alle capanne ed alle ghiande
Mi veggo addutto e al prisco stato umile ;
E il meschin trovo pareggiato e il grande.
0 Nobiltà, com' è negletta e vile
L'orlgin tua, se in te suoi rai non spande
Virtù, che sola può farti gentile!
BERTOLA.
ha Malinconia.
Non ha, non ha sul viso
L'asprezza, o la burbanza:
In atto è di sorridere;
E pinge il suo sorriso
Le idee della speranza.
Fisse ha le ciglia ; e pare
Che '1 pianto ahblan versato;
Ma già noi versali; simili
Ad aspetto di mare
Quando il turbo è cessato.
Ama i poggi romiti,
E lo speco odoroso ;
Ama le sere tacite;
E son suoi favoriti
Il silenzio e '1 riposo.
Ma quel silenzio dove
Al cor Natura parla;
E 'I cor risponde c palpita,
E gli spimta#eè move
Sospiri a corteggiarla.
E quel riposo in cui ,
Seal sonno s’abbandona,
Certa è d' un sogno placido;
Onde co’ pensier sui
Scherza, se non ragiona.
Malinconia! qui sede
Meco perpetua eleggi ;
Qui fonda un regno; dettami,
In premio di mia fede,
Tutte qui le tue leggi.
Ed or che riede aprile.
Cerchiamo il sen del bosco.
Fra i solitigli! ricoveri
So dove è il piu gentile :
Ogni arbor ne conosco.
Aprii, sulla verzura
Voglio che teco assiso
Mi trovi. Ah, sonmi un carcere
Le cittadine mura;
E quella, un vero Eliso.
Pur fra le piante e l’erba,
Entro i paterni lidi.
Te, di pochi delizia,
Te, ai volgo ignota o acerba.
La prima volta io vidi.
Io sulla destra palma
li mento e l’una gota
Appoggiava : ne’ languidi
Sguardi la suddit' alma
Del fanclul ti fu nota.
Poi, nell’ età fiorente.
L’indole mansueta
Per te, Tarli m' ornarono;
E fra l’itala gente
Fui creduto poeta.
E a’ boschi fei ritorno,
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ANACREONTICA.
Ospiti della pace :
Cantal de’ boschi; ingenuo
Fu il canto e disadorno;
Pur so che piacque e piace.
E l’alma apersi a tanti
Amabili tumulti,
Quanti dell’ alba il zefiro
Desta fioretti, e quanti
Fa tremolar virgulti.
Tu i fantastici oggetti
Moltiplichi, e colori
Di quel dolce patetico.
Per cui piaccion gli affetti
Del cor laceratori.
E tu l’anima infondi
Ne' sassi e nelle piante ;
Per te gl'insetti parlano :
Tu crei novelli mondi.
Amabilmente errante.
L'n dolce tuo consiglio
Fu che i tesor m'aprio
De’ pensieri britannici :
Onde con fermo ciglio
Guardai la morte anch' io.
Tranquillamente fiero,
Delle tombe sull’ orlo.
Esaminai gli scheletri :
Entusiasta pel vero,
Scesi fra l' Ombre a corto :
E in cor mel posi, e ’l trassi
Alle eittadi meco.
Olrnè, eh’ io posso perderlo,
Se gl’ incerti mici passi
Non vengon sempre teco ;
E se tu a consigliarmi
Non segui i campi aprici,
E al facil rischio togliermi
Del fasto, e di tant' arti
A fede insidiatrici.
0, chi udir fammi rivo
Che gorgogli fra sassi?
E fra i pioppi che il cingono,
L’usignuol fuggitivo,
Ch'ama frescura, e stasai?
Chi, quand'espero è fuore,
M'apre di selva bruna
Il silenzio, ove penetri
Interrotto il chiarore
Della sorgente Luna?
Perchè cosi t’adoro,
Certo mi si contrasta
Starmi in drappei festevoli :
Ma che far mai di loro?
Un amico mi basta.
Ceda al tempo II mio nome;
E mentre a più begli estri
Le Muse il lauro porgono,
Gitilo sulle mie chiome
Poche rose silvestri.
No, il genio non mi chiama
Ad aonil portenti :
Ma che potrei lagnarmene?
Un secolo di fama
Merla poi tanti stenti?
lo scrivo, e per me stesso
Fo del mio cor l' immago.
Che son per me gli oracoli
Di critico consesso,
Se l'aniistade appago!
Quando notato o stanco
All’ ermo tetto arrivo
Colle cadenti tenebre.
Malinconia m'è al fianco;
M'ispira un verso; io scrivo.
0 sere, o mio ritiro.
In cui pensier, costumi
Di mille genti io visito;
E qual ape m'aggiro
Su’ diletti volumi!
Della mia giovanezza
Retaggi eh' io sol amo,
Fra voi, fra l'amicizia,
Mi trovi la vecchiezza,
Cui non odio e non bramo :
E fra’ campi mi trovi,
Sempre cuitor di schietti
Canti, sempre sensibile.
Quando aprii si rinnovi.
Ai boscherecci oggetti.
Tu, come Dio maggiore
Del genial tempio, e come
Dispensarne d' un nettare
Clic spirto inebbria e core,
(Onorate il gran nome]
Tasso, tu meco; e sempre
Con te vegliar mi giova :
In quel tuo dolce pelago
DI patetiche tempre,
Sè stesso il cor ritrova.
Ma In te quanti gran semi
Di divin foco pregni!
Che gelo in me ! che spazio
Fra questi punti estremi,
0 padre degl' ingegni !
CITILI
BEMBO.
Sulle discordie degl’ Italiani .
0 pria si cara al Ciel del inondo parte,
Clic l' acqua cigne e ’l sasso orrido serra,
0 lieta sotra ogni altra e dolce terra,
Chc’l superbo Apennln segna e dtparle;
Che giova ornai, se’l buon popol di Mar-
Ti lasciò del mar donna e della terra ? [te
Le genti a le gii serve or ti fan guerra,
E pongon man nelle tue trecce sparte.
Lasso , ni manca de’ tuoi figli ancora
Chi le più strane a te chiamando, insieme
La spada sua nel tuo bel corpo adoprc !
Orson queste simili alieutiche opre?
0 pur cosi pietate e Dio s’onora?
Ahi seco! duro, ahi tralignatoseme !
GU1DICC10NI.
Sull’ Italia.
I.
Viva fiamma di Marte, onor de’ tuoi,
Ch'Urbinountempo.e piò l’Italia ornaro:
Mira clic giogo vii, che duolo amaro
Preme or l’ allrlce de' famosi eroi.
Abita morte ne’ begli occhi suol, [ro :
Che fur del mondo il Sol più ardente e cliia-
Duolscnc il Tebro, c grida : 0 duce raro,
Movi le schiere onde tant'osi e puoi ,
E qui ne vlendove lo stuol degli empi
Fura le sacre e gloriose spoglie,
E tinge il ferro d’innocente sangue.
Le lue vittorie, e le mie giuste voglie,
E i difetti del Fato omfella langue ,
Tu , che sol dei , con le lor morti adempi.
IL
Dal pigro e grave sonno ore sepolta
Sei già tanl’ anni , ornai sorgi e respira ;
E disdegnosa le tue piaghe mira,
Italia mia, non mcn serva che stolta ,
La bella libertà eh’ altri t’ha tolta
Per tuo non sano oprar, cerca e sospira ;
E i passi erranti al earamln dritto gira
Da quel torto sentier dove sei volta :
Chi se risguardi le memorie antiche.
Vedrai che quei di’ i tool trionfi ornaro ,
T’han posto II giogo, e di catena avvinta.
L'empie tue voglie a te stessa nemiche
Con gloria d’altri, e eon tuo duolo amaro.
Misera , t* hanno a si vii fine spinta.
III.
Da questi acuti e disputati strali
Che Fortuna non sazia ognora avventa
Nel bel corpo d' Italia, onde paventa ,
E piange le sue piaghe alte e mortali ;
ftram’io lev armi ornai sulle destre ali,
Che '1 desio impenna e di spiegar già tenta ;
E volar là dove io non reggia e senta
Quest' egra schiera d'infiniti mali :
Chè non posa' io soffrir, chi fu già lume
Di beltà , di valor, pallida e ’ncolta
Mutar a voglia altrui legge e costume :
E dir versando il glorioso sangue :
A elle l’ armi. Fortuna ? a che sci volta
(lontra chi vinta cotanti anni langue?
IV.
Il non più udito e gran pubblico danno ,
Le morti, Tonte, e le querele sparte
D'Italia, ch’io pur piango in queste carte ,
Empierà» di pietà quei che verranno.
Quanti, s'iodritto stimo, ancor di ranno:
0 nati a peggìor anni in miglior parte !
Quanti movraisi a vendicarne in parte
Del barbarico oltraggio e dell'Inganno!
Non avrà l’ozio pigro e’1 viver molle
Loco in quei saggi, ch'anderan col sano
Pensiero al corso degli onori eterno :
Cb' assai col nostro sangue abbiamo il
Errar purgato di coler eh’ in mano [folle
Di si belle contrade hanno il governo.
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SONETTI. «IO
Questa che unii secoli gii «ne
Si lungi il braccio del felice impero;
Donna delle provine io e di quei vero
Valor che ’n cima d" alta gloria ascese ;
Giace tH serva; e di colante offese
Cile sostino dal Tedesco e dait'lbero ,
Non spera ri fin ; cbè indarno Marco e Piero
Chiama al ano scampo ed alle sue difese.
Cosi caduta la sua gloria in fondo,
E domo e spento il gran valor antico.
Ai colpi dell’ ingiurie è fatta segno.
Puoi tu non colmo di dolor profondo,
Bonviso, udir quel ch’io piangendo dico,
E non meco avvampar d’ un fero sdegno ?
V.
Prega tu meco il Cicl della su’ aita,
Sepurquanto devria ti punge cura
Di quest’ afflitta Italia, a cui non dura
la tanti affanni ornai la debil vita.
Non pud la forte vincitrice ardita
Regger, chi’l crederla? sua pena dura:
Nè rimedio o speranza l’ assicura ;
Si l’odio Interno ha la pietà shandita :
Ch’ a tal, nostre rie colpe e di Fortuna,
È giunta, che non èchi pur le dia
Conforto nei morir, non ehe soccorso.
Già tremar fece l’ universo ad una
Rivolta d’ occhi , ed or cade tra via
Battuta e vinta nel suo estremo corso.
VI.
Il Tcbro, l’Arno, 11 Po queste parole
Formate da dolor saldo e pungente
Odo io, ehe sol ho qui l’oreechie intente.
Accompagnar col pianto estreme e sole :
Chiuso e sparito in queste rive è il Sole,
E l’accese virtù d’amore spente :
Ha l'oscura tempesta d’occidente
Scossi i bel fior de’ prati e le viole :
E Borea hasvello 11 mirto c’I sacro alloro,
Pregio e corona vostra, anime rare ,
Crollando i saeri a Dio devoti tetti.
Non avrà’l mar più le rostr’acque chiare;
Rè degli omeri sparse i bel crin (Foro
Fuor le Ninfe trarran dall* onde I petti.
VII.
Mentre in più largo c più superbo volo
I.’ ali sue spande, e le gran forze move
Per l’italico eie! l’ augel di Giove,
Come re altero di tutti altri e solo ;
Non vede accolto un rio, perfido stuolo
Entro al suo proprio e vero nido altrove :
Oli’ anelile quei di milie morti nuove,
E questi ingombra di spavento e duolo :
Non vede I danni suoi, nè a qual periglio
Stia la verace, santa Fé di Cristo;
Che colpa, e so di cui, negletta muore :
Ma tra noi volto a sanguinar Cartiglio,
Per fare un breve e vergognoso acquisto,
Lascia cieco il camniin vero d’ onore.
Vili.
Ecco clic move orribilmente II piede ,
E scende , quasi un rapido torrente ,
Dagli alti monti nuova ingorda gente
Per far di noi più dolorose prede ;
Per acquistar col sangue nostro fede
Allo sfrenato lor furore ardente ,
Ecco eh' Italia misera, dolente
L'nltlme notti a mezzo giorno vede.
Che deve or Mario di r, che fe' di queste
Fere rabbiose già si duro scempio ,
E gli altri vincitor di genti strane;
Se quest' alta relna in voci meste
Odon rinnovcllare il dolor empio,
E'n van pregar cbi le sue plaghe sane T
IX.
Dunque, Bonviso mio, del nostro seme
Deve 1 frutti raccor barbara mano ?
E delle piante coltivate in vano
I cari pomi via portarne insieme?
Questa madre d’ ImperJ ognora geme ,
Scolorato il reai sembiante umano,
Si larghi danni , e 1 suo valor sovrano.
La liberiate, c la perduta speme:
E dice: ORc dei del, se mai t'accese
Giust’ ira a raffrenar terreno orgoglio ;
Or tutto irato le saette spendi.
Vendica i mici gran danni e le tue offese ;
0 quanto è ingiusto il mal, grave il cordo-
Tanlo del primo mio vigor mi rendL [glio,
X.
Vera fama fra i tuoi più cari sona,
Ch’ al paese natio passar da quelle
Qucte contrade ov' or dimori e belle.
Nè spiar so perchè , disio ti sprona.
Qui sol d' ira e di morte si ragiona ;
Qui l’ alme son d' ogni pietà rubelle ;
Qui i pianti e gridi van sovra le «elle;
E non più al buon , ch'ai rio Marte perdona.
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CIVILI.
CJO
Qui vedrai i campi volitar! e nudi,
E sterpi e spine in vece d' erbe e Bori ,
E nel più verde aprii canuto verno.
Qui i vomeri e le falci in via più crudi
Ferri conversi ; e pien d’ombre e d'orrori
Questo de’ vivi doloroso inferno.
XI.
Degna nutrice delle chiare genti
Ch’ a di men foschi trionfar del mondo :
Albergo già di Dio fido e giocondo ,
Or di lagrime triste e di lamenti;
Come posso udir io le tue dolenti
Voci, e mirar senza dolor profondo
Il sommo imperio tuo caduto al fondo ,
Tante tue pompe e Unti pregj spenti ?
Tal cosi ancella , maestà riserbi ,
E si dentro al mio cor suona il tuo nome
Che I tuoi sparsi vestigi inchino e adoro.
Che fu a vederti in Unti onor superba
Seder reina, e'ncoronaU d’oro
Le gloriose, venerabil chiome ?
ANNIBAL caro.
La resi Casa di Francia.
Venite all’ombra de' gran gigli d’oro,
Care Muse , devote a’ miei giacinti ;
E d’ambo insieme avvinti
Tesslam ghirlande a'noslri idoli e fregi.
E tu, Signor, eh’ io per mìo Sole adoro ,
Perché non sian dall' altro Sole estinti ,
Del tuo nome dipinti
Gli sacra, ond’lo lor porga eterni pregi ,
Chè por degna corona a Unti regi
Per me non oso ; e’ndarno altri m’ InviU
Se l’ardire el'alu
Non vien da te. Tu sol m' apri e dispensi
Parnaso ; e tu mi desta , e tu mi avviva
Lo stil , la lingua e i sensi
Si , eh' altamente ne ragioni e scriva.
Giace , quasi gran conca infra due mari
E due monti famosi Alpe e Pirene ,
Parte delle più amene
D’Europa, edi quanl’ancoil Sol circonda:
Di tesori e di popoli e d' altari
Ch’ al nostro vero Nume erge e mantene :
Di preziose vene,
D' arti e d’armi e d'amor madre feconda :
Novella Berecinzia , a cui gioconda
Cede l’altra il suo carro e I suoi leoni :
E sol par che incoroni
Di tutte le sue torri Italia e lei :
E dica : Ite, miei Galli, or Galli interi ;
Gl' Indi e 1 Persi e i Caldei
Vincete e fate un sol di tanti imperi.
Di quesU madre generosa e chiara ,
Madre ancor essa di celesti eroi ,
Regnano oggi fra noi
D’altri Giovi altri figli ed altre suore ;
E vie più degni ancor d'incenso e d’ira.
Che non fur già, vecchio Saturno, 1 tuoi.
Ma ciascun gli onor suoi
Ripon nell' umiliate e nel timore
Del maggior Dio. Mirate al vincitore
D'Augusto Invitto, al glorioso Errico ,
Come di Cristo amico ,
Con la pietà, con l’ onestà, con l’ armi ,
Col sollevar gii oppressi, e punirgli empj.
Non col bronzi e coi marmi
Si va sacrando i simolacri e l tempj.
Mirate, come placido e severo,
È di sè stesso a sè legge e corona.
Vedete Irl c Bellona
Come dietro gli vanno, e Temi avanti.
Com' ha la Ragion secoe ’l Senno e T Vero,
Bella schiera che mal non l’abbandona.
Udite , come tuona
Sopra de’ Lìcaonl e de’ giganti.
Guardale quanti n’ ha già domi, e quanti
Ne percuote e n'accenna :ccon che possa
Scuote d'Olimpo c d’Ossa
Gli svelti monti e contr’al Cielo imposti.
Oquai Ha poi spento Tlfeo l'audace,
E 1 folgori deposli ;
Quanta il mondo n’avrà letizia e pace!
La sua gran Giuno in tanta altezza umile
Gode dell'amor suo lieta e sicura ;
E non è sdegno o cura
Che’lcor le punga odi Calisto o d’ lo.
Suo merto c tuo valor, donna gentile,
Di nome e d’alma inviolata e pura :
E fu nostra ventura ,
E provvidenza del supremo Dio
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CANZONI E
Che’n si gran regno a si gran re t’ unlo ;
Perche del suo splendore e del tuo seme
Risorgesse la speme
Della tua Flora, e dell’Italia tutta:
Che se mai raggio suo ter lei si stende,
Benché sena e distrutta,
Ancor salute e liberti n'attende.
Vera Minerva , e veramente nata
Di Giove stesso e del suo senno è quella,
Ch’ ora é figlia e sorella
Di regi Illustri, e ne fia madre e sposa.
Vergine, che di gloria incoronata.
Quasi (unge dal Sol propizia stella.
Ti stai d'amor rubella
Per dar più luce a questa notte ombrosa.
Viva perla , serena e preziosa.
Qual ha Febo di te cosa più degna?
Per te vive, in te regna,
Col tuo sfavilla il suo bel lume tanto ,
Ch’ogni cor arde ; e ’l mio ne sente un foco
Tal , che io ne volo e canto
Infra I tuoi cigni , e son tarpato e roco.
Evvi ancor Cinzia , e v’ era Endltnione,
Coppia che si felice oggi sarebbe.
Se ’l fior che per lei crebbe ,
Oimè, non l'era in sull' aprirsi anciso.
Ma che , se legge a Morie Amor impone?
Se spento ha quel che, più vivendo, avreb-
Se ’l morir non gl’ increbbe [be ?
Per viver sempre, e non da lei divìso?
Quante poi dolce il core , e liete il viso
SONETTI. 621
V’hanno Ciprigne, e Dive altre simili ?
Quanti forti e gentili ,
Che si fan ben oprando al Ciel la via ?
E se pur non son Dei ; qual altra gente
£, che più degna sia
0 di dava o di tirso o di tridente?
Canzon, se la virtù, se i chiari gesti
Ne fan celesti ; del Ciel degne sono
Calme di eh' io ragiono.
Tu lor questi di fiori umili olfcrtc
Porgi in mia vece ; e di : se non son elle
D'oro e di gemme Inserte ;
Son di voi stessi , e sarai! poi di stelle.
A Carlo Quinto.
Dopo tante onorate e sante imprese ,
Cesare Invitto, iu quelle parti e in queste ;
Tante e si strane genti amiche e infeste
Tante volte da voi vinte e difese;
Fatta l'Alfrica ancella, e l'armi stese
Oltre l’ Occaso ; poi eh' in pace aveste
La bella Europa ; altro non so che reste
A far vostro del mondo ogni paese j
Ch'assalir l’Oriente, e’ncontr’al Sole
Gir tant' oltre vincendo, che d’altronde
Giunta l'aquila al nido ond’ella uscio;
Possiate dir, vinta la terra c Tonde,
Qual umil vlncltor che Dio ben cole .
Signor, quanto il Sol vede è vostro e mio.
MOLZA.
Pel cardinale Farnese
Nell’ apparir del giorno [luce
Vid’io, chiusi ancor gli occhi, entro una
Ch’ avea del Cielo I maggior lumi spenti,
Una donna reai , che , come duce ,
Traea schiera d’intorno,
E cantando venia con dolci accenti :
0 fortunate genti ,
S’oggi in pregio tra voi
Fosse la mia virtute ,
Com’era al tempo degli antichi eroi!
Chè se tra ghiande ed acque e pelli Irsute
Beala si vivea l’inopia loro ;
Qual vi darla per me gioia c salute
Un vero secol d'oro?
Quando l’eterno Amore
Creò la Luna e’I Sole e T altre stelle,
Nacqu’io nel grembo, all’alta sua bontà te :
L’ alme Yirtuli e l'Oprc ardite c belle
Mi sono o figlie o suore,
Perchè meco o di me tutto son nate;
Ma di più dignitate
Son Io ; lo son del Cielo
La prima meraviglia ;
E quando Dio pieU vi mostra e zelo,
• Molti lUribuiseon» questa canzone ad Annibai Caro.
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CM CIVILI.
Me sol Taglieggia e meco si consiglia,
Chè son più cara e più simile a lui.
E che tien caro, e die ni rassomiglia
Più cbe ’l giovare allrui ?
Io son che giovo ed amo,
E dispenso le grazie di là suso ,
SI come piace a Lui die le destina.
Gii venni in terra; c Piuto eh’ era chiuso
V’ apersi , e tenni in Samo
Lei per mia serva, ch’era In Cicl reina.
Ma'l furto ria rapina,
L’amor dell' oro ingordo
Trasser fin ili Cucito
Le Furie e '1 lezzo, onde malvagio e lordo
Divenne il mondo, c'I mio nome schernito
Si eh' io li’ ebbi ira e fei ritorno a Dio.
Or mi riduce a voi cortese invito
D' un caro amante mio.
Per amor d’ uno io regno
A star con voi , ch’or sotto umana veste
Simile a Dio siede bealo e bea.
Dal Qel discese, e quanto ba del celeste
Questo vii, basso regno
L'ha ila lui, che n’ha quanto il Gicln’avca.
Palladr e Giterea
Di caduco ed eterno
Onor il seno e ’l volto
Cdi omaro, ed io le man gli empioe gover-
Coslelù ch'è tra voi mirato cenilo, [no.
0 che da voi deriva, « cb'ia voi sorge.
Ha fortuna « virtute in ini raccolto.
Ed egli altrui ne porge.
Se ne prendeste esempio ,
Come n’avete, volgo avaro, alta;
E voi tra voi vi sovverreste a prova ,
E non aria questa terrena vita
L’amaro e'1 sozzo e l’ empio.
Onde in continuo affanno ai ritrova.
Quel che diletta e giova
Saria vostro costume :
Né del più né del meno
Doglia o desio, ch'or par che vi consume,
Turberla’l vostro uè l’ altrui sereno.
Regncria sempre meco amor verace
E pura fede . e fora il anturio pieno
Di letizia e di pace.
Ma verri tempo ancora ,
Che con soave imperio al viver vostro
Fari del suo costume eterna legge.
Ecco che gii di bisso ornato c d'ostro.
La desiata aurora
Di si bel giorno in fronte gli ai légge ;
Ecco gii folce e regge
Il Cielo , ecco che doma
I mostri : o sante rare
Sue prò» e , o bella Italia, o bella Roma !
Or veggio ben quanto circonda U mare,
Aureo tutto e pien deli' opre antiche :
Adoratelo meco, anime chiare,
E di virtute amiche.
Cosi disse. Canzone;
E del suo ricco grembo ,
Che gii mal non ai serra ,
Sparse ancor «opra me di gigli un nembo.
Poi con la schiera sua, quant’il Sol erra,
E dall’ un polo all’altro si distese.
Io gli occhi apersi , e riconobbi in terra
La gloria di Farnese.
COPPETTA.
A Coidobaldo, duca i’ Urbino.
0 dell’ arbor di Giove altera verga ,
Che noi correggi , e Peti nostra indori ,
Età richiami al suo corso primiero;
Perché di tempo in tempo ai sommi onori
Da si gran pianta nuoto ramo s'erga,
E con la cima al Ciel drizzi il sentiero;
Novellamente il successor di Piceo.
Non senza cenno del divin consiglio
Che ogni suo bel pensier governa e regge.
Fra tana duci Guidobaido elegge
A difender da' lupi e dall'artiglio
Che di sangue vermiglio
Par che sull’ ali nuova preda tenie ,
Il mansueto suo gregge innocente.
Ragion è ben che la difesa prenda
Delle chiavi del Ciel , eh’ un di saranno
Ai degni omeri tuoi debita soma.
Il tuo chiaro frale) , che ’i nostro affanno
Volga in riposo, e puù squarciar la Itotela
Cheticoc avvolta innanzi agli occhiRoma.
Già la rabbia tedesca , mai non doma
Nè per colpo di Morte, o di Fortuna,
Qual idra ch’ognor tronca si rinnovo.
Di saziar cerca le sue brame altrove ,
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CANZONI. 6»
Chi pascer si volea sol di quest’ una;
Ora macra e digiuna
Col furor d’empio e maledetto seme
D’intorno all’almo otil s’aggira e freme.
Quando fia mai eh' io veggia olirà qucl-
l’ Alpe
Quindi sgombrarsi dure genti cstrane,
E lasciar questa madre ai propri figli 1
E Cesare più giuste e più Unitane
Sedi cercando, sarchi Abita e Colpe,
E nuota terra e mar turbi c scompigli ?
Or intanto per noi la lancia pigli
Questo booti cavalier, in cui s'annida
Da paterna tirlude e ’i chiaro ingegno ,
Se non per lei di cui s' * fatto guida :
Ni già scorta più fida
Trovar potrà , ni più sicure squadre
La gran Chiesa romana, il sauto padre.
Dunque i ben degno di menare in gioia
Quest’ almo giorno, csuoniecami e balli
Gir con libero cor movendo lieti.
Sparga man bella fior vermigli e gialli,
E disperga da noi tristezza c noia ,
Si cb’ ogni statoli suo cor lasso acqueti.
Oggi di sagre Ninfe c di poeti
Per ogni lido un bel numero eletto
Vada cantando in voci alte c gioconde :
Corra latte 11 Metauro, e le sue sponde
Copran smeraldi, c rena d’oro il letto:
E *1 pallido sospetto
Da noi si sciolga , e forte nodo strìnga
L’empio furore in parte erma e solinga,
li nostro Cielo oscura nebbia finge;
Ma virtù fra le nubi ancor tralucc.
Nè l’ italico lume al tutto è spento;
Puichè i’ invitto c generoso duce
Per la sposa di Dio la spada cinge ,
Via più d’ ogni altro a custodirla intento.
A ebe spiegar aquile c gigli al renio,
0 d' Italia smarrita e cicca schiera ,
Seie chiavi e la croce bai per insegna?
Ma l’ eterna bontà non si disdegna
Per te chiamar la guida eletta e vera.
Che baldanzosa spera
Di ricondueer sotto il gran vessillo
La santa pace c 'I bel viver tranquillo.
Piaccia a voi , cui fortuna e virtù diede
Sul Po, sul Mincio, e sulla riva d’Arno
Tener di duce il ricco seggio e ’l nome ,
Lasciare i segni da voi culti indarno,
E di costui seguir Tonile e la fede.
Che sgombrar cerca le gravose some.
Se questo è ’l rostro dolce nido ; or come
Non vi stringe pietà del bel paese
Che barbarica fiamma incende c strugge?
Ecco die sul ntar d’ Adria un leon rugge,
E sente duo) delle comuni ofTcsc
E di sangue cortese
Sarà più che non mostra a tatù’ impresa ,
Se scorge in voi chiara virlute accesa.
Non li smarrir, Canzon, s’ ignuda e rozza
Tra T ostro e ’l bisso ai mio Signor T invio,
Chè quasi un Sol si leva a tatti' altezza.
Che qua giù nulla sdegna c titilla sprezzar
Dilli die zelo , e d’ obbedir desio
Mi sprona a dir quel ch’io
D’ogni bell' arte e d'ogn’ ingegno privo
Via più chiaro nel cor, che in carte scrivo.
JACOPO MARMITTA.
Miserie d’ Italia.
Dunque il ferro per te sola s'arrota.
Misera patria mia, dunque un torrente.
Per depredarti , di barbara gente
Scende dall’ Alpi tl'ogui fede vota ?
Dunque a' tuoi danni sol l' instatili roti
Della Fortuna gira. c non si sente
Altra donna che pianga e si lamenie.
Se non tesola, a tutto il mondo nota?
Dunque empia mano ituoibei campi i ti-
fi le feconde viti e gli olmi incide, j cenile,
E te ristretta in picciol cerchio tene ?
Questa ruina ond'è? chi ti difende?
Non so come ogni pietra ornai non gride
Vendetta al Clel, che tanto mal sostenc.
COSTANZO.
La Cetra di Virgilio.
Quella cetra gentil clic ’n sulla riva;
Cantò di Mincio Dafni e Mclibco
Sì , che non so se in Menalo o ’n Liceo
In quella o in altra età simils’ adiva;
Poiché con voce più canora e viva
Celebrato ebbe Pale ed Aristco,
E le grandi opre clic in esilio feo
li gran figliuol d’Anchise c della Diva ;
Dei suo pastore hi una quercia ombrosa
Sacrata pende , c se la move il vento ,
Par che dica superba e disdegnosa :
Nonsia chi di toccarmi abbia ardimento;
Citò se non spero aver man si famosa.
Del gran TiUro mio sol mi contento.
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«4
CIVILI.
DELLA CASA.
Sopra U ciui di Vanesia.
Questi palazzi e queste logge , or colte
D'ostro, di marmo c di figure elette;
Fur poche e basse case insieme accolte,
Diserti lidi e povere isolette.
Ha genti ardite , d' ogni vizio sciolte ,
Premeano il mar con picciole barchette ;
Che qui , non per domar provinole molte ,
Ma fuggir servitù, s'oran ristrette.
Non era ambizlon ne' petti loro ;
Ma 'I mentire abborrian più che la morte ;
Nè vi regnava Ingorda fame d'oro.
Se '1 Ciel v'ha dato più beata sorte.
Non sien quelle virtù che tanto onoro ,
Dalle nove ricchezze oppresse c morte.
Sulle discordie de' Fiorentini.
Struggi la terra tua dolce natta ,
0 di vera virtù spogliata schiera ;
E ’n soggiogar te stessa onore spera ,
Si come servibile in pregio sia :
E di si mansueta e gentil pria
Barbara fatta sovra ogn' altra e fera.
Cura che '1 latin nome abbassi e pera,
E ’n tesoro cercar vìrtule obbiia :
E incontro a chi t' affida armala fendi
Col tuo nemico il mar, quando la turba
Degli animosi figli Eolo disserra:
Segui chi più ragion torce e conturba :
Orli tuo sangue a prezzo, or l'altrui vendi.
Crudele, c non è questo a Dio far guerra ?
ALAMANNI.
Parla in suo nome c degli altri esuli fiorentini
dopo raduta la repubblica.
Sommo e santo Fattor che muovi Intor-
La Luna e il Sol tra le minori stelle, [no
E di mille altre forme altere e belle
Fai tutto il mondo riccamente adorno:
Mostra pietoso ornai , mostra quel giorno
Che rechi il fin dell’ aspre sue procelle
Al Tosco fiume, e le stagion novelle
Della sua libertà farcian ritorno;
Tal che possiamo ancor nel patrio nido,
Noi ch'or slam lunge e d’ ogni pace in ban-
Kingraziar la pietà che larga mostri ; [do,
Nè ci veggan cercar questo e quel lido
Gli empj av versar! , e gir mai sempre erran-
K pur lieti goder dei danni nostri, [do.
MICHELANGELO.
Sopra Dante.
Dal mondo scese ai cicchi abissi, e poi
Olici’ uno c l'altro inferno vide, a Dio
Scorto dal gran pensier vivo salio,
E ne diè in terra vero lume a noi.
Stella d’alto valor coi raggi suoi
Gli occulti eterni a noi ciechi scoprio,
E n' ebbe il premio alfin , che'l mondo rio
Dona sovente ai più pregiati eroi.
Di Dante mal fur l' opre conosciute ,
E 'I bel desio da quel popolo ingrato ,
Che solo ai giusti manca di salute.
Pur fuss'io tal ! eh’ a simil sorte nato ,
Per l'aspro esilio suo con sua vlrtute
Darei dei mondo il più felice stato.
BERNARDO TASSO.
Nella morte di Carlo V.
Già intorno al marmo che’l gran Carlo
Arsi aveanmiile cari, arabi odori [asconde
Germania , Italia e Spagna ; e quei di fiori
Sparso e di pianto e di funerea fronde :
Già Febo adorne le sue chiome bionde
DI sempre verdi e trionfali allori ,
Cantava le sue glorie e i tanti onori
Ch’alto grido di lui sparge e diffonde ;
Quandocondolceenon più udito suono
L'Eternltalc all’ improvviso apparve ,
E nel sasso scolpi : Qui colui giace
Cui l’un mondo domar si poco parve.
Che v inse l’altro, e d'ambi altrui fc’dono :
Augurate a quest’ ossa eterna pace.
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SONETTI.
<2*
MAGGI.
Sull’ Itali*.
I.
Giace l’Italia addormentala In questa
Sorda bonaccia, e intorno il elei s’oscura :
E pur ella si sta cheta e sicura ,
E per molto che tuoni, uom non si desta.
Se pur taluno il paliscalmo appresta,
Pensa a se stesso, e del vicin non cura ;
E tal si lieto e dell' altrui sventura ,
Che non vede in altrui la sua tempesta.
Ma che 1 quest’ altre tavole minute ,
Rotta l'antenna, e poi smarrito il polo,
-edrem tutte ad un tempo andar perdute.
Italia, Italia mia , quest'e 11 mio duolo :
Allorsiam giunti a disperar salute.
Quando spera ciascun di campar solo.
Miserie d’ Itali*.
Italia, Italia, o tu cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza, ond’hai
Funesta dote d’infiniti guai
Che In fronte scritti per gran doglia porte ;
Deb fossi tu men bella, o alroen più forte,
Onde assai più ti paventasse , o assai
T amasse men chi del tuo belio ai rai
Par che si strugga, e pur tl sfida a morte :
Ch'or giù dall’ Alpi non vedrei torrenti
Scender d'armati, nè di sangue tinta
Bever l'onda del Po gallici armenti :
Nè te vedrei, del non tuo ferro cinta,
Pugnar col braccio di straniere genti.
Per servir sempre o vincitrice o vinta.
II.
Mentre aspetu l’Italia 1 venti fieri ,
E gii mormora il tuon nel nuvol cieco.
In chiaro stil fieri presagi lo reco ,
E pur anco non desto i suoi nocchieri.
La mìsera ha ben anco i remi interi ,
Ma Fortuna e Valor non son più seco ;
E vuol l’ira crudel del Destin bieco,
Ch’ ognun prevegga i mali e ognun disperi.
Ma purché l'altrui nave il vento opprima,
Che poi minacci a noi, questo si sprezza,
Quasi sol sia perire il perir prima.
Darsi pensler della comun salvezza
La moderna villi periglio stima,
E par ventura il non aver fortezza.
I
f
i
Viltà d’Italia.
Dov'è, Italia, il tuo bracciotEa che ti sen i
Tudell'aitrul ? Non è, s'io scorgo il vero.
Di chi t'offende il difensor men fero :
Ambo nemici sono , ambo Tur seni.
Cosi dunque l’onor, cosi conseni
Gli avanzi tu del glorioso Impero?
Cosi al vaior, cosi al valor primiero
Che a te fede giurò . la fede osseni "
Or va ; ripudia il valor prisco, c sposa
L’ozio ; e fra il sangue, I gemili e le strida
Nel periglio maggior dormi e riposa.
Dormi, adultera vii, fin che omicida
Spada ultrice ti svegli, e sonnacchiosa
E nuda in braccio al tuo fedcl l’ uccida.
FILICAIA.
27
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oviu.
«56
GUIDI.
Per don Luigi delle Cerd».
Eran le Dee del mar liete e gioconde
Intorno al pin del giovanetto ibero,
E rider ai vedean le v io profonde
Sotto la prora del bel legno altero.
Chi sotto l’elmo l' auree chiome bionde
Lodava , e chi il reai ciglio guerriero.
Solo Proteo non sorse allor dall' onde.
Che de’ Fati scorgea P aspro pensiero.
E ben tosto apparir d'Iberia i danni,
E sembianza cangiar P onde tranquille ,
Visto troncar da morte i suoi begli anni.
Sentirò di pleiade alle faville
Le rie del mare , e ne' materni affanni
Teli tornò , chè rammentossi Achille.
ZAPPI.
Il Mosò di Michelangelo.
Chi è costui, che in si gran pietra scolto
Siede gigante, e le più illustri e conte
Opre dell’ arte avanza, e ha vive e pronte
Le labbra si, che le parole ascolto)
Questi è Mose : ben me! diceva il folto [te;
Onordel mento, c'idoppioraggio infron-
Quesli è Mose, quando scendea dal mante,
E gran parte del Nume avea nel volto.
Tal era allor, che le sonanti e vaste
Acque ei sospese a sé d' intorno : e tale ,
Quando il mar chiuse, e ne fe’tomba altrui.
E voi, sue turbe, un rio vitello alzaste?
Alzata aveste Imago a questa eguale ;
Ch’era mcn fallo l’adorar costui.
MANFREDI.
Al nipote di Clemente XI.
Spirto gentil, che In giovinetta etade.
Quanto e qual sei già mostri , e manifesti
Quelle virtù che largo il Ciel t* ha dato ;
Poiché alle cime alte iT onor giuugcsti ,
A cui si va per faticose strade,
EMornl a noi del terzo lauro ornato;
Cantando io non dirò tuo eccelso stato ,
Nè a parte a parte narrerò tuoi pregi ;
E so che il morto de* bei fatti egregi
Per dir noncresce,e per tacer non scema ;
Ha non sarò eh’ io prema
Amor, che move la mia lingua e snuda,
Membraudo ciò che un giorno esser tu dei,
E dirò , eh’ ognun m’oda.
Le mie speranze e i dolci augurj miei.
Certo non meglio ai guardi nostri appare
L’ aitò Bontà, che di noi cura prende,
E le create cose ordina e inove.
Che allor quando i perigli ultimi attende
Per far nascer quaggiuso anime chiare.
Che non avriun desta materia altrove.
Del leon lacedemone le prove,
Qual luogo avrian, scalle fatali strette
Colto non era? c qual l'aspro vendette
Dei minor Scipio, che per Libia sparse
li latin foro c l'arse.
Se Roma non teiuea gli stessi scempi ,
Pallida ancor per fresche piaghe acerbe?
Or par, che a' nostri tempi
l ai uopo e lai soccorso ancor si serbe.
Ma non ò già , che i vacillanti seggi
Ne' lor perigli rassicuri e fermi ,
Alma di guerre ognor vaga c di morti ;
Spesso agl' imperj ancor difese e schermi
Fcr gli aurei studj, e le divine leggi,
Del bei consigli dolcemente accorti;
Nò mcn Roma ringrazia, o tra suoi forti
Conta Fabricio e Ninna, o pur l’atroce
Cato.o di Tullio la temuta voce,
Che qual del brando mai fc’ miglior uso.
Questo è ben ciò che chiuso
Italia Ila nel pensicr, mentre al tuo piede
Si sta col ciglio lagrimoso e grave ,
E di pronta mercede,
Signor, ti prega, e speme altra non ave.
A lei pon menle, in cui nulla si scorge
Sembianza più dell’ opre alme c pregiate,
Ond’i sua fama sovra il Ciel salita;
Virtù, che le fu scorta in altra etate.
Mal secura è de’ passi , e niun le porge
La destra, e tale anco a cader l'alta;
Ma più le duol, che sua sventura Invita
A straziarla ancor l’ estrania gente ,
La qual , si come rapido torrente
Spazio ne' campi nostri a cercar viene,
E non è chi l’affrenc ,
Che la stirpe di lei nell'ozio langue,
Le man tenendo neghittose c pigre,
Mentre il Po bee suo sangue ,
Che meglio tingerla l’ Eufrate e ’l Tigre.
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CANZONI E
Io so ch’ella sei Tede, e in parie II soffre,
Perchè fermi presagj in peno asconde,
Che le dure catene a lei tu scioglie,
E Tolta a te, le piaghe sue profonde
TI mostra, c caldi pricghi aggiunge ed of-
Che il durissimo giogooinai si toglie, [fre,
Nè pur per te confida uscir di doglia ,
■la ricovrar suo primo stato altero:
Chè se scritto è li su, che l'alto impero
Torni , e dilati ancor in nuova parte,
E le trecce ora sparte
Raccolga e cinga di purpurea benda ,
Donna de’ mari e delle terre estreme ;
lo non so che s’atteuda.
Nè in chi meglio locar debba sua speme.
Sol veggio un'altra via, percui disperga
La tema e'I duol , che ad occupar sen segua
Altri tua vece, e lei conforti e sgravi;
Ben ella vede il tuo gran zio, che regna
Sul Valicano , e l' onorata verga
Sostiene, del Clel regge ambe le chiavi,
Cercar con modi ogoor santi e soavi ,
Siccome freni ed a ragion soggetti
L’odio e il furor negl' indurati petti :
Scorge quale a suo prò fondar procuri
Prindpj alti e securi
Di pace, e come in cìA tutto s'adopre ;
E forse Da, che cotant'alto ei passi
Nell’ ammirabil opre ,
Che a te campo di gloria altro non lassi.
Ond' ella il prega, poiché augurio certo
Ha d’imprese veder nuove e sublimi ,
E della sorte sua più non diffida,
Che te a parte ne chiami, e gli onor primi
SONETTI. CJT
Dell'ostro al sangue no, ma doni al nicrto,
E la bell’opra sua leco divida.
0 di quai liete, trionfali grida
Sonerà il Tebro l’aspettato giorno!
Qqual ti vedrem poi di gloria adorno
Sparger leggiadri esempi, e I cor gentili
Far di codardi e vili ,
E destar le faville in petto altrui
Ancor rimaste di virtù latina !
Tempi beati a cui
Tauta felicilade il Clel destina.
Canzon , tu vedrà’ Italia egrac pensosa
Un garzon solo riguardar fra mille ;
Inchinerai l'altera donua, e dille,
Ch’Io so, cheli desirsuo tu non appaghi.
Ma che gran parte ascosa
Io porto ancor de' miei pensier presagite
Per la nascita del principe di Savoia.
Vidi l’Italia col crin sparso , incolto.
Colà dove la Dora in Po declina.
Che sedea mesta, e avea negli occhi accol
Quasi un orror di servitù vicioa. [lo
Nèl'altcrapiaugea: serbava un volto
Di dolente bensì, ma di reina;
Tal forse apparve allor, che il piè discioUo
Ai ceppi offri la libertà latina.
Poi sorger lieta in un baleu la vidi,
E fiera ricomporsi al fasto usato,
E quinci e quindi minacciar più lidi ;
E s'udia l’ Apennin per ogni lato
Sonar d’applausi e di festosi gridi :
Italia , Italia, il tuo soccorso è nato.
GUED1NI.
noma antica e moderna
Sei pur tu , pur ti veggio, o gran latina
Città, di cui quanto il Sol aureo gira.
Nè altera più nè più onorata mira ,
Quantunque involta nella tua ruina.
Queste le mura son cui trema e inchina
Pur anche il mondo,non che pregia c amnii-
Queste le vie percui con scorno ed ira [ra:
Portar barbari re la fronte china;
E questi che v’incontro a ciascun passo
Avanzi son di memorabil opre.
Meri dal furor che dall'età sicuri, [pre
Ma in tanta strage, orchi tn’additaeseo-
In corpo vivo c non in bronzo o in sasso,
Una reliquia di Fabrizi e Curi ì
LAZZARINI.
Sulla tomba del Petrarca,
Se da te apprese. Amore, e non altronde
Quel dolce stil che il fa tanto onore ,
Questo cigno beato, il cui migliore
Or gode in Gelo, e'I frale Arquà nasconde:
Se bello, al par della famosa fronde
Che In Sorga l’ arse di celeste ardore ,
Fu ancor qucll'allro mio lume e splendore
Tra r Eslno e l’ Aterno e’I monte e Fonde :
Perchè poi le sue rime alzare e'I canto
Sl,ch'ein’andasseal Gel come colomba;
E me verso di lui lasciar nel fango ?
Nè pur io, come in lui potessi lauto.
Veggio, risponde, e questa sacra tomba
Son tre secoli e più ch'io guardo e piango.
i
Ìl
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CIVILI.
DI
BONDI.
Neil' abolizione del Gesuiti .
Cozzi, mi sproni In vano
A ricercar sul delfico stromento
Dolce, ionio concento ;
Della cetra discorde
Sotto l' inerte mano
Stridon restie le disusate corde;
Colpa di reo destino, a volo ardilo
Lingue l'estro sopito.
Ah ! che tranquilli e lieti
Ama Febo I poeti;
E sull’ ascrea pendice
Non ardisce poggiar cura Infelice.
Freme 1' aspro e crudele
Nembo, che sotto l' implacabil onda
Il viuto legno affonda,
Su cui pien di coraggio
Fidai con dubbie vele
Nel mar di questa vita il mio viaggio :
Era l’ onda tranquilla, e senza velo
Ridea sereno il Cielo;
Sol da lungi negletta
Picciola nuvoletta
Sorgea nunzla funesta,
Ahi non temuta, di maggior tempesta.
Ma la crudel Fortuna
Tanto poscia, e del mar crebbe lo sdegno,
Che l’Infelice legno
Or si difende a stento :
Vedi l’aria che imbruna,
Odi l’onda muggir, fischiare il vento;
Tutto sormonta impetuoso, c lutto
Vince il nemico flutto.
Iuvan lungo le sponde
Contrastano con Tonde
Patlidi in volto e bianchi
I noccliicr mesti e di pugnar gii slanciti.
Ma quel che più gli affanna,
Lo stesso Dio del mar, Nettuno istcsso
Preme il naviglio oppresso.
Figlio d'ignoto lito
Fuor dell’algosa canna
Vedilo alfln sul non suo carro uscito ;
Pera la nave, ci grida, in ogni canto
1/ urta c minaccia, c intanto
L'avvilito tridente
Scuote, c pietà non sente;
E al legno afflitto c stanco
Barbaro squarcia lo sdruscito fianco.
Questa dunque dovea
Da te sperar, Nume crudel, mercede?
Ov’ è giustizia e fede ?
Sotto 1 vessilli tuoi
L' ampia nave scorrea
Dall' esperio oceano al lidi eoi.
Per lei tu fosti grande ; essa I tuoi mari
Purgò d’ empj corsari ;
Del sangue de’ suoi figli
Vide i flutti vermigli;
Nè mai per tua difesa
Paventò rischio d'onorata impresa.
Mentre inutile stuolo
Di minor legni, in cui tu stesso umile
Misto alla ciurma vile
Esercitasti II remo.
Code sereno il polo,
Placida Tonda, oh vituperio estremo!
Ed ogni lido a suo piacer rapisce,
Onde in ozio arricchisce,
E non lungi dal porto
Naviga a suo diporto;
E dalla riva intanto
Delle Sirene sta godendo il cauto.
Disonor del tuo regno.
Dunque in calma vivrà Tignobil flotta?
Mentre dispersa e rotta,
D’ ogni tesoro grave,
A sacro e Ingiusto sdegno
Vittima perirà l’augusta nave?
E Giove tace ancor, nè le tremende
Saette ultrici accende?
Ah! mentre io parlo, amico,
Fischia 11 turbin nemico,
E per Tarla frementi
La voce e I versi miei portano 1 venti.
Canzon, nata Improvviso
Fra il nembo e la tempesta,
Fuggi veloce e presta,
E nascondendo sconosciuta il viso
Ai Glauchi ed ai Tritoni,
Finché non giungi al lido,
Fa' che non s’oda il tuo lamcntocil grido.
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ALFIERI
L’AMERICA LIBERA.
Accenni le caginoi della guerra.
Qual odo io suono di guerriera tromba
Dell' Oceano immenso
Di lì dalle non pria navigate onde ?
Qual di fischiami strali nutol denso?
Qual eneo tuon rimimi uba?
Cagion non v ha, eli’ or tanto sangue inon-
Quelle innocenti sponde, [de
Ove di leggi sacrosante all'ombra
Gente crescea secura, ancor che ricca v
Cui felice aura spicca
Dal mal , die nostra Europa tutta ingom-
Chi la pace ne sgombra? [bra.
Qual rio furor, qual crudo.
Empio pensier turba unlon si bella?
Ira di re d’ognl bell'arte ignudo,
Ministri infidi e cupidigia fella.
0 Dea verace , che le spiagge amene ,
Che 11 mar d' Ausonia bagna,
Eesli gii sovra ogni altre un di beate :
Tu, cui più mai non vide, e in van seti ia-
L’ Italia, che in catene [gna,
Abbonite e sofferte , Indi merlate,
Tragge sua lunga etatet
Tu, clic (colpa di noi), tanti anni e tanti
Del globo fuor, forse in miglior pianeta,
•Statua avevi più lieta;
Quindi fra il sangue e le discordie e i
Di plebe oppressa c i canti [pianti
Degli oppressori e gli aspri
Tra’ re pel regno tradimenti infami,
In Albion scendo i ; or fa’ eh' io innaspri
Si il dir clte vero e libero si diiami.
Angli , a voi nulla il vostro onor più cale ?
Voi, che a si lunga prova
Gli Intendeste clic fosse libertade.
Di voglie Ingiuste ed assolute, a prova
Schiavi or vi fate ? E quale
Tuonar tra voi poiria più In securtade ,
Di più timor s'invade;
E di regio oro. e d'onor vili il veggio
Pingue più ch'altricpiùasselatoe carco;
E di virtù più srarro. —
Ma donde mal, donde virlude io dileggio?
Tra' graudi ebbe mai seggio? —
Voi di men nobil schiera.
Scelti orator da liberi suffragi.
Deli ! fate alincn , clic liberti non pera;
Per voi sicn ciliare or le regali ambagi.
Ma, c con chi parlo? Aura di corte in
Gii ad ammorbarvi scese; [voi
Gii d' esser primi degli stolti agli occhi.
Ultimi ai vostri, alto desio vi prese.
Ni vi lasciò mai poi.
Ni fia die a voi verace laude or tocchi.
Per die alcun forse scocchi
Uberi detti net consesso augusto;
Son esca 1 delti al comprator, che in cerca
Va di qual men si merca.
Ma ai tanti rei se non si oppone un giusto.
Sperar dunque robusto
Schietto da voi consiglio,
E uno sperar da morta arbore fruito. —
Tu solo ornai di Libertade figlio,
Popol nocchicr, tu resti ; e in te sta il tutto.
Clic dico ?alii lasso ! e tu neppur rimani;
Gilè tu dai guasti guasto.
Venduto hai te co' liberi tuoi voti ;
E in crapole, bagordi , ebbrczie pasto.
Qual più allarga le mani
A satollarti , per tuo eletto il noti. —
0 preda di despoti,
Gente in tuo cor serva ornai tutta, or sci
Quella che torre iniqua altrui vorresti
Liberti , clic ti svesti ?
Pieni per te di dolorosi omei
Traggon lor giorni rei
Gli American tuoi figli?.... [drigna.
Tuoi, quand' ebberti madre; or sci ma-
Chè lacci e morte ed onta c rei perigli
Gli il sest' anno minacci a lor maligna.
Verso lì , dove in mar le ardenti ruote
Nell' ultimo occidente
Febo stanco di noi rapido spinge ,
Le tiranniche prore arditamente
no
Squarciali l' onde a lor noie :
Teti di bianca spunta si dipinge ,
Ed a gemer l’ astringe
Della mobil foresta immane il pondo.
Non Serse là sì grave oltraggio , o Dea,
De' ponti suoi ti fea , [mondo.
Quando ei menava a strugger Grada II
Nè il Fato più secondo ,
Ch' egli ebbe , or s’abbian questi ,
Del barbarico re più rei di tanto,
Chè lor non muove gloria ; e dar son presti
Per oro pace, e pel guadagno il vanto.
Va dunque, approda, o sconsigliato
Di mercatori armati. [stuolo
Yediam . se il lucro in tua raglan si ascrive ;
Se 1 mal compri tedeschi tuoi soldati
Valor ti danno a nolo :
Yediam , vostre armi d'ogni vita prive
Contro le altrui ben vive, [gl.
Quanto, ancor che in più copia, possan og-
Ecco all'errato il porto , e giù discende
Marte con le armi orrende;
CIVILI.
E scorre i campi, e i fiumi varca c L poggi
E d' ogni ostri fa alloggi.
Ma che prrciùl vegg'io
Tremar quei prodi , o sbigottir? dolenti
U veggio ben , ma impavidi : lor Dìo
£ Libertà ; non fieno in lei vincenti?
Ogni bifolco in prò’ guerrier converso
Per la gran causa io miro;
E la rustica marra e il vomer farsi
Lucido brando, che rotante in giro
Negli oppressor fia immerso.
Già del più debii sesso lo veggio armarsi,
E a vicenda esortarsi ,
Nuove d’ Curata abitatrici ardite;
Altre ai figli , ai mariti Incender l'alme;
Altre portar lor salme :
Vedove no, non veggio a brun vestite;
Cbè le ben spese vite
Non pìangon elle ! Or fla ,
Che virtù tanta a ignavia tal soggiaccia?
No; chè dall’ Euro spinta Ivi s'avvia
Nube di guerra, che 1 fellon minaccia.
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ANACREONTICI
POLIZIANO.
BALLATA.
Il Maggio.
Ben venga Maggio
E ’l gonfalon selvaggio,
Ben venga Primavera,
Che ognun par cbe innamori,
E voi, donzelle a schiera
Con li vostri amadori
Che di rose e di fiori
Vi fate belle il Maggio.
Venite alla frescura
Delli verdi arboscelli :
Ogni bella è sicura
Fra Imiti damigelli,
Chè le fiere e gli uccelli
Ardon <T amore il Maggio.
Cbi è giovane e bella.
Deh non sia punto acerba,
Chè non ai rinnovella
l.’eli come fa l'erba.
Nessuna stia superba
AU’amadore il Maggio.
Ciascuna balli e canti
DI questa schiera nostra :
Ecco e’ dodici amanti,
Cbe per voi vanno in giostra,
Qual dura allor si mostra
Fara sfiorire il Maggia
Per prender le donzelle
Si son gii amanti armati.
Arrendetevi, o belle,
A’ vostri innamorati;
Rendete I cuor furati.
Non fate guerra il Maggio.
Cbi l' altrui core invola
Ad altri doni il core;
Ma chi è quel che volai
È l’angiolel d’ Amore,
Che viene a fare onore
Con voi, dontelle, il Maggio.
Amor ne vico ridendo t
Con rose e gigli in lesta:
E vien di voi caendo
Fategli, o belle, festa.
Quai sarà la più presta
A dargli il fior del Maggio?
Ben venga il peregrino
Amor cbe ne comandi?
Che al suo amante il crino
Ogni bella Ingrillandt,
Che le zitelle e 1 grandi
S’ innamoran di Maggio.
GRADENICO.
MADRIGALE.
Parla ad alcune viole.
Amorose viale, die spargete
V odor soave che partale accolto
Nel palli detto votso
Sull' all fresche di quest' aure Bete ;
Se per favor delle benigne stelle
La mia donna vi coglie, e In sen vi tiene
Si caramente strette, che l’umore
Che in vita vi mantiene
Col celeste calore
SI dissolva e distilli per le belle
Membra leggiadre e snelle;
Prcgovi, onor de’ fiori, alme figliuole
Della Terra e del Sole,
Spirate foor con l'alma dolcemente
Questo ch'io spargo in voi sospiro ardente»
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ANACREONTICI.
631
CHIABRERA.
i Duciti d’ Amore.
Del mio Sol son rlcciutegll
1 capegli.
Non blondettl, ma brunetti}
Son due rose vermigliuzze
Le gotuzze.
Le due labbra rubinetti.
Ma dal di eh' io la mirai
Fin qui, mal
Non mi vidi ora tranquilla,
Che d'amor non mise Amore
In quel core
Nè pur plcciola favilla.
Lasso me, quando m’accesi,
Dire Intesi,
Ch’egli altrui non allliggea,
E che tutto era suo foco.
Riso e gioco,
E eh’ el nacque d’ una Dea.
Non fu Dea sua genitrice,
Com’ uom dice ;
Nacque In mar di qualche scoglio,
Ed apprese in quelle spume
Il costume
DI donar pena e cordoglio.
Ben è ver ch’el pargoleggia,
Ch' ei vezieggla
Grazioso fanclulletto;
Ma cosi pargoleggiando,
Vezzeggiando
Non ci lascia core In petto.
Oh qual ira, oh quale sdegno!
Mi fa segno
Ch'io non dica, e mi minaccia.
Vlperetta, serpentello.
Dragoncello,
Qual ragion vuol eh' lo mi taccia !
Non sai tu che gravi affanni
Per tant' anni
Ho sofferti in seguitarti!
E che! dunque lagrimoso,
Doloroso,
Angoscioso ho da lodarti!
Agli occhi della «ut Donna.
Chi può mirarvi
E non lodarvi,
Fonti del mio martiro,
Begli occhi chiari,
A me più cari,
Che gli occhi ond’ io vi miro!
Qual per l’estate
Api dorate
Spiegano al Sol le piume ;
Tal mille Amori
Vaghi d’ ardori
Volano al vostro lume.
Ed altri gira,
Altri rigira
La luce pellegrina}
Questi il bel guardo
Ond’ lo tuli’ ardo
Solleva, e quel l'Inchlna.
Vaghe faville
Dalle pupille
Vibra lo scherzo c ’l gioco ;
Nè mai di' iso
Mirasi il riso
Dal vostro dolce foco.
Quanti diletti
Venere eletti
S’ ha mai per sua famiglia,
Tutti d’intorno
Stan notte e giorno
A cosi care ciglia.
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r
CANZONETTE.
C33
Dice clic i sorrisi della sua bella donna non lo vinceranno.
Nigella, o ch’io vaneggio,
0 che per certo io veggio
Certi risi novelli
Accesi, infiammateli!,
Onde dimostri fuore
Un non so che del core.
Chi fosse meno esperto
Eslimerìa per certo
Quei risi di beltade
Esser qualche pleiade ;
Ha me non tireranno
Quei risi in tanto inganno.
Se per gli rai lucenti
De’ tuoi begli occhi ardenti,
Nigella, mi giurassi.
Che tu tantino amassi,
Ed io per gli occhi miei
No, noi ti crederei.
Ridete, sorridete.
Care stelluzze liete,
Ch’io veramente il giuro,
Di voi son ben sicuro.
Ben so quale scogli uzzo
DI superbo orgogliuzzo
Vi si nasconde in seno ;
Maggio.
Ecco la luce,
Che a noi riduce
La stagion de' diletti,
Maggio sen viene,
Ed ha ripiene
L'ali di bei fioretti.
Ei dianzi vinse,
E risospinse
Da queste piagge II verno ;
•ir da cortese
Del suo bel mese
Ad Amore il governo.
Quinci amorose
Di gigli e rose
Van dispogliando il prato,
E ghlrlandelle
Le vcrginctte
Fanno al bel crin dorato.
E dove asconde
Lungo bell’ onde
Ombra più folla il Sole,
E so di che vencno
L' anime ne pascete :
Ridete e sorridete.
Care stelluzze liete,
Ch’ io veramente il giuro.
Di voi son ben sicuro.
Ben vedrò volentieri
I crin tra bianchi e neri
Lucenti a maraviglia,
E sotto le due ciglia
L'un occhio clic sfavilla,
E l'altro che scintilla
Soli vivaci c veri;
E vedrò volentieri
Le rose porporine
Sulla guancia di brine;
Ma ch’io riscaldi il core
Gli mai del vostro amore.
Si eh' io spiri un sospiro,
0 eh' io senta un martire;
Gii mai noi cederete.
Ridete e sorridete.
Care stelluzze liete,
Chi me mai non porranno
Quei risi in tanto affanno.
Ivi tra canti.
Con cari amanti.
Menano lor carole.
Bella Iella
Per chiara stella
Agli occhi miei concessa;
Beila che avanzi,
Allor che danzi.
Le glorie di te stessa.
Con esse a prova
Fa che tu mova
I piè leggiadri e snelli ;
I tuoi piè d’ oro,
Clic poco onoro, I
Benché d' oro gli appelli.
Bella fenice,
Su fa’ felice
Mia vista desiosa;
E se tuoi passi
Giammai fien lassi.
Vienimi in grembo e posa.
tu
ANACREONTICI.
Lodi del sorriso di sua donna.
Belle rose porporine.
Che tra spine
Sull’ Aurora non aprite;
Ma ministre degli Amori
Bei tesori
Di bei denti custodite :
Dite, rose preilose,
Amorose;
Dite , omT * , che s’ lo m’ afllso
Nel bei guardo vitro, ardente,
Voi repente
Discìogliete un bei sorriso?
È ciò forse per aita
Di mia vita,
Che non regge alle vostri ire?
0 pur è, perchè voi siete
Tutte liete.
Me mirando in sul morire?
Belle rose, o feritale,
0 pietate
Del si far la cagion sia,
Io vo’ dire in nuovi modi
Vostre lodi.
Ma ridete tuttavia.
Se bel rio, se bell' auretu
Tra l’ erbetta
Sui mattin mormorando erra,
Se di fiori un praticello
Si fa bello,
Noi diciam : Bidè la Terra.
Quando avvien, che un zefiretto
Per diletto
Bagni il piè nell’ onde chiare.
Sicché l' acqua in sull’ arena
Scherzi appena.
Noi diciam, che ride il Mare.
Se giammai tra fior vermigli,
Se tra gigli
Veste l' Alba un' aureo velo;
E su rote di zaffiro
Move in giro.
Noi diciam, che ride il Cielo.
Ben è ver quando è giocondo
Ride il Mondo,
Ride 11 Ciel quando è gioioso,
Ben è ver ; ma non san poi
Come voi
Fare un riso grazioso.
DE LEMENE.
Scherzo sopra l’ Amore.
Son troppo sazia ,
Non ne vo’ più :
Cantar sempre d’ Amore
Nè mai cangiar tenore ,
È una cosa che sazia ,
È una gran servitù.
Son troppo sazia ,
Non ne vo’più.
Non si parli d’ Amor : «en vada in bando :
Canliam d'altro, mio cor: can tieni d'Or-
Era Orlando innamorato [landò.
Forsennato,
Per Angelica la beila.
0 pazzarella:
Ecco che Amor ritornalo (steccalo.
Tosto volgiamo l canni
Dove si tram sol di guerre e d' armi.
Troiani, a battaglia :
Giù delle spade ostili appare il lampo :
Tutta 1’ Europa è in campo ;
Ornai non può tardar ebe non v* assaglia :
Troiani , a battaglia,
Già sentite la tromba ,
Come rimbomba ;
Quando cada la spada ,
Sentirete come taglia :
Troiani , a battaglia
Correte a difendere
La famosa rapina
Di beltà peregrina ,
Di quella gran beltà eli’ Amor rapi.
Sia maledetto Amor : eccolo qui.
Che gran disgrazia
Sempre Amor per tutto fa
Son troppo sazia,
Non ne vo' più.
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CANZONETTE. «5
Ma lassa , ebe tarò pereti da me
Amor rivolga U piè?
Mal dal cor non si divide.
Rei pensier sempre soggiorna :
S’iol minaccio, ed ei si ride;
S’io’l discaccio, ed ei ritorna.
Mio cor, che puoi far tu ,
Che far poes' io , per non parlarne più)
Ah che un’ alma innamorata ,
0 felice o sventurata ,
Abbia pure o guerra o pace ,
Sol non parla d' Amore ailor che tane.
ZAPPI.
H Museo
Vieni , mi disse Amore.
10 mi accostai tremando.
Perchè vai sospirando)
Di che paventa il core)
Vieni , mi disse Amore.
Lieto per man mi prese,
E il ragionar riprese :
Da che in mia corte stai,
Tu non vedesti mai
11 museo di Cupido.
lo lo sogguardo, e rìdo.
Credea che il vezaosetlo
Scherzoso fanciulletto
Tutte sue brame avesse
Di gioventute amiche.
Non che a serbo tenesse
Amor le cose antiche.
Dentro una ricca stanza ,
Che di tempio ha sembianza,
Guidami ii mio bel duce :
L'oro che intorno luce
Mi raddoppiava II giorno.
Or guarda , ei disse , intorno ,
Guarda, o servo fedele;
Di sculU marmi , e di dipinte tele
Ricco è il bei loco dove Amor passeggia ;
E quinci Ilio mi additae l’arsa reggia, -
Cui la greca tradì sposa infedele :
E quindi il mare e le fuggenti vele
Di Teseo ingrato, e vuol che scolta io veggio
Ninfa che guizza e Ninfa che arboreggia;
Imprese tutte di quel Dio crudele, [re,
V’è Amor dipinto in cocchio alto d'ono-
Con mille uomtai e Nomi in ceppi o in
fuoco
Dinanzi «lenito «dei gli urta e confonde.
Psiche, die i vanni e il tergo arse d'A-
more.
Non T*è dipinti Ognun fa pompa e giuoco
d’ Amore.
Del)’ altrui scorno : il suo scorda o nascon-
Ma più liete e gioconde [te
Cose , e più rare io serbo ,
Disse il garzon superbo ;
Ciò che pennel dipinse ,
Ciò che scalpello finse.
Il tuo piè non ritardi ,
Rivolgi al ver gli sguardi :
Vedi queste due spade
Opra di prisca elidei
Furon, dlcea Cupido,
Di Piramo e d' Enea.
Su queste, ei soggiunge! ,
Caddero Tisbe e Dido :
Del sangue sparso allora
Ecco le stille ancora :
E mentre ciò dieea
Quel barbaro , ridea.
Stavano In un de’ lati
Cinque bei pomi aurati ,
De’quai molto si canta
In Asrrae in Aganippe:
Tre son quei d’ A la Unta ,
Il quarto è di Cidippe,
Ma non è chi paregge
L'altro, su cui si legge
la argiva favella:
Abbialo la più bella :
Pomo famoso tanto
Per la man che vi scrisse :
Pomo , cagion sul Xanto
Di tante pugne e risse.
Volgo lo sguardo, c appesa
Di verde hrenav antico
Veggio lucerna : io dico t
Oh , chi la vide acce»)
Allora il N'unse infido ,
Che il tutte prende a giuoco;
La vide, ma per poco.
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6*6 ANACREONTICI.
Il noiator d' Abldo.
Ahi sventurato nuotator d’ Abldo,
Diasi ! ah misera lei ! Chi la conforta ,
Ch'estinto il vede comparir sul lido!
Qui m'interruppe Amore: a te che impor-
terà quest'arco; Il miro. [tal
Non è un bell'arco? ammiro,
Ch'è d'ebano contesto,
Tutto d'avorio è il resto.
Or sai tu chi portollo?
Credo li giovane Apollo
Quando... No , disse Amore :
Sappi che questo è quello
Vergiual arco e bello,
Di cui , col suo pastore
Stando ad una fontana ,
Scordossi un di Diana,
La sorella del Sole ,
Quella che star non vuole
Se non tra cani e reti ;
Quella, fra voi poeti.
Bella del Sol germana ,
Casta appiè d’ ogni monte ,
Casta appiè d' ogni fonte ,
Castissima Diana.
Indi siegue a mostrarmi
De' vinti Del le spoglie:
V’eran di Marte Tamil :
E il Tirso colle foglie
Del Nume tioneo :
E Tali e'I caduceo
Del messaggier celeste ;
E l'umido tridente
Di chi nel mar fremente
Comanda alle tempeste ;
ET rugginoso e nero
Scettro di chi T Impero
Tien sul pallido fiume
Dell’Èrebo fumante;
Tutti trofei d' un Nume ,
Trofei d’un Nume infante. [quante
Nel gran museo del Signor nostro, oh
Cose mirai, ch’entro mia mente bo scritto !
L’asta, il brando, il cimier di Bradamante
Vidi , e la rocca e' 1 fi] d’ Ercole invitto.
Vidi la tazza ove II romano amante
Bevve gran parte del valor d’ Egitto ;
E le monete in cui Giove tonante
Canglossl , e prezzo ei fu del suo delitto.
Vidi rete d'acciaio industre e beila ;
E dissi : È quella che il fabbro di Lenno
Fe'per tua madre? Amor rispose: Èquella:
Poi mostrommi una lucida ampolletta i
E qui ? dlss'io : Qui fu d'Orlando il senno,
Rispose Amore, e T tuo pur qui s'aspetta.
Disse , e vibrò saetta ,
Che rapida mi giunse;
Ed ahi ! da che mi punse
Pace non trovo , o loco.
Qual s' io mi stessi in foco :
Dicol, nè men vergogno:
Non so s' lo veglio o sogno ;
S'Io sogno, o se vaneggio;
S’ lo vidi , o se ancor veggio :
Quel che veder mi parve,
Fur visioni, o larve?
Noi so ; so ben che Amore
Con barbaro furore
Della mente il bel raggio
Ne toglie , e guida a morte.
Fugga da Amor chi è saggio :
Fugga da Amor chi è forte.
Ch'el d’ ogni cuor fa scempio,
E poi sen vanta l' empio.
Non fa che tradimenti ;
Poi ride il traditore.
Fuggite Amore , o genti ,
Genti , fuggite Amore.
DEL TEGLIA.
!
La pallidezza d’ Amore.
Dimmi, vezzosa Eurilla,
Intrepida, tranquilla;
Dimmi, o bella e vezzosa,
Perchè di fresca rosa
Più non arde il bel viso;
E ond'è ch'io vi ravviso
Sol giglio e violetta
Vaga, ma pallidetta}
Tu giù lieta e vermiglia
Del Mar la bella figlia
Sembravi allor che sorte
Dall' onde e Tonde corse,
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CANZONETTE.
Tra i limpidi cristalli
Di perle e di coralli,
E del natio tesoro
Ornata 1 bel crin d'oro;
Ed or mesta e gentile
A lei pur sei simile ;
Ma quando afliitta ed egra
Piangeva in veste negra
Adone II suo diletto;
E battendosi il petto.
Ahimè! senza conforto
Gridava : Adone è morto.
Or dimmi, o bella Eurilla,
Intrepida, tranquilla.
Dimmi : il nuovo pallore
Fora' è pallor d'amore?
Tu arrossi, Eurilla? e questo
Rossor dolce e modesto
Scopre che il tuo pallore
É sol pallor d’amore.
Ah se amorosa fiamma
L'anima e 'I cor t'infiamma;
Più che rosa a narciso
Piacenti sul bel viso
Bel giglio, e pallidetta
Vergine violetta.
0 felice pallore.
Cara insegna d' amore ;
0 pallor che si apprezza,
E in fresca giovanezza.
Più leggiadro innamora.
Che II rossor dell'Aurora!
Pallido è l’oro; e il Sole
Pallido apparir suole ;
E tutte in elei le stelle
Son pallidctle aneli' elle,
Qual tu, che al bel pallore
Sembri stella d'amore.
Amor t'avvampa il seno;
E 'I chiuso foco appieno
Mostralo il ccner vago,
Ond'hai la dolce immago
Soavemente ornata.
0 bella innamorata,
Che di pietà sembianti
Scopri ai cortesi amanti :
Certo ogni fior del prato,
Per esserti uguagliato,
Or bramerà languire
Sul prato c impallidire;
Ma Ila fra tutti eletta
Per te la violetta.
Ama, Eurilla, e gioisci,
Qualora impallidisci ;
E se mai tua beltade
Arrossa d’ oncstadc ;
Ah dopo quel rossore
Torni II pallor d'amore.
ALGAROTTI.
Il vero Amore.
Il vero Amore egli è,
Nlna, se tu non sai,
Io testé l' imparai,
Figlio d'un non so che.
Non di fredda ragione,
Come sognò Platone.
Quel continuo occhieggiare
Che fanno I cicisbei.
Quel gran parlamentare,
Onde stucca esser del,
Sono dell'arte citello,
Non di Natura affetto.
Tra passaggere occhiate.
Che a caso par sicn date,
Tra smezzate parole
Madri di dubbia speme,
Celare Amor si suole,
E di scoprirai teme.
Il vero amor, mia Nini,
È quel clic s' indot ina.
SM
ANACREONTICI.
FIGARI.
Loda il riio e il pianto di Nigella.
0 bella se ridete,
0 belle, le piangete,
Seaipr’ egualmente beila,
bellUaima Nigella!
Vago cosi ranno
Su' vostri labbri il riso.
Tal di bclleaza ha vanto
Ne’ vostri lami il pianto ;
Che da due parti acceso
Resta H mio cor sospeso,
E Paride novello
Se porger al più beilo
Dovesse U pomo d’ oro;
Ei mal sapria fra loro.
Benché giudice esperto.
Qual pretaglia nel merlo.
Che, se aprendo dei labbri
Al riso i bei cinabri
Vostra bocca assomiglia
Orientai conchiglia,
Qualor, Taghe a vederle,
■Spiega candide perle
Alla nascente aurora;
Una conchiglia ancora
Sembran le guancie belle,
Qualor veggio su quelle
Stillarsi I rostri pianti, .
Ch' ban pur di perle I vanti.
0 dunque, se ridete,
0 dunque, se piangete.
Sempre egualmente bella,
Bellissima Nigella !
Bello è mirar di fiori
Con mille e più colori
In ogni parte ornato
Rider venoso il prato ;
E beilo allor che suole
Allo spuntar del Sole
Con le catare più chiare
Rider tranquillo fi mare :
Son beile, aitar che in seno
A un bifido sereno
Sotto il notiamo velo
Ridon le stelle In cielo;
Ma per quanto io in’ aggiro,
Un riso ancor non miro
Fra tanti risi e tanti,
Che agguagli i vostri vanti;
Bella cosi voi siete,
0 bella, se ridete.
Beilo è mirar feconde
Del Po snll'alte sponde
Di lagrtmo60 umore
Di Fetonte le suore;
Bella i r Alba elle piange
Sali* Eritrea e sul Gange;
Bella pianse Ciprigna
Sulla spoglia sanguigna
Del suo trafitto Adone;
Ma pure un paragone
Di pianto antico o nuovo
Fra tanti ancor non trovo
Bello quanto voi siete,
0 bella, se piangete.
Ansi qualor son pago
Di pianto cosi vago.
Se voi bella egualmente
Noi foste ancor ridente,
Perdonate l'errore.
Farei voti ad Amore,
Che ancor con doglie Interne
Egli rendesse eterne
Sulle vostre pupille
Cosi lucenti stille.
Ma perche ognor diviso
Tra il bel pianto e il bel riso
Mal distinguer saprei.
Sospendo 1 voti miei ;
Tanto siete ridendo.
Tanto siete piangendo,
Sempre egualmente bella.
Bellissima Nigella.
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CANZONETTE.
METASTASIO.
La Libertà, a Nice.
Grazie agl' inganni tuoi,
Alfin respiro, o Nice,
Alfin <]' un infelice ,
Ebber gli Dei pìclà :
Sento da’ lacci suoi.
Sento che l' alma è sciolta;
Non sogno questa «ulta
Non sogno libertà.
Manco l' antico ardore,
E son tranquillo a segno.
Che in me uou trota sdegno
Per mascherarsi amor.
Non cangio più colore
Quando il tuo nome ascolto ;
Quando ti miro in volto
Più non mi batte il cor.
Sogno, ma (e non miro
Sempre ne' sogni miei;
Mi desto, e tu non sei
Il primo mio pensicr.
Lungi da te m’aggiro
Senza bramarti mai ;
Son teco, e non mi fai
Ne pena nè piacer.
Di tua beltà ragiono,
Nè intenerir mi sento ;
I torti miei rammento,
E non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
Quando mi vieni appresso ;
Col mio rivale istesso
Posso di te parlar.
Volgimi il guardo altero,
Parlami in volto untano;
II tuo disprezzo è vano,
È vano II tuo favor ;
Chi più l'usato Impero
Quei labbri In me non hanno;
Qnegli occhi più non sanno
La via di qnesto cor.
Quel eh’ or m' alletta o spiace,
Se lieto, o mesto or sono.
Già non è più tuo dono,
Già colpa tua non èt
Cbè senza te mi piace
La selva, il colle, il prato;
Ogni soggiorno ingrato
M' annoia ancor con te.
Odi, s'io son sincero :
Ancor mi sembri bella;
Ma non mi sembri quella;
Che paragon non Ita.
E, uou l' offenda il vero.
Nel tuo leggiadro aspetto
Or vedo alcun difetto,
Cile mi parea beltà.
Quando lo stral spezzai.
Confesso ii mio rossore.
Spezzar m' intesi il core.
Mi parve di morir.
Ma per uscir di guai,
Per non vedersi oppresso.
Per acquistar sé stesso
Tutto si può soffrir.
Nel visco, in cui s’avvenne
Quell’ augellin talora.
Lascia le penne ancora.
Ma torna in libertà;
Poi le perdute penne
In pochi di rinnova;
Cauto divien per prova,
Nè più tradir si fa.
So che non credi estinto
In me l' incendio antico,
Perchè si spesso il dico,
Perchè tacer non so :
Quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
Per rni ciascun ragiona
Dei rischi che passò.
Dopo il crudel cimento
Narra i passati sdegni.
Di sue ferite i segni
Mostra il guerrier cosi.
Mostra cosi contento
Schiavo che asci di pena,
La barbara catena.
Che strascinava un di.
Parlo, ma sol parlando
Me soddisfar procuro;
Parlo, ma nulla k> curo,
Che tu mi presti fè.
Digiti •
ANACREONTICI.
Parto, ma non dimando,
Se approvi i detti miei,
Ne se tranquilla sei
Nel ragionar di me.
Io lascio un incostante;
Tu perdi un cor sincero;
Non so di noi primiero
Cbi s' abbia a consolar.
So che un si fido amante
Non troverà più Nice,
Che un’altra ingannatrice
È facile a trovar.
ROLLI.
Cerca la sua donna.
Solitario bosco ombroso ,
A te viene afflitto cor.
Per trovar qualche riposo
Fra i silenzi in quest' orror.
Ogni oggetto eh' altrui piace ,
Per me lieto più non è :
Uo perduta la mia pace,
Son io stesso In odio a me.
La mia Fitte, il mio bel foco ,
Dite, o piante , è forse qui ?
Abi ! la cerco in ogni loco ;
E pur so eh' ella parti.
Quante volte , o fronde grate ,
La Yostr' ombra ne copri !
Corso d' ore si beate
Quanto rapido fuggi !
Dite almeno , amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò :
Ahi! che l’Eco mi risponde,
E mi par che dica : No.
Sento un dolce mormorio;
Un sospir forse sari,
Un sospir deli’ idol mio.
Che mi dice : Tornerò.
Ah ! ch’èli suon del rio clic frange
Tra quei sassi il fresco umor :
E non mormora , ma piange
Per pietl del mio dolor.
Ma se toma , vano c tardo
U ritorno, o Dei! sari;
Chè pietoso il dolce sguardo
Sul mio cener piangeri.
FRUGONI.
Navigartene di Amore.
Dove il mar bagna e circonda
Cipro, cara a Citerea,
Lungo il margin della sponda
Bella nave io star vedea.
Pinti remi e vele d’ ostro
Vagamente dispiegava :
D’ or la poppa, d'oro II rostro
Rilucente folgorava.
Vera ad arte figurato
Ne' bei lati Giove in toro,
Giove in cigno trasformato,
Giove sciolto in pioggia d’oro :
Vera sculto in altra parte
In pastor Febo rivolto :
V era sculto II fero Marte
Con Ciprigna in rete colto.
Dalle antenne inargentate
Pendean molli, eburnee cetre:
D’almi fiori inghirlandate
Pendean gli archi e le faretre.
Rllucea la face eterna
D' un amabti lume e puro
In cristallo , che governa
Il notturno calle oscuro.
Di chi fosse II bel naviglio
Tosto chiesi , e mi rispose
Un bei Genio : Questo al figlio
Di Ciprigna si compose.
Su tal legno vincitore
Corre i mari d’ Occidente ,
Volatore, predatore
Corre i mari d’ Oriente.
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CANZONETTE.
Fra venosi pargoletti
Nocchler siede, e in dolci tempre
Lusinghieri ZeOreltl
A sua vela spiran sempre.
Lo rispetlan le tempeste ,
Lo rispettan nembi e venti ;
Beiti è seco , ed in celeste
Volto gira occhi lucenti.
Se'l bel legno ascender vuoi ,
Non tei vieta Amor cortese ;
Lo salirò i primi eroi
Dopo l'altc, invitte imprese.
lo vi ascesi, e in Taccia lieta
Mi raccolse Amor dicendo :
Sei tu pur, gentil poeta ,
Che su questo lido attendo.
Yienten meco : io vo' guidarti
La 've II tuo destin m' addila.
Coli giunto nel cor farli
Vo’ un’ amabile ferita.
Tacque Amor, e tacque appena ,
Che sciogliemmo dalla riva.
Sparve il suol, sparve l'arena ,
Onda e elei solo appariva.
Bel veder la prua gemmata
Di Nereo nel regno ondoso
Dai Tritoni accompagnala
Lungo aprir solco spumoso.
Amor dissemi : Tu sei
Spirto accetto al biondo Apollo.
Se T consenti , lo ti vorrei
Questa cetra tor dal collo.
Me la prese e rimirolla :
Poi con mani Industri e pronte
Delle corde tutta armolla
Care al Greco Anacreonle.
Che vuol tu , poscia ripiglia ,
Cantar armi e cantar duci?
Cantar dei sol nere ciglia ,
Nere chiome e nere luci.
Poi d' intatte rose ordita
Ghiriandelta al crin mi cinge;
Poi sul plettro d’or le dita,
Qual volea, m'adatta e finge.
Ecco intanto ferina starsi
L' agii nave, e gli Amorini
«1
Altri in terra giù calarsi ,
Altri in allo raccor lini.
Siamo giunti , giunti siamo ,
Lieto Amor dice e ridice ;
Sul bel lido discendiamo ;
Questa è l' isola felice.
Posto al suolo il piè , scopersi
Piagge ombrose, ameni colli ,
Erbe , piante e fior diversi
Odorosi e freschi e molli.
Pure vene di bell' onde
Errar vidi tortuose,
E baciarsi tra le fronde
Le colombe sospirose.
Quando eletto suol m’apparve
Di leggiadre Ninfe e belle,
Infra loro una mi parve
Quel di' è Cinzia fra le stelle.
Era il ciglio nereggiante,
Nero il crine innanellato ,
Nero l'occhio scintillante.
Bianco il volto delicato;
Corallina c graziosa
Tra’ bei labbri sorridenti
Dischiudea bocca vezzosa
Bel tesoro di bei denti.
Tal beiti mentre riguardo,
E mie luci in lei son fisse ,
Scaltro Amor vibrommi un dardo,
E partendo poi mi disse ;
Passegger caro , rimanti ;
Cosi in Ciei scritto è ne’ Fati :
Qui trarrai fra i lieti amanti
I tuoi giorni avventurati.
Io d' intorno ricercai
La mia bella libcrtade,
E ad Amor ne dimandai
In favella di pleiade.
Semplicetto , ella sta errando
All'opposta riva intorno:
Coll stassi te aspettando;
Ma per te non v'è ritorno.
Si diceva, e battè i vanni,
E fe’ dar le vele al venti :
E I miei novi e dolci affanni
Cominciavo in quei momento.
ANACREONTICI .
SÀVIOLI. .
La Gelosia.
Ossa : gR OH mi colgano
AH* odiata vista,
li crederai? per lagrime
Fona R mio sdegno acquista.
Tuo mi chiedesti t arrisero
Gli avversi Fati ; il sono :
Godi, se puoi, rallegrati
Di si funesto dono.
Lasso ! cosi celava»!
Sotto al tessalic' auro
Il sangue Infausto ad Ercole
Del traditor centauro.
Ardo; un gelato Incendio
Pel vinto cor s' aggira.
Se non i questa (ahi misero!)
Qual deiT Erinni è Pira!
0 gli occhi tuoi rivolgere
Soavi In giro io teda:
Tremo : tu sei colpevole
Di ricercata preda.
0 1 neri erin soggiacciano
A leggi estranio e nove.
Ohimè! di Leda piacquero
1 neri crini a Giove.
Tremo se ignote grazie
Ostenta il petto e ’l viso;
A impallidir condannami
Una parola, un riso.
Parlin segrete, accrescono
Le ancelle i miei timori :
Guai se li tuo seno adornasi
Di sconosciuti fiori.
IT è grave 11 <# ; le tenebre
Sul mio Mot non ponne;
E indarno gii occhi invocano
li fuggitivo Sonno ;
Egli non ode; o il seguita
D’ Ombre drappo) nefando,
E i Sogni a me presentano
Quei efc*io «etnea vegliando.
E un freddo orror la torbida
Quiete infetta e scioglie.
Lascio le piume e rapido
Accorro alle tue soglie.
Tacdon le porte immobili ;
Regna profonda pace :
Ma nel comnn silenzio
11 mio terror non tace.
E scintillar Lucifero
Sul pallld' asse io vedo ;
E l’Alba affretto, e ai talami.
Gridando, il Sol precedo.
Invan smarrita c attonita
Rivolgi al Ciclo i lumi,
E chiami in testimonio
Dell' innocenza, i Numi.
In te di colpa Indizio
La mia ragion non trova;
Il veggio, il sento : e crederti
Spergiura e rea mi giova.
D' ogni pià nera istoria
Gli esempi in te pavento.
Inorridisci : io Bihlide,
lo Pelopea rammento.
Ah m’abbandona, e lasciami
Preda ai rimorsi miei :
No, tu con me dividere
Lo strazio mìo non dei.
Ahi, questo di medesimo
Io barbaro, io profano.
In te volea commettere
La scellerata mano
Degni deir opra H Tartaro
Supplizi aver non pnote :
Non Pome infami bastano.
Non d' Isston le ruote.
Ne fuggi ? e in me s’ affissano
Pietosi 1 languid- occhi ;
E piangi, e supplichevole
Abbracci i miei ginocchi!
Cessa ; del rio spettacolo
Tutto F orror comprendo.
Cessa. Tu segui? Ah, Furie,
L' abisso aprite : lo scendo.
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CANZONETTE.
All’ Amate inferma.
Odi; i momenti volano;
Odi una volta, e cedi ;
Ohimè, gli DII ti perdo»»
Se In Eseulapio credi.
Ei l' erbe Indarno e I farmachi
In tuo favor prepara ;
Tue labbra Indarno chieggono
La pia corteccia amara.
Lasso! una Furia, immobile
Veglia alle porte, e grida ;
L’ altre d’infami aconiti
Colman la Uzza infida ;
Morte l’offerta vittima
Impaziente affretta.
Trema : H tuo capo, o misera,
£ sacro alla vendetta.
Va ; con promesse c lagrime
Stanca la tua Diana;
Offendi il casto imperio
Con servitù profana.
Altro giurasti : intesero.
Per danno too, gii Dei :
Lo sa Diana ; il Tartaro
Tavri se mia non sei.
Essa al Dglinol di Venere
Turbar non osa II regno :
Anzi II difende e il libera,
Il serve, e n’ è sostegno.
Mentre Cidippe affidasi
Alle devote soglie.
Si vede a piè discendere
L’aurato pomo, e 1 coglie.
0 Dea, tarò d’Aconxio,
Ardito amor vi scrisse :
Vide P in canta vergine
Sarò d’Acomio, e il disse.
Dei giuramento incognito
Indarno il cor si dolse :
Giurato i labbri arcano;
Diana i! voto accolse.
L’ accolse : invano i Ulanri
Altro Imeneo chimica;
Febbre ertidel vietatali,
E il petto infido artica.
Ah, se ad uguale ingiuria
Dar pena ugnai ti place.
Compì l'amico esempio.
Gran Dira, e acconta pace.
Pace : d' Amor la gloria
Serba : cosici si pente.
Partite, o febbri indomite,
Dal bei corpo languente.
E tu, elle incerta e tacita
Lasci a' sospiri il corso,
0 via tcrror derivino,
0 pur dal tuo rimorso;
Deh, con più fido augurio,
L’ ignuda destra porgi ;
Rompi 11 crudel silenzio;
E morte inganna, e sorgi.
Qual speri onor se all’ Èrebo
Discendi ombra spergiurai
Qual voti allor ti salvano
Dalle roventi murai
Pria d' una vita inutile
Pietoso il Clel mi privi ;
Poscia gli Dii ti rendano
Le lue promesse, e vivi.
DE' ROSSI.
L’trcod’ Amore.
Prendi, mi disse Amore,
Questo arco feritore,
Di cui ti lagni tanto ;
Spezzalo pur, se vuoi :
Quando quest' arco ì infranto
Cessano i mali tuoi.
Incauto giovinetto,
D' Amor l’offerta accetto;
E in cento modi c cento
Spezzar quell’ arco lento.
Ma ogni forza mortale
Contro quell' arco è frale.
Cercando allor men vo
Chi diami all’ uopo aita.
L’ arco allo Sdegno do :
Quegli con mano ardita
Franco l’opra intraprende;
Ma Intatto poi mcl rende.
e«
ANACREONTICI.
A Gelosia lo porto :
E coir arida roano
L‘ area colei gli torto.
Io n'esulto: ma Insano!
Chè forte più di pria
Mei rende Gelosia.
Volgo al Capriccio I preghi i
Che all' impresa s’ accinge.
L’ arco par che si pieghi
Mentre colui io stringe :
Oh breve contentezza!
Lo piega, e non lo spezza.
Allor le Muse Invoco :
Arso quell’ arco indegno
Spero dal sacro foco
Che m'accende l'Ingegno.
Ma è van che a quelle esprima
I miei tormenti in rima.
Cosi passando gli anni
Fra tristezza ed affanni,
Alilo le bianche brine
Caddero sul mio crine :
Vecchiezza, che al mio fianco
Mosse il piè lento c stanco,
Vide quell'arco, rise.
Lo spezzò, lo divise.
Or l' empio fanciulletto
Impaziente aspetto;
Chè de' trionfi miei
Fario certo vorrei.
Ma indarno, oh Dio, lo bramo,
Indarno a me Io citiamo :
Passa iunge, e qual vento
Dagli occhi mici si fura ;
Ed or che noi pavento,
El più di me non cura.
Amore di udienza.
Udienza solenne
Amore un giorno tenne :
Il regolar l' ingresso
Fu al Capriccio commesso.
Entraro il Riso e il Gioco :
Ma si trattenner poco.
Con Amore assai più
Parlò la Gioventù.
Fu la Rellczza udita;
Ma colle Grazie unita.
Dopo la Gelosia,
Ascoltò ia Follia :
E momenti non brevi
Ad ambedue concesse;
Perchè affari non lievi
Suole affidare ad esse.
Torbido in viso e tetro.
Passò poi il Tradimento :
Ma nel tornare indietro
Parie lieto e contento.
Eutrò lo Sdegno ancora
A favellar col Nume :
E benché ad esso ognora
Avverso di costume.
Pur gli si lesse in volto
Che avealo bene accolto.
Fu ammessa la Costanza
Coll' Innocenza a lato ;
Mg usciron dalla stanza
In aspetto turbato.
Avea gii udito Amore
Tutto l'accorso stuolo;
E la Ragione solo
Aspettava al di fuore ;
Ciiè, a lei per odio antico
Il Capriccio nemico.
Aveva per dispetto
D’ annunciarla negletto.
E allor che 11 Nume vide
Dal lungo udire stanco;
V' è la Ragion pur anco,
Dice ; e fra sè poi ride.
Quando quel nome ascolta,
Pensoso abbassa i guardi,
Poi dice Amore : 6 tardi :
Che passi un'altra volta.
I
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DITIRAMBICI
CHIABRERA.
Prega usa ninfa di mescergli del migliore.
Damigella
Tutta bella.
Vena, Tersa quel bel vino,
Fa che cada
La rugiada,
Distillata di rubino.
Ho nel seno
Rio veneno,
Che ri sparse Amor profondo.
Ma gittarlo
E lasciarlo
Vo’ sommerso In questo fondo.
Damigella
Tutta bella,
DI quel vin tu non mi sazi,
Fa che cada
La rugiada
Distillata di topazi.
Ah che spento
10 non sento
11 furor degli ardor miei ;
Meno ardenti,
Men cocenti
Sono, ohimè, gl’inccndj etnei.
Nuora fiamma
Più m’infiamma,
Arde il cor fuoco norello.
Se mia rifa
Non si aita.
Ah .' che io vengo un Mongibclto.
Ma più fresca
Ognor cresca
Dentro me si fatta arsura,
Consumarmi,
E disfarmi
Per tal modo ho per ventura.
Dioneo,
Tloneo
Quando fu che fosser rei?
0 Plnelli,
1 più belli
Son costor degli altri Del.
Deh dispensa
Sulla meusa,
Che ci fa si lieta erbetta;
Damigella
Tutta bella,
Di quel vin che più diletta.
Gli famosa.
Gloriosa
Si dicea la Vite in Scio,
Ma quel vanto
Non puù tanto.
Che s'appaghi il desir mio.
Odo ancora,
Che s* onora
La vendemmia di Falerno;
Ma per certo
Più gran meno
£ d’un pampino moderno.
Ogni noia
Vieti, che mola
Annegata quando lo bevo,
Pur beato
Fa mio stalo
La Vendemmia di Vcsero.
Or su movi
Donna, e piovi
La rugiada scmelea,
Metti cura,
Ch’ ella pura.
Pura sia Tioniea.
Di mia Diva,
Se si scriva
Il bel nome, i con sci note.
Or per questo
Io m’appresto
A lasciar sei coppe vote.
Ma se lo soglio
Nel cordoglio
Sempre dir del suo bei vanto.
Maggiormente
Al presente
N'ho ha dir, che rido e canto.
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«46
DITIRAMBICI.
San ben degni,
Che io m' ingegni
Quei begli occhi ad onorarli,
Son ben degni,
Che io m' Ingegni
Quei bei risi a celebrarli.
Faina dice
La fenice
Apparir nei mondo sola,
Che si mira.
Che s’ammira
Per ciascun ijnando ella cola:
Che le piume
D' aureo lume,
E di porpora è vestita:
Che d' intorno
Spande giorno
Con la testa oricrinita.
Qual fenice
Uom mi dice?
Fumi sono i pregj intesi.
Più si mira.
Più s’ ammira
Sovra i liti savonese
le lui vecchio il vino |
'Sull' età giovane, eh' arida suggero
Suol d’ Amor tossico, simile al nettare.
Quando il piangere è dolce ,
E dolcissimo l’ardere,
Celeste grada sovra i miei meriti
A me mostravati , Vergine nobile.
Oh clic agevole giogo!
Che piacevole carcere! [ti
Or gli anni agghiacciano: lagrimeegeml-
Or più non amano Vergine; e se amano,
SITIR
Poterne
In questa angusta terra.
Brevissimo soggiorno de' mortali ,
Stuoladdensatc pene
Ognor muovono guerra j
Ecco l’ alme reali
Non mai disattristale
Curvaccigliata ambi rio n disbranda ;
E le dimesse menti ognor tormenta
La corinfcstalrice Povertate;
L’arder di Gite rea
Disvisccra ad ognor la Giovinetta;
' Queaa» breve cempoa deca tostagli per
Via più sola
Qui sen vola
La belletta, onde io tutto arde,
Più gran luce
Qui produce
L’ Oriente del suo sguardo. “
Viva rosa
Rugiadosa
Di costei la guancia infiora :
Mai tal ostro
Non fu mostro
Per l’augcl, clic si s’onora.
0 fenice
Beatrice
Del mio cor con tua beliate,
Ben poria
L’alma mia
Dire ancor tua feritale.
Cbè se gira
Sguardo d’ ira
La tua vista disdegnosa.
Non ha fera
Cosi fiera
Per l' Arabia serpenlosa.
) assai più dell’Amore.
Amano lucido ostro,
E viti gelido , amabile.
Del qual s' io ricreo l' aride viscere ,
Le Muse celebri subito sorgono.
Ed or temprano cetre.
Ora fistole spirano.
Se questi piaccionti musici stndj ,
Audrù cantandoti, Cigno per l’aria;
E tu volgimi gli occhi.
Che altrui l'anima beano.
AUBO.
li Bacco.
E gli spirti canuti
Guaiscono ad ognora
Sotto la disamabile vecehiem;
Or come , e da die parte
Per noi conforto spercratsi 1 e quale
Del viver lieto tnsegneraune !' arte ?
L’ almo Infante ,
Cui trasse il gran Tonante
Dal grembo della madre incenerila,
Il qual poscia
Dalla paterna coscia
io del metro orammo, imitato dal Chiahrcra.
CANZONETTE
binato sorse a sempiterna sita;
KJ spemallettatore
Mette in fuga le noie; ,
Egli vltiehiomato
A se chiama le gioie.
Buon Lieo,
Buon Dionigi,
Buon Nlseo,
Chi di lui canta sia novello Orfeo.
Bella Fìlli , e bella Clori,
Non più dar pregio a tue bellezze e taci,
Chè se Bacco fa vezzi alle mie labbra
Fo le fiche a' vostri baci ;
Regni Bacco il cacciafianni ,
Ei riversa nell’ alme alma virtnte;
Ei fa tornar nelle stagion canute
L’allegrezza de' freschi anni.
Regni Bacco il cacciafianni.
Or che ricopre il cielo
li nubaddensatore Austro piovoso.
Recami di Rovaio
Le ben care ricchezze, io dico li gelo,
Sicché nel caldo agosto
Io goda d’ un freddissimo gennaio.
Discendi, Callinice,
Nella profonda grotta ,
Discendi , esperta vinatlingitrlce,
Cbé quando bevo , allotta
Io divengo felice.
Piropi di Perù
Vene di Potosl ,
Sollevo gridi, e chiaramente il dico,
Di voi non mi cal più :
E te, sangue ottomano,
E sangue di Quirino ,
Prendo a scherno altresì ;
Fonte di nobiltale,
Ed arca di tesori ,
E nobil mosto in ben cerchiato tino,
0 Callinice , acqua nevata e vino.
Cara di Bacco Napoli ,
Felice te , che pigi
Meladdolcili grappoli ,
Per te vendemmia su bel colle aprico
Consolatrice lagrima
Pausiiippo uvamico:
Lagrime di plropo ,
Onde lo scaltro Ulisse
Spense l' unico ciglio
All* immenso Ciclopo,
Sé sottraendo dai mortai periglio.
Mìsero lui , se nell' orribll speco
Si fidava nell’ armi di Vulcano,
E SONETTO. 647
Ed il nettareo succo.
Che distilla Nisco , non avea seco.
Non move dunque invano
Apollo 11 cetrarciero,
Che del buon Bacco va cantando I vanti ,
0 bella Euterpe secondiamo i canti.
Figlio di Semelo ,
Chi non ti celebra
Ne' golfi di Nereo possa afiogar.
Me per tal colpa
Non vedrà mai dolente
Lo spezzantenne e formidabi! mar.
Orche dico io?
È nelle ricche corti
In pregio il tesorier;
Ma se miei voti
Fossero uditi , esser vorrei coppier.
Deh fossi io bottiglicr.
Bella Melpomene,
Bellissima Calliope,
Or chi m’appresta
Briglindorato Pegaso
Nubicalpestator?
SI, che porli per l’Africa,
SI , die porti per l' Asia
Del buon Dionigi il poco noto onor.
Fia dunque ver che si ritrovi gente.
Che di schietto roseci faccia vendemmia?
0 sciocchi d'Oriente,
Lasciate , che al deserto
Predichi il vaneggiar di Macometto.
Che sapeva egli il menzogner profeta?
Voi fatti saggi rimembrate ornai.
Che balsamo di vigna imbotta c svena
Omero il gran poeta.
Prega Vulcano di fargli una gian tazza.
Non mi fare, o Vulcan, di questo argento
Scolpiti in vaga schiera uomini ed armi :
Fammene una gran lazza , ove bagnarmi
Possa i denti, la lingua, ì labbri e ’l mento.
Non mi ritrarre In lei pioggia nè vento,
Nè Sole o stelle per vaghezza darmi :
Non può il Carro o Boote allegro farmi ;
Ch’ altrove è la mia gioia c ’l mioeontento.
Fa delle viti, ad alle viti intorno
Pendati dcll’nve, e Ptrve stilili] vino.
Ch’io bevo c poi dagli occhi ebbro distillo.
E'n mezzo un vaso, ove a bel coro ador-
Coro più eh* altro lieto e più dirlno, [no.
Pestino l'nve Amor, Bacco e Ballilo.
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DITIRAMBICI,
64S
l
fV
, REDI.
«
BACCO IN TOSCANA.
DITIRAMBO#
Dell' indico Oriente
Domator glorioso, il Dio del vino
Fermalo avea l’allegro suo soggiorno
Ai colli etruschi intorno;
K coli dose imperlai palagio
L'augusta fronte Invcr le nubi innalza.
Su verdeggiante prato
Colia vaga Arianna un di sedea;
E bevendo e cantando.
Al bell’ idolo suo cosi dicea :
Se dell' uve 11 sangue amabile
Non rinfranca ognor le vene.
Questa vita 6 troppo labile.
Troppo breve e sempre in pene.
SI bel sangue £ un raggio acceso
Di quel Sol clic in Ciel vedete;
E rimase avvinto e preso
Di più grappoli alla rete.
Su, su, dunque, in questo sangue
Rinnoviam l' arterie e i muscoli;
£ per chi s' invecchia e tangue,
Prepariam vetri maiuscoli :
Ed In festa baldanzosa.
Tra gli scherzi e tra le risa,
Lasciam pur, lasciato passare
Lui che in numeri e in misure
Si ravvolge e si consuma,
E quaggiù Tempo si chiama ;
E bevendo c ribevendo,
I pensier mandiamo in bando.
Benedetto
Quel Claretto
Che si spilla in Avignone :
Questo vasto bollicene
Io ne verso entro ’l mio petto.
Ma di quel che si puretto
Si vendemmia in Animino,
Vo' trincarne più d’ un tino :
Ed in si dolce e nobile lavacro
Mentre il polmone inio tutto s'abbevera,
Arianna mio Nume, a te consacro
II Uno, il Gasco, il bottlcin, la pevera.
Accusato,
Tormentato,
Condannato
Sla colui che in pian di Lecore
Prim’ osò piantar le viti ;
Infiniti
Capri e pecore
Si divorino quei tralci,
E gli stralci
Pioggia rea di ghiaccio asprissimo.
Ma lodato.
Celebrato,
Coronato
Sia l' eroe che nelle vigne
Di Petrala e di Castello
Piantò prima il Moscadetlo.
Or che stiamo in festa e in giolito.
Bei di questo bel crisolito
Ch’ò figliuolo
D’ un magliuolo
Che fa viver più del solito.
Se di questo tu berai,
Arianna mia bellissima,
Crescerà si tua vaghezza,
Che nel fior di giovinezza
Parrai Venere stessissima.
Del leggiadrelto,
Del si divino
Moscadelletto
Di Monlalcino,
Talor per scherzo
Ne dileggio un nappo,
Ma non incappo
A berne II terzo i
Egli è un vln eh’ è tutto grazia,
Ma però troppo mi sazia.
Un tal vino
Lo destino
Per stravizzo e per piacere
Delle vergini severe
Che racchiuse in sacro loco
Han di Vesta in cura il foco :
Diqil
BACCO IN
Un tal «Ino
Lo destino
Per le dame di Parigi,
E per quelle
Cbe si belle
Rallegrar fanno II Tamigi.
Il Pisciando del Cotone,
Onde ricco è lo Scarlatti ,
To' che il bevan le persone
Cbe non san fare I lor fatti.
Quel cotanto sdolcinato,
SI smaccato.
Scolorilo, snervateli
Pisciateli di Bracciano,
Non è sano ;
E il mi detto vo' che approvi
Ne’ suoi dotti scartabelli
L'erudito Plgnatelii :
E se in Roma al volgo piace,
Glielo lascio in santa pace.
E sebben Ciccio d' Andrea,
Con amabile Derma ,
Con terribile dolcezza,
Tra gran tuoni d’ eloquenza ,
Nella propria mia presenza
Innalzare un di tolea
Quel d’ Aversa acido Asprino
Che non so se agresto o vino;
Egli a Napoli sei bea
Del superbo Fasano in compagnia ,
Che con lingua profana osò di dire
Che dei buon vino al par di me s'intende;
Ed empio ormai besleminialor pretende
Delle tigri nlsee sul carro aurato
Gire In trionfo ai bel Scitelo intorno;
Ed a quel lauri ond’ate 11 crine adorno,
Anco Intralciar la pampinosa tigna
Che lieta alligna in Posilippo e in Ischia;
E più avanti s'innoitra, e Infin s'arrischia
Brandire II tirso, e minacciarmi altero:
Ma con esso azzuffarmi ora non chero ;
Perocché lui dal mio furor preserva
Febo e Minerva.
Forse avverrò che sul Scbeto io voglia
Alzar un giorno di delizie tin trono:
Allor vedrollo umiliato, e in dono
Offerirmi devoto
Di Posilippo e d’ Ischia il nobil Greco :
E forse allor rappattumarmi seco
Non Ga eh' io sdegni, e beveremo in tresca
All' usanza tedesca ;
E tra Canfore vaste e l’inguistare
Sari di aostre gare
TOSCANA. 649
Giudice illustre, e spetlator ben lieto
Il marchese gentil deli’ Uliveto.
Ma frattanto qui sull' Arno
10 di Pescia il Burlano,
11 Trebbiano, Il Colombano
Mi tracanno a piena mano :
Egli è il vero oro potabile
Cile mandar suole in esilio
Ogni male inrimediabile ;
Egli è d’ Elena il nepente
Che fa stare il moudo allegro,
Dai pensieri
Foschi e neri
Sempre sciolto e sempre esente :
Quindi awlen che sempre mai
Tra la sua DIosoDa
Lo teneva in compagnia
li buon vecchio Rucellai ;
Ed al chiaror di lui , ben comprendea
Gli atomi tulli quanti e ogni corpuscttlo,
E molto ben distinguere sapea
Dal mattutino il vesperlin crcpusculo,
Ed additava donde avesse origine
La pigrizia degli astri e la vertigine.
Quanto errando , oli quanto va
Nel cercar la verità
Chi dal vln lungi si sta! [mi
Io stovv i appresso, ed or godendo accorgo-
Che il bel color di fragola matura
La Barbarossa allenami ;
E cotanto dilettami.
Che temprarne amerei l'interna arsura.
Se il Greco Ipocrate,
Se il vecchio Andromaco
Non mel vietassero,
Nè mi sgridassero ,
Che suol talora infievolir lo stomaco.
Lo sconcerti quanto sa.
Voglio berne almrn due ciotole.
Perchè so, mentre ch'io votole.
Alla Gn quel che ne va :
Con un sorso
Di buon Corso,
0 di pretto antico Ispano ,
A quel mal porgo un soccorso
Che non è da cerretano.
Non Da già, die il cioccolatte
V* adoprassi, ov vero il tè :
Medicine cosi fatte.
Non saran giammai per me.
Beverci prima il veleno,
Che un bicchier che fosse pieno
Dell’ amaro e reo caffè :
M
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DITIRAMBICI.
Coli tra gli Arabi
E tra I Giannizzeri
Liquor si ostico.
Si nero e torbido
Gli schiavi ingollino.
Giù nel Tartaro,
Giù nell' Èrebo
L’empie Bolidi I* inventarono;
E Tesitene e l’ altre Furie
A Proserplna il ministrarono :
E se in Asia il Musulmano
Se lo cionca a precipizio,
Mostra aver poco giudìzio.
Han giudizio e non son gonzi
Quei toscani bevitori
Che tracannano gli umori
Delia vaga c della bionda.
Che di gioia I cuori inonda.
Malvagia di Monlegonzi.
Allorché per le fauci e per 1* esofago
Ella gorgoglia c mormora,
Mi fa nascer nel petto
Un Indistinto, incognito diletto
Che si può ben sentire,
Ma non si può ridire.
lo noi nego, è preziosa.
Odorosa
L' ambra liquida redense :
Ma, tropp’ alta ed orgogliosa,
La mia sete mai non spense;
Ed è vinta in leggiadria
Dall’ etrusco Malvagia.
Ma se fìa mal clic da cidonio scoglio
Tolti i superbi c nobili rampolli,
Rlngcntiliscan sui toscani colli.
Depor vcdransl il naturale orgoglio;
E qui dove il ber s’ apprezza,
Pregio avrai! di gentilezza.
Chi la squallida cervogia
Alle labbra sue congiugne.
Presto muore, o rado giugne
All’ età vecchia e barbogia.
Beva il sidro d' Inghilterra
Chi vuol gir presto sotterra :
Chi Tuoi gir presto alla morte.
Le bevande usi del Norie.
Fanno I pazzi beveroni
Quei Norvegi e quei Lapponi :
Quei Lapponi son pur tangheri,
Son pur sozzi nel lor bere :
Solamente nel vedere.
Mi farieuo uscir de’ gaugherL
Ma si restiti col mal die
Si profane dicerie;
E il mio labbro profanato
Si purifichi, s' immerga,
Si sommerga
Dentro un peccherò indorato,
Colmo in giro di quel vino
Del vitigno
Si benigno,
Clic fiammeggia in Sansavino;
0 di quel che vermigliuzao,
Brillanluzzo,
Fa superbo 1' Aretino
Che lo alleva In Tregozzano
E tra* sassi di Giggiano.
Sarò forse più frizzante,
Più razzente e più piccante,
0 coppier, se tu richiedi
Quell' Albano,
Onci Vaiano,
Che biondeggia.
Che rosseggia
Là negli orli del mio Redi.
Manna dal Ciri sulle tue trecce piova.
Vigna gentil che questa ambrosia Infondi ;
Ogni tua vite in ogni tempo muova
Nuovi fior, nuovi frutti, e nuove fromli;
Un rio di latte In dolce foggia e nuova
1 sassi tuoi placidamente inondi;
Nè pigro giel, nè tempestosa piova
Ti perturbi giammai, nè mai ti sfrondi ;
E ’i tuo signor nell' età sua più vecchia
Possa del vino tuo ber colla secchia.
Se la druda di Tilone
Al canuto suo marito
Con un vasto ciotolone
Di tal vili facesse invito,
Quel buon vecchio colassù
Tornerebbe in gioventù.
Torniam noi frattanto a bere :
Ma con qual nuovo ristoro
Coronar potrò ’l bicchiere
Per uu brindisi canoro?
Col topazio pigialo in Lamporecchio
Ch' è famoso caste! per quel Masetto,
A inghirlandarle uzze or m’apparecchio.
Purché gelato sia, e sia puretto;
Gelato quale alla stagion del gielo
li più freddo aquilou fischia pel cielo.
Cantinelle e cantimplore
Stieno in pronto a tutte l’ ore
Con forbite bombolette
Chiuse c strette tra le brine
Delie nevi cristalline.
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BACCO IN
San le nevi U quinto elemento,
Che compongono il vero berere :
Ben A folle chi spera ricevere
Sema nevi nel bere un coutenlo.
Venga pur da Vallombrosa
Neve a Iosa;
Venga pur da ogni bicocca
Neve in chiocca :
E voi. Satiri, lasciate
Tante frottole e tanti riboboli,
E del ghiaccio mi portate
Dalla grotta del monte di Boboli.
Con alti picchi
De' mazzapicchi
Dirompetelo,
Sgretolatelo
Infragncteio,
Stritolatelo
Finché tutto si possa risolvere
In minuta, freddissima polvere
Che mi renda il ber più fresco
Per rinfresco del palato
Or eh' io son morto-assetato.
Del vin caldo s’ io ne insacco.
Dite pur, eh' lo non son Bacco;
Se giammai n'assaggio un gotto,
Dite pure, e vel perdono,
Ch’ io mi sono un vero Arlotto :
E quei che in prima in leggiadrelli versi
Ebbe le Grazie lusinghiere al Dauco ;
E poi )iel suo gran core ardito e franco
Vibrò suoi detti in fulmine conversi.
Il grande anacreontico ammirabile,
Menzin che splende per febea ghirlanda,
Di satirico fiele atra bevanda
Mi porga, ostica acerba e inevitabile.
Ma se vivo costantissimo
Nel volerlo arcifrcddissiino, [de
Quel che in Pindo è sovrano, e in Pindo go-
Glorie immortali, e al pardi Febo hai van-
Quel gentil Filicaia inni di lode [li,
Sulla celerà sua sempre mi cauli;
E altri cigni ebbri restosi
Che di lauro s'incoronino.
Ne' lor cauli armoniosi
Il mio nome ognor ustionino,
E rintuonino :
Viva Bacco, il nostro re ;
Evoè,
Evoè.
Evoè replichi a gara
Quella turba si preclara.
Anzi quel regio senato
TOSCANA. «&|
Che decide, in trono assiso.
Ogni saggio e dotto piato
l,à 've 1* etnische voci e criba e ain?
La gran maestra c del parlar regina
Ed il Segni segretario
Scrii a gli atti al calendario,
E spediscane courrier
A monsieur l'abbé Régnier.
Che vino è quel colà.
Che ha quel color dorè ?
La Malvagia sarà,
Ch' al Trebbio onor già diè.
Eli' è davvero, eli’ è :
Accostala un po’ in qua,
E colmane per me.
Quella gran coppa là.
E buona per mia fé,
E molto a gré mi va.
lo bevo in sanità,
Toscano re, di te.
Pria eh' io parli di tc, re saggio c forte.
Lavo la bocca mia con quest’ umore.
Umor che dato al secol nostro in sorte.
Spira gentil soavità d’odore.
Gran Cosmo, ascoi ta : a tue virludi il Giti*
Quaggiù promette eternità di gloria;
E gli oracoli miei senz’ alcun velo
Scritti già son nella immortale istoria*
Sazio poi d’ anni, c di grandi opre onusta
Volgendo il tergo a questa bassa mole
Per tornar colassù donde scendesti.
Splenderai luminoso intorno a Giove
Tra le Medicee stelle astro novello;
E Giove stesso del tuo lume adorno.
Girerà più lucente all’ etra intorno.
Al suoli del cembalo,
Al suon dei crotalo.
Cinte di nebridi,
Snelle Bassaridi,
Su su, mescetemi
Di quella porpora
Che in Mouterappoii
Da' neri grappoli
Si bella spremesl :
E mentre annaffione
L’ aride viscere
Ch' ognor ni' avvampano.
Gli esperti Fauni
Al crin m’ intreccino
Serti di pampano ;
Indi allo strepilo
Di flauti e nacchere
Trescando, ìntuouioo
DITIRAMBICI.
Stram boni e frottole
D' alto mìsterlo :
E l' ebbre Menadi,
E i lieti Egipani
A quel mistico lor rozzo sermone
Tengan bordone.
Turba villana intanto
Applauda al nostro canto,
E dal poggio vicino accordi c suoni
Talabalacclii, tainburacci e corni
E cornamuse e pifferi e sveglioni ;
E tra cento colascioni
Cento rozze foroselle.
Strimpellando il dabbuddà.
Cantino e ballino il bombababà :
E se cantandolo,
Arciballandolo,
Avvien che slancinosi,
E per grandavida
Sete trafelinsi;
Tornando a beverc,
Sul prato asseggansi,
Canterellandovi
Con rime sdrucciole
Mottetti c cobbole.
Sonetti e cantici :
Poscia, dicendosi
Fiorì scambievoli.
Sempre mai tornino
Di nuovo a borre
L’altera porpora
Clic in Monterappoli
Da’ neri grappoli
Si beila spremesi ;
E la maritino
Col dolce Mammolo
Che colli imbottasi,
Dove salvatici)
Il Magalotti in mezzo al solleone
Trova l’autunno a quella stessa fonte.
Anzi a quel sasso onde l'antico Esone
Diè nome c fama al solitario monte, [gliera .
Questo nappo clic sembra una pozzan-
Colmoè d’ un sin si forte e si possente,
Che per Ischerzo baldanzosamente
Sbarbica i denti, e le mascelle sganghera :
Quasi ben gonllo e rapido torrente,
Cria il palato, c il gorgozzule inonda;
E precipita in giù tanto fremente,
Ch' appena il cape l’ una c l’ altra sponda.
Madre gli fu quella scoscesa balza
Dove l’annoso Desolano Atlante
Nel più Dito meriggio e più brillante
Verso l’occhio del Sole il fianco innalza,
Fiesole viva, e seco viva il nome
Del buon Salviati, ed i. suo bel Maiano!
Egli sovente con devota mano
Offre diademi alle mie sacre chiome;
Ed io lui sano preservo.
Da ogni mal crudo e protervo,
Ed intanto
Per mia gioia tengo accanto
Quel grande onor di sua rcal cantina,
Vin di Val di Marina.
Ma del vin di Val di Botte
Voglio berne giorno e notte,
Perchè so che in pregio l' hanno
Anco 1 maestri di color che sanno :
Ei da un colmo bicchiere e traboccante
In si dolce contegno il cuor mi tocca,
Che per ridirlo non sarla bastante
llmioSaltìncheha tante lingue in bocca.
Se per sorl’ avverrà che un di lo assaggi
Dentro a' lombardi suol grassi cenacoli.
Colla ciotola in man farà miracoli
Lo splendor di Milano, il savio Maggi.
Il savio Maggi d’Ippocrene al fonte
Menzognero liquore unqua non bebbe ;
Nè sul Parnaso lusinghiero egli ebbe
Serti profani all’onorata fronte:
Altre strade egli corse; e un bel sentiero.
Rado o non mai battuto, apri ver l’eira :
Solo al Numi e agli eroi nell' aurea cetra
Offrir gli piacque il suo gran canto altero.
E saria veramente un capitano,
Se tralasciando del suo Lesmo il vino,
A trincar si mettesse il vin toscano :
Che tratto a forza dal possente odore,
Post' in non cale I lodigiani armenti.
Seco n’andrebbe in compagnia d’onore.
Colle gote di mosto c tinte c piene,
Il pastor de Lcnienc ;
Iodico lui clic giovanetto scrisse.
Nella scorza de’ faggi e degli allori,
Del paladino Macaron le risse,
F. di Narciso forsennati amori ;
F. le cose del Cicl più sante c belle
Ora scrive a caratteri di stelle.
Ma quando assidesi
Sotto una rovere,
Al suon del zufolo
Cantando spippola
Egloghe, c celebra
Il purpureo liquor del suo bel colle
Cui bacia il Lambro il piede.
Ed a cui Colombano il nome diede;
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BACCO IN
Ove le viti in lasciteli! intrichi
Sposate sono. In vece d'olmi, a' fichi.
Se vi è alcuno a cui non piaccia
La Vernaccia
Vendemmiala in Pictrafitta,
Interdetto,
Maladclto
Fugga via dal mio cospetto;
E per pena sempre ingoni
Vin di Brozzi,
Di Quaracclii c di Pcretola ;
E per onta e per ischcrno
In eterno
Coronato sia di bietola;
E sul destrier del tccchierel Sileno
Cavalcando a ritroso ed a bisdosso,
Da un insolente Salirclto osceno
Con Infame flagri venga percosso;
E poscia avvinto in vergognoso loco,
Ai fanciulli plebei serva per gioco;
E lo giunga di vendemmia
Questa orribile bestemmia.
LI d'Antinoro in su quei colli alteri
Ch' han dalle rose il nome.
Oh come lieto, oli come
Dagli acini più neri
D’un canai uni maturo
Spremo un mosto si puro,
Che ne' vetri zampilla ;
Salta, spumeggia e brilla!
R quando in bel pareggio
D’ ogni altro vln lo assaggio,
Sveglia nel petto mio
Un certo non so che,
CJie non so dir s' egli è
O gioia, o pur desio :
Egli è un desio novello,
Novel desio di bere.
Che tanto più s' accresce,
Quanto più vin si mesce.
Mescete, o miei compagni;
E nella grande inondazion vinosa
Si tulli, e ci accompagni,
Tuli' allegra e festosa.
Questa che Pan somiglia.
Capri barbicornlpcde famiglia.
Mescete, su, mescete :
Tutti afToglilam la sete
In qualche vln polputo,
Quale è quel di' a diluvj oggi è venduto
Dal cavalier dell' Ambra,
Per ricomprarne poco muschio ed ambra.
E! s'è fitto in umore
TOSCANA. 64»
Di trovar un odore
Si delicato e fino,
Clic sia più grato dell’odor del vino.
Mille inventa odori eletti ;
Fa ventagli e guancialetti.
Fa soavi profumiere
E ricchissime cunzicro,
Fa polligli,
Fa borsigli,
Clic per certo son perfetti :
Ma non trova il poverino
Odorclicaggnagli il grande odordcl lino.
Fin da' gioghi del Perù,
E da' boschi del Tolù
Fa venire.
Sto per dire.
Mille droghe e forse più
Ma non trova II poierino
Odorchc agguagli il grande odor del vino.
Fiuta, Arianna ;questoè II vln dell’Ambra:
Oh che robusto, oh che vitale odore !
Sol da questo nel core
Si rifanno gli spirti, e nel celabro;
Ma quel che è più, ne gode ancora il labro.
Quel gran vino
Di Pumino
Sente un po’ dell' afiricogno :
Tuttavia di mezzo agosto
lo ne voglio sempre accosto;
E di ciò non mi vergogno.
Perchè a berne sul popone
Parmi proprio sua stagione.
Ma non lice ad ogni vino
Di Pumino
Star a tavola ritonda :
Solo ammetta alla mia mensa
Quello che il nobll Alhizzi dispensa,
E che fallo d' uve scelte
Fa le menti chiare e svelle.
Fa le menti chiare c svelle
Anco quello
Ch’ ora assaggio ; e ne favello
Per sentenza senza appello :
Ma ben pria di favellarne,
Vo' gustarne un’ altra volta.
Tu, Sileno, intanto ascolta:
Chi ’l crederla giammai? nel bel giardino
Ne' bassi di Gualfonda Inabissato,
Dove tiene il Riccardi alto domino.
In gran palagio e di grand'oro ornalo.
Ride un vermiglio che può stare a fronte
Al piropo gentil di Mezzomonte.
Di Mezzomonte ove Ulora lo soglio
f,ì, DITI RAM Ilici.
Render contenti i miei desiri appieno.
Allorché, assiso in verdeggiante soglio,
Di quel molle piropo empiomi il seno,
Di quel molle piropo almo e giocondo,
Gemma ben degna de' Corsini eroi.
Gemma dell’ Arno, ed allegria del mondo.
La rugiada di rubino.
Che In Valdarno 1 colli onora,
Tanto odora,
Che per lei suo pregio perde
La brunetta
Hammoletta
Quando spunta dal suo verde.
S’ lo ne bevo,
Hi sollevo
Sovra i giogiii di Permesso;
8 nel canto si tu' accendo.
Che pretendo e mi do vanto
Gareggiar con Febo istesso.
Dammi dunque dal bocca! d’oro
Quel rubino cli'è il mio tesoro :
Tutto pien d’ alto furore.
Canterò versi d’amore.
Che sarai) via più soavi
E più grati di quel eli’ ò
11 buon vin di Grrsolé :
Quindi ai suon d'una ghironda,
0 d' un' aurea cennamella,
Arianna idolo mio.
Loderò tua chioma bionda.
Loderò tua bocca bella.
Già s'avanza in me i’ ardore;
Già mi bolle dentro 'I seno
Un veleno
Ch'è velen d’ almo liquore;
Gii Gradivo egiilarmato
Col fanciullo faretrato
Infernifoca il mio core;
Gii nel bagno d' un bicchiere,
Arianna idolo amato.
Mi vo’ far tuo cavaliere,
Cavalier sempre bagnalo :
Per cagion di si bell’ ordine.
Senza scandalo o disordine.
Su nel Cielo in gloria immensa
Potrò seder coi mio gran Padre a mensa ;
E tu, gentil consorte.
Fatta meco immortai, verrai li dove
1 Numi eccelsi fan roroua a Giove.
Altri beva il Falerno, altri la Tolfa;
Altri il sangue ebe lacrima il Vesuvio :
Un gemii bevitor mai uon s' ingolfa
lu quel fumoso e fervido diluvio.
Oggi vogl’io che regni entro a' miei vetri
La Verdea soavissima d' Arcetri :
Ma se chieggio
Di Lappeggio
La bevanda porporina.
Si dia fondo alla cantina.
Su trinchiam di si buon paese
Mezzograppolo, e alia f ramose;
Su trinchiani Rincappellato
Con granella, e Soleggiato;
Tracanniamo a guerra rotta
Vin Rullato, e alla Sciolta;
E tra noi gozzovigliando,
Gavazzando,
Gareggiamo a citi più imbotta :
Imboitiam senza paura,
Senza regola o misura.
Quando il vino è gentilissimo,
Digerìscesi prestissimo;
E per lui mai non molesta
La spranglietta nella testa :
E far fede ne potila
L’anatomico Bellini,
Se dell* uve e se de’ vini
Far volesse notomia :
Egli almeno, o lingua mia,
T’ insegnò con sua bell’ arte
In qual parte
Dì te stessa, e in qual vigore
Puoi gustarne ogni sapore.
Lingua mia già falla scaltra.
Gusta un po’, gusta quest* altro
Vin robusto clic si vanta
D' esser nato in mezzo al Chianti ;
E tra sassi
Lo produsse.
Per le genti più bevone.
Vite bassa, c non broncone.
Bramerei veder trafitto
Da una serpe in mezzo al petto
Quell* avaro villanzone
Che per render la sua vite
Di più grappoli feconda.
Là ne’ monti del buon Chianti,
Veramente villanzone,
Mari lolla ad un broncone.
Del buon Chianti il vin decrepito.
Maestoso,
Imperioso,
Mi passeggia dentro il core,
E ne scaccia senza strepito
Ogni affanno c ogni dolore :
Ma se giara io prendo In mano
BACCO IN
Di brillante Carmignano,
Cosi grato in aen mi piove,
Ch’ambrosiaenetlarnon invidio a Giove.
Or questo che stillò dall’ uve brune
Di vigne sassosissime toscane,
Bevi, Arianna, e tien da lui lontane
Le chiomazaurre Naiadi importune;
Cbè saria
Gran follia
E bruttissimo peccato,
Beverc il Carmlgnan quando £ inacquato.
Chi l'acqua bere,
Mai non riceve
Grazie da me.
Sia pur l'acqua o bianca e fresca,
0 ne' tonfani sia bruna.
Nel suo amor me non invesca
Questa sciocca ed importuna,
Questa sciocca ebe sovente.
Fatta altiera c capricciosa.
Riottosa ed insolente.
Con furor perfido c ladro
Terra e Ciel mette a soqquadro :
Ella rompe i ponti c gli argini,
E con sue nembose aspergini
Sui fioriti e verdi margini
Porta oltraggio ai fior più vergini ;
E i' ondose scaturigini
Alle moli stabilissime,
Che sarian perpetuissime.
Di rovina sono origini.
Lodi pur r acque del Nilo
11 soldan de' Mammalucchi,
Nò l' Ispano mai si stucchi
D'innalzar quelle del Tago;
Ch' io per me non ne son vago ;
E se a sorte alcun de' mici
Fosse mai cotanto ardilo.
Che bevesscnc un sol dito.
Di mia mau lo strozzerei.
Vadan pur, vadano a svellere
La cicoria e I rapcronzoli
Certi magri mediconzoli [re :
Che coll' acqua ogni mal pensan di espelle-
lo di lor non mi fido,
Nè con essi mi affanno;
Anzi di lor mi rido.
Che con tanta lor acqua io so eh' egli hanno
Un cervel cosi duro e cosi tondo,
Che quadrar noi potria nè meno in pratica
Del Viviani il gran saper profondo
Con tutlaquanta la sua matematica.
Da mia masnada
TOSCANA. afe
Lungi sen vada
Ogni bigoncia
Che d' acqua acconcia
Colma si sta :
L’acqua cedrata
Di limoncello
Sia sbandeggiata
Dal nostro ostello :
De' gelsomini
Non faccio bevande.
Ma tesso ghirlande
Su questi miei crini :
Dell’ alascia e del candiero
Non ne bramo e non ne chero :
I sorbetti, ancor che ambrati,
E mille altre acque odorose
Son bevande da svogliati,
E da femmine leziose.
Vino, vino a ciascun bover bisogna
Se fuggir vuole ogni danno;
E non par mica vergogna
Trai bicchieri impazzir sei volteranno:
lo per me son nel caso,
E sol per gentilezza
Avallo questo e poi quest’ altro vaso;
E si facendo, del nevoso cielo
Non terno il gielo ;
Ne mai nel più gran ghiado iom'imbaciMM
Nel zamberlucco.
Conte ognor vi s’ imbacucca
Dalla linda sua parrucca
Per infitto a tutti i piedi
II segaligno e freddoloso Redi.
Quali strani capogirl
D’improvviso mi fan guerra?
Parmi proprio, che la terra
Sotto i pie mi si raggiri :
Ma se la terra comincia a tremare,
E traballando minaccia disastri;
Lascio la terra, mi salvo nel mare.
Vara, vara quella gondola
Piu capace c ben fornita,
Ch' £ la nostra favorita :
Su questa nave
Che tempre Ita di cristallo,
E pur non pavé
Del mar cruccioso il ballo,
lo gir nten voglio
Per mio gentil diporto.
Conforme io soglio.
Di Brindisi nel porto;
Purché sia carca
Di brlndisevol merce
eie DITIRAMBICI.
Questa mia barca.
So voghiamo,
Navighiamo,
Navighiamo infino a Brindivi :
Arianna, Brlndis, Brindisi.
Oh bell'andare
Per barra in mare
Verso la sera
Di primavera !
Venticelli e fresche aurctte.
Dispiegando ali d'argento,
Sull’ azzurro pavimento
Tesson dame amorosette;
E al mormorio de' tremuli cristalli
Sfidano ognora i naviganti ai balli.
Su voghiamo,
Navighiamo,
Navighiamo infino a Brindisi :
Arianna, Brindis. Brindisi.
Passavoga, arranca, arranca;
Cbt la ciurma non si stanca,
Anzi lieta si rinfranca
Quando arranca inverso Brindisi i
Arianna, Rrindis, Brindisi :
E se a te brindisi io fo.
Perche a me faccia il buon prò,
Ariannuccla vaguccia, brillicela,
Cantami un poco, e ricantanti tu
Sulla mandola la cuccurucù.
La cuccurucù.
La cuccurucù;
Sulla mandola la cuccurucù.
Passa.... vo.. ..
Passa.... vo....
Passavoga, arranca;
Citò la ciurma non si stanca,
Anzi lieta si rinfranca
Quando arranca.
Quando arranca inverso Brindisi :
Arianna, Brindis, Brindisi t
E se a te,
E se a tc brindisi io fo ;
Perchè a me,
Perchè a me.
Perchè a me faccia il buon prò,
Il buon prò,
Ariannuccia leggiadribelluccla,
Cantami un po....
Cantami un po. ...
Cantami un poco, e ricantami tu
Sulla vlo....
Sulla viola la cuccurucù,
La cuccurucù,
Sulla viola la cuccurucù.
Or qual nera con fremiti orribili
Scatenossl tempesta fierissima.
Clic de’ tuoni fra gli orridi sibili
Sbuffa nembi di grandino asprissima?
Su, nocchiero ardito e fiero,
Su, nocchiero, adopra ogn'arte
Per fuggire il reo periglio :
Ma gii vinto ogni consiglio,
Veggio rotti e remi e sarte ;
E s’ infuriati tuttavia
Venti e mare in traversia.
Citta spere ornai per poppa,
E rintoppa, o marangone,
L’ orci poggia e l'artimone;
Chè la nave se ne va
Colà dove è il finimondo,
E forse anco un po’ più in li.
Io non so quel ch'io mi dica,
E nell' acque io non son pratico;
Parmi ben, che il del predica
Un evento più Tematico :
Sccndon sioni dall’ aerea chiostra
Per rinforzarceli’ onde un nuovo assalto;
E per la lizza del ceruleo smallo
I cavalli del mare urtansi in giostra.
Ecco, oliuè! ch'io mi mareggio;
E m’ avveggio
Che noi slam tutti perduti :
Ecco, oimè ! di' io faccio getto
Con grandissimo rammarico
Delle merci preziose.
Della merci mie vinose ;
Ma mi sento un po' più scarico.
Allegrezza, allegrezza! io gli rimiro.
Per apportar salute al legno infermo.
Sull'antenna da prua muoversi in giro
I,’ oricrlnilc stelle di Santcrmo.
Ah! no no, non sono stelle;
Son due belle
Tiasclie gravide di buon vini :
I buon vini son quegli che acquetano
Le procelle si fosche e rubclle.
Che nel lago del cori’ anime inquietano.
Sali redi,
Ricciutelll,
Salircili, or ehi di roi
Porgeri più pronto a noi
Qualche nuovo, smisurato,
Sterminato calidone,
Sari sempre 11 mio mignone:
Nè ni' importa se un tal calice
SU d' avorio, o sia di salice,
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BACCO IN
0 sia d' oro arciricchissimo ;
Purché sia molto grandissimo.
Chi s' arrisica di bere
Ad un piccolo bicchiere.
Fa la zuppa nel paniere :
Questa altiera, questa mia
Dionea bottiglieria
Non raccetla, non alloggia
Bicchieretti fatti a foggia :
Quei bicchieri arrovesciali,
E quei gozzi strangolati
Sono arnesi da ammalati :
Quelle tazze spase e piane
Son da genti poco sane :
Carallini,
BufToncini,
Zampillclli e borbottini,
Son trastulli da bambini ;
Son minuzie che raccatlole
Per fregiarne in gran dovizia
Le moderne scarabaltole
Delle donne fiorentine;
Voglio dir non delle dame,
Ma bensì delle pedine.
TOSCANA. 64:
In quel vetro che chiamasi il tonfano,
Scherzan le Grazie c vi trionfano :
Ognun colmilo, ognun volilo ;
Ma di che si colmerà:
Bella Arianna, con bianca malto
Versa la manna di Montepulciano;
Colmane il tonfano e porgilo a me.
Questo liquore che sdrucciola al core.
Oh come l'ugola c baciami c mordemi,
Oh come in lacriiucgli occhi dlsciogliemi !
Me ne strasecolo, me ne strabilio ;
E fatto estatico, vo in visibilio.
Onde ognun che di Lieo,
Biverentc, il nome adora.
Ascolti questo altissimo decreto
Che bassareo pronunzia, e gli dia fé :
Montepulciano d’ ogni vino é il re.
A cosi lieti accenti,
D' ere e di corimbi il crine adorne.
Alternavano i canti
Le festose Baccanti ;
Ma i Satiri, die avean bevuto a isonne,
Si sdraiarmi sull' erbetta,
Tutti colli come monne.
BARUFFALDI.
LA TABACCHEIDE.
IMTIRAMDO.
Dal lido americano all'europeo;
Dopo lungo solcar flutti e marosi.
Un galeon di cento remi approda,
E 'I porlo afferra sospirato tanto :
Rimbombar s'ode intanto.
Dalla felice proda
Lo strepitoso bronzo, e in ogni parte
Prendon riposo ancore , vele e sarte.
Il prode condottier, poiché 'I naviglio
Vede fuor di periglio,
Sull'alta poppa ebbro di gioia ascende,
K tal voci discior s'ode alla folla
Turba del lido, che vicin l’ascolta:
Quanto vuol mi guardi bieco
L' occhio torbido di Bacco ;
lo dall' Indie porto meco
Merce solo di Tabacco,
Clic consola, e che vivifica,
E fortifica
Quanto e più , faccia un bicchiere
Di buon v ino , o bianco , o nero.
Si credeva quel Nume frenetico
Di regnar da monarca tiranno:
Ma un compagno di lui più bisbetico
Vede assiso al medesimo scanno ;
E fann'ambo aspro duello
Nel gran campo del Cervello.
0 tu che regni sconosciuto ancora,
Altitonante messicano Giove,
E voi del giapponese
Rigido del Numi concordi e fidi,
Amida generoso c Sciaca altero,
Che dell' indico impero ,
Li dove ’l Gange
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6i» UlTIllAW H1CI.
Saperlio frange.
Reggete ’l fren con la temuta mano.
Voi (li me cura e del mio dir prendete.
Tal eh’ lo non lodi 'n vano
Questa odorosa messe , onde son ciliari
Vostri nomi all'Europa e vostri altari.
Madre antica , alma Natura,
Maestosa architellricc,
Centopoppilatifera nudrice.
Con qual provi ida misura ,
Sempre in atto di comando ,
Tutte cose quaggiù vai nutricando!
Se ogni senso ha 'I suo diletto.
Sia la vista, o sia l'udito,
0 sia 'I tatto , o sia ’l palato ;
Perche poi dell' odorato
L’ appetito
Stara lo isola Interdetto,
Scuipr' esposto ad ogni vento ,
Senza 'I proprio condimento?
Or su via: buttiamo un ponte,
t.lieZravarclil
1 nostri carchi ,
E su piazza ne rimonte
La gran visita de' nasi ,
Cavernosi,
Strepitosi,
Arcimaiuscoli ,
Citò all* aprir del primo sacco
l)i tabacco,
Rallegrar vo’loro i muscoli.
Piano ai fiuti ,
Piano piano,
Cht una mano
Di starnuti
Fuori uscendo del trombone,
Non (squarcimi ’l limone,
E rovesci 'I galeone.
Io l'ho detto ,
Questo fiuto maledetto
Trafilar mi fa ’l vascello :
Via bel bello,
la; caverne ornai turate,
E qui state
Fin clic in mostra tutta sia
L' odorosa mercanzia ;
E non V offendan que' eervel versatili
Le minute particole volatili.
Ecco la bruna fogtla bruciaticela.
Trita e arsiccia,
Di rllonda grana fina,
* lieve si, che repentina
Fogge ’l tatto delle dita ,
Se non se con le punte immollali ,
Sputacchiale,
Com’ è in uso per mala creanza,
A carpirne la man non •' avana.
Cosi asciutta , e senza odore
Fu la prima ad uscir fuore
Con patente di rcina
Delia gran nasologia,
E gran tempo in monarchia
Resse Italia, e col suo nome
Mille ha dome
Rocche alpestri e promontori.
Ch’altri odori
Non scntiansi predicare ,
Fuor che questo signorile,
Del barbarico Brasile.
0 Brasi! , pasto del cerebro ,
Non dei ventre, o della bocca.
Sopra quanti adesso i' celebro.
La corona a te sol tocca.
Tu, gran signore,
Arclilrctlorc ,
Predecessore ,
Consolatore ,
E tu sovra luti' altri imperadore.
Ben t ver, cb'ci non conforta
Tutta sorta
Comunissima di nasi :
Ravvi certe narici dilicalc
D’odorate
Ambre fine innamorate ,
Che svengon lasse al solo aprir de' vaai,
E 'I cervello debile al fiotto ,
Per fiate sette c otto ,
Va di trotto
Barcollando come deliro
D' improvviso capoglro.
A quel decubito
Simile a morte ,
S’ applichi subito
Acqua fresca , e aceto forte
Della fronte sul pinnacolo,
E cedrassi gran miracolo.
B Brasil vuole un cervello
Lavorato tutto a posta ,
Come a forza di scarpello ,
Con le fosse ,
E coiiirafliBsse,
E cortine , e bastioni ,
E trincee, « torrioni.
Tutto in forma di piazza rade :
Altriment ’n montando le serie
Farà gromma , c farà rosta
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LA TABACCHEIDE.
Per li ria del medilullio,
E Ingorgiteli la spaziosa canna ,
Cbe al cervcl drillo l’ incanna;
Tolta la liberti Sa del respiro,
E con la bocca aperta ,
Roncheggiando ,
Sornaccbiando ,
Chi seco dorme fari stare all' erta.
Quindi avvicn , che Asso a stretto,
Iu quel sacro gabinetto ,
Fa di sé , come un coperchio,
Nè troiando umor soperchio.
Menile si poco si rimpasta e sngge ,
L' umido radicai consuma e strugge :
Gli avi nostri seniori
Inimici degli odori ,
Non con altra medicina
Dalla nebbia , e dalla brina
Mattutina
Cnslodian le calve tempie ;
Gonze e scempie
Riputando quelle genti ,
Ole dal venti
Difendean la monda zucca
Con l'elmo signori! della parrucca.
Buon cappello
Di cammello ,
Di figura orizzontale,
Liscio , e spanto In tutte l’ale.
Con berrettino
Di marocchino,
E tabacco nicozlano , '
Tornabuono , e brasiliano ,
Sempre al naso c sempre In mano :
Poi tiri ’l freddo Borea, o neve fiocchi
Dai ginocchi
Fino agli occhi ,
Avrò a scherno
Il ghiaccio e’I verno,
E temer* gl’ influssi iniqui e rei.
Quanto Ercol già la guerra de' Pigmei.
Se l’età del Gentilesimo,
Ch'adorava idoli in copia,
Nella dura e lunga inopia
DI quel cieco suo millesimo,
Discopria quest' erba amabile ,
Monarchessa ,
E reina , e glgantessa
Sopra ogni altro vegetabile ,
Più rendevala adorabile,
Che l'isopo , o la verbena ,
Di misteri tntta piena ,
E sugli altari a que’ superbi Numi,
Piucchè incensi, o titolami,
Tra gli offerti bestiami.
Sparsi avria al cielo gli odorosi fumi
Colassi! in quel concistorio
Moss' avria gran controversia
Per seder più alto un’oncia
Della bacchica bigoncia.
Come assai maggior di titolo,
E di gloria c di dominio,
Benché Plinio
Non ne scriva alcun rapitolo,
Quanta terra è al mondo incognita
Sotto zone lontanissime,
Che non ha del vin notizia?
Che frese* acqua é dolce nettare ,
Nè d'umore altro s'abbevera.
Che non sia cervogia squallida,
0 cià decotta in buccheri ,
0 pur birra Insipidissima ?
Dove fin 1' ultimo cardine,
Che la terra , c 'I mondo scevera
Dagli spazj immaginari.
Il potentissimo
Tabacco In polvere
Adora c venera ,
E tien cara sua virtù;
Or giusquiamo del Perù ;
Or pettini, ed or chiamandolo
Picièlt l' Indie e le Spagne,
E le arabiche campagne ,
Che in lui ritrovano,
A dismisura ,
lina balsamica
Forte natura ,
Una specifica
Virtù infinita ,
Per sanare ogni ferita.
Fin che rara e signorile
Fu la polve del Brasile ,
Fu 'I Brasile II primo mobile ,
B più nobile ,
Innocente cibanaso ,
Ornamento d'ognl vaso:
Dell’ amicizia
Conciliatore
A par del vino ;
Della tristizia
Discacciatorc
Arcidivino :
Poi bel bello
Col voltarsi del pennello
A cader venne in dispregio
Alla corte odoratoria ;
«60 DITIRAMBICI.
E «Uor fu , che ull ’n pregio
Di corona imperatoria
Più , che 'I famoso domator Carpoforo ,
11 tabacco reai di San Cristoforo.
Infelice l'assemblea ,
Che di questa poli cruccia
La cartuccia
Piena in lasca non avea :
Stava in bando , e In proscrizione
Da commercio di persone ,
Fra i pidocchi
De’ pitocchi;
In Iscandalo e In dispetto
Più che un sordido Ebreo fuora dal Ghetto.
Or veniamo a far la mostra
Della nostra
Mercanzia crlstoforlana,
Che per somma sua fortuna
Tanta gente ha parligiana,
E più s'adora, che in Turchia la Luna.
Ecco aperte le scatole c i cofani,
Colli e casse, e sacelli e bussoli :
Chi ne vuole, carpiscane un pizzico,
E bei bell» gustandolo, odorilo, „
Assaporilo;
E mi dica per sua fè.
Qual cos' è,
Che io rende sì gradito,
E si grato all' appetito,
E si sempre sull' arazzo,
R in gran pregio, c divozione
Più, clic T Zazzu
IA nel regno del Giappone?
Se sia un' isola In America,
Che dia 'I nome a questa polve
Dalla scuola neoterica
Non ancor ben si risolve.
lo so ben, clic 11 dove T picciolReno
Alla dotta cittì bacia le mura,
E teatro d’ ingegni apre nel seno,
die sue torri trascende oltre misura,
Fra le bell' arti onde la plebe in freno
Tien, che non erga la cervice dura,
Innalza T tabaechifcro edificio,
E, come gioia, cela l'artifìcio.
Ma Imitali sento far gran tumulto
La tribù tabaccopca.
Che discesa di Giudea
Vuol l'onor di quest'arte ella sola.
Come sola fa festa ’i Sabbi,
Nè altro fa
Col rigor de’ gravi appaiti,
Sempre nuovi e più sempr'alti,
Che de' nasi llgar la liberti.
Maladelta quest' avida usanza,
Clic fa grasso lo sbirro e la spia,
E con titol, che 'I pubblico avanza,
Nascer fa la dvll carestia.
Passe ggiere,
Forestiere,
Che In viaggio
DI passaggio.
Il panaggio
Del tuo naso vai portando ;
Guai a te, se trapassando
Fiume, o ponte, od osteria,
Per la via
Ti si scopre 'I contrabbando.
Meglio fora, che d’ arsenico,
0 di coni da falsario
Pieni avessi 'I baule, ed il cofano
Cile un'oncia sola a ter dì San Crislofano.
Troppo acuto è l’odore di Tripoli,
Con cui lavatisi i freschi manipoli.
Nel dar concia a quest’ Indilo balsamo.
Se ben fosse lontan più.
Che la Tuie, od il Perù ;
La dogana
Inumana
Più die veltro, l’ odor sente,
E spedisce immantinente
Dietro i’ usta certa gente
Rapacissima,
Nequitosissima,
Che tutte versa le robe e travasa.
Finché 'I tabacco celato v’annasa;
Vi braccheggia,
VI saccheggia,
E coinè ladro, od assassin di strada.
Vuoi che vada
In prigion spietata e cruda
A render conto al tribunal di Giuda.
Cosi 'I tabacco, che del naso è vitto,
Dividi corpo di delitto.
0 deche genti, o gemi mentecatte,
E perchè non schernir l'arte con l'arte
Come chiodo con chiodo si ribatte?
Reca qui dor. Annibaie,
Quel tuo corno anlicatonleo.
Quel tuo corno formidabile,
Mostruoso, orrendo ed aito.
Che portavi armacollo olirà le spalle
Quando schernisti 'I rodigino appalto.
Recai qui, eh’ impari ’1 popolo
A fuggir l'ira doganica,
E a portar dentro la manica
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LA TABACCHEIDE.
Quanto basta per dar pascolo
Quattro mesi a un naso sferico
Di tabacco assetatissimo.
10 'I vorrei per Tarmi onore
Incontrandomi ’n cammino
Con un qualche galuppino,
O con qualche grassatore.
Grassatori da tabacco,
Che le borse danno a sacco,
Son color, che, armala mano,
Con un garbo da villano.
Veramente villanzone,
Assaliscon le persone,
E le sfidano a quislione :
Metti mano gridando in brusca cera,
Metti mano all'ascosa tabacchiera.
Altri v’ ha di più discreti,
( E '1 costume è de’ poeti)
Che di buon’ ora.
Fingendo inopia.
Sui limitare
Di casa propria.
In ovata, o spolverina.
Stanno al varco ogni mattina
Aspettando chi tiene e chi va,
E gridando : carili :
Cariti per un naso meschino.
Che si more di fame e ili sete;
La storia del suo mal la leggerete
In questo smunto e secco scatolino
Manco mal, se questa febbre
Un periodo solo atcsse,
E sbrigar se ne potesse,
Con un sol combattimento;
Ma ne trovi in un momento
Più di cento
Dappertultc le latebre,
Cile di botta quinta e sesta,
Con Ingiuria manifesta.
Con I' adunca loro spatola,
Dan di punta alla tua scatola,
Come avesscr desiderio
Di cavarle ’i mesenterio,
11 polmone c ogni ventricolo,
Ogni vena ed ogni arteria.
Pur che sia, per qualche articolo,
Tabacchevole materia.
L’ ammonticellano,
E l' amatassano,
E la rimpastano,
F. la rastrellano;
Si concentrano,
La spamicciano e la sventrano,
Con usar sopcrchleria,
Perchè seco in compagnia,
Non va sol l’ indice e il pollice, [gnolo ;
Ma'l medio insieme c l'annullare e ’lini-
E d' un' intera man fatta una siepe,
Sanno di mezzo inverno ancor far pepe.
So ben io se parlo vero,
Quando dico, che a dar pasto
All' ingorda loro tibia,
Sarian picciolo antipasto
I.e arenarie della Libia.
Fu d' eterna memoria un pensier degno,
Pensiero illustre
Quel d' un industre,
Arclsollile fiorentino ingegno.
Clic fe’ di punte acute e fraudolenti
Un minuto ordin di centi,
Di lavoro sopralfino,
Del cieco ventre al cupo scatolino.
Chi vi spignea fuor del dover le dila,
Non partia senza ferita;
E ben presto si pernia
Della sozza scroccheria.
Itcn vi stava, o scrocconacci ;
Clic nudrite '1 gran pensiero
Di sorbir l' appallo intero.
Per riempier que’ nasaeci :
Ma vorrei clic quest' ostacolo
Fosse ancora di spettacolo
A cent' altri grifonacci.
Vcrbigrazia : ma ben presto
Passerei dal verso lirico
Al mordace stil satirico,
Con dispetto manifesto
Di chi studia l' arte bella
Di giucare a gherminella,
E di cento lor compagni
Più assai che tabacchisi!, augei grifagni.
So ancor io quel detto antico,
Che per canone s' allega :
Il tabacco non si nega,
E ’l negarlo è da nimico;
Ma con pace dell' autore,
Se foss' anche un gran signore,
Questa regola è fallace,
Non mi piace.
Perchè tanta liberti
Mette a rischio l' onesti,
Con quel tanto dentro, e fuora,
Delle più caste tabacchiere ancor*.
Non è forse stomachevole.
Nauseoso c rincrescevole,
Il veder certe manopole
tSJ DITIRAMBICI.
Di figura granciporrtca.
Strabi*. unte, lorde e sudicie.
Voler tutte e cinque 1' unghie
Con erari conrulsione
Seppellire a discrezione.
Hello scrigno odoratorio?
Nel tesoro Gulatorio?
E per far boccon più lauto.
Col globelti del gonnello
Far le fosse al polpastrello?
Poi non sazj d’ un manipolo.
Sulla mano, fino al gomito
Farne mina a focon carico,
E la bevanda ripeter stessissima.
In misura, in peso e in numero.
Per turar tutti i lalibuli
D’ una sferica proboscide,
E far nota cosi, a bratto brano.
L'avarizia del naso e della mano?
Peggio è poi, che nell’ ordiu civile
Vogiion scranna.
Se no, v' alzati di muso una spanna,
E san dir eli’ egli è un tratto Incivile.
Incisi! mi par più a gran misura
Non aver con ebe dar la pastura
Degli amici all’ onesto drappello.
Se fosse anche di pepe un granello ;
E passar dal Natale alia Pasca,
Senza un tozzo di scatola in tasca.
Io gli bo visti in caso estremo.
Ritrovandosi allo stretto.
In fra il canapo ed il remo.
Stropicciare ’l fazzoletto,
E con l' avide lor mani
Spigolarne quattro grani,
E cosi d’ una sola pietanza
Imbandirne due volte la mensa;
Anzi in caso di grave mancanza,
Seco sempre portar la dispensa.
0 ingorda, o avara, o dispettosa pecca,
Da bandirsi da piazza e da tiiudecca!
E non costa gii d' oro una montagna
Un ineschino
Scatolino
Feriale e da campagna?
Non vo' dir, che si compri un metallo
Bianco, o giallo,
Prezioso a ogni maniera
Per intaglio, o per cerniera,
Di lavoro sottilissimo.
Pulitissimo,
Lucidissimo,
Con pitture.
Con figure
Di rilievi
Degni e rari, sebben grevi.
Che richieggono un facchino,
0 un taschino,
Cile ad altr’ uso non s' affitti,
E non faccia altro mestiere.
Che portar questo forziere.
S'è invecchiata l’ usanza primiera.
Che da certe bicocche a noi veniva
Allor quando convertiva
Le cocuzze in tabacchiera.
Sull' apparir primiero
Parea nobile ’l pensiero,
E più, l’area l'onor d’una gentile.
Vernice signorile.
Che di quel frollo alla natia villi
Privilegio donasse e nobiltà.
Sulla groppa avean la marca
Tutta carca
Di capricci boscherecci.
Lavorali a varj intrecci,
Di figure e di medaglie,
E di storie e di battaglie :
Altre poi bitorzolute.
Bozzolose e noccliiorute,
E scrignutc e bistorte e tigrate,
E segnate
Di color baio, o stornello,
O morello, di mantello
0 leardo, o falbo, o misto,
E ’l color della paglia era ’l più trina.
E cosi tutta la piazza
Tenea razza
Di cocomeri e di zucche
Fin che risole Molueche
Ci mandar le noci e ’l cocco
Con la foglia e con il ciocco;
Poi puliti come specchj,
E parccehj
Li fregiaran con V argento.
Per recar qualche ornamento
Di lavoro sopraffino
A quei fruito oltremarino.
Ma il più bel del mausoleo
Era l’ orlo della bocca.
Dov'ergcasi, come rocca.
Il gigante Pantracheo.
Bel veder I’ argentea molla.
Cinta '1 collo alia moresca.
Con latturglie alla tedesca.
Star In guardia del castello,
E bel bello.
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LA TABACCHEIDE.
Replicando ’l saltarello.
Atto e basso andar guardando,
E sé stessa rannicchiando,
Allongando,
Vomitar da quell’occhio ciclopico
Odoroso bitume etiopico,
E all' usatila del Vesuvio,
Un proibii io
Ut minuta
Polve mula,
E in tal guisa, con giusta economia,
De' nasi satollar la frenesia.
Ha perchè scarsa parea
E melensa
La dispensa,
E stentata la misura
Di sì nobile pastura :
Nè potea
Ogni naso lautamente
Satollar l' ingorda voglia
Con quel lento lento sinugnere :
Le cocuue prestamente
Se ne andaro a farsi mugnere;
E, per memoria, ne restò 'I modello
Al mio Peppe Pomatello,
Che ne tlen, come un tesoro,
Una da festa e un’ altra da lavoro.
Dopo queste entraro in ballo
Certe urnelte di cristallo
Che parcan lagrimatoric :
Ma la fragile materia
Scopri tosto la miseria
Della nostra umana pasta,
E perciò l’usanza guasta.
Quella fabbrica pura e cristallina
All' Acq.ua si ilonò della Reina.
Indi venner le scatole In uso.
Che innalzarono ’l fimo e la paglia
Dalla feccia dell' altra canaglia,
E salir le fe’ presto all’ disuso.
Forse portò quest’ arte pastorale
Dal lido orientale
Erminia allor, che fra 1’ ombrose piante
D'antica selva andò raminga, errante,
Ed imparò con le sue dita belle
A tesser le fiscelle,
Disfogando le sue pene
Al dolce suon delle cerate avene.
La Natura
Dava il giallo orozecebino.
La tintura
Dava ’l rosso ed 11 turchino,
Ed ogni altro colorino,
Che giovasse all' orditura,
E testura
Del novello scaldino;
E cosi fra colori e mezze tinte,
A scacciteli!,
A quadretti.
Le pagliuzze cran dipinte.
Addogate,
Intarsiate
Di fogliami,
DI fruttami,
0 di caratteri arabeschi o ebraici.
Latorati a grotteschi cd a musaici.
ila le troppo leggiere tur spoglie,
Come secche, ardissime foglie
Rcndcan 1' uso di poco durevole,
E si dlero per cosa pregievoie
Alle basse femminecole,
Da riporti gomitoli e spille,
E altre mille
Muliebri lor bazzecole,
Manuali pei lavoro.
Quando stan fra le conocchie
infilzando le pastocchie,
Taita niellando,
E trattando alla banzuola.
Il grande afTar d' un fuso, o d' una spuola.
Ed ecco, all' improvviso
Cade l’ usanza ria di male in peggio :
Saglion le corna in albagia cotanta,
E in tale altezza e tanta.
Che si fa conca da tabacco un vile
Escremento incivile :
Si raffina, e si ralfruga
Per vestirio a tartaruga,
E di lavori s' imbelletta, e macchia
Piucchè d’ Esopo la già vii cornacchia.
Ma gli è ’l corno
Sempre «omo ;
Egli è sempre abbominoso,
Malaurioso,
E da aversi sempre a schifo,
Se fuss’ anco straliscialo.
Ingemmato,
E col maigama indorato,
Come quello del feroce,
E veloce
Domator deli’ ippogrifo;
0 se fosse quei, die feo
Grande ’l Nume AntUriooeo,
V aulii dove ’l destino lo porta;
Poco importa
Ad un naso tabacchiere
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iM DITIRAMBICI.
Un ti vile tesoriera.
Venga ’l candido avorio elefantino,
Duro e fino,
E ne formi certe patere
Quadrilatere,
Col coperchio scanalato.
Ben cerchiato.
Lavorato, e contigiato
Con tati’ arte matematica.
Chi del torno ha qualche pratica
Può ridur quel bianco dente
Facilmente
In figura ovale, o sferica,
0 in qualunque altra giuridica
Foggia euclidica,
Che per linea geometrica.
Sia più comoda e più bella,
E la mano v’ adorni e la scarsella.
Anco a me piacque una volta,
Quando in parte era un altr' uomo
Dall'eia non ancor domo,
E non anco spuplllato,
E pur troppo Intabaccato,
Far il lispo e ’| cicisbeo ;
E ripien d’ odor sabeo.
Orando In frega
La notte e '1 giorno, [no,
L’ eburneo scrigno andar trattando Intof-
E stropicciandolo,
E ribaltandolo.
Come da mano a man spuola o fuscello.
Andar bel beilo.
Tra come a bella posta, e come a caso,
Aprendo ’l nobll vaso,
E scoprendo ’l gentile ritratto
Di Lisetta, per cui gii fui matto :
La mia Elisa in avorio dipinta,
Lisettuceia, belloccia, inoracela,
Leggladruccia, sbracciala, succinta,
Con la colta e la gammurra,
E la tasca giallazzurra,
Col cappello di brucioli. o spelta,
Snella e svelta, col cinale
Crcspatello, e lo scheggiale
Che ’l bel fianco le arrandeila,
Travestita da vaga ortolanellal
E cosi quel nostro amore
Dava sempre buon odore.
Se mai piu di Cupido la faretra
Dentro ’l cor uii penetra,
Ho gii scelto ’l pittor, che per memoria
Me ne pinga la storia
Dentro l’eburneo arnese,
E sarti' archidiacono marchese.
Che nell’ ore più oziose
Spreme gigli, e stempra rose,
E le vaghe e graziose.
Odorose
Scatolette pinge e minia.
Or per Laura, or per Lavinia :
Poi buttando ’l pennel, se non riesce,
Con la penna l'inchiostro e ’l color mesce,
E di stizza poetica ripieno.
Tutto vomita ’l veleno,
E tutta l' Ira sfoga
A lapidar l' immonda sinagoga.
Ma lasclam queste candide scatole
Fra le cose.
Che più rendan preziose
Le moderne scarahatole.
Ecco l'acciaio dall’etnea fucina
Ne vien superbo, e di tabacco anch’ esso
Empier vuol l’ampia ventraia.
Vaia, vaia al rigattiere.
Che la ruggine sei rode,
Kè si gode
Quel suo lustro violetto,
Che un pochetto,
Fin che l’ aria è chiara e pura,
Ma ‘I scilocco l’appanna c l'oscura;
Poco dura
Si bel specchio,
Nè più vai che un ferro vecchio.
Delle in somma son più l’opre
Dove men l’ arte si scopre :
La Natura
Vera madre e idea sicura,
A ragione si lamenta,
Che si tenta
Superarla col lavoro.
0 felice età dell’ oro
Quando una ciotola
Di legno ruvido
Nel rio luflavasi,
E dispensa vasi,
Cosi per rotolo,
All' assetala semplice famiglia.
Che trincava godendo in gozzoviglia.
Ecco tornata
L'età beata :
L’ oro colato,
E bulinato
Se n' è già andato ;
Non è più in credito
Il bianco argento,
E fuori e drcnto
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LA TABACCHEIDE. m
Inora tissimo ,
Slralucemlssimot
Chi ’l mondo i dedito,
Per sua natura,
AUa primiera povertà Innocente,
Di viver con niente, e far figura.
E ebe vale un tronco adusto,
Un arbusto
0 di platano, o d'ulivo,
0 di bosso! sempre tirai
N’ hanno in chiocca ì giardini e le colline
Marcheggiane e fiorentine,
E i pastori che al piano discendono,
Pe’ mercati a gran fasci ne vendono.
£ l' ulivo a capriccio macchiato
D' egiziaci geroglifici,
E venato
Di magnifici,
E bei giuochi naturali.
Di chimere e d'animali,
Dì montagne e di marine,
E di conche e di telline,
DI testacei turbinati.
Di bivalvi e uuibilicati.
Che sena' altro microscopio,
Paion propio
Aver testa, bocca ed occhi,
E ne fa meraviglie il mio Bacchiocchi.
Io vorrei, clic trattando de' mostri,
Li mettesse degli altri nel ruolo,
U mio dotto Nlgrisuolo,
Quel d’ Ippocrate vicario,
Nella cattedra primario,
E primario negl' inchiostri ;
E mostrasse al gran Buonannl
Gli scherzi di Natura e i nostri inganni.
La vernice di gial-pagiia
D'acijuarzcmc
A mordente,
Fa l’ulivo di più vaglia;
Ma vi resta un non so che
D' oleoso.
Disgustoso,
E d’ ingrato
All' odorato.
Che lo vuol prima purgato
Da quella puzza naturale inserta,
Con lo stare all’ aria aperta;
Se non se d' oro brunito
Non si voglia ben gucruilo,
0 di lamina piombina,
Che rinfresca c ammorbidisce
Ciò che dentro seppellisce.
Semi là, Scrolla mio, come si sfiatano
I mercanti milanesi !
Che nuova moda
Van seminando
Per que' paesi.
Con le scatole di platano,
Cui tutte vergola
Una reticola,
Come le vipere
Han la pellicola !
Quando i' ne vidi in man del mio Corrado
Là dove in vai di Pado
II Mincio scende c bagna
Del gran Maron la florida campagna:
0 ve’, dissi, ó ve', 6 ve'!
Può star quel legno,
Tant’ egli è degno,
In mano a un re.
Ben m’ intese
Quel suo cor, eli' è si cortese,
Tal eh’ io ricco del bel dono,
P.aro don di cosa rara,
Meco portailo, e n' invogliai Ferrara,
Finché poi, per l' abbondanza.
Venne a noia quest' usanza,
E l'età sempre girevole,
E mutevole,
Clic giammai non posa in pace,
Con quella sua vorace,
lnsaziabil sete.
Tolse in uso il bianco abete,
Nudo e brullo,
Clic non monta un fico, o un frullo,
E clic si, clic se aspettiamo ,
Arriviamo
Presto presto alle vivande
Delle onorate primitive ghiande!
lo però tutta non biasimo
Questa nuova parsimonia,
Clie cosi leva lo spasimo
Di guardar, nel bollor delle folle,
Del tascliln le più cicche midolle,
Dove sta, come in agguato,
la guardaroba
Dell' odorato.
Dalle insidie e dalle scorse
De’ vigliacchi tagliaborse.
In effetto
Maggior rabbia e più dispetto
Non potessi a’ giorni miei
Far a certi Briarei
Eccellenti toccapoisi
D’ogni ricca tabacchiera;
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««C DITIRAMBICI.
Con la bell' «ne della man leggiera.
Costa più mettersi al risco
Di pagar la pena al fisco,
0 la fronte aver marcata
D’ una cifra sciaurata.
Che non «ale un meschinissimo,
Candidissimo,
Scatolin da cotognata.
Pure il mondo oggi l’ apprezza,
L’ accarezza
Più dell' oro e dell’ argento,
E vi tlen per ornamento.
Chiuso dreuto.
Qual se fosse un gentil pentolino,
Il cucchiaio e i mestolino.
Quanto rido, e la bocca mi sganghero
Il veder quel costume si tanghero,
Di portar dentro 'I taschino
Un pusillo
Scatolin, che fa a miccino.
Sol capace d' un' unghia di grillo,
Come fan certi ditoni
A schimbesci, tondi e grossi,
Da colossi,
A carpirne, senza dentro
Impegnarvi ginocchioni,
In al angusto e cupo centro
La tanaglia ed i zapponi 1
In tal caso è minor male
Tutto ’l vaso e ’l capitale
Dar in man di quest' avide seppie,
Perche immergati lutto intero.
Col cimiero.
L'ingordo naso a divorar le greppie.
E non vai, ch'io gli abbia detto
Tante volle, ch'egli è schietto,
E ch'odore ha di vacchetta,
E che stretta
É la scatola di cuoio;
Ch’ ella scricciola ; e mi muoio
A star Unto a matto nuda
Espostoal Sole, o all’ aria fredda c cruda.
Io volca mostrarti ancora
Altre belle
Taschctline e cassettone
Di lucenti madripcrle.
Nobilissime a vederle,
A eornellinl,
A acarpeltlnl,
A pepaluole,
A kottacciole,
A girelle, a castagnuole,
K a cent' altre architetture
DI stranissime figure
Sol capaci d'un dito, o di dui.
Con I sui
Bei lavori in più maniere :
Ma ritorno al mio mestiere :
E ripigliando '1 primo capitale.
Apro un sacco di fresco imperlale.
Canto l’inclita polve e il capitano,
Espugnator dell’ odorosa Rocca,
Che con l'aiuto di benigna mano,
la via, che dritta va ai cervello imbocca;
E il dentro lalor con suiiitano
Moto, qual mina, impetuoso scocca.
Scuole la mente, e sveglia la memoria.
Di poema dignissimo, e d' istoria.
Ecco già, die a lui dona
Italia tutta, che si '1 vero estima,
L’imperlai corona,
E la bigoncia prima.
Vada al ciacco quel poeta
Sanlorin di Prunalbcia,
Cile a cavallo d' una rozza,
E non mal del gran Pegaso,
Ai tabacco diè di naso,
E lo chiamò lorda materia e sozza :
E con lui vada in masnada
Quel Latrauzio ne' Rigogoli,
Cile co' suoi tanti arzigogoli
Postillò per suo adiutorio
Quel libello Infamatorio.
Ambo li cito al regio tribunale
Della losca città, cui l' Arno irriga :
lai qui giudice chiamo,
lai, clic si 'I ver discente, e lei, cui aulii
Più che ia polve imperlai trastulla :
E quella solo, die odorosa c rara
Fra le belle arti sue vanta Ferrara.
Ogni procaccio,
Sia neve, o diaccio,
Ne porta a Iosa
Ad imbandir quella dttà famosa,
Cui manca sol questa virtù natia
A compier la reai sua fonderia.
lo non so, se 'I gran Salvini,
IIForzou! ed il Berlini,
Che sou pieni di un divino
Gusto fino,
Abbian fra I altre inr doti ben rare,
Questa del saporito tabaccare.
Ma qui per tulli basterà eh' io rechi
li mirabil Magliabechi,
Che sa ben quanto serva e quanto aiuti
l.a memoria, il tabacco, a chi lo fiuti :
LA TABACCHEIDE.
Ma quel tanto, tanto, tanto
A bize (Te impoherarsi ,
E impiastrarsi
A fusone '1 viso e ’i manto
Con tanta intemperanza c tanta furia ,
È una spezie di lussuria ,
Ma lussuria onesta e pura ,
Che conforta la mente e i’ assecura.
Ha Firenze iu inoli' uomini dotti
Gl' incorrotti
Esquisili arabobaisami ;
Ila gli estratti
D' ogni flore,
Quintessenze, manne e balsami.
Liquefatti
E stracciati dal calore;
Ma non so s’ ella mesti c rimetti,
E trameni
Tanti in un soavissimi odori.
Quanti 'I tabacco n' Ila di millefiori.
Questa dosa di polve odorosa
Fu famosa
Dacché prima a noi portoli»
LI dai gallici confini
Dentro ai nostri magazzini ,
Il j^ran chimico francese
Montievr Pierre de Per Ioni,
Che chiamolla
Nei parlar del suo paese
Mille-finn ben bo n t rèt-bon.
Mille infatti io lascierei
Soavissimi Brasili,
K i «barelli più gentili,
Se foss’ anche quel novissimo,
Stravagantissimo,
Che la concia ha di cade ,
Per una soia
Grana da re
Di questo miliefior, che mi consola.
Ma io vorrei di tempra moderata,
Dolce come giuncata;
Nè altrimenti si puù farlo
Che con spesso rinfrescarlo,
E umettarlo,
E assaggiarlo a sorsi a sorsi,
Come fa della sua amata,
Dilicata
Frangipana il marchese Orsi ,
Cla vagliando ai libri intorno
Notte e giorno,
Tiene al fianco spesso il paggio,
Che alla scatola sua di il beveraggio :
Cosi cred’ io, che temperi
Con un po’ d’ acqua angelica ,
0 con qualche altro spirito,
Quel poco d'irascibile.
Che con pregievo! empito
Esce talor de’ fotlcri :
E quella stizza moderi,
Che talvolta gli suscita
Col codice infrangibile
L’ autor celebratissimo
Della Toccante Lettera.
Ma lasciamo, per pietà,
Questa eroica strambiti.
Chi lo fiuta secco secco ,
Ne assapora poco lecco,
E piullosto la gran turba
Degli spiriti conturba,
E talor ne cava lagrime
Con quel troppo in alto ascendere,
Se non fosse un cervell* uso
A fiutar l’aspro Maro del Cortuso.
Sia mezzana
La sua grana ,
Non sottilissima,
Non aridissima ,
Kotondetla ,
Lcggerctta,
Non farinosa ,
Non poderosa,
Ch' abbia tasto e sia palperete :
Ch’ egli è troppo rìncrescevole
D' un bel naso alta sete golosa,
Quella crusca si ruvida c scagliosa.
Per chi studia economia
Quella usanza è troppo ria,
S’ è più quel che mentre incaglia
Si sparpaglia,
E trabocca
Sulla bocca,
Clie quel eh’ entra nella Rocca ;
Nè sa far altro mestiere,
Che turar le cannoniere.
Convien poi , che I' avaro tabacchisi*.
Che di smarrirne un grancliin s’attrista,
Con una sozza e ria mala creanza,
Per coglier quel eh' avanza
E nel sordido suo trombon s'intoppa,
Faccia di tabaechiera sottocoppa.
A chi abbia un animo
Tutto magnanimo.
Come la tua, Lanzon, saggia mogilen,
£ grandezza
La grossezza
Di questa polve grossolana e austera,
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608 DITIRAMBICI.
E dimostra eh' « vezzo e virtù te ,
Se talor per diletto la Aule,
Dacché fu per misvenire,
E morire
Allor quando
Non pensando
Annasò per accidente
Un tabacco arcipotente,
Ostico e nuovo affatto, di colore
Nero più che 'I niantel del donatore.
Tu, che sci suo consigliera,
Benché nulla tabacchiera,
Se vuoi eh' ella sia duce delle buone
Tabacchiere matrone ,
Fa che più non a' avviluppi ,
Ni s' inzuppi
In quell' orrida , bestiale
Polve orribile, infernale,
E la lasci a Motrzuma ,
Che Uquidamhar solo annasa e fuma.
Per certe baderlucce contegnose,
Nuove spose ,
Ch’ han timor di sgravidare ,
0 sconciare ,
Fur trovate
Certe polveri muschiate ,
Bianche e lievi in tal maniera,
Come ’I zuccherdi Madera,
Perche macchia non si faccia
Sulle dite e sulla faccia;
O per dar, con le usanze adulatrici,
l.a polvere di Cipri alle narici.
Questa inguistara di fresco lattone.
Che par proprio un cauterone ,
Od uu bottaccio di sopraffina,
Regalata, poliacrliina,
Sigillata ,
E morcata
Con la bocca cosi angusta ,
Piena eli' è di tabacco d'Augusta.
Non intendo la marca , eh' è oscura ,
Se non guardo la fattura :
Già la veggio , ed ecco , ed ecco ,
Egli 6 un dono del Trenpecco
Franco di porto e netto di gabella ,
AI Bassan bravo mastro di cappella.
Ma eli' è mai quest* augustana
Mescolanza cosi strana?
Sono certi aromatici semi
Colti là d'Ulma su i confini estremi;
Dove nascon erbucce dipinte
D’infiniti coloretli
Rosaigiallettl ,
Porporini ,
E turchini ,
Poscia pesti , Infranti e triti ,
E ridotti Inseparabili ,
Aniiasabili ,
Dì particelle variocolorite ,
Come son di Muran le margherite;
Questa desta
Nella testa ,
Tutte tutte
Le cadence d’ eflautle.
Per tener l’ organo stretto
A chi canta di falsetto ,
Buona pappa
E quest' indica sclalappa.
Questa biada ,
Questa ardente peverada ,
Questo nuovo e gentil manicaretto.
Io lo lascio di buon core
A chi ha guasto il buon sentore ,
0 a chi pale 'I giracapo ,
Come perfetto e raro purgacapo.
Più mi piace un granellino
Del soave zansemino.
Che la regina dell’adriaco mare
Fabbrica là fra le sue cose rare.
Palami , che pe' colli erbosi e aprichi
Va co' semplici più rari ,
Adornando di Flora gli altari ,
Farà del gelsomino un panegirico ,
Senza tanto sudar, per rivestire
All'uso d’ oggidì quo’ degli antichi.
Astori poi l’ adora , e I’ ha più in conto ,
Che tulli i dii Calzi ri , e'i buon Brotonto;
E se T ver debbe aver loco ,
Quest' odore e cosi grato ,
Cile risveglia per via d’ odorato
Della mente T fatidico foco.
E non è poi da stupire,
Se T Trevisan, che tanto alto salio,
E dell' anima c di Dio
Tante cose ci sa dire.
Non so come possali fare
A compar versi e poemi ,
Certi astemi
Del tabacco nimldssimi ;
lo non credo che in moltissimi
Poetissimi ,
Che del Zeno saran sull' ampia istoria,
Trovcrassi la memoria
D'un moderno rimatore
Di buon sapore.
Dispregiatore
LA TABACCIIEIDE.
tH questo balsamo
Prelibatissimo,
Ch’è la droga de' poeti.
L'elisir de' letterati
Svegliarino de’ segreti ,
V. ristoro al cervelli affaticati.
0 tu , che lungi dal tcrren natio ,
L'adriatiche scene illustri ed orni.
Dolce Braccioli mio , cui sempre amai ,
Perchè mai
Un de' tuoi giorni non consumi intero ,
E non componi un dramma intitolalo :
Il nato dtl tabacco innamorato ?
Ma tabacco sopraffino ,
Ch' abbia odor di gelsomino.
Se tu sprezzi i miei consigli ,
Ne dar6 l’ incarco al Gigli :
Il Gigli onor del socco c del coturno,
Con quel suo stile armonico c notturno,
Potrla dar loco almcn nella balzana
A questa concia gclsominispana.
Ma poiché Italia giardiniera è piena
D'un innesto si grato e signorile,
Par che sia latto obbrobrioso c vile. :
Tal lo creda citi Ita poco cervello ;
Me ne appello
A gtudizj più retti c più saldi ;
E al parer del Baruffaldi.
Di buon mattino
Solo soletto ,
Cosi ’nbambacollato ed In farsetto
Apria il giardino,
E per quanti altri liorclli ,
Leggiadrctti ,
0 d'odor novello c strano,
l.usìngasscr la sua mano.
Non lasciava ’l gelsomino :
Era questo il Beniamino
Prediletto
Del su’ alletto ,
Nè so bene, se per la fragranza,
0 ciò fosse per la simiglianza
Del suo pallido colore
Dilavato ,
E lessato,
Col pallor di quel bel Bore.
Ei godra di veder quel giardino
Trapiantato nel suo scatnlino,
0 in que' suoi cento altri vasi ,
Che tenea nel museo per tutti 1 nasi.
Di fiutar cosi ben dlcgli 'I modello
Il gih medico Cappello
Con quel suo glardin portatile
D'odoroso salvolatile
Di Rosino
Sopraffino ,
Regalato ,
E raffinato,
Tolto dalle villose crestoline
Delle rose damaschine.
Con cui fermandosi ,
E soffermandosi ,
Ansante c asmatico.
In su d'ogni angolo,
Con di quel balsamo
Toccava l' ugola
Alla marugola,
E tenera in gozzoviglia
La tabaccodorifcra famiglia,
di' Ita clic far con quest'ambrosia
Quella grana abbronzata etiopica.
Clic si pregia, qual nettare, in ModcnaT
Tanto è nera e d'odor graveolente,
Ch' io mi sento
Tutto quanto imbrividlre,
E morire,
Se vi penso un sol tantino ;
Nè so come al tavolino ,
Se non forse per uso d’ arena ,
Possa usarla a mano piena ,
Quel clic scrisse a' di passati
La Perfetta arte de' l’ali.
Vada d' Èrebo fra l' ombre
A fiutar l'altra mondiglia,
La scoviglia fetentissima ,
Chi con questa Innocentissima
Odorosa mercanzia,
Osò pria
Mescolar la terra d'ombre.
Su, finlam di traversare
Queste balle mercantili ;
Resta ancor di che annasare
Alle narici grandi e signorili.
Per di fuor ben si sente il piccante ,
E frizzante
Vivo odor di bergamotta ;
Ma, ahimè, 'I prezzo alquanto scolla:
E non fa per la gente spiantata,
Malabbiata,
Che si vive alla giornata.
Cui lascio, come cosa peregrina.
La degna bergamotta di cucina.
Della vera c della buona.
Da re proprio di corona.
N’ha ben riplen l’eburneo scrigno in Roma
Il mio saggio Grazjin, che se la tiene
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OHI DITIRAMBICI.
Per reclutar la lalor pigra soma.
Che gli giunge ogni lai mese.
Col dolce imperlai del suo paese.
El, fra l’ uno e !’ altro odore,
Sta scrivendo a tutte l’ ore,
Meditando,
Poetando,
Con sensi nuovi, maestosi e veri,
Ineffabili misteri.
Questa in vero polve attiva
Ha un' attrattiva
Si forte e acuta,
Ch' l' n' Ito veduta
Più d' un' alma innamorata,
E l' avca per la più grata,
Più che rose, o gelsomini,
Il noiouilco Glusllni
Pulitissimo settore.
Vero amico e di buon core,
Ch' ha di poi cangiato amore,
E 'I suo naso ha dato in preda,
Senza far altre difese,
Alla polvere maltese,
Che di buono altro non ha,
Che una certa novità.
Come appunto allor che feo
Nel giardin partenopeo
La sua prima comparsa in foggia strana.
La verde erba reai napolitana.
Questa è una tale acuta quintessenza,
Che punge troppo e va dritto per dritto,
E con ragion Natura le ha prescritto
In Napoli la prima resìdenaa.
Perchè que’ capi avvezzi al gran diluvio,
Che vomita 'I Vesuvio,
Vadansì a poco a poco
Addestrando a soffrir qualche gran foco.
Un vid' io, qual altro Andromaco,
Di forte stomaco,
Con d’ està polvere
In mano un pizzico
Condir del cavoli
I crespi grumoli,
E I rape roncoli.
Gustando a gola aperta e sbandellata
Questo intingolo ardente in insalata.
E 'I faeeva, secondo T mio Intendere,
Per accendere
Un vorace Miuigibello,
E Infiammarsi ogni budello
Con quel titillamento,
E non giù per condimento.
Se pur questo non è un uso antico,
Ma noi saprebbe dire il gran Da Vie®,
Clic dai prischi documenti
Il saper trae de' viventi.
Sia moderno, o pur sia antico,
lo ridico,
Clic 1' usarlo a disproposito
E pazzia,
E follia fuor di proposito,
E del gusto è frenesia.
Senti, senti, come sfiora,
0 soave mio Stampiglia,
Quest’ odor di meraviglia,
E quest' altro di giunchiglia.
Che innamora,
E consola del naso la gola :
Ma levianne presto i fiori,
Perchè s' alterati gli odori ;
E putisce qnesto e quello
D' ingratissimo odor di ravanello.
Cosi la dosa
Di melarosa
S’ è duplicala.
Divieti ingrata,
E fuor ne reco
Puzzo di pece.
Dove prima parea zibetto, od ambra,
E testimon u’ ho'l Cav alter dell'Ambra :
Ambra, che d’agni odor raro e nascosto,
Ne sa più, che tutto intere
L' Erbolato dell' Ariosto.
Ma 'I mondo più sempr’ avido,
Sempre voglioso c gravido.
Che come 'I matto al fuso.
Corre dietro al noveil' uso,
E stuzzicando va ognidì '1 vespaio,
Più volubil che arcolaio,
« Senza mettervi sii nè sai, nè otto.
Caccia giu dal regai solio,
Senza previe citazioni ,
Screditali i duo barboni,
1 duo v enerandissimi vecchioni,
E pon lo scettro in mano
Al pulvlglio stigliano.
Col chiamarlo, per suo onore,
Magistral tabacco fiore,
E questo vanta ’i gran Gamiz, ebe sia
La fonte della sua filosofia.
Con quella ferma c fissa opinione.
Che l’ usasse il filosofo Zenone.
Vero io somma, areiverissimo :
Questo mondo è svogliatissimo.
Nè sa più cosa si voglia.
Che strana voglia
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LA TABACCHEIDE. 071
GU nasce in lesta?
Che fame è questa?
Che gran disordine?
Che usanza indegna?
Far un nuov’ ordine
Con nuova insegna,
E a distinguer la nobile famiglia,
Impolverarle ’l naso di Siviglia?
Sul tuo dotto volume veridico,
E giuridico,
C MafTci, di notar non ti rincresca
Quest' altra vanità cavalleresca.
E cos' ha di raro e nobile
Quest* impalpabile,
Attaccaticcia
Polve annasabile.
Che s’impastriccia?
Come diletta
Quel di favetta
Odor si rustico?
Là dal ligustico
Mar, dot* è in voga,
E porta toga.
Lo potran dire
Tre ingegni rari.
Spinola, Casaregi ed il Figari ;
Anzi a dar giusta sentenza,
Vo' chiamare in mia presenza
Duo ingegnosi Patavini,
Facciolati c Bombardini,
E per terzo vo’ 'I Guarini
Degno e nobil successore
Del gentil Fido l'astore.
Questi sei uomini primi,
Ch’ han buon naso in tante rose.
Ben potran le preziose
Ritrovar doti sublimi
Del tabacco si vigliano,
Col miglior libri alla mano.
Io per ine non gli do ’l laudo.
Nè 1’ applaudo,
Chè sapor non ci trovo, nè gusto,
E 'I palalo del naso disgusto ;
11 respiro mi s'ingrossa.
Mi si move ’l catarro e la tossa;
La voglia ingorda
Tutto m' illorda
La babai uola
Fino alla gola,
E *1 naso e ’l mento ;
Brodoioso lio ’l vestimento,
E convicn, che per creanza,
Poi mi soflì sulle di la
Per nettarmi da tal schianza
L* unghie sozze e ogni pipita.
Pur divisa è in ribellione
Questa nuova opinione :
Gran partigiano
Del Sivigliano
£ ’l mio conte estense Mosto,
Che ne incetta,
Della dosa più perfetta,
Quanto puotc ad ogni costo,
E ne fa tanta baldoria,
Che si gloria
Di voler sempre distinta,
Ed intinta
Di pulviglio
La sua palla nel consiglio.
Gran campione, e di gran broglio,
Benché sia cugino amalo.
Gli sta a fronte in isieccato,
li marchese Benti voglio
Mantenitore
Di gran valore
Per la polvere d’ Avana,
Che gli par cosa sovrana,
E già già
Co’ mustacchi da Bassà
Tinti in faccia s’ abbaruffano,
E s’azzuffano,
All’ arine gridano,
E si sfidano.
Valorosi e forti cnlrambo,
0 a una prosa, o a un ditirambo;
Ma io tengo gran pensiero.
Che la palma sarà del primiero,
Perchè su colli etruschi ha gran favor*
Dalla gente, che coglie il più bel flore.
Però l’altro Ita i' arme strette,
E con cento scatolette
In ogni angol del palagio,
Del palagio suo reale,
Tiene in agio
Gente armala c munizione,
E mostrar vuol sua ragiono
Con i libri più pregiati,
Ch’ ha marcati
Con l'Avana ovunque tocca,
E n’ha ben de* buoni in chioeea
Nella sua doviziosissima
Biblioteca arenarissima.
Pace, pace ; non più guerra.
Va gridando tutte l'oro
Il pacifico Martelli,
Grande autore
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«II DITIRAMBICI.
Di poemi alti e novelli,
Cbe tuoi esser, ne' tempi anco infelici.
Landa e scudo degli amici.
Benedetto ed adorabile
Quel suo affetto Infaticabile :
Più che T contemplo,
D’ aliargli un tempio
Mi vien talento,
E fuori e drento
Tutto Incensarlo,
E fregiarlo coi divino
Portoghese, stradoppio mogarlno.
Ma cb'è questa.
Che mi resta
Polveruccia,
Tra russacela e fosca ai pari,
Per cui seggio '1 mio Vaccari,
Da lontano
Aliar la mano,
E pregarmi in tutti I modi.
Che fra l’ altre anch’ io la lodi?
Se mal non veggo,
0 mal non leggo
Il soprascritto
Del bussolotto.
Qui s'imprigiona
Quell’ incorrono
Pulviglio invitto
Di Barcellona,
Cbe a quante vengono
Dal lido iberio
Misture e polveri
Odoratorie,
Rimescolate,
E rimenate
Per fluissimo buratto.
Di battaglia c seacconiatto.
Tu, cui place quest’ odore,
E che l’ bai sempre alia mano,
Pool lodarlo a tutte l'orc
In soave stil toscano
Co’ tuoi versi
Puri e tersi,
E usar qui tulle le veneri
Del Veronese,
E I modi teneri
Del Savonese,
Cbe impegnasti in tante elette
Camoncttc,
Geniali ed amorose,
Per lodar Mole e rose.
In tal droga io non m' impaccio ,
Laido a tc l'Intrigo, c taccio.
Ecco gii la stiva « scarea,
E la barca,
Orche a vuoto il ventre alTatto,
Va sorgendo tratto tratto.
Del gran mondo americano
NumUutli , i’ vi ringrazio;
Son gii sazio
Di solcar l’ alto Oceano :
Scendo a terra c bacio il lido,
E qui meco In festa e in giubbilo,
Sull’ italica riviera
Chiamo ogni naso ed ogni tabacchiera ;
Chi fiutando aneli' io con loro
Vo' un po’ prendermi ristoro ;
Vo’ che annasiamo,
E che godiamo
Questo, cheinportnè giunto almo tesoro.
Altri gii vino ingoiando
E trincando ,
Salutavano i più cari ;
Noi tabaccando
Con le narici.
Finché fumano gli altari,
Farem brindisi agli amici.
Ecco gii mi purgo il naso ,
La man alio, e l'aria trincio,
Apro un vaso cd incomincio.
Questo a te, del serbatoio
Gran custode , odor , che ingoio ,
De’ pensieri almo vivaio.
Lo cunsagra unii! capraio.
Oli come sale , oh conte !
Tale d'Alfesibeo salga ’l gran nome.
Senti , senti , o gran Manfredi ,
Questa grana vellicante,
E superba più che Argante!
Ella é mistura
Poggi bonziana,
Ch' è mia pastura
Colidtana.
Ali tu riedi ,
0 gran Manfredi ,
A fiutarne anche un pochette ,
Né ci trovi alcun difetto?
Tu se' pur colui , clic suole
Trovar macchie fin nel Sole.
Danne un pizzico a Zauoltl
Buon poeta.
Tanto di’ ci non ti rimbrotti
D' indiscreta ,
Ed avara crudeltà :
Ma del suo non prender già
(Se pur o'Iia)
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Ch’ essenti’ egli anco pittore ,
Puzza sempre di colore ,
0 di cacio cavallo, o pecorino.
Di cui suol lo scatolino
Per vendetta empier qualora,
Home ingorda arpia vorace ,
E rapace,
Dà l’assalto
Alle mense di Montallo.
Sul treppiede ho vista spesso
Quella sua mano maestra.
Con appresso
Il Petrarca alla sinistra ,
Che i bei versi gli ministra,
E alla destra ,
Una sudicia scatola di legno,
E cibar cosi ’l naso e in un lo ’ngegno.
Vienne, Bonini mio, non ti nascondere
(ion quella tua stravirglnal modestia,
Chè nessun ti vuol confondere,
E nessun darti molestia:
Tengo aperto sol per te
Questo fragranzosisslmo gimè:
Cui 'ritorno ronzati le narici arsicce ,
Come le vespe all’ uve primaticce.
Mio Kaean, tu m'innamori.
Quando assapori
Il tabacco a zlnzino c in cento tomi :
Ben si vede, che tu domi
Il tuo naso a più battute:
l'arme un brindisi alla salute
Della tua massa pregiata
Con questa presa di bettonicata,
E lascia, che un pochettoauco nc succi
I.’ acutissimo tuo saggio Petrucci.
Roltazzon, ch’hai maschio naso,
Fiuta qui quest' altro vaso.
Ella è radica muschiata.
Ma di fabbrica privata,
D'un estratto
A Montano ignoto affatto ;
E pur sono degli odori
A lui noti i matadori ;
Vo’ donarne a tutti e dui,
Senza un menomo interesse,
Una scatola co’ sui
Fiori freschi colli or ora
Dalle man proprie di Flora
•Su 1 felsinei vaghi colli.
Di rugiada sitarsi e molli ,
Pria che ’l Sol se la bevesse.
Olà, Salmi, olà Ctailù,
Via, su via, spiluzzjccatene,
673
Annasatene un po’ po'
Delle dita sugli estremi :
Ma voi siete tutti astemi ,
E imitate il mio Panzoni,
Che fra i balsami più buoni,
Ond' eterno si fa dell'uom l'occaso,
Fasciò fuora ’l gran balsamo del naso.
Poverini tutti e tre.
Se credeste di campare.
Così senza tabaccare.
Tutti gli anni di Noè;
Poverini tutti e tre.
Questa presa di gazia,
Del giacinto in compagnia,
Ch'ora è ascesa al certel pe' suol meati
La consacro al gran Bellati,
Perchè scriva egualmente pulito
GII obblighi della moglie col marito.
Questa mo, eh' è foglia schietta,
Pretta, pretta,
Vo' donarla al Benvoglienti ,
Che di Siena fra 1 pregiati,
Nobilissimi ornamenti,
E l' onor degl' Intronati.
E quest'aura, eh' è certa mistura
D’ircocerviea nuova natura,
Da indovinarsi.
Da specularsi,
D' ogni colore,
D’ogni sapore,
Vo’, che se l’abbian come cosa grata.
Parte ’l mio Cicognin, parte ’l Zappata,
Perchè vadan cosi , di quando in quando,
Filosofando
Col chiaro Ingegno,
E investigando,
Finn a qual segno,
In que’ grauei minuti e indivisibili
Possan darsi inflnitl ed impossibili.
Lascia stare.
Non toccare
Quella scatola a sportello,
Sgargi mio, ma va bel bello;
Egli è ’l vaso di Pandora
Pien d'acuta zappatiglia,
Che al tabacco s’ assimiglia.
Ma ’l cervel morde e divora.
Ah, che tu l’apristi giù!
Sanità, sanità, sanità: f
E una e due c tre, ■
Via, su via, chè mal non v'è s
Prendi un po' d’acqua,
E il naso sciacqua,
19
I.A TABACCHEIDE.
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6H DITIRAMBICI.
Noi, buon prò, grideremo, e saniti,
E riva il re di Monomotapl.
Quella grattuggia recami,
0 Zappi soavissimo,
Ch’ io vo' grattar duoi braccioli
Di foglia secca in rodolo :
Questa la sera godolo
Per suggello ultimo
Della proboscide.
Per scacciar la scolomia,
Cbe, secondo il Ramazzino
Grande Ippocrate Ialino,
£ la nostra ordinaria malattia.
Se del Sonno l’ali tetriche
Non cosi presto mi coprono,
Con un buon pizzico
Di quest' intingolo.
Ben presto invocole,
E mi sdraio poi benissimo
Del materasso mio sulle bernocoie.
1-a ricetta pura e vera,
Tutta intera,
Sta del Fabra sulle carte.
Dove mostra a parte a parte.
Quanto sia dal ver loatano
Chi osò dir, eh’ era il tabacco.
Nelle nobili adunanze,
Un villano
Dlstruttor delle creanze:
Con la polve, che imprigiona
Questo scrigno alla Dragona,
Vo’ far brindisi al Travini,
Cbe la gusta a centellini:
Vo' Invitarlo,
Vo’ pregarlo,
A voler con quel verso latino
Nella frase virgiliana,
Stralodar la mezza grana.
Oimè, eoa' 1
Quel cbe mi sento
Bulicar drento
Su per la canna.
Fin dov’ è
Del cerve! la reggia scranna!
Saran vermi prigionieri.
Mi risponde Vallisnieri :
Dammi aiuto.
Fammi trarre uno starnuto,
Cbè in pochi termini.
Spari fuora, e l’ uova e I vermini.
Ma , no , no, sono particole
Vellicanti le pellicoie.
Le cartilagini , ,
E le compagini ,
Con ia traumatica
Loro agrimonia enfatica.
Ecco giò , per complimento,
Dio t’aiuti, mi dice ’l Morgagni,
Cbe co' suoi filosofi compagni ,
Sta guatando s’ io scoppio una volta ,
Perchè molta
Spera trovar degna materia e nuova ,
Per gli avversari suoi, se un di mai Sa,
Che del mio naso faccia notomia ,
E ne dia
Buon ragguaglio d’Italia ai giornalisti,
li tabacco lodando e i tabacchisi!.
S’io non purgo le stanze ingombrate,
E turate ,
Col moccichino
Bambagino ,
Nouso piti come parlare,
E pur reslan tanti ancora
Degli amici da Invitare ,
E chiamare in festa e in danza ,
Per gustare
La lusodorosifera pietanza.
Oh cosi va ben , benissimo :
Son limpidissimo,
E stralucente
D’ occhio e di niente ,
E di tutta la persona ,
E ’l trombon meglio risuona.
Or eh’ è vuoto l’ arsenale,
L’arscnal degli starnuti,
Vo’ di fresco imperiale,
Ch’ abbia odore di fiore di cedro.
Dar la biada allo stanco pulledro.
Recane un poco qui , Panizza mio ,
Tu die la notte e ’l dì ti stai con Clio :
Vo', che un brindisi insieme facciamo
Al dottissimo c saggio del Torre,
E dai libri un po’ po’ ’l solleviamo ,
Tal che campi l’età di Nestorre.
E giacché siamo intorno
Al Rodigin contorno,
Risuscitiam con nuova polve gli estri ,
E fiutiamo ad ouor del gran Silvestri,
Nosco invitando , In abito nostrale,
1 suoi diletti Persio e Giovenale.
Dove sci , eh’ io non ti veggio ,
0 traveggio ,
Gran poeta PcgolottiT
Poi eh' bai rotti
Tutti i fiaschi ed i bicchieri ,
Tanti amici salutando
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LA TABACCHEIDE.
ere
Con de' vini più stranieri :
Vien qua un poco, ed annasando ,
E incannando
Questa del naso bevanda innocente ,
Dimmi se 1 vta di Chianti è più potente?
Ella è mammola , e con seco
Un grane! di muschio greco.
Presso cui non vale un soldo
Quella scaglia gialliccia di Gaaoido.
Dalla sua fedcl Cremona
Fin qua giunge II caro Arisi,
E vuol farne Incetta buona
Da mandar ne’ Campi Elisi ,
A regalare
Quell’ alme chiare,
Ch’ hanno illustrata
La sua vasta Cremona letterata :
Salvane un poco ancora, in tanta folla ,
Al Canneti , grande onore
Della candida cocolla ,
Che sari un giorno un de’ più chiari lumi ,
Ond' abblan pregio e fama 1 tuoi volumi.
Questo di tuberosi unico estratto ,
Di mia man fatto , [chiuso.
Che in verde cantimplora bo qui rin-
Lo riserbo per uso
Degl' intrepidi nasi , e ad ogni patto
Vo’, che fiutino tutti,
E astemi e tabacchisi! c belli e brutti ;
Ch’ egli è odor che consola,
E svegliar suole
Idee sublimi in semplici parole.
Ma mi sento tutto mordere
E dentro e fuori k
Il meato degli odori ,
E la piramide
Rinoceronlica ;
E via più crescere
Quella pnirigine.
Che non mai sazia.
Va stuzzicandomi ,
Va rimordendomi ,
E inuggiolendomi,
E va gridandomi :
Fiuta, fiuta, annasa, annasa
Questa poca , ch'è rimasa ;
Su pur via ,
Ma mi vorria ,
Per lappar ben tutto questo ,
La nasca di ser Agresto.
Chi m’ aiuta? su , finiamola,
Chè non è gii questa elleboro.
Ma divina quintessenza,
Cbe da Bacco ba dipendenza ,
Donatrice d’ allegri...
D’allegri... gri... grl... allegri...
(Lo starnuto mel rapia)
Donatrice d’allegria.
Che dì lume, e dì consiglio,
E i torbidi pensier manda in esi...
In esi... si... si... in esi... gllo.
Oèpurlungo quest’ esigilo !
Schiavo, schiavo, miei sigoori.
Saldo , saldo col cappello ,
Si risparmin tanti onori :
Gli è tabacco spartigiacco ,
Che dì l’attacco
Al plenipotentissimo cervello.
Eccone un altro , ahimè ,
Che fuori scoppia :
Van gli starnuti se...
Se... sempre a coppia.
Lo starnuto è buon augurio ,
( Se non è starnuto spurio ,
Come quel del rifreddume )
Salutato,
Venerato ,
E adorato come Nume.
Io son pur pieno ,
lo son pur grave ,
lo mareggio in grande ambascia :
Lascia, lascia,
Ch’ io ritorni alla mia nave.
Vorrei dormire,
E vorrei star tre settimane in sogno
Chè n’ ho bisogno ,
Ma al capezzale
Vorrei la scatola
Sesquipedale :
Vorrei batterla e ribatterla,
Chè quei grave lar-ra-patì
Nel silenzio della notte
Gran solletico mi fa.
Vorrei sognando stare in allegria ;
Ma , ahimè, ch’io dubito,
Che in quel decubito ,
Non rappresenti odor la fantasia.
M’ empierò ben tanto tutto ,
Che passando,
E ripassando
Fuori e drento
L’aria e ’l vento.
Porti su per 11 coodutto
Sempre odor, sempre fragranza
E ne Incensi e ne profumi ,
Co’ suoi fumi ,
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iirnitAMHici.
L’ una e l' altra meninge ed ogni slama.
Ha sia badiale
Imperlale,
1)' un odor sempiternale ;
Perchè vi giuro ,
K v' assicuro ,
Ciré al parer di tutti quanti
I famosi tabaccanti,
K sull'intatta mercantil mia fé :
I.' iupchiai. n'ocu tabacco è il he.
Oli occhi miei non reggon più :
(lira tutto su e giù :
K già stracca
l.a caracca ,
E mi sento tratto tratto
Barcollar dal capogatto.
Ohi mi reca
l.a rìbeca?
Voglio andare avaccio aracelo ,
Viti eh' è di di berlingaccio.
In Giorecca e in Carnasciale ,
K cantare il baccanale :
Voglio in maschera bizzarra
Far gran festa e gran gazzarra ,
Ma l' andarsi cosi moccicone
E piagnone.
Sta gridando : Egli è un uso plebeo :
II Tesauro c ’l Galateo :
Dunque puliamoci ,
ItalTazzoniamoei ,
K stropicciamoci
I dardanelli
Gilè Lisetta non m'uccelli ,
Lisctlìna , eh' ha ’1 naso a pennello ,
bucherato col succhiello;
K mi dica ; 0 che bazzesco
Non ancora spollaccatol
0 che schizzo calottesco
Mal intinto e mal buttato!
Voler farmi da Narciso,
Con si lordo e sozzo viso?
Ma già mi vede la nimica mia ,
1 anda nimica bella.
La mia bella e d' Amor nimica ria,
E mi beffa e mi martella.
Trlstarella , rubacuori :
Quando s' avvede, eh’ lo son mezzo brillo,
E che vacillo,
E eh’ ho gli organi riversi ,
Più mi stuzzica a far versi.
Senti adunque un quadernuccio
Sullo stile del trecento ,
E poi sfattene in cappuccio,
Chela alincn per un momento.
• Madonna mia, qualor mie rime spando.
Per lodar vostre eccelse alte adomezze,
Sopra del vulgo abbietto io mai non andò.
Mentre mi fermo in le mortai bellezze. »
Segui in questo cammino,
Antiquissimo Ghedino,
Ch' io son stanco, c non so andare
0 per dir ciò di’ altri dice,
Son di stil poco felice,
E porta popolare.
Ma censore impraticabile,
D’ un rigore inesorabile.
Ve', ve’ ’l Petrarca,
Che doglioso e consiroso
Viene in barca
Con la sua Musa,
Giù per Sorga da Valclusa,
E una lettera mi porta !
Forse Laura sari morta
Dal dolor, che in tanti versi
Puri e tersi.
Quel mirabile poeta,
Fosse apposta, o fosse a caso,
Non lodolla mai dal naso.
Ma noi fece il meschinello,
Perchè allora l’ uso bello
Del tabacco fiutatorio,
di' è del naso il maggiore ornamento.
Era lontano ancor dal nascimento.
Pape ! pape 1 che nebbia è mai questa P
0 siam dentro in cieche grotte,
0 ’l meriggio è della notte.
Più di lume
Non n’ Irraggia alcun barlume ;
Tabacchiera fatta a botte.
Col cocchiume,
Che s’ innesta,
È giù fatta la mia testa :
Su via, tosto, tostissimo apritela,
Che fuora svaporino
Le volati), acute particelle,
E a dar tabacco vadano alle stelle.
Serenissime figlie del Sole ,
Bella prole del primo monarca.
Se vi piace l' odor di quest' arca.
Fiutate, fiutate,
E stillate Influssi amabili
Sopra tutti 1 vegetabili.
Oimè, oimè ! le stelle fiutano,
E starnutano,
E par che crollino,
E par che caggiano
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C77
LA TABACCHEIDE.
Dal sommo al fondo;
Oimè, questo è ’l finimondo :
Coprite, coprite,
Sentite, sentite,
Chè l’ Eliadi ed il fratello
<■14 mi tengon per rubello,
Ed imitai) Bacco seco,
Che mi guarda arcigno c bieco,
Perchè ho pieno ’l magazzino
Di tabacco e non di vino.
Per sedar la tua collora intanto,
Dammi, o Bacco,
Quel tuo nappo labbrìspanto,
Chè colmandolo.
Voglio ber fin che son stracco,
Coronandolo
Con I fiori del tabacco.
Quest' è quanto posso darti.
Per placarti ;
Ma non dirmi, eli’ ella sia
Una vii battuccbieria :
Tu la prendi qual la mando,
E poi vattene cantando.
Sono vuote le scatole e 1 casseri ;
Sba Trattato
É ’l tabacco da ogni Iato ;
lo non bo più cosa mungere,
Nè piu dove intinger digito,
E di voglia mi sento più pungere.
Or che più del mio non v’ è,
Ciaschedun ritira ’l piè,
Olii di qua fugge intanto, c chi di lì,
E son ridotto a chieder cariti.
Cariti
Ad un povero naso fallito,
Oie sempr’ arde di nuovo appetito.
Chi un po’ poco lo rinverde.
Che non prenda il cappe) verde,
Per l’ estrema povertà 1
Cariti, cariti, cariti.
State attenti, uomini e donne,
E se fallo, sia il mio danno :
Voglio aneli' io,
Senz’ aver nulla del mio.
Scialacquare tutto l’ anno,
Mezzo a oso, e mezzo a isonne.
Se volai le tabacchiere,
Vi rimasero i ricordi :
Agl' ingordi
Ogni cosa di piacere.
Vo' fiutar queste cartucce.
Impiastratucre,
Clic del tabacco furo In compagnia,
E ravvivare almrn la fantasia.
Ahimè ’l nav ilio,
In questo pelago
Odoratorio,
Va invisibilio,
Va in brodiglorla!
Che bufera mai di vento
Fremer sento !
La tempesta
Non s’ arresta ;
Perirem tutti al sicuro,
Se ci manca ’l Paiinuro,
E ’l capitan, che della nave è testa.
Si prueggi,
Si galleggi ;
A savorra
L' acqua sborra ;
Si ristoppi e calefati,
Siamo, ahimè, siamo annegati.
Incagliamo nelle secche
E del legno facciam stecche.
La fortuna è troppo rotta.
La burrasca più cresce e più s’ annotta.
Su buttate, buttate nell’ onde,
E da prora e da poppe e da sponde,
Le merci tutte,
Sien belle, o brutte,
Sien odorose,
Sien preziose,
Chè se le ingollino,
E si satollino.
Tutti del mare I muti cittadini,
E s’ usino al tabacco anco i delfini.
Volca più dir, ma tal lo prese in giro
Un capogiro violento e forte
Similllmo alla morte.
Clic stramazzò boccon su colli e casse.
E rottamente, come il pazzo Orlando,
Honcheronferussando,
Parca chc’l mar, la terra e ’l elei tremasse.
Indi lo colse il sonno, e appoco appoco.
Con quel suo dolce obblio, con quel suo
fascino,
Che la mente conforta e ogni mal scaccia,
Temprò l’ interno foco,
E’I torbido cerve! mise in bonaccia.
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CTS
DITIRAMBICI.
GASPARO GOZZI.
Per le aoue di S. E. il «gnor Sebutiino Mocenigo eoo U nobile donzelli Chiari Xeno.
Dunque la falsa e inarrivabii onda
Chiederai! sempre del sognato fiume
Vaneggianti poeti, e non la vena
Mai del polputo Ispano
O del grato Fron tignano?
Non lo Sciampagna mai, eh' ogni ritegno
Ha poderoso a sdegno ,
E con forza rigogliosa.
Rovinosa ,
li turacciolo sbalza , e lieto spruzza
Fino al palco a mille a mille
Per la sua liberti gioconde stille?
Nozze cantatisi , nozze. È senza Bacco
Venere fredda. Un’ara voglio : un'ara
Qui mi sia ritta, e sovr’ essa s' onori
Il gran figlio di Semele e di Giove.
Nel mezzo un dolio corpulento e grave.
Fiaschi intorno, bottiglie e belliconi,
Peceberi, coppe, nappi, tizzoni.
Splendida del Briattì ampia famiglia,
Cbe l’ ingegno riscalda ed assottiglia.
Ecco l’ ara apparecchiata :
Chi non è salmone o tinca.
Lasci l' acqua che ha sognata :
Buon poeta molto trinca.
Ecco, svino un boiticedo;
K’ esce fuor dolce midollo.
Bella cosa va pel collo,
E riesce nel cervello.
Ogni stilla
Che si spilla ,
Che discende ,
Che zampilla.
Brilla, frizza, spuma 0 splende ,
Dedicata a Chiara sia,
Cònsagrata a Sebastiano.
Com’ io levo questa mia ,
Tutti levino la mano;
Ognun segua e Imiti me :
Bella Chiara, a le beviamo;
Sebastian , beviamo a te.
Rinnovate, ricolmate,
Arricchite
Del gran sangue della vite
Questi nappi un’ altra volta.
Innaffiate, ristorate,
Accendete
Il cervello quanti siete.
Sì che voli a briglia sciolta.
Vedete voi colà
La sposa dov’ eli' è?
Ecco, allo specchio su,
E intorno al capo suo studia U fati :
Non però pettoruta ella sta là.
Nè superbendo ha gran boria di sé.
Non colla coda degli occhiolini.
Non con attucci , con risolini
Si vagheggia,
Pavoneggia,
Or per lato, or dirimpetto;
Ma lascia fare al naturale aspetto.
E voi fratunto, aure leggiadre e snelle.
Le ricche e care d’ or chiome baciate ;
E tu, guida del mondo e delle stelle.
Amor, l' allegri di v ederle ornale ;
E saldi nodi e lacci fai tra quelle.
Per togliere ad un cor sua libcrute ;
Nè le fugge quei cor gentil ma corre,
E ne’ lacci da sè vasai a riporre.
Ella ciò scorge, onde pietosa gira
Il guardo al prigioniero, c lo consola :
Nè man di lui nell' anima sospira.
Ed II sospir è in cambio di parola.
Dall’ un lato e dall' altro si destra;
Amor s' applaude , e glorioso vola :
Dalle stelle giocondo Imeneo scende,
E la sua face desiau accende.
Yoliam la coppa, tesor di Libero,
Tutte ad Imene rotiam le ciotole :
0 gioconda salute delle vergini.
Imene, Imene, Imeneo,
Questo nappo in tuo prò beo.
Mentre passeggia
E signoreggia
Nelle viscere nostre il vin bevuto.
Vivermi forse di fiuto?
No : con pietose e desiose ciglia.
Qual di bambini tenera famiglia,
Ricorriam tutti asseuti,
Chiediam d' essere allattati.
Dolce balia, botticella,
Delle poppe apri il tesoro :
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DITIRAMBO. 67»
Se non porgi a noi ristoro.
Ci rieri meno la favella.
Vedete alta pietà che ci consente
La cara balia ! e mentre ognuno 1 angue,
Eaaa il suo nutritivo, aiuabil sangue
Fatar pel capextol suo dà largamente.
Sia cambiato.
Accettato
Sulle stelle il tuo cocchiume.
Ed il capecchio che 1' avvolge, sia
Tutto lume, un eterno capillizio
A chi bec , dal elei propizio.
Su su dunque in giolito, in festa
Venere Invochisi, madre d’ Amore,
(Iran dolcezza, gran gioia del core.
Che il mondo rinnova, che 1' anime desta.
Beata Dea, che col tuo foco giovi
Al mondo si, eh' anime nuove acquista;
E mentre ci per si cade, tu il rinnovi
Con la bell' arte, onde ciascunoè artista -,
Fiamma d' amor dalla tua stella piovi.
Alle tue grazie, a’ tuoi diletti mista,
Si che tur giovinezza il nostro mondo
Ristori, e il faccia d' altre alme giocondo.
Se tu fecondi in non morbidi letti
Di chi vive nel mar fra reti e scogli ,
E se a' duri aratori i pargoletti
Tosto concedi ed alle rozze mogli ;
Sotto si ricchi e fortunati tetti
£ più ragione il dar novi germogli.
De' Moccnichi l’ alme grandi c belle
Rifa nell’ alme tenere c novelle.
Tosto gorgoglino
1 ricchi balsami
Giù per l'esofago,
E alle bell’ anime
Clic l'ali impiumano.
Per discender di lassù,
l'accia il buon prò : beviamo-, va giù.
Pera chi dice che l'utnane cose
Soli tutte affanni,
Perigli e danni,
O crude serpi sotto i Gor nascose.
Dall' una parte, è ver. Fortuna torbida
Fra lampi e sibili.
Fra tuoni e folgori
Inevitabile,
Spesso le viscere
E U cor ci strazia,
Nè mai si sazia ;
Ma dall’ altra il buon Lenco
Bassareo,
Che de' mali
De' mortali
Ha pietà, padre amoroso,
Ampio rase tiene a lato,
Medicato,
Che le doglie
Dal cor toglie,
E dà pace, dà riposo.
Oh meschini poeti, se dal mondo
Tolta fosse la manna che rinchiude
Dentro a' grappoli suoi la ricca vite!
Ahi, ahi, miseri noi !
Clic sarebbe di noi e di voi [no.
Senza i grappoli suoi che ci addormenta-
E fan che l' aspre cure non sì sentano?
Ora l' austera Critica
Sferza, c veleno adopera:
Or mentre in alto volano
Epici e Lirici,
Invidia livida
Punge e fere con detti satirici :
Ognun vi lascia, v’abbandona ognuna,
Sventurati,
Trascurati
Dalla terra, dal Ciel, dalla Fortuna.
Dagli altri in Gne non oscura tomba
Pur vi divide : e che puù farsi intanto?
S’cmpion le tazze, si tracanna c bomba.
Ciò non sol rasciuga il pianto ;
Ma nell' anima attizza un foco,
di’ ella smania, nè trova più loco.
Passa i luoghi de' tuoni e de' lampi.
Delle sfere s’apre i campi.
Legge i libri del destino.
Profeteggia : c tutto è vino.
Dunque, bottiglia amabile c vezzosa.
In cui si posa il don d’ogni scienza,
E sapienza di predire il vero.
Ricurro al labbro tuo non menzognero.
Lieto abitacolo
Di slil fatidico,
Antico oracolo
Sempre veridico,
Chino davanti a te la menu umile :
Dimmi se il casto nodo
Prima al mondo darà prole virile.
Si move.
Commove,
Dal fondo ribolle ;
Borboglia,
Gorgoglia,
Il vino s’ estolle.
Quale strìscia di rapido lume
Veggo in alto che larga balena?
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C80 DITIRAMBICI.
Questa stanza n'è tutta ripiena ;
Tal fulgore non vien senza Nume.
Non vedete com’ esso circonda
D'una nube il candido grembo?
Non è segno di folgori o nembo :
Tutta splende la nube gioconda.
Scende la nube a terra ; il molle seno
Apre : non la scorgete?
Quella culla non vedete?
Di pannilini
Candidi e lini
Ricoperta (uttaquanta;
Ed Agiata appresso siede,
E col piede
Crolla, culla, e cosi canta :
« Fior d' Amore, cheto giaci ;
Chiuda Sonno il tuo bel ciglio ;
Dormi cheto, amabil figlio.
Risvegliato, attendi baci.
a Delle Grazie io son sorella ;
M’ ha qui Venere mandata :
Son a guardia destinata
Dell’ età tua tencrella. a
Ma quante veggo nel reai soggiorno
Venir venete donne in questo giorno,
Che bisbigliano! non le udite?
Alla culla, compagne, venite;
I*iano il velo alzate, scoprite.
Tenete l'alito,
E col piè non fate strepito :
Piano alzate, piano fate,
Non parlate, noi destate.
Qual pittore
Duole Amore
Inventar sì grazioso,
Che fra rose
Odorose
Chiuda gli occhi a un bel riposo?
Com’ è bello,
Grandicello,
Colorito, saporito!
Par la madre ;
Anzi ’I padre
Pare a me vivo e scolpito.
Culla, Agiata ; culla, fa presto,
Cliè si desta. Ab che s’ è desto !
Noi dlss'io,
Amor mio.
Noi diss' lo? si desterà.
' S. E. ii signor Luigi Quirioi, il quale pub*
blicòuo poema de’ fatti del Colombo, opera
Gli occhi gira,
Tutti mira :
Giurerei che intende c sa.
Le belle labbra con quel risolino
Che parte spunta, ma non esce ancora.
Un bocciuolo di rosa sul mattino [ra.
Sembrali, che parte è dentro e parte è fuo-
Di maliziette ha pieno rocchiolino:
Innamorato sembra fin da ora.
Balia, tosto le poppe; balia, tosto :
Torce il vislno, ride or che gii è accosto.
Di liete voci e di festosi viva
Uno strepito suoni,
E una salva sparìam di belliconi.
Si, le mani ai labbro s’alzino;
Che nessuno esca di regola :
Traranniam tutti con ordine.
Su, con voce alta c festiva :
Il pargoletto Mocenigo viva.
Ma la culla dov'è! dove n'è gita
Or la corona delle donne belle?
Perchè questa sul mar veggo apparita
Nave guidata da benigne stelle?
Ivi accenna il nocchiero, ivi ne invita :
Clic vuol da noi ? quai reca a noi novelle ?
Sull' alla poppa ha per insegna un tino :
Ch’entriamo ei chiede. Entriam dove c’è
Sarpa tu il ferro olà sciogli le vele [vino.
Chè in alto andiamo,
Ed Incontriamo
Molte de’ Zeni e Mocenighi croi
Alme vittoriose
E gloriose
Che del sangue nimico tinser l’onda.
Ed or vengon festose a questa sponda.
Dov'è, dov'è la nobile
Tromba solenne ed epica
Che a bocca posesi
Il Canlor veneto',
Il qual dell' Indie
L’ Ammiraglio cantò?
Ingegno fervido.
Qual fosca ruggine
D’obhlio può rodere
L' alta memoria
Dell'eroe ligure
Che ne' tuoi versi glorioso andò?
Ma sol potea quell' invincibtl petto
A tal tromba dar fiato. 0 vincitori
piena di tutta 1’ epica grandezza , e degno
frutto dell' ingegnoso ed erudito autore.
(.Voto dtl Poeto )
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DITIRAMBICI.
Di barbariche vite, invitte destre.
Che con lunghe fatiche e perigliose
Apparecchiaste alla reina bella
Del mar la pace, nel cui grembo or posa,
Non il mio canto qui v'alletta: questa,
Questa pompa solenne è che vi chiama.
Veggo di ricche e d'onorate spoglie
Ornati i legni e di ducali fregi.
Gran memoria ed esemplo de’ nipoti.
Odo da mille e mille parti i vostri
Nomi sonar, e rimbombar al suono
Le più lontane e men cognite spiagge,
E Vinegia gioir di si gran nomi,
E sperar prole di tal sangue degna.
Perchè no, se infiammato ha il nobilseno
Scbastian delle vostre antiche imprese,
E sol gloria desia? la bella sposa,
D'ogni pura virtù tesoro e vase.
Altro diletto, che virtù, non trova.
Di tai rampolli e di si ricco innesto
Ch’or il saggio Imeneo fa di sua mano,
Fruito avrem cheonor (la delle due piante.
Come uscimmo di nave ? c come sotto
Alle due belle e al Clel piante gradite
Or beviamo e cantiam? Sia che si voglia,
La lingua si scioglia,
Si canti, si bea,
S’incespichi e sdruccioli ;
Chè onor del bere
£ gir con passi non diritti e tremuli,
E quasi vituperio è non cadere.
Coronatevi di pampini,
0 seguaci al Dio vitifero,
E sì suonino timpani e nacchere;
Quai Bassaridi, qual Satiri,
Stiamo qui cantando, danzando,
incespicando e sdrucciolando
Ove l'ombra pacifica si stende
Delie due piante, la pacific' ombra
Che tanto spazio co' bel rami ingombra,
E colle braccia sue tanti difende.
Mentre lieti noi siam qui,
Chiara è sposa, e vlen di la.
Allo sposo lia detto si :
E sapete dov’ella va?
Brindisi, brindisi a si bei sì
Ed al talamo ov' ella va.
li figliuol di Citcrea
Alla stanza ne la guida :
li figliuolo della Dea
Di qualcosa par che rida,
E qualcosa certo ei sa.
Ehi, beoni, olà olà ;
Orsù, non più ;
1 bicchieri mettiam giù.
Come giù ? quanto può, ciascun gli balzi
In aria si, che dato in terra un botto,
N’esca romor, e fino al cielo s’alzi;
E noi di sotto
Gridiamo intanto tutti cbbrnfestosi :
Vìva la coppia dei felici sposi.
r
I
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GIOCOSI
BURCHIELLO.
Strambotto
Fratei mio, non pigliar moglie.
Se non moi tormenti e doglie.
Io ti voglio consigliare
Senza chiedere il consiglio;
Non voler moglie pigliare.
Se tu vuo’ fare il tuo miglio ;
Non entrare in tal periglio.
Se vuoi star lieto e contento ;
Cbè non c'è il maggior tormento
Sotto il ciel, cbe l’aver moglie.
Fratei mio, non pigliar moglie.
Se non vuoi tormenti e doglie.
Sai perchè lo fece Dio?
Per degnarci al paradiso,
E quest’era 11 suo desio.
Fi per scampar canto e riso,
Chè non s’ ha , lo te n' avviso.
Quella gloria senza pena ;
E non c’ è tal disciplena
Sotto il ciel, che d'aver moglie.
Frate! mio, non pigliar moglie.
Se non vuoi tormenti c doglie.
Vuo' veder tu s’cgli è vero?
Pensa un poco al padre antico,
Onde poi per tal mistero
Fummo in bocca al gran nimico,
Solo per mangiar del (ico
Per ragion di quella vana :
E non c'è cosa più strana
Sotto il ciel, che d’aver moglie.
Fratei mio, non pigliar moglie,
Se non vuoi tormenti c doglie,
lo lo so chè l' ho provato,
E lo provo a tutte l’ ore ;
Chè ho moglie e parentalo
Di tormento e di dolore.
Vuo’ tu far lo tuo migliore?
Non la torre, o fratei mio,
Cb' io ti giuro in fè di Dio,
Che non c’è le maggior doglie.
Fratei mio, non pigliar moglie.
Se non vuoi tormenti e doglie.
Guarda come io ero grasso,
Trionfai , hello e polito,
Ed orson smagrito e lasso.
Tutto quanto sbalordito :
Questo av vien che son marito :
Questo è bene il nome drito,
Non marito, anzi smarrito,
Di qualunque piglia moglie.
F' ratei mio, non pigliar moglie,
Se non vuoi tormenti e doglie.
Ella m' ha cavato il suco ,
Ti so dir come sedei ;
Che mai piu non mi riduco.
Si mal stan li fatti miei ;
Ben pcggior di morte sci,
Nè mi posso tener ritto.
Io sto lasso e tutto afllilto,
Pien di guai e pien di doglie.
Frate! mio, non pigliar moglie.
Se non vuoi tormenti c doglie.
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SONETTI E
La poesia combatte col rasoio,
E spesso hanno per me di gran quistioni:
Ella dicendo a lui : Per che cagioni
Mi cavi il mio burchie! dello scrittolo?
E lui ringhiera fa del colatoio,
E tra in bigoncia a dir le sue ragioni;
E comincia : lo ti prego mi perdoni
Donna, se alquanto nel parlar ti noio :
S’i'non fuss’io e l'acqua e 'I ranno cab
Burchie! si rimarrebbe in sul colore [do,
D’un moccolin di cera di smeraldo:
Ed ella a lui : Tu sei in grand’errore :
D' un tal disio porta il suo petto caldo,
C.h’ egli non ha in si vii bassezza il core :
Ed io : Non più romore.
Che non ci corra la secchia e ’l bacino ;
Ma chi meglio mi vuol, mi paghi il vino.
BALLATA. 6èjt
Va in mercato, Glorgin, tien qui un gros-
Togll una libbra e mezzo di castrone [so,
Dallo spìcchio del petto o dall’ arnione ;
Dì a Peccion , che non ti dia tropp' osso.
Ispacciati, sta su, mettili in dosso,
E fa di comperare un buon popone;
Fiutalo, che non sia zucca o mellone;
Tolto dal sacco, che non sia percosso :
Se de’ buon non n’ avessero 1 foresi ,
Ingegnati averne un da’ poliamoli ;
Costi che vuole, chè son bene spesi.
Togli un mazzo tra cavoli c fagiuoli ;
Un mazzo, non dir poi, io non Tintesi;
E del resto toi fichi castagnuoli,
Colti senza picciuoli.
Che la balia abbia tolto loro il latte,
E paiansi azzuffati con le gatte.
POLIZIANO.
Ballala.
lo son, dama. Il porcellino
die dimena pur la coda
Tutto il giorno, e mai l’annoda,
Ma tu sarai l' asinino.
Che la coda par conosca
L’asinin quando non l'ha;
Se lo morde qualche mosca
Gran lamento alior ne fa.
Questo uccello impanieri.
Che or dileggia la rivetta :
Spesse volte il fico in vetta
Giù si tira con l' oncino.
Tu se’ alta, e non iscorgi
Un mio par qua giù fra' ciottoli
E le mani a me non porgi
Ch'io non caggi più cìambottoli.
Or su dianla pe' viottoli
A cercar di qualche dama :
Perché un oste è che mi chiama,
Ch’ ancor lui mesce buon vino.
Dei tuo vin non vo’ più bere.
Va', ripon la metadella,
Perche all’orlo del bicchiere
Sempre freghi la biondella:
Non intingo in tua scodella,
Chè v’è dentro 1’ aloè.
Ma qualcun per la mia fè
Farà più d’ un pentolino.
Tn mi dicevi , apri bocchi.
Poi mi hai fatta la cilecca:
Or mi gufi, e fami bocchi
Ma c'è una che in’ imbecca,
D’un sapor che chi ne becca
Se ne succia poi le dita :
Con costei fo buona vita,
E sto come un passerino.
A te par toccare il cielo.
Quando un po' mi gufi , o gabbi :
Ma nessuno ha dei mio pelo,
Ch' io del suo anche non abbi :
E ci fia poi pien di babbi.
Dove credi sia il pastaccio :
Tuttavia la lepre traccio.
Mentre lei fa il sonnellino.
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GIOCOSI.
M4
MACHIAVELLO.
Culo de’
Gli fummo, or non slam più, spini
Per la superbia nostra [beati
Dall'alto e sommo del tutti scacciati;
E In questa cittì mostra
Abbiam preso il governo.
Perchè qui si dimostra
Confusione e duol più che in inferno.
E fame e guerra e sangue e ghiaccio e
Sopra ciascun mortale [foco
Abbiam messo nel mondo a poco a poco;
E ’n questo carnovale
Vegniamo a star con voi.
Perchè di ciascun male
Stati siamo e sarem principio noi.
Diavoli-1.
Plutone è questo e Proserpina è quella
Che a lato se gli posa.
Donna sovra ogni donna al mondo bella ;
Amor vince ogni cosa;
Perù vinse costui
Gite mai non si riposa.
Perchè ognun faccia quel che ha fallo lui.
Ogni contento c scontento d'amore
Da noi è generato,
E ’l pianto e’I riso e ’l canto ed il dolore :
Chi fosse innamorato
-Segua il nostro volere,
E sari contentato.
Perchè d’ogni mal far pigliam piacere.
CINI.
I.c Bugie.
Di bugie da diverse bocche uscite.
Donne, compost' oggi è la schiera nostra;
Chè, preso corpo e forma, insieme unite
Ci slam, per farvi una leggiadra mostra.
E per narrarvi apertamente il vero.
Qual il nostro esser sla ;
; Ma chi fla mai che creda alla bugia?)
Queste eh’ al lor pomposo abito altero
Sembrano avere impero
Sopra noi altre, son quelle che fuori
Mandar soglion sovente
Tra l' idiota gente,
A varj effetti, i principi e signori :
E quant' essi han più degli altri potere,
Son elle ancor qui più ricche a vedere.
Noi, quantunque d’originemenchiara,
Stale pur siam prodotte
Da begl’ ingegni , e da persone dotte,
Benché private. E se Fortuna avara
Non ci ha fatto si cara
A este, c si ricca d' ostro e gemme ed oro,
Non per questo il valore
Nostro è punto minore.
Nè d' arte o di saver cediamo a loro.
Questo componimento e l’altro del Cini
e 3e*’lc *°no qui per saggio dei famosi Canti
In carro andiaui, s’ esse a cavallo ; e spesso
Scorriant non men di lor lungi e da presso.
Di quanto giace qui sotto la Luna,
Se si riguarda bene.
Poche cose ci son che non sicn piene
Di noi : eh’ a raccontarle ad una ad una,
Saria cosa importuna.
Mirate all' arti : i medici,! mercanti,
I poeti, i pittori,
E fino gli scrittori
Dell’ istorie, si adornan tutti quanti
Dell’opra nostra. E s' ella ognun diletta,
Convlen pur che noi siam cosa perfetta.
Ma chi farne di voi può piu verace
Fede, donne amorose ?
Quante volle a che scandoli,a che cose,
N’ ha posta una bugia ben detta, pace !
Amor, che giova e piace
Al mondo tanto, fu colui eli’ a* suoi
Servi, se ben s’ estima.
Mostrò ’l nostr’ uso in prima
(Bench’ altri ad altro n’adoprassi poi),
E ci diede per care e fide ancelle
De’ lieti amanti e delle donne belle.
Carnatciaìetchi, sorta di bizzarra poesia che
rallegrava le mascherale dei Fiorentini.
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CAPITOLO. 68J
Quest' altre poi che qui d' intorno slan-
Quasi nostre serventi, [no,
Siccome son men ricche d’ ornamenti ,
• '.osi di minor pregio i lor padri hanno ;
K perch'a piede vanno,
I)i lor poc' oltre si distende il grido;
Ani' il più delle volte
Soglion restar sepolte
Fra ’l volgo ignaro, ov’cbbor prima il nido;
K pcrdiè son con poca cura nate.
Di lor altre son gobbe, altre sciancate.
Or qual lingua si pronta, o quale stile.
Ri mai, eh' a parte a parte
Di tutte voglia dir l'industria e l'arte,
C non resti ami alRn derisa c s ilo ?
Qual aniina gentile
Oggi si trova, o fu mai, che Tacesse
In pace o in guerra cosa
Celebre c gloriosa.
Clic del nostro valor non si valesse?
Taccia la turba pur; chè ben s’ inganna
Qualunque il r.omc di bugia condanna.
BERNI.
Cditc , Fracastoro , un caso strano
Degno di liso c di compassione.
Clic l’ altr’ ier ni’ intervenne a Povigtiano.
Monsignor dì Verona mio padrone
Kra ito quivi accompagnare un frate
Con un branco di bestie c di persone.
Fu a sette d' agosto , idest di state ,
E nonbastavan tutte a tanta gente.
Se ben tutte le stame erano agiate.
li prete della villa , un ser saccente
Venne a far riverenza a monsignore,
Dentro non so, ma fuor tutto ridente.
Poi voluta me, per farmi un gran favore,
Disse : Sta sera ne verrete meco ,
Chè sarete alloggiato da signore.
l' ho un v in , die fa vergogna al greco ;
Con esso vi darò frutte e confetti
Da far vedere un morto, andare un cieco.
Fra tre persone avrete quattro letti
Ilianchi , ben fatti , sprimacciati , e voglio
Che mi diciate poi se saran netti.
lo che gioir di tai bestie non soglio.
Lo licenziai , temendo di non dare ,
Come detti in mal ora, in uno scoglio.
In fèdi Dio, diss’ egli, io n’ boa menare
Alla mia casa almanco due di voi ;
Non mi vogliate questo torto fare.
Ben , rlspos’ io, messer, parlercm poi ;
Non fate qui per or questo fracasso;
Forse d’ accordo resterem fra noi.
La sera dopo cena andando a spasso,
Parlando Adamo ed lo di varie cose,
Costui faceva a tutti il contrabasso.
Tutto Virgilio ed Omero c’espose;
Disse di voi , parlò del Sanazzaro ;
Capitolo.
Nella bilancia tuli’ c due vi pose.
Noi; son , diceva, di lettere ignaro ;
Son ben in arte metrica erudito :
E io diceva : Basta , io I' ho ben caro.
Animai mai non vidi tanto ardito :
Non av rebbe a Macrobio c ad Aristarcu,
Nè a Quintillan ceduto un dito.
Era ricciuto questo prete, e l’arco
Delle ciglia avea basso, grosso e spesso,
Un ceffo accomodato a far san Marco.
Mai non volse levarcisi d’ appresso,
Rnchè a Adamo ed a me dette di piglio,
E bisognò per forza andar con esso.
Era discosto più d’ un grosso miglio
L'abitazlon dì questo prete pazzo,
(lontra 'I qual non ci valse arte o consiglio.
Io credetti trovar qualche palazzo
Murato di diamanti e di turchine.
Avendo udito far tanto schiamazzo.
Quando Dio volse vi giugnemmo alfine :
Entrammo in una porta da soccorso
Sepolta nell'ortica e nelle spine.
Convenne ivi lasciar l'usato corso
E salir su per una certa scala.
Dove avrìa rotto 11 collo ogni deslr’orso.
Salita quella , ci trovammo in sala ,
Che non era, Din grazia , ammattonata ,
Onde il fumo di sotto in essa esala.
lo stava come l' noni , che pensa e guata
Quel ch’egli ha fatto e quel che farconvie-
Poicliè gli è stata data una canata ! [ne,
Noi non l'abbiamo, Adamo, intesa bene ;
Questa è la casa , diccv* io, dell’ orco ;
Pazzi che noi siam stati da catene 1 [co.
Mentre io mi gratto il capo e mi scontor-
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68fi GIOCOSI.
Mi tiro veduto attraverso a un desco
Gita carpita di lana di porco.
tra dipinta a olio, e non a fresco :
Voglion certi dottor dir ch'ella fusse
Co|>ciia gii d' un qualche barberesco.
Poi lu mantelle almanco di tre ussc.
Poi fu schiavina, e forse anche spalliera.
Fin che a tappeto alfin pur si ridusse.
Sopra al desco una rosta impiccai' era
Da parar mosche a tavola e far vento,
Di quelle da taverna , vita e vera.
È mosso questo nobile stromento
Da una corda a guisa di campana,
E dì nel naso altrui spesso c nel mento.
Or questa sì che mi parve marchiana;
Kornimml questa in tulio di chiarire
Della sua cortesia sporca e villana.
Dove abbiam noi , messer, dissi , a dor-
Venlte meco la signoria vostra, [mire?
Dispose U sere, lo vel farò sentire.
lo gli vo dietro; Il buon prete mi mostra
l.a slama eh' egli usava per granato ,
Dove I topi facevano una giostra.
VI sarebbe sudato un di gennaio :
Quivi era La ricolta e la semema ,
K 'I grano e l' orso e la paglia e '1 pagliaio.
Eravi un cesso, senza riverenza,
Un camerotto da destro ordinario.
Dove il messer faceva la credenza.
La credenza facca nel necessario.
Intendetemi bene; e le scodelle
Teneva in ordinanza in su l' armario.
Stavano intorno pignatte e padelle,
Coreggiati , rastrelli e forche e pale ,
Tre mazzi di cipolle ed una pelle.
Quivi ci volca por quel don cotale :
E disse: In questo letto dormirete :
Starete tutti due da un capezzale.
E lo a lui : Voi non mi ci correte.
Disposi piano, albanese messere :
Datemi ber, eh’ io mi muoio di sete.
Ecco apparir di subito un bicchiere
Che s'era cresimato allora allora ;
Sudava tutto, e non polca sedere.
Pareva il vino una minestra mora :
Vo’ morir, chi lo mette in una cesta.
Se 'a capo all’ anno non vel trova ancora.
Non deste voi bevanda si molesta
Ad un che avesse il morbo o le petecchie.
Come quella era ladra c disonesta, ^chie
In questo addosso a due pancaccc vec-
Vldi posto un tettuccio, anzi un canile;
E dissi : Quivi appoggerò l’ orecchie.
11 prete grazioso, almo c gentile
Le lenzuola fé* tor dall'altro letto ;
Come fortuna va cangiando stile.
Era corto il Anil, misero c stretto;
Pure a coprirlo tutto due famigli
Sudaron due camicie ed un farsetto :
E v’adopraron le zanne c gli artigli ;
Tanto tirar qur’ poveri lcnzuoli ,
Che pure a mezzo alfin fecion venigli.
Egli eran bianchi come due paiuoli
Smaltati di marzocchi alla divisa :
Parcvan cotti in broda di fagiuoli.
La lor sottilità resta indecisa
Fra loro, e la descritta già carpita ,
Cosa nessuna non era divisa.
Qual £ colui eh' a perder \a la vita.
Che s’intrattiene e mette tempo in mezzo,
E pensa e guarda pur s’ altri l'aita;
Tal io schifando a quell' orrendo lezzo :
Pur fu forza il gran calice inghiottirsi,
E così mi trovai nei letto al rezzo.
0 Muse, o Febo, o Racco, o Agatirsi ,
Correte qua , chè cosa sì crudele
Senza l'aiuto vostro non può dirsi.
Narrate voi le dure mie querele.
Raccontate l'abisso clic s’ aperse,
Poiché furon levate le candele.
Non menò tanta gente in Grecia Serse,
Nè tanto il popol fu de' Mirmidoui,
Quanto sovra di me se ne scoverse;
Una turba crudel di cimicioni ,
Dalla qual poverello io mi schermia.
Alternando a me stesso i mostaccioni.
Altra rissa, altra zolla era la mia
Di quella tua che tu , Properzio, scrivi
lo non so in qual del secondo elegia.
Altro che la tua Cincia avev* io quivi :
Era un torso di pera diventalo,
0 un di questi bachi mezzi vivi, fcato:
Che di formiche addosso abbia un mer-
Tante bocche m'avevan, tanti denti
Trafitto, morso, punto e scorticato.
Credo clic v’era ancor dcll’altre genti ,
Come dir pulci, piattole e pidocchi ,
Non men di quelle animose e valenti.
Io non potea valermi degli occhi,
Pcrch* era al buio, ma usava il naso,
A conoscer le spade dagli stocchi.
E come fece con le man Tommaso,
Così con quello io mi certificai.
Che l’ ini maginaz ioti non Tacca caso.
Dio vel dica per me , s* io dormii mai ,
L' esercizio fec* io tutta la notte ,
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SONETTI MATTACCINI. 687
Cbc fan per riscaldarsi I marinai. [te.
Non cosi spesso, quando l' anche ha rot-
01 le suite Tifeo, l’audace ed empio
Sentendo d’ Ischia le salii c le grulle.
Notale qui eh’ io metto questo esempio
Levato dall’Eneida di peso,
E non vorrei però parere un scempio ,
Perchè m’han detto chcYcrgilio ha preso
Un granciporro In quel verso d’ Omero,
li qual non ha, con riverenza. Inteso.
E certo è strana cosa , s’egli è vero,
Che di due dizioni una facesse :
Ma lasriam ire, e torniani dm 'io ero.
Eran nel palco certe assaccic fesse
Sopra la testa mia fra trave e trave.
Onde calcina parca che cadesse :
Avresti detto ch’elle fossili fave ,
Che, rovinando in sul palco di sotto,
Facevano una musica soave.
Il qual palcoera d’asse anch’egli, erotto;
Onde il fumo che quivi si stillava.
Passando agli occhi mici faceva motto.
Un bambino era in culla che gridava ,
E una donna vecchia che tossiva,
E lalor per dolcezza bestemmiava.
Se a corteggiarmi un pipistrel veniva,
E a far la mattinata una civetta,
la festa mia del tutto si forniva.
Della quale io non credo avervi detta
La millesima parte, e poi c’è quella [ta;
Del mio compagno ch’ebbe anch’ei la stret-
Kareteveia dir, poi ch'ella è bella;
M’ 6 stato detto di’ ei ve n’ ha gilscritto,
0 vuol scriverne in greco una novella.
Un poco piò che durava il conflitto.
Io diventava il vcnerabil lìdia,
Se l’ epitaffio suo 1’ ha ben descritto.
Mi levai eh’ io pareva una lampreda.
Un’ eutropia fine , una murena :
E chi non mel vuol creder, non mel creda.
DI buchi aveva la persona piena.
Era di macchie rosse lutto tìnto.
Pareva proprio una notte serena.
Se avete visto un san Giulian dipinto
Uscir del pozzo fuor, fino al bellico
D'aspidi sorde e d’altre serpi cinto; [co.
Od un san Giobbe in qualche muro anti-
E se non basta antico, auche moderno,
0 sant’ Anton battuto dal nimico;
Tale avevan di me fatto governo
Con morsi, graffi, stoccate c ferite.
Quei veramente diavoli d’ inferno.
Io vi scongiuro, se voi mai venite
Chiamato a medicar quest’oste nostro,
Dategli ber a pasto acqua di vite ,
Fategli fare un serv izial d' inchiostro.
ANNIBAL CARO.
Sonetti Mattaccini contro il Caslclvelru.
Mandano, scr Apollo, otta calotta
Quel tuo garzon con l'arco e coi bolzoni,
Per batter di Yetralla ì torrioni ,
Ove il Gufo ancor buio e nebbia imbotta.
Dalla gruccia l’Ila sciolto una marmotta :
E chiamando assiuoli e cornacchioni
Riduce il suo sfasciume in bastioni,
Per far contra pigmei nuova riutta.
Gii veggio su i ripari una ghiandaia
Ghe grida all’ arme ; e I ragni e i pipistrelli,
Che stan eoi grifi agli orli delie buche.
Ma se vien monna Berla e monna Baia,
Non fia per sempre il giuoco degli uccelli
Quel barbassoro delle fanfaluche ?
Fruga tanto, che sbuchc.
Fi rimettilo in geli, e se dà crollo,
Senza remisslon tiragli il collo.
II.
Il Gufo strofinandosi ha già rotta
La zucca ; c in su la stanga spenzoloni
Per farsi formidabile a’ pincioni,
Schiamazza e si dibatte c sbuffa e sbotta.
Arruola il bccco,infoea gli occhi,aggrotta
Leciglia, arruffai! pelo, armagli unghioni,
E raggruzzola paglie , e fa covoni
Incontr' al Sole, ond’ ha la pelle incotta.
E già 1’ uccellatolo e 1’ asinaia
In soccorso gli mandano i succhielli.
Che impregna le ventose per le nuche.
Già per secchiamettendo Arno in gron-
Y'ersa spilli e zampilli e pispinelli, [data,
E ricama le carte per l’accìuche.
0 naccberi, o sambuche.
Sparate. E tu che l' bai di piume brollo.
Aprigli il capo, e cavagli 11 midollo.
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GIOCOSI.
111.
Scarica , Farfanicchio, un’ altra botta,
Dì nelle casematte e ne' gabbioni ;
Dove le vespe aguzzan gli spuntoni,
E dove il calabron fa la pallotta.
Apposta che slan tutti in una frotta
Le zanzare e le lucciole e I mosconi :
Poi con pece, con razzi e con soffioni
GII sparpaglia, gli abbrucia e gli pillotta.
Suona il cembalo.ed entra in colombaia.
Ove covano i gheppi e i falimbelli,
0 lanciavi un terzuol che vi s’ imbuche.
E tu grida, menando 11 can per l’ aia.
Ai grilli che rosecchiano i granelli :
Gitene al palio con le tarteruche.
.Ficca poi due festuche
Nel becco al barbaianni , e come un pollo
Fallo pender coi piè, fln che sia frollo.
IV.
li castello è gii preso ; or via forbotta
La rocca, e que'suoi vetri, equei mattoni,
Oh’ un sopra 1’ altro come i maccheroni
Sono a crusca murati ed a ricotta.
Gii l'hannoi topi e le formiche addotta
Per fame a darne statichl e prigioni :
Gii si sente al bisbiglio di mosconi
Che v’ è romore e disparere e dotta.
Oh ’l Gufo n’esce : odi che secchia ab-
Ai passi, alle parete, ai buccinelli [baia :
Gran fatto fia clic più vi si rimbuchc.
lo t’ho pure : o ve'celfe, o che ventraia :
Guai' occhi , se non paion due fornelli :
0 sucide perniacele irte e caduche !
Or su, Gufacelo, su, che
Tosto ti reggia e nudo e trito e sollo.
Questo è ranno bollente ov 'io t'immollo.
V.
Un altro tuffo, infili che l'acqua scotta:
Sbucciagli 1' unghie; arrostigli i peloni :
Fa che a schianzi, a bitorzi, a vcsciconi
Gli si fregi la cherica e la colta.
Ma quanto più si tuffa, più s’ abbotta :
Semi che gli gorgogliano i polmoni :
Vedi eh’ ha fuor la liugua, ha fuor gii oc-
chioni ,
E pur v* apre il beccacelo, e pur cingotta.
0 va, caccialo, Branco, in capponaia :
Strappali delle coscie i campanelli :
Ed acciò che l' umor gli si rasciuche.
Ordina da mia parte alla massaia ,
Che qua e lì sul capo gli trivelli,
E v' appiccile parecchie sanguisuche ;
E ’n fin dalle carruche
Lo squassi in su la fune ; e se lo scrollo
Non giova, o tu lo strozza, od io l'azzoU o.
VI.
Ve’ come frale gambe il capo ingrana.
Come sta rannicchiato e eocoloni :
Certo o sente i sonagli de' falconi ,
0 patisce di fianco o d’ epiglotta.
Forse ha podagre. 0 dagli una dirotta
Di strecole, di sgrugni c di frugoni :
Ma per guarirlo dagli strangoglioni :
Fa che grilli e lucerle e sorci inghiottì.
FI fi ; chè gli s' è mossa la cacala ;
Su, die 'I cui gii si turi, e si suggelli,
Chè più carte non schiccheri o impacchiu-
Tornisi un’ altra volta alla caldaia, [che.
Che i fonti non intorbidi e i ruscelli
Più di Parnaso, o gli suoi lauri imbrache.
Delle cui sante puche [il bollo,
Mentr’ io gli occhi gli annesto, c ’n fronte
Fagli tu di busecchie un bel corallo.
VII.
Ave» quest’ uccellacelo ornai ridotta
La musica in falsetti e ’n semitoni :
Facea la Musa a suoli di pilferoni
Singozzare e ruttar come un’ arlotti.
Andava quando annebbia e quando an-
Culattandol Colombie i perniconi : [notti
Dava a chiunque vedea morsi e sgraffioni ;
La solca fin con gl' Ippogrifi a lotta.
E come un pappagallo di Cambaia
Cinguettando le lingue a’ suoi stornelli,
Dicea bichiaccliie c bubulc c baiuchc.
Credea chela treggea fosse civaia :
Però ne dava a macco a paperelli ,
A sorici, a figliuole, a tarli, a ruchc.
Tenendosi da più, che
Dacello, come dire un Sermagollo,
Facea lo cattabriga e ’l rompicollo.
Vili.
Tu, che in lingua di gazza e di mcrlolta
Gracchi la parlatura ai gazzoloni :
A che parti si luoson quei pov ioni
Con la bennola in co della cestotta ?
Fra cuccoveggia e brontola e borbotta,
Cile differenza è negli tuoi sermoni?
Di che vetro si fanno i carafToni
Da tenere 1 stroppi e l’ acqua ratta?
Quante braccia di fondo ha la pescaia
D' un cerve! secco ? e ’ntorno a’ tuoi capelli
Che vuol prima, o le bietole, o I’ eruche?
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SONETTI MATTACCINI. («9
Quante lasagne II giorno, e quante stala
Fanno di crusca quei tuoi molinelli
Tra reccla e loglio c brucioli e pagiiuehe?
Se d'un che ne manduclie,
MI sai dir qual sia più voto o satollo :
Quid crii mihi? il Mangia, o ’l magno
Apollo.
IX.
La gran torre ili vetro , ove corrotta
La lingua si trasforma in farfalloni,
Portata inverso '1 ciel da’ forraiconl
S’ era lino alle nugole condotta;
Quand'ella e quel suo mastrodi nigotta
Che ’INembrolto facca tra lampi e tuoni,
L'un cieco e l’altra In pezzi a' suoi mac-
chioni
Tornando, diventerò allocco e grotta.
Allor gli fu d' intorno a centinaia
E cutrettolc e sgriccioli c fringuelli :
E l’ oche ne lasciaron le latluchc.
Ma per dar fine a questa cuccovata;
Venga di quelli alali nanerelli
Un che mcl tragga fuor delle marruche :
Un che ’1 naso gli buche ,
Ogli ne spunti, e con un buon rampollo
Gli empia il teschio di menta e di ser-
pono.
X.
Queste son le rulne : e qui la rotta
Segui degli orinali e de' fiasconl :
Qui cadde il mastro degli svarioni,
Cli’ ebbe quasi a storpiar Febo di gotta.
In questo palo s’ infilzò la botta
Gonfia di borra : a questi panloni
Restar bruchi e forfecchie a milioni :
Qui die la Riila il suo carpicelo al Potta.
Questo eh’ era castello, or è volpaia :
Questi pezzi d'ampolle e d’alberelli,
Eran torrazzi e cupole e verruche.
Qui cantò 'I Gufo : e questa è la cuccala,
Ov’ or s’ Intana. Orsù, cigni e fanelli,
Dalle Canarie inaino alle Moiuche
Cantate ; e voi bizzuche
Berte, che vi trovaste al suo barcollo,
Ponete il caso al vostro protocollo.
XI.
Dice che s’ era tratto un certo allocco,
Che facendo dell' aquila volante,
Postosi or questo ed or quel libro innante,
Fea di tutti gli uceegli esca e trabocco.
Ma per chi ne scopri la cacca e 'I cocco.
Vistosi eh’ era cucco, in uno istante,
li farsetto restò così bel fante,
Come in sogno fu mostro a ser Fcdocco.
E mentre della gruccia ov'era in gogna,
Uscir tentando in van si becca i geti :
E s’ arrangola e stride e schizza c rece ;
L’ anima gli svanì tra rotti c peti.
E pur tanto pendè, clic di carogna
Mummia al vento, alla polve, al Sol si fece:
E mastro lavacccc
Per ciurmar la raccolse c conservolla :
Or vedetelo dentro a quest’ ampolla.
XII.
Mostrava, c lo credette alcun balocco.
Tanto nel toscanesnio era parlante ,
Che Petrarca nel corpo avesse e Dante,
E v’ avea Scarmiglione c Libicoeco. [co
Con questi c col suo sterco c col suo moc-
Turbale, infette e secche avea giù quante
Vaghe pure gentili acque, erbe e piante
Son dalla sua vetrata a Malamocco.
Ciò che cuccovcggiava, era o menzogna,
0 covcllc o casaccic o collibcti
Delle sue caccabaldole a schimbecc.
Di ciò che si farnetica c si sogna
Tenca certi fantastichi alfabeti
Sgraffignali da lui nella sua fece.
Ch' unto, bitume e pece [colla :
Mischiati ha ’nsieme , e vischio e boba e
Or vedetelo dentro a quest' ampolla.
XIII.
E questi è quel famoso Barbandrocco,
Clic di Secchia In su l' uma chiecricante
Stava in petto e in persona ; e dal gigante
Aspettava tributo, e da Marzocco.
Questi è, che data col suo becco in brocco
Botta botta nel grugno all’ elefante :
Quell’ arcisacrestan, quel soprastante
Del bell' orto d’ A polline e d’ Enocco.
Questi è che or dal suo buio, or d’ una
Traea quegl' incredibili secreti, [fogna,
Onde ridusse il milione a dicce.
Questi con la trilingue sua cianfrogna
Spiritò si con gl’ ipsilonni I zeli,
Ch’ ancor de’ cigni Incivilii la spece.
Questi è quel che disfece
Parnaso, e ’mparnasò di vetro un’ olla :
Or vedc'clo dentro a quest' ampolla.
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GiOCOSl.
Cimi
xiv.
UUile, «doperai!. 11 C-afzgrz,
Quel ramoso lambicco di Vetralla,
Se ne «a 'n pezzi giù per Secchia a galla.
Di al buon loto atra la sua giornea.
L’ alchimista de’ stroozoli mira
Cb' un ucce! delle sei fosse Farfalla :
Ma che, tenne poi ’l canchero alla falla,
Perchè tolse a stillar la scamonea.
Di con che torna al sue fornello : adagio :
Per fissar d tuoi altroché ’l so fio ne :
Ei non debbe saper quando è san Biagio.
Ma per uscir di puzza e di carbone :
Ser Zugo, ser Agresto, ser Albagia
Suso, ognun dia di piglio al suo tizzone.
Vicn tia, cacamusone,
Grappa tu la palletta , ed io le molle :
Diasi nelle stoviglie c nelle ampolle.
MATTIO FRANZESI.
Capitolo in lode delia T<*sa.
S* altri loda la peste e’1 mal franzese,
Quartana e gotte, lo credo pur ch'io possa,
Se'l mio cervello è buono a quest’ i Riprese,
Scriver qualcosa in lode della tossa :
Anzi lo debbo far, perchè obbligalo
Le sono e sarò sempre in carne c‘n ossa.
Provar la possa chi non 1’ ha provato;
Bagnisi, vada fuor spesso al sereno.
Nè si curi di stare spettorato : [seno
TautochVs’ empia il capo, il petto e ’l
Di quella che si chiama coccolina.
Gì’ e’ della tossa qualche cosa meno :
Vada di questo tempo la mattina
Due ore avanti giorno alla campagna
Con molti cani c poca cappellina;
A questo mo’ la tossa si guadagna :
Chè non pensaste per (starvi in agio
D’averla per amica o per compagna :
Bisogna sopportar qualche disagio
Per addossarsi un cosi fatto bene,
Ch’ a voi forse parer debbe malvagio.
Ecci una gran brigata, la qual tiene
Che questa, come ogni altro ottimo dolio.
Dal del nasce, al ciel cresce e si mantiene.
Del qual parere aneli' io del tutto souo ;
Ma o venga da noi o pur da' cicli,
In tutti i modi eli’ ba sempre del buono.
Forse eh* accade mai eli’ ella ti celi
Gò ch* ba nel capo, e ciò eh* ba dentro al
Oche ricoprali ver con doppj veli? [petto,
Manda fuor ciò cb’ eli' ha quasi di netto,
E ne fa tal rumor, che tu r ascolti,
Quando ben non volessi, a tuo dispetto:
E tocca sempre là dove più duolli ,
Ed antivede dove 1* umor pecca.
Lo qual par cb’ ammatassi c lo rivolti.
Forse cb’ ella ba maniera punto secca
Nel praticarla, c forse che con tutti
La non conversa senza alcuna pecca.
Vanitole a grado e le donne e li putti,
Anzi son sempre intenti i suoi pensieri
A far ch’ogni animai gusti i suoi frutti.
Impacciasi co’ vecchi volentieri.
Questo dirò con ior sopportazione.
Assai più clic gli occhiali e che i brachieri.
E veramente eh’ ella n’ ba ragione,
Perch’ e* la fanno fortemente esperta,
E più eh’ altri le dan riputazione.
Piaccmt eh’ ella vuole star coperta;
Anzi si cruccia tcco fieramente.
Se tu la lasci punto alla scoperta :
E soprattutto ba si del frammettente.
Che non si trova chi le tenga porte,
E dice ad alta voce ciò che sente.
Giovale disputare, ed ha tal sorte,
Ch’ uomo non è che se le contraddica,
Ch’ altrimenti saria proprio una morte.
La musica l’è siala sempre amica,
E massime ne’ tuoni e seniitunnì,
E a intonar non dura una fatica.
0 se di verno fossero i poponi.
Come di luglio c agosto, idest di state.
Come cred’ io che le parrebbon buoni I
Ma in quel tempo ia fugge le brigate.
Poi le torna a veder in la stagione,
Cb' altro non ba che cose inzuccherate.
Dissemi un non so chi già la cagione
Perchè la tossa il verno solamente
Pratica volentier con le persone :
E panni eh’ c’ dicesse, che la gente
Dormirla troppo, se non fusse questa,
Sendo le notti lunghe c i ili niente :
La qual tien la brigata assai ben desta.
Ma non si, che non sgombri c mandi fuora
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CAPITOLO. C9I
Ogni materia e cosacela Indicesti :
E se ti raddormenti pur ulora.
Come mortai nemica delle piume
Ti rompe il sonno, e sveglia allora allora.
Ed io che per un certo mio costume
Me la sono incappata, molto sana
Me la ritrovo al scuro ed al barlume :
Cioè (ma questo qui va per la piana)
Ch'ella vuol eh’ io mi carichi leggiere
Un qualche giorno della settimana;
E svegliato mi tien le notte intere,
E la mente m' innalza, e fa schizzare
Cose eh’ un cieco le vorria vedere :
Tanto che per sua grazia singolare
Par eh' io abbi nel capo una sequenza.
Una fontana, un fiume, un lago, un mare,
Idest un pantanaccio d'eloquenza.
PIETRO ARETINO.
- Capitolo al re di Francia.
Cristianissimo re, dopo i saluti.
Ed il baciarvi con l'animo il piede.
Che ri convien più che a' papi cornuti ,
Supplico di Francesco la mercede
Che facci si, che la sua maestade
Mi dia gli scudi che a Nizza mi diede.
10 gii ebbi in quanto alla vostra boutade.
La qual pensa che io gli abbia imborsali,
Come gli ho spesi con la voiontadc.
Certo il gran contestabil me gli ha dati
Col prometter di darmegli, talch’ io
Senza l’obbligo son tra gli obbligati.
Ho mandato alla corte Ambrogio mio
Gii tre volte per essi ; e se mi costa,
Ve lo può dir messer Domrncddio.
Udite questa : un goffo mi s' accosta
Dicendomi pian pian, che mi stimate
Più che di luglio il vento d’ una rosta.
11 caso, sire, è dar quando voi date ;
L’ altre cose son baie cortigiane
Che si piglian piacer delle brigate.
Ma perchè non è uom che vegga un cane
Abbaiargli d' intorno da dovvero,
C3»e non Io cacci, o non gli dia del pane :
Chiariscami il sì schietto, e il no sìncero,
Circa il accento che mi prometteste
Nello abboccarvi con papa cristero.
Date la lunga a certi guardafeste,
Trofei delle tavole dilette,
E non ad un poeta qne pars este.
Sfamate di speranze maladrtte
I giorneoni che v' abbassati, come
V'innalzano le Muse poverette.
Roma, che valse per domila Rome,
Allorché non pati d' essere schiava
E de* muli e degli asini da some,
Stiasi menando a* Franceschi la fava,
Nè vada conferendo I benefici
Dell' alma Francia magnanima e brava :
Diasi a par miei de' gradi e degli ofiici.
Ed a chi non divora tuttavia
I fagiani, i pavoni c le pernici.
Se vaca pieve, commenda, o badia.
Non l'abbian quelle bestie che non sanno
li Pater nostro, nè l' Ave Maria.
lo Io vo'dìr : s’ei l'ha per mai, suo danno :
Parvi che Caddi pazzo da catena
Debba scroccar si grossa entrala l'anno!
Chicli, che drieto si gran coda mena,
Che cose delia Bibbia ha fatte o ditte.
Qual libreria delle sue opre è piena!
Son mie fatiche i Salmi di Davitte,
E di Mosè il Genesi : io di Cristo,
E di Maria le impresse vite ho scritte.
Non basta dire: Egli è dotto, egli ha visto:
Bisogna che il teologo chietino
Si vegga, e legga come il papalisto
Paolo scrisse, Gregorio, Agostino,
Girolamo, Crisostomo, Bernardo,
Bonaventura e Tommaso d' Aquino ;
Ma se Caraffa ipocrilo infingardo.
Che tien per coscienza spirituale.
Quando si mette del pepe in sul cardo :
Per gracchiar dal concilio è cardinale,
È dottor della Chiesa, è vangelista,
È dell’ anime nostre piviale ;
Se rinascesse san Gioambattista,
Non fingendo 1* astuzie del volpone,
SI porria de’ ribaldi in su la lista.
E però, sire, senza paragone
Di fè, di senno c di gloria prestante.
Moderno redentor delle persone ;
Porghino a me le vostre grazie sante
Spacciatamele l’ adiutrice mano,
Alla barbacela del clero furfante.
Re buono, re cortese, re umano,
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tsf GIOCOSI.
Re dabben, re dabben, re grazioso,
loti son e voglio esser partigiano.
Adunque il cor mettetemi in riposo;
Ch’ ancorché mi facciate spedalieri.
Vedrete come rimo e come proso.
S’ a Roma son de' sarti e de' barbieri,
Fraudai Piombo, c cavalicrdi Rodi,
A ingrandir me non vi mette pensieri.
Manucano a Gesù la croce e i chiodi.
Egli boono il sangue alcune arpie.
Che a mentovargli infamarian le lodi.
Fosse che io dicessi le bugie,
E che sempre mentisse per la gola
l.a verità delle croniche mie.
Or laseiam ir la turba marluola,
E rilorniam a quando mi farete
Cu monsignor dì qualche terricciuola.
Datemi prima i danar che dovete.
Rifacendomi i danni e gl’ interessi,
E poi del fatto mio consulterete.
Non istelte a formar brevi e processi
Il vostro gran cognato Ferrandolo,
Ni aspetti il replicar de' messi.
Dugento venti ungari d' or fino
Poco fa mi mandò, con dire : Io parto
Teco la cappa, coinè san Martino.
La penslon di Cesar non israrto,
Cile motu propio ne venne battendo
A sostentar delle mie spese il quarto.
E ancor il duca Ercole commendo.
Clic dar mi fece più che di galoppo
l il presente al di d'oggi arcistupendo :
E se alcun altro non gli verri doppo.
Darò la colpa a’ tempi traditori
Cile non comportali che s' allarghi troppo.
Anno ben caro elle facci gli amori
Con le montagne di quei milioni
Che danno a' preti tanti batlicori.
Ma il ciarlar coinè le digressioni.
Non fa per noi, porcili? per botiti loro
Poirei scordare le mie orazioni :
Onde ritorno a quei ducati d' oro,
Che mi darete, visto la presente, [ro.
Non pcrchòio'linerli,ma perdi' io vi ado-
II vescovo di Nizza veramente
Delle virtù di voi predicatore.
Ed uomo onestissimo e prudente :
Pereti' egli intende i dubbj del mio core,
Giurar vi può che voi et sete drento,
Come in quel dell’ Orano è Dio d’ amore.
Quando dal mondo celebrar vi sento,
Ne godo, qual si gode un elefante
Allocchi c fimbriato d' anelito.
Dell’ eccellenze vostre io sono amante.
Fi n’ ho il martello, honne la gelosia
Che ha Paol terzo di non so che fante.
lo sempre inchino con la fantasia
Quell' affabilità, quella dolcezza,
Quel largo andar, quella galanteria,
E quella chiara e nobile allegrezza,
Clic fa risponder voi. che ritrovaste
In conversare, e la piacevolezza, fate.
Quel parlar con ognun, che sempre usa-
Mi dì la vita, perchè l'atto è grato,
Come al fin del mangiar le pere guaste.
impara tu, Pierluigi ammorbato.
Impara, ducarei da sei quattrini,
Il costume d’ un re si onorato.
Ogni signor di trenta contadini,
E d’ una bicoccuzza usurpar vuole
la? cerimonie de’ culti divini.
Ora per rappiccar le mie parole,
Col proposito nostro; dico : Sire,
Che sete più domestico che il Sole,
Per la qualcosa dov rei comparire
A intrattener tutta la vostra corte,
E in le sue braccia vivere e morire;
Mi vengono i sudori della morte,
Solo a pensarci, perchè son bestiali
Gli aggiramenti che gli dì la sorte;
E '1 praticar co' cervi e co' cinghiali.
Di Fauni e di Satiri natura.
Che della specie son degli animali.
La piuma della terra è troppo dura,
E 'I fieno delle stalle è propio letto
De' cavalli da basto e da vettura :
Dello 'nfantarmi non piglio diletto,
FI col piovermi addosso non m' impaccio,
Mi accieca il fumo d’un povero tetto ;
Come butirro al caldo mi disfaccio,
0 voglialo dir, come la gelatina ;
Al freddo poi come fall brodo agghiaccio.
Non mi piace la neve nè la brina,
Nè la borea crudel, nè la tempesta,
Nè il pasto mendicar sera e mattina :
Voglia non ho d' accrescervi la festa.
Mentre vedete ì grami forestieri
Come zingari errar per la foresta.
Non so s’ è meglio esser uomo o forzieri.
Quando due o tre ore innanzi giorno
E’ entra in viaggio che non ha sentieri :
Onde a suono di lingua, o a tuon di corno
Si va cercando sè stesso ed altrui
Sopra un ronzio con le bagaglic intorno ;
Intanto s' urta costui e colui,
Con dir ; Canchero venga al punto e ah ora
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CAPITOLO. GOJ
Ch’io Tenni in questa corte c eh' io ci fui.
E se non fusse che il dì sbuca fuora,
Onde apparisce la vasta sembianza
Che ognun consola e ricrea c rincora ;
Coloro che per forza c per usanza
Vi seguono alle cacce brontolando.
Farebbero le fiche alla speranza, [schiando
In somma io non son uom che einel-
Vada la vita in queste selve e In quelle,
L* agio con il disagio barrattando.
E basta a me che Tiziano Apcllc,
Che setnpremai nelle figure mostra
Spirto, sangue, vigor, carne, ossa e pelle,
Per cariti dell' amicizia nostra
Dipinto m' abbi con mirabil fare
La immagiu sacra dell' Altezza vostra.
L’ ha cinta d'ornamento singolare
Quel Serbo Sebastiano architettore.
Che il suo bel libro mandovvì a donarr.
Egli vi porta e Tiziano amore :
E sebbene accettaste il lor presente,
Non dicon che gii siate debitore.
Ma io genuflesso utnilemente
il vostro esempio sacrosanto adoro
Con l'anima, col core e con la mente :
In cotal atto paio un di coloro
Che a san Giobbe abbotlsconsi di cera.
Quando del mal comune hanno il martoro.
lo dico : O simlglianza viva e vera
Del re Francesco, cavami una volta
Della nere. ssi ti che mi dispera.
E perchè veggo eh’ ella pur mi ascolta.
Soggiungo : Idolo min, fa meco un patto.
Che mi dia mille scudi alia ricolta.
Ma perch' io mi consumo allatto affatto
Per il miraeoi che non può far ella;
Supplisca il vivo, du' manca il ritratto.
Or nel conrhiudcr di questa novella,
E del parlar di' ho fatto alla bestiale
Per ghiribizzo delle mie cervella;
Vi mando la mia effigie naturale,
Acciò vediate, con che core io
So dir bene del bene, e mal del male.
Ad ogni altra persona pone Iddio
Il core in seno, a me I' ha posto In fronte :
Qual potete veder, rifugio mio.
Dalle giovani mani egregie e conte
Di Francesco Salviati esce il disegno,
Ch'ha nel suoslil le mie fattezze pronte.
Pigliale il don del vostro servo indegno :
Pigliale], re generoso e benigno,
Dell' immortalità più che altro degno.
E senza il grugno far del viso arcigno.
Speditemi in un tratto, se volete.
Che io diventi di cicala cigno.
Non altro ; state san, bene valete.
Di Yinegla, il decembre a non so quanti.
Nel trentanove, eh' ha fame e non sete,
Pietro Aretino, che aspetta i contanti.
FIDENTIO'.
Poesia Pedantesca.
Voi , eh’ auribus arreclis ascultatc
In lingua hetrusca il fremito e il romorc
De' miei sospiri, pieni di stupore.
Forse d’ intemperantia nf accusate :
Se vedeste l’eximia alta beliate
Dell’ acerbo lanista del mio core ,
Non sol dareste venia al nostro errore ,
Ma di me avreste, ut squutn est, piotate.
Hei mlhi , io veggio bene apertamente,
Ch' alla mia dignità non si conviene
Perditamente amare, et n’erubcsco :
Ma la beltà anledicta mi ritiene
Con tal violentia, che continuamente
Opto uscir di prlgion, et mai non esco.
1 II suo nome fu Camillo Scrofa, ma per
giocosa affettazione, s' intitolò Fidenlio Glot-
togrysio ludimagistro , e chiamò Cantici le
Nei preteriti giorni ho compilalo
Un elegante et molto dotto opusculo.
Di cui, Camillo, a te faccio un munusculo.
Bendi’ altri assai me 1‘ abbia dimandalo.
Leggilo , et se ti fia proficuo et grato ,
Come io so certo, fa eh’ il tuo pettusculo
Pur troppo , oimè, pur troppo durlusculo
Di qualche umanità sia riscaldato.
Hei hei Fidcntio, bei Fìdentio miscllo.
Che dementia t' inganna* Ancora Ignori,
Che il tuoCamil munusculi non cura?
Non sai ch'invano II suoadlutorio implori
Perchè è una mente in quel corpo tencllo
D’ una cote eaucasca assai più dura?
sue rime. Ila superato tutti nel genero di
comporre detto pedanMico.
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m
GIOCOSI.
Capitalo 1.
0 <]' aa alpestre scopulo più rìgido.
Più del pelago sordo e inespiabile ,
Più di’ orsa crudo et pi ù cbe glaeie frìgido;
O Camillo superbo e inesorabile ,
A cui pabulo dan grato et dolcissimo
Le mie angustie c il mio mal inenarrabile :
Audl.ch'ioio' esplicarti l’ardentissimo
Mio amor, ch'il dì, la notte, e al galiicinìo.
Et al vespro mi di tormento amplissimo :
Tal che, Dio voglia eh’ il mio vaticinio
Sia vano, finalmente egli ba da essere
La mia fatai ruina e il mio esterminio.
Quando veggio all’Occaso il Sol nigresce-
Et paulatim nel bel nostro hcmispcrio [re,
Il bel splendor d' A polline evanescerc :
Amor, ch'ha di me il mero et misto Impo-
E nel mio cor fa la sua residentia, [rio,
Et ha di trucidarmi desiderio :
Accende in me tanta concupiscentia
Di vederli , eh' lo tutto dentro sentomi
Consumar di dolor et displicentia.
Onde gemendo dei Fati lamentoni!
Ad alta voce, et esclamo et vocifero.
Et del fruir delle dolci aure pentomi.
Ma poi di’ intorno il suo carro slellifero
Mena la notte, et per lo mondo spalla Irò;
Morpheo spargendo il suo liquorsomnife-
Quel rio, che del mio mal mai non si salia.
Fa conira il sonno un forte propugnarlo,
E a modo suo mi lacera et mi stratta :
Pur se quello espugnando il fatto obsta-
Un tantiilo talor mi soporifica , [culo
Il che certo appellar si può miracolo :
Con duri iiisomnii il crudel mi terrifica
Adeo, di' il sonino breve et momentaneo
Il mìo tormento et la mia pena amplifica.
Ma quando poi, sì come è consentaneo,
La bella Aurora fa il ciel roseo et glauco
Et Pliebo torna dal paese extraneo :
Tal cb’oiuai resta al giorno tempo pauco.
Onde gli augelli cantan di letitia.
Altri In suon dolce, altri in garrito rauco :
La speme alquanto a expergefarsi initia.
Et dice dentro il cor, ch'io ben la sentio.
Per imbuirmi di nuova trislitia :
Surge, agc, rumpe moras, o Fidcntio,
Va pur, ritrova il tuo Camil ptiicherrimo,
Ch'egli ha cangiatoin rad l'amaro asse mio,
V assiduo fanmlitio , il tuo miserrimo
Tormento , i carmi , et la pena terribile
Han mollefatto il suo cor duroc asperrima
Con velociti allor certo incredibile
Lascio il cabile, et la mia toga rapio
Pien di doicesza vana et irrisibile, [pio,
Heu me , heu me, qual gran dolor poi ca-
che ferite crudel il cor m’ offendono.
Da exlcrrefare Hippocrale e Esculapio.
Quando io rrggio cb’in ciel ancor ri-
splendono
Le stelle , et eh' il residuo è lungo spailo
All' ore ch'il mio bei Camil m'ostendono ;
La cuita conia allor dissipio et strallo.
Et per battermi meglio il petto, spogttomi.
Et nel mio stesso mal mai non mi saxio.
Ad aita voce poi di Pbebo decitomi ,
litcrepo et damno la sua lentitudlne, [mi.
Et con le mie man proprie uccider vogiio-
Alfin dopo cotanta amaritudine ,
Dopo tanto clamare et tanto gemere.
Dopo tanta et si acerba inquietudine;
Quando finito ha por il Sol di demere
Le tenebre col santo luminarlo,
Onde l' aratro il bue comincia a temere ;
Giù non vado al mio ludo litterario.
Giù, oimè, non vado più ai divino oflitio,
Si come era i) costume mio antiquario ;
Ma corro recto tramite al tuo hospitio,
Oli inbuman, di' un si fide! mancipio
In malam cruccili mandi e in precipitìo :
Qui circum circa expectabundo incipio
Deambular, escogitando interna
Di salutarti qualche bel principio.
Ecco intorno 11 del ride et l'aura ethe-
Yeucre lasda il bel cacume ldalio , [rea ;
Et s' adorna di fior la massa te-Rea.
Tu sulla janua col decoro palio [limo
Sui giunto a un Dio , a un Dio certo simil-
Tanto in beltà ti lasci addietro ogni alio.
io vengo allora riverente e umiliimo,
I il croce al petto ambe le braccia postomi ,
Atto alla dignità mia dissimiUimo.
A le tremante et tutto curvo accostami.
Et t’ impanio con voce pietosissima
Li saluti, eh' ho pria fra me compostomi.
0 deio o terra o mar o mente asprissima,
O cor marmoreo o crudeltà biasmcvole ,
0 anima superba et ingratissima :
Tu stando Inaltocrudoetspaventevole
Guardature mi dai torve et viperee,
Et nieghi la risposta convenevole.
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capitolo. ras
S'a questo Glottoehrysìo mille altre eroe
Lingue, e tante altre bocche s'aggiunges-
Cbedesservoci risonanti et fe-Ree; [sero.
Non credo ch’ln un seculo esprimessero
De' miei tormenti una sola parlicula.
Ben ch'altro mai dì et notte non facessero.
Heu me, ch’allor non resu in me una
micula [condio
Ch’ il dolor non exarda , onde il mìo io-
Supera quel della montagna Sicula. [dio.
Recito qui il mio mal come in compen-
Poi che pur d' adombrarlo non son valido,
S’ io xi facessi ben d’ un lustro impendio.
Negli occhi rubeo, et ne la faccia palido
Con testudineo grosso il domicilio
Repeto tremebundo, egro et invalido.
Qui senza più sperar alcun auxilio
Mi procuro bo nel toro et sento un Rumine
Nascermi sotto l’uno etl'allro cilio. [mine
Perchè mentre Amor fa che meco i' ru-
Il vilipendio et la collau injuria.
Ascendo d' ogni mal lasso il cacuminc.
Di gridi et di sospir non fo penuria.
Anzi in del gli ululati faccio ascendere
Al sommo Giove e alla celeste curia.
Ognun si meraviglia, ognun intendere
Cerca che duri casi empj et deterrimi
li forte animo mio possan sì offendere :
Vien il Vulpian di costumi integerrimi,
Il Grisolopbo, il Pantagatho, Il Parthenlo,
E il Leporino , amici miei veterrimi :
Vieti il Jamheo, il qual Unto al mio genio
S’ asslmigiia, et seco ha il dottoTrinagio,
E il nostro Viola pien di salso ingenio:
Et vedendo il mio misero naufragio
Humanamente tutti con pronto animo
M’offron ogni loropra, ogni suffragio :
Dicendo, oimè, tu ch’eri si magnanimo,
Fldentio, or lasci eh' il duo! ti suppeditl ?
Deh non esser cotanto pusilianimo;
Chè noi siam lutti ad aiutarti dediti ,
Se ti possiamo trar di questo tedio : [diti ?
Chè non rispondi a noi? che fai ? che me-
Alfine io cosi paucis gii expedio :
Amici , andate, eh’ Apollo quasi , o
Giove ai mio mal non potrian darrimedio.
In questo l' erudito messer Biasio
Vien anelando, et narra eh' I diseipnli
Di tumulti referto hanno il gymnasio;
Pugnano insieme le classi e 1 manipuli
Dico egli , tal che si potrebbe ambigere
Se siau minici, o pur sian condiscipuli.
lo volca pur in ordine redigere
Il tutto, dar l' epistola, et poi leggere,
Ma voluto m’ han quasi crueiflgere :
Onde vedendo non li poter reggere
Son venuto a chiamarvi, ma mi dubito,
Ch' a pena voi li potrete correggere.
Heu messer Biasio, allor rispondo subito,
S’ al del cadente io potessi subsidio
Dar, non mi moverei di qui un sol cubilo.
Perchè quei che son gii defunti invidio :
Ma ben presto sarò presto lor solio ;
Guardate ove venite per presidio.
Non voglioora narrar, ch'io non ho olio.
Quanto ei stupisca, et a qual fargli credere
Ch' io dica il ver, sia allora il mio negotio.
Interim giunta è l’hora del comedere;
Io per dar cibo al corpo che n’ ha inopia
Gii non mi posso dal pianto discedere.
Amor et le capeile hanno una propia
Natura , che di quel eh' esse appetiscono
Non son mai satie.se ben n’han gran copia.
Le Petulco capeile più cxuriscono
Quando in un prato florido grandissimi
E ingenti acervi di frondi inglutiseono :
Amorse ben dagli ocelli fonti amplissimi
MI Irahc , gii mai non satura un exìguo
1 suoidesir di lagrime avidissimi : [guo,
Ond’ io per non parlar obscuro e ambi-
Dal matutino al vesperlin crepuscolo
Faccio il mio voito di lagrime irriguo :
Et questo mio languidulo corpuscolo
Macero e affliggo, nè lieto o tranquiilulo
Gli concedo gii mal pur un punlusculo.
Questi o Fidenticida empio Camillulo,
Sono i tormenti miei, che ben far piangere
I sassi pon , ma non sol un tantillulo
L’aspra duri tie, oimè, del tuo cor frangere.
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ex
GIOCOSI.
BALD0V1NI.
V Amante rigettato.
Pur m' avete una volta,
Lodalo il Clcl, da voi sbandito adatto;
Nè più, sia notte o giorno.
Volete a verun patto
Clic al vostro albergo io mi raggiri intorno.
Per me la porta è chiusa,
Il negozio è finito.
Spenta è la cortesia, morta è pietà;
K se il caso si dà.
Che in me cresca per voi d' amore il male.
Posso andare a mia posta allo spedale.
Questi accidenti strani,
S' io lussi un uom collerico e irascibile,
O men del inondo e delle donne pratico.
Mi f arian sci or re i bracchi , e darmi a' cani.
Ma, perch'io son flemmatico,
L'avermi a disperar stimo impossìbile.
K benché il dar nei lumi,
Chiamar crude le stelle, iniquo il fato.
Costume sla d' un amator sprezzato ;
Nelle sventure mie
Non son per porre un tal concetto in opra.
Ch' hanno che far le nostre scioccherie
Colla gente di sopra ?
Altri pensier che questi
Hanno in capo le stelle. Ed al destino
Penso che nulla importi
S’ altri lo chiama autor del suo travaglio :
Ché degli asini al Ciel non giugno il raglio.
Né men seguir l’esempio
Di certi amanti io voglio.
Che dall' amata lor mandati a spasso,
(Oltre al pianto c al cordoglio)
Chi vuol precipitarsi,
Chi tra Tacque annegarsi,
Chi con ferro omicida il seno aprirsi ;
E cento appresso e mille
Strane pazzie, più che da far, da dirsi.
Con questi io non m’impiccio;
Né per cagion si lieve
In crror cadere! tanto massiccio.
So che non v’ é maniera.
Per provar se la morte é buona o trista.
Di dar per alcun tempo
La propria vita in attuai deposito;
Ché del morire al mondo
Usa una volta sol far lo sproposito :
E perché da tornar quassù tra' vivi
Un che crcpa una volta
Più non trova il sentiero;
In vita mia vi giuro
Di non formar giammai simil pensiero.
E se ben m' udiste spesso
Dir : Ben mio, voi sola adoro ;
A ridur la cosa a oro,
Amo voi, ma più me stesso ;
Nè soffrirei, per dirla giusta, poi
D'oltraggiar me per far servizio a voi.
Da chi s’anta esser disgiunto
È un gran mal ; ben me n’ as t eggio ;
Ma, s' io pongo il caso in punto,
Il morir parati assai peggio :
E chi privo non è di senno appieno.
De' due mali imminenti elegga il meno.
Dunque, senza pensarvi,
Eleggo a dirittura
Di campar quatti’ io posso.
Con tutti 1 mali ancora
E tutti 1 guai che son nel mondo, addosso.
E se taluno, a cui rassembra duro
L’ esser dall’ idol suo mandato sano.
In varj tempi e modi
Usa tant’ arti e frodi.
Che gli ribalza alfin la palla in mano;
In cercar simil cosa
lo, che son d'altra pasta.
Non vo’ mettermi a risico
DI perder II cervello, o dare in tisico.
Ci Ito studiato fin qui tanto eoe basta ;
E risolvo, a strigarla in due parole,
Di non voler ancb' io chi non mi vuole.
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SONETTI.
In morte delle sua Dive.
Con un colte! (cred* io da pizzicagnolo)
Al mio bene tagliò la Parca langhera
Di vita il filo : il duol cosi mi sganghera,
Ch’io sembro un picdostal di Michclagnolo.
Finché sciolto mi sta lo scilinguagnolo,
Finché lo spirto al corpo mio s’agganghera
Sarà ogni mia pupilla una pozzanghera.
Che formerà di pianto ampio rigagnolo.
Bell’alma tu, che se’ là sopra i nugoli,
Fa’ cenno per lo men col dito mignolo, [li;
Chè il duol si non mi punga e non mi frugo-
Sc no del tuo sepolcro in sul comignolo
Sedendo, converrà ch'io pianga c mugoli,
Finché del viver mio dura il lucignolo.
A far le punte ai dardi Amore stava
Sedendo, come ad un dei lor deschetti
Stan quei, che metton le punte agli aghetti:
Io soffermato, tutto ciò guardava.
Quando uno slral fra quei, ch’egli appun-
Vitli si lungo c grosso, ch’io ristetti, [tava.
Fra me dicendo : Oh poveri quei petti.
Che ne saran feriti! eli' è una fava!
Perciò a dirgli m’ardii : Eh maestrino!
Cotesto pai di ferro disadatto [no ?
Chi mai l’ha da provar? chi è quel mesciti-
Tu (pien di sdegno egli rispose a un trai-
E nel cuor mi cacciò quel hordellino : [to)
Pensate, amanti, buco ch’e’m’ha fatta
Chiede danari per la monacazione della figliuola.
Signora, il giorno della professione
Già s’ avvicina della figlia mia :
E quanto per lei questo è d'allegria.
Altrettanto è di mia somma afflizione.
Della dote a venire a perfezione,
Mi manca molto :c questo è il quare quia
La profession giammai non si faria,
Nè meno se mancassevi un testone.
Però vostr’ eccellenza , che quel grano
Suol damii,dch convertalo in danaro:
E basta un molo sol di vostra mano.
Fate questo miracolo sì rat o,
E si opportuno in un tal caso strano,
A voi facile tanto, a me sì caro.
Finisce, hai duolo amaro!
1/ anno che per mia figlia è l'anno santo,
Ch’è per me stato , ed è l' anno del pianto.
San Matteo viene intanto.
Giorno alla profession, di' è destinato,
E i’ resto da tal festa spaventato.
Quest’ aposlol beato
Tutti quanti i danari abbandonò.
Per seguire il suo Dio, che lo chiamò.
E mia Uglia non può,
Seguir ktdio suo sposo allegra e lieta.
Gran varietà ! perchè non ha moneta.
Deh signora discreta,
Ed egualmente pia e generosa.
Lo scrigno aprite, e datemi qualcosa.
Nè questa buona sposa
Di Gesù, eh’ eli’ amò con tanto studio.
Per non aver quattrini abbia il repudia
Sarebbe un reo preludio.
Solo perchè il danar pronto non suona.
Che la sua vorazion non fusse buona.
E la gente briccona
Dunque Miria], quei, che non han contanti.
Non pouno esser di Dio servi ed amanti?
Ma in quei secoli avanti.
Gli lasciò tulli chi il volea seguire:
Orchi non n’ha, dietro a chi mai debbire?
Dunque converrà dire:
Citi fondò in povertà la sua malìzia,
di’ abbia dato a’ dì nostri in avarizia.
Deli voi fate giustizia
Al vero, c con un atto di pietà
Fate mentir chi empio così dirà.
E così si vedrà
Consolata mia figlia, ed io contento,
E (se pos&ibil fu sazio il conventa
30
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69$
GIOCOSI.
Fa garbatamene domanda di grano.
Domenica passata a desinare,
D' esser da don Filippo ebbi l'onore,
Unita sempre nel di cui bel cuore
La nobili» colla bontade appare;
E della lieta mensa oltre le rare
Vitande, ed il lor ottimo sapore.
Vera un pane si buon, che mal migliore
Nell* esser suo non si potea trovare.
Onde, che fusse fatto in cosclenia
Di quel grano gentile, lo feci 11 conto.
Ch'ogni anno mi suol dar vostr’ eccellenza.
Pertanto non vorrei parere Impronto!
Ma non vorrei perù restarne senza,
Per farne in casa mia meglio il confronto.
SONETTI
11 Tempo fogge, e le Morte s’ accosta.
Il Tempo vola, orni' è ch'io grido: 014,
Che furia è questa! e qual mai fretta c’è?
Deh staiti a crocchio un pocolln da me :
Fermati alquanto, che domtn sari?
Al contrario la Morte io scorgo gii,
Che bel bello, ov’ lo son, ritolge il piè ;
Citi ti chiama? dich’io : sta pur da te,
E non t' Incomodare a venir qua.
Sempre con ambedue grido cosi ,
A lui : Fermali ; a lei : Scostali un po’ :
Tu rimani da me, vaitene tu.
Ma gracchia pur, nessuno ancor m'udi :
li Tempo fugge ognor quanto mai può :
l.a Morte s’avvicina ogni di più.
Dice in questo e negli altri, com'egli sia
troppo teucro della vita da amare la guerra.
lo alia guerra? s’iovl vo,ch’ i' arrabbi.
Non Ito tal voglia, ed anche mai non l’ebbi,
Uui voglio star, dove gii nacqui e crebbi,
1)' vissero e morir miei nonni e babbi.
Nè a venir gii tu m’ indolcisci e gabbi
Di tue belle parole co’ giulebbi :
Va pur tu, Atesle, c sali Olimpi e Orcbbi,
Varcai Giordani, olirci Danubi e 1 Babbi.
Ti dia la sorte, che tu ammazzi e tribbi
I nemici, c gli faccia lutti gobbi.
Nudi gli spogli, e ammassi l'oro a rubbi.
Io, che sono un poliebbro, un pelanlbbi,
Altro ben che la vita non conobbi :
E a metterla a sovvallo, lo ci ho de' dubbi.
1 Cosi li chiama a cagione che la rima per
lutto il sonetto non cambia mai , salvo che
passa per ciascuna delle cinque vocali. Il
UNISONI'.
Fra Icsquadre or tedesche ed or pollac-
Vorresli farmi fardaScanderbcccbc : [che
E m’ allctti col dir, che 1» le zecche
Battono a più non posso oro e patacche.
Ed io vo’ star sotto le mie trabacche
Co' miei pastor, con queste amate Cecche,
A sonar flauti , a far burle e cilecche,
A tosar pecorelle, a mugner vacche.
Tu vanne fra le spade e fra le picche.
Mettiti de’ camion contro alle bocche :
E conquista anche l’ isole Molucchc; [ Che,
Cliè d' un castagno a me bastati le cliìc-
L'andar cantando, al fonte a empir le broc-
che,
Or di lasche, pcscaudo, empir le zucche.
I
Per andare alla guerra, oibò I non cala
Sargonte dal pogginolo: ci non anela
A mutar condizlon : s’ egli ha una mela.
Con pane e cacio alla fontana sciala.
Un aggregato d’ogni cosa mala
Chiama la guerra, ov’èun vento che pela :
Dove la state abbrucia , il verno gela ,
Dove 1 guai sì raccolgon colla pala :
Dove più d’ un le pentole v’ infila,
E la parie maggior Morte ne invola,
E via ne getta come speldo e pula.
E pur colà furioso Atesle sfila;
E se gli è detto, eh* egli a morir vota,
Risponde risoluto : 0 pelle, o mula.
Fagiuoli ha scritto di tal foggia centoveniette
sonetti de’ quali centosei versano sopra un
solo e medesimo tema.
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CAPITOLO.
£99
A CAMILLO BERZIGHELLI.
In lode de’ Fagiuoli.
Facendo In questi giorni riflessione
A quante obbligazioni io ri professo.
Rimasi tutto pien di confusione.
Attonito restai fuor di me stesso,
Nondimeno a pensare incominciai
Se in parte il soddisfar m' era permesso.
E dopo ch’io pensai e ripensai,
Risolai farvi di me stesso un dono :
Però gradite il poco per l' assai.
So, che tra voi direte: A eh* è egli buono
Un sol fagiuolo 7 Ma , signor abate.
Se non mi conoscete, lo vi perdono.
Bisogna, padron mio, che voi sappiate,
Ch' ioson fagluoto, è ver; ma de* par mia
Non credo sul podcr ne raccogliate.
Fagiuolo, che di me più grande sìa,
Non c’ è nell’ Indie : e se vi andaste ancora
A cercar tutta la fagiuoleria.
De’ fagiuoli a proposito voglio ora
Dirvi, com’ eli' è questa una civaia
Che merita tra l' altre di signora.
Ciò non 6 mica chiacchiera nò baia ,
Ma verità patente e manifesta,
Provata con ragioni a centinaia.
Tutti i legumi abbassino la testa,
Dando al fagiuolo il posto più eminente,
Chè sublime tra loro alza la cresta.
Si chiami dannosissima la lente,
Che vender fa la primogenitura
Ad un ingordo, che vuol porvi il dente.
I ceci non pretendan far figura ,
Adoprali ad un uso abbominevole.
Di cui non parlo per la più sicura.
II Mauro per suggello suo lodevole
Pigli le fave sue : c che ne cava.
Se non senso immodesto c biasimevole?
Delia superbia il simbolo lodava :
Poiché dir bene spesso i’ ho sentito :
Poh quei guidone, egli ha pur tanta fava !
È amaro il lupino: e s’ò indolcito,
Dassi a vii prezzo : e par, che l’appetisca
Talun, ch’averi guasto I’ appetito.
Se poi ò secco, peggio : In ogni bisca
Serve al vizio del giuoco per segnare
Le perdite, ond' altrui s' impoverisca.
Pessimo augurio ancor suole arrecare
In tutti quel partiti, ov’egii ha loco;
Servendo sempre l’ esclusiva a dare.
Le cicerchie è pazzia mettere a fuoco :
Non so, se v’ è di lor cosa più ria :
Son nocive di molto, e buone a poco.
Non abbiano I piselli fantasia,
Perchè darò lor sempre nel mostaccio :
Pisello è un birro della Mercanzia.
Il nome solamente, egli è un nomacelo :
A un uomo e che volete dir di peggio,
Che dirgli Pisellonc o Pisellaccio?
Dunque, o civaie mie, per voi non veggio
Segno d’ onor : però tutte Inchinatevi
De' fagiuoli sovrani all’ alto seggio.
D' esser consorteria sol contentatevi ,
E ciò si ascriva a vostra somma gloria :
Cedete la man dritta, c addietro fatevi.
Se si potesse ritrovar la storia ,
E come di fagiuoli il nome avessero!
Ma pensate! N’ è persa ogni memoria.
Credo, clic da’ fagiani lo traessero;
Perchè i fagiani parrai d’ aver letto [ro.
Ch’un tempo fa quanto i fagiuol piaecsse-
De’ consoli di Roma il cibo eletto
Furo I fagiuoli : e però di Romani
Ad alcuni di essi il nomo è detto.
Il Colombo trovò fagiuoli indiani :
Nò io questi da quelli ora trasccglio :
0 bianchi o rossi sien, tutti son sani.
Sulle lor proprietà passo, e non veglio s
So, che incitano l’ uomo a far figliuoli :
Son buoni a mille mali ; or chi vuol megl io ?
Bertoldo si inori con gravi duoli ,
Allorché andò per sua disgrazia in corte.
Sol per non poter più mangiar fagiuoli! •
Han questi un nutrimento di tal sorte
Che fa immortal chi opra e si alfallca ;
E a’ pigri e agl’ Infingardi dà la morte.
Or quel villano avvezzo alla fatica,
Non qual di corte 1’ oziosa gente,
Morì senza la sua vivanda amica.
Ed in corte i fagiuoli veramente
Sarebbero nocivi e velenosi,
Dov’ ognuno ò occupato in far niente.
Giacch’ essendo nemici de’ riposi.
Farebbero un gran danDo a’ cortigiani ,
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700 GIOCOSI.
Che talora di lor son più ventosi.
Or basta, non convien, ch’io m'allontani
Da' miei fagiuoli ; ma che a dire il molto.
Che di loro si può, meni le mani.
Tutto a considerar colui mi volto.
Che suol vendergli a massi, c far piacere,
E fissamente lo rimiro in volto.
E parili! allora armato di vedere
Un Cupido novcl di verdi strali ,
E scambio da un turcasso il suo paniere.
Dardi si quelli son, ma non mortali :
Non forti e acuti , come quei d' Amore;
Ma spuntali, ma teneri c vitali.
Empiono il corpo, e non bucano II cuore:
E per maggior cuccagna de' merlotti.
Costa gran quantità poco valore.
Sono i fagiuoli buoni e crudi e cotti ,
Quando son freschi : e perchè più si goda.
Anche col guscio son boccon da ghiotti.
Infin liscio-squisita è la lor broda,
Che ripulisce e inamida la pelle,
E le carni fa bianche, c le rassoda.
Donne, s’ avete caro d* esser belle,
E far più vago il volto c più sereno,
Non d'altro empiete mai le catinelle.
O ciascheduna pc* bisogni almeno.
D’acqua della regina in cambio, tenga
Di questa broda una boccetta In seno.
Si dice inoltre, eli’ ella in sè ritenga
Vigor, eh’ a rischiarar degli occhi vale
I.a luce offesa, quando sia che avvenga.
0 broda eletta, o broda celestiale!
Perchè in vasetti d’ or chiusa e serrata
Non se’, qual elislrc o cosa tale?
Ma che chiamarti broda? dichiarata
Esser dei quintessenza di fagiuoli.
Più d’ ogn’ altra preziosa e prelibata.
Più della vista v* è che ci consoli ?
Non son gli occhi a ciascun graditi e cari,
E nel del d* un bel volto i vaghi soli?
Or se questo liquor ce li fa chiari.
Ce gl’ illumina allor che alcun s’oscura,
•Non meriterà lodi singolari?
Vedrte ben, che la madre Natura,
Perdi' a’ fagiuoli avea tal pregio dato,
Degli occhi gli formò sulla figura.
E che sia ’l ver : pigliaten un sgusciato,
E osservatelo ben ppr cortesia.
Non è un oechtoliu giusto matilato?
Tali parrcro ad un di fuora via,
Che era ghiotto di quei tenerelll,
E qua giunto ne chiese a un* osteria;
E perchè il nome non sapea di quelli
In toscano, in latin trovò II ripiego
Di fars’ intendere, e cosi diss’ citi :
Quosdam pisciculos virides ego
Yellem habentes oculos in ventre.
Potea dir meglio? ditemi vi prego.
Dunque diremo, che i fagiuoli, mentre
Son occhi, da cui i nostri son guariti
Chè qui uua giusta graliuuli» C* elitre ;
E che debban da tutti esser gradili.
Coni* occhi de* nostr* occhi, e venerali
Come cibi salubri e saporiti.
Quando son fatti ciechi, idest svisali,
S’ io gli posso vedere allor, eh’ V muoia.
Da fantesca crudel cosi straziati :
Ah ch'io le vorrei dir : Sudicia Ancroia,
Com’ hai tu cuor questi fagiuoli egregi
Di deformar, che non li danno noia?
Perchè fai lor questi si brutti sfregi?
Ma pur conipatischiauiola, chè solo
Fa ciò, perdi’ è incapace de' lor pregi.
Quanto c’ è mai, che piaccia In questo
suolo,
Chè si suol dir (non sa questa meschina)
Affé tal cosa ella ini va a fagiuolo.
Ma giaccli' entrali siamole in cucini.
Guardiani dove costei gli voglia porre.
Poiché ne fa colai carnificina. [re:
Un vaso, ch’empie d‘ acqua, ella va a tor-
Qui ve gli affoga, c avanti al fuoco posa.
Gli copre, c ingrata di mirargli abborre.
Parte, c va a far qualch’ altra bella cosa ;
Or noi (giacché costei via di 11 sfrattai
Accostiamoci a quell’ urna famosa.
Affacciamoci a quell’ alma pignatta,
" Pentola per dir meglio, e 11 bollire
Osserviamo 1 fagiuoli a spada tratta.
Dite, non vi par egli di sentire
Una disputa vera di dottori,
Quando non sanno quel che voglion dire?
Mirale il lor passeggio : o che stupori!
Quella pentola par Mercato Nuovo,
Andando in su e in giù , come i signori.
Ricrescimento tale in loro io provo.
Che se talor di scodellargli ho ardire.
Sempre la quantità doppia ritrovo.
E qui bisogna sempre più stupire.
Ed in tal caso far quest* argomento.
Che questi non isceman per bollire.
Si potrebber tacciar, che fanno il vento.
Da chi non sa però, che lo sventare.
Per viver, si può dir quinto elemento.
Infin dal nome lor potè cavare
Un dotto Romaguuolo un tempo fa
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CAPITOLO.
Tre delle note, di’ usm per cantare.
Poiché nel favellar, com’ usa là.
Mentre fasol fasol egli dice*.
Un di gli venne detto fa so là.
P Dunque prima la nota musica dovea
Far all* orecchio nostro un sentir brutto.
Se ancor mozze le note non avea.
Ah ch’a'fagiuol dovrebbesi per tutto
Tessere elogj, alzar guglie fastose;
Giacché nel inondo son di tal costrutto.
La vostra Pisa tra le sue gran cose
Pur dedicò a’fagiuoli una contrada,
E il lor nome bellissimo le pose.
Equel grand’ noni si bravo nella spada,
Signor di Lucca e dcH’istessa Pisa,
Che all' immortalità s' apri la strada;
Non l’origin da Orlando o da Mnrfisa,
Ma da’ fagiuoli el volle trarre : e solo
Questi furou la sua nobil divisa.
TtW
Pensi degli uomin grandi esser nel ruolo.
Si gonfi cometin consigi ier di Stato,
Quando talun si sente dir fagiuolo.
Di questo io debbo ringraziare il Fato :
Tre piante di fagitio! nell’arme io porto,
E il puro nome loro è il mio cacato.
Cosi figlio legittimo son scorto
Della mia bella patria : c cosi credo
Di farmi eterno dall'Occaso all’Orlo, [do.
Ma dove,oimè, trascorro? e non m’awe-
Chc non si dee da sé 1' uomo lodare?
Com’crrorsi notabile non vedo?
Dall' altra banda , coni’ avev’ a fare.
Acciò voi concepiste nel pensiero
Qualcosa 'quii faginol di singolare?
Per tanto d’ ottener la grazia spero.
Clic voi 1' offerta fatta non sdegniate :
E di questo vi supplico davvero ;
Che il resto le son tutte fagiuolate.
IPPOLITO POZZI.
▲d una puerpera.
M'è stalo detto e scritto ed ho saputo,
Che un orribile caso ed inaudito,
Senza saper perchè, v’è intervenuto ;
Idest, di' un figlio avete partorito.
Diconml ancor, che vi sia dispiaciuto
L* esser stala ridotta a sto partito;
Però adirata avete risoluto
Di voler far divorzio dal marito.
Signora, avete il torlo, c vi consiglio
A non far sto sproposito bestiale :
Qual colpa egli ha, se avete fatto un figlio?
Il parto gli è un mestiere triviale,
Come saria il starnuto, e lo sbadiglio,
or avere un aliate il pastorale.
Parliam più naturale :
11 partorire è appunto un pan speziale.
Che pizzica un tanti», ma non fa male:
Anzi clic dà piacere,
E se volete io vcl farò vedere ;
Ditemi in grazia , s’uom un peso porta.
Piange, smania in deporlo, osi con-
E se qualcuno stretta [forta?
Avesse una mutanda, una calzetta,
E alcun per carità gl iel' aliai gasse ,
Saria ben matto, se si lamentasse.
Però a concbiuder giusto
Il parto l' è una cosa che dà gusto ;
Se 1 moralisti ci hanno assicurato
Sia colpa invidiare l' altrui stato,
Adesso fo un peccato ,
Chè a dirla schietta prima di morire
Bramo almeno una volta partorire.
Oh quante cose allor s’ udrebbon dire.
Da tutte le persone !
Si griderebbe per ogni ranlone :
Vera , nova , distinta relazione
D’un caso stravagante ed inudito,
Chè il Pozzi questa notte ha partorito !
Alle corti d' Europa audrian stalTcltc
A dir come la fu , l' andò, la stette.
Sarei sulle gazzette,
E di me parlerebbe ogni giornale
Al pari d’ un’aurora boreale ;
La cosa è tale c quale;
Non solo ogn’ ignorante, ed ogni saggio
Verso Bologna farebbon viaggio.
Fin le donne fariaii pellegrinaggio;
E tal s’afTolleria
Turba di forestieri a casa mia,
Clic d'uopo mi saria
Alla porta tener venti Tedeschi ,
Come in palazzo s’usa pe’ rinfreschi;
Vorrebbero veder la creatura
Se fosse di misura ,
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70i GIOCOSI.
Se «tesse vaglia, o no, o altro difetto;
E come stesse II partoriente In letto ,
Ceppita I vi prometto,
Che io mi starei come an bambin di Lucca
Con quattro cuscinon sotto la zucca,
Co’ guanti , col corsiè , con la parrucca
Ricevendo le visite donnesche.
Vorrer quattro fantesche,
Che mi desser la pappa e l’ uova fresche,
E in oltre una mammana;
Non però mica una vecchia befana ,
Ma una buona cristiana,
Che tutta avesse a usar la diligenza
Per far venirmi il latte a sufficienza ;
Chè a dirlo in confidenza
La creatura bramerei lattare ,
0 atmen almen mi ci vorrei provare.
Ma via lasciamo andare.
Chi se Natura non ebbe giudizio
Di voler far a me sto benefizio,
La tengo in quel servizio;
Un di costei la si potrà pentire
Di non avermi fatto partorire;
Ma tempo è di finire
Questa leggenda , e di venire al quia
Per cui ho scritto sta buffoneria.
Dico a vossignoria
Clic a cor largo, e a man giunte si mi al-
che di ogni membro integro, [legro.
Abbiate partorito un maschio e bello,
E sopra tutto ch’abbia buon cervello;
Acciocché grandicello
Dir possa ad ogni tratto
Un Pater alla mamma, che 1' ba fatio ;
VI ringrazio dell’ atto
Di cortesia , con cui scelto m’ avete
A dire l'ahrenuntio inslem col prete.
Se domani a San Pietro il manderete
Verso l’ ora di nona ,
Il farem battezzar cosi alla buona ;
Trovate intanto voi qualche persona.
Che sappia il Cicl pregare.
Acciocché il figliuolino al suo compare
Si possa in l’ innocenza assomigliare.
VI prego a salutare
Lo sposo vostro, ed a volermi bene.
Non già di quell’ amor, che va, che > iene.
Ma di quello che chiama la morale
Amor spirituale ;
E perché so che vostra carne è frale,
A porvi in salvo d’ognì tentazione
Vi do la santa mia benedizione.
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FAVOLEGGIATORI
VERDIZZOTTI.
Della Volpe e lo Spino.
La Volpe un' alta siepe area salito.
Che intorno circondava un bel giardino,
E venendole a caso il pii fallito
Diede cadendo in un pungente Spino :
E sentitosi il piè punto e ferito
Di lui si dolse, e del suo rio destino.
Dicendo che ferita era da lui,
A cui ricorse nei bisogni sui.
Ma rispose lo Spiti, che non doveva
Ella cercar dì aver da lui soccorso,
Che dar per uso naturai soleva
A chi s’ appressa a lui sempre di morso.
Clic ricorrer altrove essa poteva,
E per altro senticr prender il corso :
E non salvarsi da importante affanno
In man di chi non sa se non far danno.
Stolto è chi d'uotn malvagio aiuto as-
petta.
bell’ Asini» c del Vitello.
Pasceano insieme l’Asino e ’l Vitello
L' erba novella in un medesmo prato
Tutto di varj fiori ornato e bello :
E sentilo loutan più d’ un soldato
Avvicinarsi con feroce suono
Disscil Vitello'.Orvcdi un campo armalo;
E perù panni, clic sarebbe buono
Torci di questo loco periglioso,
Ni il fulmine aspettar udito il tuono.
Onde gli fu dall’Asino risposo :
Togliti pur di qua tu, che in periglio
Ti trovi : eli' io di ciò non son pensoso.
Chi se i soldati a te danno di piglio.
Al primo tratto nello spiede andrai.
Ma non faran di me simil consiglio.
Che s' io mulo padron,non da giammai
di’ io muti sorte ; e son presso ad ognuno
Per provar sempre cgual affanno e guai.
Del Contadino e del Cavaliere.
Portava il Contadino alla cittadc
Un lepre morto, ch'avca preso dianzi.
Per farne, in sul mercato alcun guadagno
Ma trovatolo a sorte uno a cavallo.
Clic gli venia dalla cittadc incontra.
Di volerlo comprar sembianza fece :
E prendendolo in mano, e ponderandolo
Per farne stima, lo cilindra del prezzo,
Quando l'astuto in un medesmo punto
Toccò di sprone il suo deslricr veloce,
E a sciolta briglia in fuga il corso prese.
Or visto il Contadin, clic invano avrebbe
Fatto ogni prova per voler seguirlo ;
DI ricovrarlo non avea più speme;
A dirgli incominciò cosi gridando :
lo te ne faccio un dono in cortesia,
Tu dunque in cortesia portalel lieto,
E gode rami el per mio amore in pace. [dere.
Voientlerdoua quel, che nou puoi ven-
1.’ Albero deila Scienza o zia i Sistemi
filosofici.
Felice chi poteo della Natura
I più nascosi arcani indovinare,
E diradar la dotta nebbia oscura.
Esclami tu : ma chi lo potè fare ?
Adam, clic il frutto della scienza scosse.
Che imparò? Ch'era nudo, c vergognosse ;
Onde in foglie s’avvolse. L’orgoglioso
Filosofo cosi sillogizzando,
Giunge a Imparar lo stesso : e vergognoso
Va certi romanzetti immaginando.
Clic si cliiaman sistemi ; e son le fronde
Con cui la propria nudili nasconde.
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FAVOLEGGI ATORI.
Il Cavallo e il Due.
Commitlunt tndtrt direno crimine fato.
I te imam sette' il /■'<• num tulli, hit diadema.
iurta.
Destricr non ancor domo in mezzo al-
Stavasi, e risonar Tacca la valle [l'erba
De’ feroci nitriti, e la superba
Cervice e il crin scotca sopra le spalle.
E già l’ardito domalor s’appresta
A porgli il fren, da lunge già l’assalta,
Gli tira il laccio, c l’orgogliosa testa
Stretta fra’ nodi sulla groppa salta.
Ma l’ indomita bestia il crine arruffa,
Freme, s’ infuria, e or su due piedi s’alza
Or china il capo, e spuma, e salta, e .sbuffa,
E alfine il cav alierò in terra sbalza.
Sull’indocile bestia allor sdegnali
C.orron gli ardili domatori in frotta;
Ma li urta, pesta, e lascia quei sciancati,
Altri col braccio e colia lesta rotta.
Più cauti fatti alfine il furioso
Impaziente animai lasciano in pace,
Che fattosi più altiero e baldanzoso
No’ paschi erra tranquillo ove gli piace :
E come vuol la sua felice sorte,
È destinato i giorni a trar contento
In ozio, e fallo ignobile consorte
È delle madri del guerriero armento.
Un agevole bue al giogo usato
Del contrasto era stato spettatore,
E biasimato a\ea dell’ ostinato
E caparbio destrier l’altiero umore.
Ma poi l’esito visto, e vcdul’anco
Clic dell’ ostinazione era mercede
Viver da ogni fatica immune e franco,
E volgere ove più placcagli il piede :
Che giova, disse, Tesser paziente,
Se Tuoni si mal dispensa e prem j e pene?
Se opprime col lavor chi gli ò obbediente,
E cld l' offende tratta cosi bette? [torna
11 giorno appresso allor che al giogo
Per legarlo il bifolco, cl picti di rabbia
Vibra contro di lui I* acute corna.
Ardono gli occhi, c spumano In labbia;
E salta e freme, e sdegna ogni fatica.
Stupito Tarator più volte prova
Di ricondurlo alla quiete antica;
E più Indocile e fiero ognor lo trova.
Persa ogni speme, prende altro partito.
Lo scioglie, c il lascia errare a suo talento:
Ozioso ingrassa il Due dentro al fiorito
Campo, c crede ottenuto aver T intento.
Ma un dì giunse il beccalo, ed al macello
Fra stretti nodi a forza lo tirò;
Cadde il pesante maglio sul cervello,
Ed il misero a terra stramazzò.
fiati gli stessè deli iti un vario fato :
Quegli diventa re, questi ò impiccato.
La Chicchera e la Pentola.
Una dorala Chicchera
Di porcellana fina
Spezzala in più minuzzoli
Tornò mesta in cucina.
Pria clic i rottami inutili
Fosser gettali via :
Che t’avvenne, una Pentola
Disse, sorella mia?
La Chicchera sarebbesè
Sdegnala un'altra volta
A tal nome, cd ora umile.
Per pietà, disse, ascolta :
Tu sai con che mirabile.
Con che sotti! lavoro
Cinese man, di porpora
M’avca fregiala c d’oro :
Sopra bacile argenteo
D'argento circondala.
Da labbra c mani nobili
Ognora palpeggiala;
La mia fragile origine
Alfin dimenticai,
E in un vaso, che cedere
Non volle il lungo, urtai.
Era il vaso metallico;
Ed alla prima botta
In pezzi minutissimi
Caddi schiacciata c rotta.
Forse sull* argomento
Di questa Tavoletta
Necessario ò il commento?
L’Uomo, il Callo, il Cane e la Mosca.
Kos numerili stimai, et fruges consumerà nati,
IIOUT
Allorquando vìvevan gli animali
Tulli nella selvatica dimora.
Nò alcun di loro ancora
Punto addomesticato
S’era all'uomo, e alle case avvicinato,
E tlal bisogno e dalla fame oppressi
Una vita traean trista ed incerta;
Clic se talora dal fecondo seno
FAVOLE. TOfc
Benefico il terreno
Largamente \ersava i doni suoi.
Sopraggi ungea dipoi
Il nudo inverno; e tolta allora ai campi
La spoglia verdeggiante e i dolci frutti ,
Battevan gli animali i denti asciutti.
Or vedendo i vantaggi
Della vita sociale.
Qualche savio animale
Accostandosi all' Uomo gli richiese
D* esser da lui pasciuto,
E 1 suoi servigi o (Tersegli in tributo.
Ebben, rispose l’ Ionio, ognuuo esponga
Con quale abilità
Possa servir I* umana società.
Fccesi avanti il Gatto
Magro, sparuto, e tutte fuor mostrando
Le scarne ossa appuntate c inaridite,
Che di grinzosa pelle eran vestite.
Questi denti e quest’ ugna.
Disse, vi serviranno: io nella cella,
Ove i cibi |riù dolci son riposti.
Attenta sentinella
Ognora andrò vegliando; il cacio, il lardo
Io difender saprò : sotto i’ amica
Protezion di quest’ armi ,
La sala, la dispensa, la cantina
E della casa ogni angolo più scuro
Sarà da* topi libero c sicuro.
Bene, replicò PUomo, io so» con Lento,
Siate fedele , attento,
E pasciuto sarete.
E voi, voltosi al Cane,
Ditemi un po’, che cosa far sapete?
La fede mia, soggiunse il Cane allora,
Nota è abbastanza a tulle le persone :
Difenderò il padrone
Dai nemici e dai ladri ; io sulla soglia
Veglierò notte e giorno,
Nè alla tua casa intorno
Si vedrà mai la volpe; entro de* boschi
Or la lepre, or la starna, or la pernice
Trovar saprò; clic più? la greggia ancora
Da’ notturni perigli
Assicurar mi vanto, c alla mia fede
Ogni animai lanoso
Dovrà la sicurezza e 11 suo riposo.
Si riceva anche il Cane , egli Io inerta,
Esclamò l’Uomo. Indi alla Mosca volto,
Che con sprezzante volto,
Poco curando I* Uomo e gli animali ,
In aria baldanzosa
Slava sedendo In una mela-rosa;
E voi qual buon udito
Far sapete degli uomini in servizio?
lo lavorar? (rispose il vano insetto
Con disdegnoso aspetto)
lo lavorar ? sappiate
Clic tutta la mia schiatta ,
Tutta la nostra gente.
Da tempo immemorabile
Non fecero mai niente :
Onde come vedete
10 sono un gentiluom ; mi conoscete?
Vi par dunque eli* io debba
Avvilire il mio sangue generoso
Perfino a diventar industrioso?
Da’ felici avi mici mi fu trasmesso
( E conservar lo voglio
Con un nobile orgoglio)
11 privilegio illustre
Di vivere ozioso, c dalla culla
Fino alla tomba placido e tranquillo
Non fo, non feci , e non farò mai nulla.
L’Uomo sdegnato allor, rotando sopra
Dell’insetto arrogante
Il Uno biancheggiante
Dall'odoroso pomo il discacciò,
E con lai delti poi l’accompagnò :
Lungi di qua, superba creatura;
Non sai , che la Natura
Niuu pose in scena in sul teatro umano
Per esser della terra un peso vano?
Avresti tu su quella rubiconda
Scorza succiato il nettare soave, .
Se con fatica grave,
Se con lungo sullo re
L’esocrto agricoltore
Non avesse quell’albore piantalo,
E quel suol coltivato?
E che saria nel mondo
Del social, meraviglioso nodo,
Se mai tutti pensassero a tuo modo?
Vanne : non è lontano il tuo destino,
Io li vedrò frappoco
Da ogni mensa scacciata e da ogni tetto,
Entro il fango morir sozzo ed abbietto.
Cosa vuol dir la favoletta mia?
Forse con stil maligno c ingiurioso
Vuole indicar, clic sia
Gentiluomo sinonimo d’ozioso?
No; la favola mia sol parla a quei
0 nobili o plebei.
Che credono distinguersi nel mondo
Col viver della terra inutil pondo.
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706 FAVOLEGGIATORI.
NOVELLA.
i II Vecchio e l'Àsino.
Or ebe l'autunno al verno cede il loco.
In queste lunghe sere, o donne care.
Mentre lieti sediamo Intorno al foco,
Vorreste voi che, almen per ingannare
L'ore tediose e la stagion rubclla.
Prendessi a raccontarvi una novella ?
Cento però flnorve n'ho narrate
Sul tema troppo ornai battuto e trito,
E voi lo stesso tema ognor bramate :
Cioè, come a un amante, o ad un marito
Si facclan quelle burle dolci c liete.
Di cui maestre cosi dotte siete.
E, da qualche amoroso scandoielto
Se condito non è, donne non panni,
Che alcun racconto mai vi dia diletto :
Nondimeno stasera vo’ provarmi,
Se fuor di questo tema mi vien fatto
Di divertirvi : udite, eccomi al fatto, [co.
Visse un buon Vecchiarei canuto c bian-
che degli anni agli ottanta ornai giungea;
Curvo le spalle e indebolito il fianco,
Che poco udiva c meno ci vedea.
E provvisto di molti altri malanni.
Che di vecchiezza portan gli ultlm'annl.
Era II mio Vecchio un ricco contadino,
Ed il più denaroso della villa.
Semplice c buono al par di un fanciuillno,
Clic vita spensierata e ognor tranquilla
Avea vissuto fin allora, e appunto
Per questo a età si grave egli era giunto.
Era devoto, e alla sua casa Intorno
Di frati e negri c bigi c bruni c bianchi
Un nuvolo aggiratasi ogni giorno.
Che col sacco alla man, la fiasca a' fianchi
Versavano ne' campi a larga mano
Benedizioni, ed insaccava!] grano.
Il Vecchio un giorno ad unvicin castello
Carico d'olio un asino traca,
E qual parte del prezzo, che da quello
Ritrarrla, la comare aver dotea,
Qual san Francesco in cor volgendo già,
Ingannando la noia della via.
Lentamente cammina, c mi n veloce
L'asln lo segue, cui più d'una fiata
Stimola e aiTretta colla rozza voce:
Alla tremula destra avviticchiata
Ha la cavezza, c curvo e a passo lento
La pigra bestia si trae dietro a stento.
Il Vecchiardlo intento al suo viaggio
Venne ad entrare in solitario bosco,
Dì cui nel sen più cupo e più selvaggio
Fra gl'intricati rami e l’aer fosco,
Stavano ascosi ed Imboscati al fresco
Tre de’ frati minor di San Francesco.
Tenean le braccia Incrociate al petto.
Col capo chino e col cappuccio In testa;
Parcan contriti nell'umile aspetto,
E nella faccia placida e modesta
Era dipinta tanta devozione
Quanta ne avesse Paolo od Barione
Voi gii vi crederete, o donne belle.
Che questi buoni frati a meditare
Stessero quivi al cielo ed alle stelle;
Degg’io l'arcano alfine a voi «velarci
Eran tre ladri, e j>* erano nascosi
Sotto gli abiti santi e religiosi;
E slavati quell e appiattati al varco
Intenti a dispogliare e questo e quello ;
Ecco che giunge lì coll’ asin carco *
L' affaticato e stanco Vccchiarclto,
Cile ciascun altro av ria mosso a pielite
Fuori che un ladro vestilo da frate.
Ma pur l'inferma età tanto li mosse.
Sicché, piegando un po’ la mente dura,
Voller che il Vecchio almen rubato fosse
Garbatamene c senza aver paura ;
Ed un dilor, ch'era faceto un poco,
Volle rubarlo, e invimi prenderne gioco.
S'innalza, e al Vecchio s'incammina drc-
Che gii senza v ederli era passato ; [lo,
E ne vengon pian pian con passo cheto.
De’ piedi In punta, e trattenendo il fiato
Gli altri, e lo ponno far sicuramente,
Chè il Vecchio poco vede, e nulla sente.
E 1 ladri a favorir fremer s’udia
Nel bosco il vento con si cupo suono,
Che udito altro rumor non si saria
Ancora da un orecchio acuto e buono.
Il ladro s’avvicina: e già pian piano
Stende suU'asiuel la cheta mano.
E con quel garbo e quella gentilezza,
Clic sciorrebbc un zerbin nastro galante
Dal braccio d'una bella, ei la cavezza
All’asino discioglie in un istante;
Rimane indietro l'asino slegato,
E II ladro invece sua staivi attaccato.
Il cappuccio si cava; il capo caccia
Nella cavezza, e a lei forte s’attiene,
Ed imita dell’ asino la traccia
Coll’andar lento lento, e cosi bene
Collo zoccolo duro il terren Aedo,
Che il rumor sembra del ferrato piede.
Poich'ebbe seguitato per buon tratto
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NOVELLA. 707
11 Vecchiaie! che indietro non si \olse,
E col compagni dileguato affatto
L’ asili gii s’era, più seguir non volse;
Ma si fermò nel mezzo delia via,
Come suol far talor bestia restia.
Lo stimola il villan senza voltarsi ,
E con quei dolci nomi l'accarezza.
Con cui talor suoi l' asino chiamarsi.
Invan l' alleila e tira la cavezza :
Si volta alfine, e trasformato vede
L* asino in frate, e appena agli occhi crede.
Come U sulle rive di Pento
Restò confuso e sbigottito in faccia
Febo che Dafne d' abbracciar crcdeo,
E ritrovossi un tronco tra le braccia ;
Tale il vecchio vedendo, oh caso strano !
L’ asin mutato in frate francescano.
Chi sei, gli disse, e dove è l'asin mio?
E il ladro tutto pieno di boutade:
Caro fratei, l' asino tuo soli io.
Perdona alla mortai fragilltade ;
Odimi, citò a narrarti ora, o buon vecchio,
Le mie strane avventure m'apparecchio.
lln frate io son, come tu vedi, amico.
Che solitario c pio nella mia cella
Vissi con opre sante c cor pudico;
Ma un di per aver rotta una scodella.
Ch’era nuova, il guardian tutto adirato
Mi maledisse, e in asin fui cangiato.
E condannato a vìver sotto al basto
Fui per cinque anni ; oh quante volte pesto
Fu dal bastone, c maculato c guasto
Il tergo mio! che più? tu intendi il resto,
I morsi, i calci, i guidaleschi, i duoli :
• Ah se non piangi, di che pianger suoli?»
Ma finalmente il termine è compito,
Che alla mia pena avea prefisso il Cielo,
Compito è in questo punto, c rivestito
Ho, coinè veder puoi, l’antico pelo ;
L’ ingiurie, porche son d’indole buona.
Mi scordo, amico, lo li perdon, perdona.
Benché credesse, da stupore oppresso,
A prodigio sì strano il Villanello,
Pur mal soffila dovere a un tempo stesso
E perder l’olio ojrorder l’asinelio;
Disse : Di te sia pur quel clic vuol Dio,
Mala soma dov’e dell’olio mio?
L’olio, rispose, da Invisibil mano
Portato fu miracolosamente
In custodia del padre sagrestano,
E per un anno almen chiara e lucente
Fari per te la lampana bruciare
Di san Francesco innanzi dell’altare.
E ti sarà dal Cici centuplicato,
E ad ogni goccia ch'arda ogni momento,
Un peccalo sarattl scancellato ;
Addio, buon Vecchio, la campana io sento
Che chiama al refettorio; è tempo ch'io
Dal fieno torni alla mia broda, addio.
Ciò detto, dileguossi, c lasciò ratto
Il Vecchio mezzo tristo e mezzo lieto :
Se è tristo per ia perdila che ha fatte,
S' allegra , che del Cici l’ alto decreto
Abbia prescelto almen la sua persona,
A fare un’ opra si devota e buona.
E ritornato a casa in mente aggira
Per molti giorni si strano accidente,
E compassiona 1 frati, e pensa c ammira,
Quanto puniti sten severamente;
E la vita serafica gli è avviso,
Che sìa la vera vìa del paradiso.
Avvenne poi, che da quei ladri un giorno
Al mercato fu l’asino condotto; [no
Vi venne a caso il Vecchio, e appena inlor-
Lo sguardo a lui rivolse, che di botto
Riconobbe del suo... non so s' io dica,
Asino o frate la sembianza antica.
E poiché l’ebbe ben riconosciuto,
E riguardato in questa parte c in quella,
Affé, disse, il buon frate é ricaduto
Nel fallo antico, e ha rotto la scodella,
Etl il guardiano senza discrezione
Posto lia in opra l’ usata punizione.
Poi se gli fece appresso, e nell'orecchio
Gli susurrò pian pian, se gli era desso,
E l'asin quasi rispondendo al Vecchio,
Un raglio cosi debile ebbe messo,
Che il buon Vecchio credette in verità,
Clie piangendo chiedesse a lui pietà:
E tal compasslon senti nei petto,
Che era devoto, c aneli’ esso mezzo frate
Come terziario al loro Ordine addetto.
Clic, per scamparlo dalle bastonate.
Ad ogni costo disegnò comprarlo,
Tenerlo appresso, esempre ben trattarlo;
Finch' egli avesse poi di penitenza
Passato il tempo, ed il perdono avuto :
Scn venne tosto al venditore, e senza
Molto mercanteggiar, gli fu venduto;
A casa il tragge, e per non fargli male,
Non lo stimola mal , nè su vi sale.
La stalla poi gli fa pulita e bella,
L’intonaca, l'imbianca e la dipinge;
Come stalla non gli, ma come cella
Ei la riguarda, e tanto innanzi spinge
Le cure sue, eh’ ei vuol che in compagnia
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708 FAVOLEGGI. MORI.
D’altri animali l’ asino non stia.
La biatla e l’ erba fresca e saporita
Gli dà di propria man copiosamente ,
Sta sempre in posa , onde a si dolce vita
L* asino ingrassa , c il pel si fa lucente ;
El con attenta man pii è sempre intorno,
E lo striglia, e lo pettina ogni giorno.
Gli amici , che ’l vedean tanto occupato
Dell’asino, e diluì quasi invaghito,
Cominciavano a crederlo impazzato ,
0 almen per la vecchiaia rimbambito :
Ei serio dice lor, che fra qualche anno
Un prodigio In quell* asino vedranno;
K in segreto a qualche anima devota
Dell’ Ordine serafico , il mistero
Disvelar voile, e far F istoria nota;
E tutto fu creduto di leggiero :
Chèi prodigi, 1 miracoli, i portenti
Credono di leggier le grosse genti.
Quando i cimine anni a spirar fu ronpres-
Quasi ogn’ istante a visitar venia [so
L’ospite suo, e vi venian con esso
1 più devoti a fargli compagnia;
E stavano aspettando in orazione
La grande e memora bil mutazione.
Così gli Ebrei fra i cantici discordi,
Per Tornale di faci e corti e loggie,
0 per U chiassi puzzolenti c lordi ,-
Di manna aspettan le bramate pioggie;
E cosi l’ora e il giorno memorando, [do.
Cile apparisca il Messia, stanno aspettan-
Tutto il tempo prefìsso alfìn trascorse,
E 1* asino tuttora asino essendo, fse;
Pria restò alquanto il semplice uomo in for-
Poi pensò meglio, e disse : Ora comprendo:
A un recidivo nello stesso fallo
Di sua pena è più lungo T intervallo.
Più anni indi passaro, e il Vecchio pio
All’ asili fu fedele infin cITel visse,
Che grasso grasso in pace alfìn tnorio :
Lo pianse il Vecchiarello, e adunque disse,,
Avca ’l crudel guardiano statuita
La pena sua , che fosse asino a vita?
Poi scorticollo , e T onorata pelle
In memoria serbarsi volle almeno,
('.he riamila, le sue forine belle
Riprese, c piena «l’odoroso fieno [brx,
Sta ritta, e mostra ancor le amiche mein-
Ed un asino vivo a tutti sembra.
E T istoria restò per tradizione
In quel paese, do\c ai venne il caso,
E non sol fra le semplici persone
£ il dubbio tuttavia quivi rimaso.
Ma fra le genti ancor bene educate.
Se quella è pelle d’ asino o di frate.
CLASIO.
A Fumo c la Nuvola.
Da un gran cammino un giorno il Fumo
E in densi globi accolto [liscia,
S’cra inno! irato mollo
Su per l’eterea via ;
Quando egli in certa Nuvola s’avvenne
Che a suo diporto già
De’ venti sulle penne.
Allor pien d’albagia
A gridar cominciò : Sulla mia strada,
Olà , si faccia largo ; allor clic passa
Un par inio, non si vuole ci dalla bassa
Gente tenere a bada.
La Nuvola, sentendo questo tuono
DI grandezza e d’ impero.
Disse : Chi sci tu dunque? ed egli altero
Rispose : Mei dimandi? il Fumo io sono,
lo del fuoco sou figlio ; c il fuoco , il sai ,
È fratello del Sol , per cui dai suolo
Tu sì sublime ascendi
Onde da questo solo
Quale io mi sia comprendi. •
Allor la Nuvoletta
Al superbo rispose : Oh ! certamente
Per esser voi d’origin sì perfetta
Avete aria ben cupa ; e , perdonate
Se un pochclto pungente
Vi parrà ’l mio sermone :
Voi per fermo sembrate
Figlio del fuoco no , ma del carbone.
Or ascoltale un poco
Queste mie brevi note ;
Signor figlio del foco ,
Del Sol signor nipote ,
Io ben farovvi onore
Quando simil sarete al genitore.
La favola consiglia
Che non si vanti de’ grand’ avi suol
Chi poi non gli somiglia.
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La Cazzerà e 1’ A Taro.
SESTE
L’oro ascoso a che giova? è inulti peso,
Che sempre aggrada e che talora offende :
E solo allor che saggiamente ò speso
Negli umani bisogni ulil si rende;
Su questo un caso ho raccontare udito
Tra un Avaro e una Cazzerà seguito.
Un uom riposto il suo tesoro avea
In un gran fesso d' un antico muro,
Chè quivi occulto renderlo credca
E dall’ altrui rapacità sicuro.
Per uon scemarlo egli sufi ria lo stento,
E sol di vagheggiarlo era contento.
Una Cazzerà un di vide costui ,
Che stava al fesso a far l’ innamorato,
E curiosa degli affari altrui,
Quand* ei si fu rivolto in altro lato ,
Va, corre al muro, e da persona accorta,
Visto il tesoro, in altro luogo il porta.
Non guari andò clic ritornò l' Avaro
Per vagheggiar le amabili monete,
RIME. 709
E vide (ahi reo spettacolo ed amaro!)
Vuoto il nido affidato alla parete.
Pensar si può com* el restò di fuore,
E qual gelida man gli strinse il cuore.
Pur del primo stupor rimesso un poco,
Tosto si pose ad aguzzar I* Ingegno,
Ed alfin s' avvisò che da quel loco
Tolto avesse la bestia il caro pegno.
Corse, cercò, t rosolio In un istante :
Chi Parnato tesor cela all’ amante 7
Onde si pose disdeguosantenle
A rampognar la Ga/zera rapace :
Dimmi, le disse, bestia imperli nenie,
1/ oro sci tu di consumar capace?
Forse mangiar lo vuoi? forse i denari
Remimi satollo un animai tuo pari?
Signor, per me l’ oro non è, lo vedo
(Disse la bestia tutta in penitenza);
Se colpevole io son, perdon vi chiedo :
Ma quanto all’ uso poi, la differenza
Stata già non saria grande tra noi;
Ne avrei fati’ io qud che ue fate voi.
BERTOLA.
Il Cardellino.
I Topini.
Un (lardellino grato a un nocchiero
Con lui f«* il giro del mondo intero.
Stette sull’ ancore I* europeo legno
Presso le piagge d’indico regno :
Quivi volavano lungo la sponda
Augci scherzando tra fronda e fronda,
E vestian piume leggiadre assai,
Piume, hi Europa non viste mai.
Il Cardellino riguarda e gode,
E aspetta il canto, ma ancor non 1' ode :
Più giorni passano ; tornano ancora
Gli auge! per gli alberi tacendo ognora.
11 forestiero si pone in lesta.
Che d’ oltremare moda sia questa;
La moda piacegli : riede ove nacque
E finché visse, sempre si tacque;
Ed alla madre clic lo rampogna :
Del tuo silenzio non hai vergogna?
Tal solca grave risposta dare;
È nova moda presa oltremare.
Quanti oggi trovatisi fra noi messeti.
Che il peggio tolsero dagli stranieri !
Nella lingua eh* Esopo
Primo intese fra noi.
Così parlava un Topo
A due de’ figli suoi ;
Del nemico al ritratto
Mente, o figli, ponete,
E a fuggirlo apprendete.
Un mostro orrendo 6 il Gatto;
Occhi che giltan foco;
Eternamente ingorda
Rot ea di sangue lorda.
Entro cui denti han loco
Che Ignorano quiete;
A* piè feroci artigli ;
Ecco il ritratto, o figli,
A fuggirlo apprendete:
Piange sì detto, c tace,
E li congeda in pace.
La coppia fanciullesca
Ci rca fortuna ed esca :
Un dì mentre all’ amore
Fia con un cariofierr,
A un tratto nella stanr-
FAVOLEGGI ATOMI.
Vispo Gatti» s’ avanza,
Buffoneggiando va,
Corre qua, corre la.
Salta, volteggia, e ogu’ atto
È un vezzo, è un giocolino :
Non 6 già questo un Gatto,
Van dicendo coloro
Intenti a’ fatti loro,
illa Tanialiil Micino
D' improvviso si slancia,
lino afferrò alla pancia
Colle zampe scherzose,
E l' altro in fuga pose;
Il qual per la paura
Si chiuse in buca oscura,
E prima che morisse :
Padre di fame io pero,
0 padre, tra s è disse.
Tu non dicesti il vero.
Mal prendi a colorire
Deforme il vizio ognora;
Mostra che sa vestire
Ridenti forme ancora.
le due Scimmie e il Lucciolone.
Benché fossero alle spalle
Dell' inverno i di ridenti,
Eran bianchi e poggio c valle
Di notturne brine algenti.
Or due Scimmie intirizzite
Per l’acuta aria nevosa,
A ricovero cran gite
Sovra pianta assai ramosa,
Ma si tremano clic sonno
Ritrovare ancor non potino.
Quando al foco, grida, al foco
La più giovane accennando
Una siepe, e si gridando
Spicca un salto, c corre al loco,
Dove vivida favilla
Fra i cespugli luccicante
Ha ferito la pupilla
Dell' afflitta vigilante.
L’ altra ancor discende, e all' opra
Denti e piedi; un buon fastello
Fan di salci, e il pongon sopra
All'ardente carbonccllo;
Nè vi manca un po' di paglia,
Perchè Damma tosto saglla.
Ecco entrambe a terra chine
Con tal forza soffiar dentro.
Che non fan nelle fucine
Forse i mantici più vento;
Muso intanto avean si fatto
Per la scarna guancia enfiata.
Clic da Eraclito avrian tratto
Senza stento una risata ;
Ma giù soffiasi da un' ora.
Nè s' accende il foco ancora.
Cangiali paglia, cangian salci,
Al fastello aggi ungon tralci;
Soffia amica, il legno è asciutto;
Ma si soffia senza fruito.
Quando alfine entra In sospetto
La mcn giovane più scaltra;
Meglio guarda, c con dispetto,
A che soffi? dice all' altra,
E un maluato Lucciolone,
Cli’ abbiam preso per carbone.
Tal plùd'un che soffia, e il petto
Vuol da Apollinc infiammato,
Per carbon prende un insetto,
Perde il tempo, c gitla il fiato.
Il Itosignuolo e il Gufo.
In erma piaggia solo
DI canti un Rosignuolo
Empieva l’acr bruno
Non udito da alcuno :
Se non clic I vanni foschi
Movea per quel contorno
Gufo, clic disse un giorno
Al musico de' boschi :
Perchè cantar cosi
L' intera notte c il di,
Quando per darti lode,
Nessun qui passa e t' ode?
Quello non gli rispose;
Ma dalle armoniose
Note che pur sciogliea.
Dolcemente parea
Questa sentenza espressa :
Virtù premio è a sè stessa.
Le Pietre.
Da’ Carraresi gioghi all' officina
D' un illustre scullor tratta una pietra.
Dall' altre pietre clic giacca» qui sparte.
Cosi fu interrogata : A che, sorella,
A che l'alpina patria hai tu lasciata?
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SETTENARI.
E quella : lo sou venuta a farmi bella,
A diventar rimmago
Di un Nume o di un eroe : negletto masso
lo mi stava sepolta in ermo loco;
E passerò tra poco.
Se chi tratta m’ ha fuor, dissemi il vero,
0 in sale aurata, o in ricco tempio altero.
Nobile ì II tuo desio : li si prepara
711
Allo destin, rlprcser l'altro allora:
Ma qui guardar non dei le statue sole,
Cb’ erano come noi pietre deformi :
Ah guarda qua sorella;
Taglienti ferri, e lì martelli enormi :
Di un Nume odi un eroe pria che rimmago
Possa tu divenire,
Quanti tagli e percosse hai da soffrirei
PASSERON1.
Il Fratello e la Sorella.
Perchè utile ti sia
Questa favola mia,
Cernii lettore, spesso
Esamina te stesso.
Come le donne fanno,
Quando allo specchio slanuo
Esamina, in' intendo,
L' animo ; e conoscendo
In te qualche difetto,
Venga da te corretto.
Un padre di famiglia
VI fu, eh’ ebbe una figlia
Cui fu Natura avara
Di ciò clic rende cara
All’ uomo una donzella,
E che beltà s'appella.
DI membra si leggiadre
Avea lo stesso padre
Un figlio clic parca
Quasi il frate! d' Enea :
Pareva al vago viso
Cupido, o 'I Dio d’ Ali friso.
Mentre ci qua c lì s’aggira,
Ed avido rimira
l-e taltcre che trova,
E di toccar gli giova
(Vizio di quell’ etate)
Le taltcre prefate,
Del bel fanciullo in mano
Cernie l’arnese strano,
Innanzi a cui pensose
Ce vergini e le spose
Perdon tante ore e tante
Per rendere il sembiante
Più seducente; io dico
I.o specchio, arnese antico.
Il bel garzone in esso
Suo vago viso impresso
Rimira, e sen compiace.
Questo alla suora spiace,
Quasi dica il fratello :
Mira com'io son bello.
Da lui tiensi schernita;
Al padre inviperita
Corre e ’l germano accusa,
Clic maschio essendo, egli usa
Gli arnesi che al suo sesso
Non è d’ usar concesso,
E che usar dee soltanto
La femmina ; c col pianto
L’accusa acerba e dura
D’avvalorar procura.
Allora il genitore,
Che di colei nel core
Legge quel ch’ella tace,
Con pari amor verace
GII abbraccia entrambi, e dice :
Figlia, non si disdice
Nè a te nè a lui lo speglio;
Anzi per vostro meglio
Voi dovete ugualmente
Farne uso assai sovente.
Figlio, chè vago sci,
Spesso spccchiar ti dei,
Per far che al gentil velo.
Che dono è in te del Cielo,
Intemerata e monda
L’ anima corrisponda ;
Nè macchia vile, Impura
Ingombri, o nebbia oscura
La sua beltà natia.
Specchiati, figlia mia,
E di Natura avara
Co’ bel costumi impara
E con parlare accorto
Ad emendare li torto.
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Ili
FAVOLEGGIATORI.
Virtute « gentilezza
Val più d’ ogni bellezza :
Se lu le accogli in seno,
Cara sarai non meno,
Clic se tu asessi io dote
Itegli occhi c belle gote,
E membra assai leggiadra >
Disse alla figlia il padre
DE ROSSI.
li Sorcio nella Nave.
Nato un Sorcio nel fondo d' una nave
Senza uscir mai da quella,
Era giunto ad età matura e grave :
Quando il furor del vento, e la procella
Spinger la nate ad tm estranio lido
Ore naviglio mai giunto non era :
I perigli fuggir del flutto infido
II Sorcio allora volle, e a terra scese :
Presto intorno gli fu tutta la schiera
De’ sorci del paese.
Senza dargli riposo
Ognuno curioso
Quella macchina errante.
Immensa, galleggiante
Gli dimanda che sia, che mai contenga,
Ore vada, onde venga?
Alla richiesta de’ compagni suoi
Pria si confuse, e poi
Cosi il Sorcio parlò :
Di rispondervi, amici, lo non m'impegno,
So clic nacqui in quel legno,
So che in quel legno rissi, altro non so.
Oh Dio quanti mortali
A questo Sorcio eguali
Vivon nel mondo, e giunti all' uUitn’ ora
Non hanno il mondo conosciuto ancora!
Le Api e il Ratnerino.
Perchè mai chiusi e ristretti
Tieni ancora i tuoi fioretti!
Deh! alfm gii apri per pietà!
Cosi piccolo mercede
Solo il premio all' amistà
Schiera amica a le richiede.
Cosi 1’ Api diccano al Ramcrino :
E questi, clic vedea
Spesso l’errante stuolo
Spiegar finstabil volo
A’ suoi rami vicino.
Ed amico II eretica;
Docile li dischiuse. A cento a cento
Si affollarono l’ Api in un momento;
Le polveri odorose, e i dolci umori
Tutti involando ai fiori,
Che in mille parti laceri e feriti
Presto caddero a terra inariditi.
Ailor la schiera ingorda.
Che vantava amistà, fugge lontano.
Ai rimproveri sorda
Del Ramcrin, che la rampogna invano.
Narrò questa novella.
Poi disse un prence ai cortigiani suoi:
Son lo la pianta, e l'api siete voi.
li Fico e lo Spino.
Quando Borea nimico
Venne colla stagion gelida c rea.
Perde le foglie, perdè i frutti il Fico,
E poiché non vedea
Sopra i suoi rami un solo
Di quei garruli augelli,
Cile d’estate nc’ di sereni e belli
Solcano a lui venire in folto stuolo,
Disse l'arida pianta abbandonata :
Come, o Fortuna ingrata.
Tutti gii amici mici
In un putito perdei!
Rispose un vecchio Spino
Che le sorgea vicino :
Non dir, che li perdesti;
Di' che mai non gli avesti.
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FAVOLE.
711
GASPARO GOZZI.
Del Fittine e dell» sue Fonie.
Un Fiume plen di fresche acque profonde
Che da riti diversi in seno accolse.
Mentre di qua e di lì corse, e s’ avvolse
Fra torte rive e d' alberi feconde ;
Se vedendo si pieno e ricco d’ onde.
Crebbe in superbia, e più curar non volse
La poverella Fonte, onde pria tolse
U primo umor fra picciolcttc sponde.
Dell'empio Fiume il crude! atto spiacque
Alla misera Fonte, e si le lncrebhe,
Che disse : Qui, qui la tua vita nacque :
Questa a qual io mi sia madre si debbe ;
Qui è 1’ umor delle mie picciol acque;
Ma sema questo il tuo nulla sarebbe.
Della Camberessa e sua Figlia.
Vede la Camberessa, clic sua figlia
Nel camminare mai mote le piante :
Ed in cambio d'andar col capo arante,
Va con la coda ; onde ella la ripiglia ;
Edice : Oh che vegg' lo ! che maraviglia
Cervellaccio balordo e stravagante,
Va ritta, innanzi : clic fai tu, furfante,
Tu vai rovescia? di’, chi ti consiglia?
Ma la figlia rispose a’ detti suoi :
Io sempre d’ imitarvi ebbi desio,
E non mi par che siam varie fra noi.
Da voi appresi ogni costume mio :
Andate ritta, se potete voi;
E cercherà di seguitarvi anch’io.
«
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INDICE
Prefazione
Pa& i
POEMI EROICI
BOCCACCIO.
MARINO,
Adone
Canto X. Arcila moribondo dice
Canto VII. 1 Fauni
HI
a Tosco il suo testamento
ivi
Canto X. Le Maraviglie
50
Canto XIII. La Prigione
12
FAZIO BEGLI CBERT1-
10
CH1ABRERA.
Libro 1. Fazio vede in visione la
Delle Guerre de’ Goti
71)
virtù, noi ali si oltre il romito
Paolo elio lo conforta con sa-
nienti consigli
ivi
Canto VII. Gctulio sa da un gnor-
riero le sorti della sua Idalia.
BRACCIOLI XI.
La Croce conquistata
iti
POLIZIANO.
Hi
Stanze per i.a «iostra del magnifico
Giuliano de’ Medici
18
Libro Ili. Casi d' Elisa e d’ Alreslc.
_iri
TRISS1NO.
ORAZIANI .
Il Cosocisto di Granata
«1
32
Colombo racconta la sua prima
navigazione
Canto XXV. Parlala dì Fernando
agli Spagnuoli c di Alimoro ai
Mori
Libro IX. Il capitano vede le om-
bre illustri de' poeti, soli e guer-
rieri
libro XXII. Morte di Corsa monte.
tri
43
ivi
or»
POEMI
SACRI.
TORQUATO TASSO.
pio e vedevi dipinte molle sto-
rie passate e future
-ili
n«
Canto XIII. Il Signore scende nei
Limbo
?18
ERASMO DI VALVASONE.
Asceleida
182
BENEDETTO DELI.’ L'VA.
Il Martirio di santa Catarina. . .
5ÌS
TAN5ILLO.
I. acrisie di san Pietro
211
MARINO.
La Strage Degl’Innocenti
Canto V. San Pietro entra nei Tcm-
Libro IV. Il Limbo
ir*
POEMI ROMANZESCHI.
LUIGI PULCI.
Marcante Maggiore
Canto XXV. Il diavolo AstaroUc c
Mia scienza teologie i
2M
Canto I. Gesta di Orlando
ili
Canto XXVII. Morte d Orlando.. .
203
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716
INDICE.
BERNI.
BERNARDO TASSO.
Orlando innamorato
268
Avadigi
?7 fi
Canto XII. Storia d'Iroldo e Ti-
Canto XII. Amadtgl ode i consigli
sbina
ir*
del re suo padre
ivi
Canto LXXYII. Il Beni! descrive
Canto C. Rassegna de’ letterati e
la sua natura e 1 suoi casi
275
gran personaggi del suo tempo. 280
POEMI EROICOMICI.
TASSONI.
FORTICUERRI.
Là Secchia rapita, . , , . .
281
Ricciardetto
282
Canto Vili. fili ambasci a tori ho-
Canto 111. Ferrati racconta la sua
lognesl odono i canti di Scar-
conversione
ivi
pinello
ivi
Canto XX. Sventura e morte di
Canto XI. Il conte dì Culagna
288
Ferrai!
296
POEMI GIOCOSI.
CAPORALI.
AUTORI VARJ.
Bertoldo. Bertoldino e Caca*
Parte I. Nascila e costumi suoi. .
SENNO
370
BRACCIOLI!».
Canto V. Bertoldo esce del sacco
l.o Scherno degli Dei
c ruba la veste della regina. . .
ivi
Canto II. Citcrea percote Cupido.
tri
PASSE RONI.
Canto XII. La Rattaglia de' Gl-
Cicerone
324
Bauli
Canto XV. L’Abitazione della
308
Canto XVII. La genealogia di Ci-
Morie
310
cerone
ir*
LIPPI.
LALLI.
Malmantile racqcistato
311
Eneide travestita
827
Cantare VII. Paride ascolta la
Libro I. Giunone eccita Eolo a
storia di Magorto
•tri
porre In tempesta lo navi d'Enea.
tiri
POEMI GEORGICI.
GIOVANNI RUCELLAI.
TANSILLO.
Il Podere
AIA
ALAMANNI.
BAWLFfAI.DI.
Il Canapaio
AfìO
Coltivazione
341
Libro V. Trasformazione di Ca-
Libro 1. Esortazioni all’ agrieoi-
nopia e del tiglio
lore. La vita dell’ agricoltore.
Lodi della Francia
uri
SPOLVERINI.
Libro III. Lodi di Bacco e del
La Coltivazione del Riso
362
vino
346
Libro 1. Pernicioso diboscamento
Libro V. Provvide cure dell’ Or-
dei monti
ivi
totano
317
Libro IV. La Trebbiatura
3fi5
POEMI I»n
)A9C ALICI.
BERNARDINO BALDI.
Libro III. Condizione dell’ agri-
la Nautica
367
coltore e del navigante
36A
Libro I. Costruzione delle navi. .
itri
Libro IV. Vari prodotti della na-
Libro 11. Segni di fortuna odi calma 368
tura.
370
n.niti. rd hy (inopie
VALVASONE.
La Caccia
Canto II. Della cura de* bracchi e
cavalli
Canto IV. Usi di varie Aere e mo-
di di cacciarle
miai
Etopedia
Libro I. Natura del vero bene. . .
INDICE.
Ili
374
Libro II. La Prevaricarsene. .
395
Libro 11!. Uescrivcsi l’Ignoranza.
Prudenza e Giustizia, figliuole
ivi
della Sapienza
3%
_a n
Libro IV. Gioventù e fortezza. .
39fi
Dell’ Arie poetica
100
394
LORENZO MASCHERONI.
Ìli
Invito a Lesbia C doma
415
SATIRE.
ERCOLE BENTIVOCLIO.
Parla contro 1 capitani de’ suol tempi. 421
VINCIGUERRA.
Flagella 1* invìdia, l’ avarizia , Tacili-
>1 ENZI NI.
La povertà de' Poeti 4.m
Contro i falsi ministri di Cristo. . . . 433
APIMARI.
lagone , cd altri Ttzt T72T
Contro l'Adulazione 4a«;
annikal caro.
Corona di Sonetti contro al Castel-
vetro 425
SALVATOR ROSA.
La Poesia ! . . . ajc
SOLDANI.
Contro I Peripatetici 427
ALFIERI.
L’Educazione.
SERMOM.
CHIABRERA.
A mona. Giovanni Ciani poli ; Lo con-
torta a difendersi dalle insilile ili
Roma
4 50
Al sig. Luciano Borsone : Mostra
come nissuiio sia contento dello
stato suo
Al sig. Itcrnardo Morando : Dire.
che 1 tristi costumi sono cagione
delle nostre miserie. . .
4M
Ai sig. Jacopo Caddi : Svergogna
con argute ironie la mollezza della
gente d’Italia
GASPARO GOZZI.
Al sig. N. N. : Ritratto in versi degli
innamorati moderni
4 59
Ai sig. Anton Federigo Seghezzi :
che la natura non batta a fare II
P°el»« ititi
All’abate Adamante Martinelli : De'
giudizj clic si danno intorno a* noe-
ta, mal’ arte a quella congiunta.TT. Atti
Al sig. Stello Mastraca : fili rende
conto del passeggiare la sera in
Pliun- 462
Al sig. Pietro Fabri : Paria del vii.
I<’g8iar<’ 463
Contra il gusto d’ oggidì in poesia. . . 4(1.1
Contro alla mollezza ilei vivere
odierno ute .
Ad un Amico : Abbozza l’Immagine
della vera poesia ~ 4fi7
All’abate don Pietro Fabrls : Con-
tro alla corruzione de’ costumi
Presenti io
POESIA PASTORALE.
' franco sacchetti.
» • Wri donno che colgono fiori in un
POLIZIANO.
Dialogo con pastorelle 472
.-Lo»*" 470
Come la pastorella passi ti tempo. . tri
ja'2Bw*iorino de’ bomnbegni.
uranio 470
La Brunetta 473
LORENZO de’ MEDICI.
Apollo pastore 474
718 INDICE.
SANNAZZARO.
1IENZINI.
l'Ani 492
Ergasto sopra la sepoltura d’ An-
drotteo iti
La Guardia delle Viti tri
Pressai di tempo piovoso. ... ivi
MOLZA.
I .a Ninfa tiberina 479
Il Platano iti
Al Sepolcro di valoroso mastino. . . 493
SPERONI ■
Canti di Dafni «5
Allegorie sopra il Dio Pane ir»
ZAPPI.
Sospira il giorno in che vedrà la sua
donna 498
BERN SUPINO BALDI.
1 a Madre di famiglia 480
Coleo o l’orto 48!)
BRUNE!. PESCHI .
Cerca di far pietosa la sua donna. 492
rOESIA PISCATOR
ONGARO.
Alrco 494
Il Bacio . iti
TORNASI.
Il Capro insolente 193
IA E RUSTIE ALE.
■ACCI.
Parla alle onde che accolsero la sua
ROTA.
donna 499
Sebeto • • ■ 495
FILIPPO LEERS.
Polifemo e Galatea 50<l
NICCOLÒ franco;
Scampato da naufragio, consacra un
voto a Nettuno 497
Fa dono di coralli c di gemine a
Galatea ivi
ALFONSO DAVALO.
CASAREGI.
Aci e Galatea 500
Polifemo briaco ivi
Invito dì Polifemo a Galatca tri
LUIGI PULCI.
La Deca 50 1
Improvv isa bonaccia 197
LORENZO DE’ MEDICI.
RE RN AB PO TASSO.
la Mencia da Barberino 503
Lodi ardite di un pescatore ad Ania-
rilli 497
Crocale c Galatca ivi
MARINO.
Offre a una Ninfa alcuni coralli 490
BALDOVINI.
lamento di Cecco di Vari ungo. . . 507
GASPARO GOZZI.
La Ghita c il Piovano 510
A Tritone c Proteo ivi
BRACCIOI.INI.
Narra alcuni amori di pesci ivi
Il llatino 513
SEMII
POLIZIANO.
Alla sua donna Ippolita Lconclna. . 510
IIEMRO.
Gli ambasciatori della Dea Venere
alla duchessa d’Crbino 517
MARTELLI.
Lode delle Donne 521
ARICI.
BERNARDO TASSO.
Al slg. Cesare di Ruggiero : Lodalo
per le opere » Irtuosc e per l’amore
di clic gode con Amarìlli 529
A Ligurino , elegia : Lo invita a di-
scendere da’ monti nelle beile
campagne ove con Icasto 'Vivrà *
una vita di moltiplicl piaceri 530
INDICE.
710
MENZINI.
Narra come ancor fanciullo crescesse
a poesia ■ e come ad onta di molti
la nobile impresa 631
VARANO.
Visione I. Perla Morte di mons. Bo-
naventura Barberini, pria generale
dell' ordine cappuccino e poi arci-
vescovo di Ferrara 632
Visione 11. Per la Morie di Anna
Enrichetta di Borbone, figlia del
cristianissimo re Luigi XV 537
Visione V. La Peste di Messina SAP
Visione VII. Il Terremoto di Li-
. .. . . 512
SALOMONE FIORENTINO.
In Morte della sua sposa
. MS
li Rimorso della coscienza. . .
. ivi
FRANCESCO COPPETTA.
La Morte di Dldone
. 516
ZAPPI.
Sopra la statua di Giulio Cesare.. .
, M<J
CASSI ANI.
Il Ratto di Proserpina
. 546
Psiche
FRUGONI.
Annibale sull’ Alpi
LIRICI SACRI.
LORENZO DE’ MEDICI
..547
ZAPPI.
Giuditta
_5i5
Per la Nascita di Cristo
MANFREDI.
La lista di Gesù in croce lo guida
POLIZIANO.
A Maria
a pentimento
655
DELLA CASA.
A Dio.
610
FRANCESCO COPPETTA.
La Creazione 549
BERNAR.PQ TASSO.
Prega Iddio ad infiammarlo d’amore
per lui AIO
Non basta a cantar Dio s’ Egli stesso
non l’ inspira. 550
BENEDETTO DELL’ UVA.
Dice alla-Musa di cantacele Sei Gior-
nate 550
Per Monacazione ivi
ZAMPIERI.
Il Santuario del monte Galgano. . . . 556
cotta,
L’Esistenza di Dio 556
AGOSTINO PARADISI.
Il Natale 558
QUIRICO ROSSI.
La Presentazione al Tempio 557
TORNIELLl.
La Concezione di Maria Vernine. ■ . . 557
CELIO MAGNO.
Deus,
^551
Sopra la Natività di Maria Vergine. 658
UINZONI.
C1IIABRERA.
La Morte del Redentore ... 560
L’Assunzione di Maria 553
GIANNI.
Per santa Lucia 651
La Morte di Giuda 560
PETRARCHESCHI.
GIUSTO DE’ CONTI.
Natura crea la più degna forma di
donna 56 1
LEONELLO ESTENSE.
Duolsi d’Amore e cliiedegli aiuto. , . 561
LORENZO DE’ MEDICI.
Dolcissime rimembranze 561
Sempre bella, sia ridente o sdegnata, tei
Vuol dolersi di lei; poi la canta di
bel nuovo ' 562
A una Violetta ivi
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110
Chiama sù Uomo il maggior nemico
di sua pace SCI
POI.IZIAKO.
Parla ad ogni testimonio del suo
amore S68
CARITEO.
l e dimanda solo uno sguardo
INDICE.
La None, cantone 567
5CI
BERNARDO ACCOLTI.
Amore lo accusa d'ingratitudine. . . 5C4
DELLA CASA.
Prega le Muse di dargli stile subli-
me quanto la sua donna SCI
La Gelosia.
Servitù (l'Amore &C.1
Visse e vivrà solo in lei n'i
Insegna ad un uccelletto a difendersi
Palla sua donna . . . . .. .. ... , . in
Ilerellello animacslrato da lei m
Duplsi-d’-csscr.e-ainmte_cam^ 1 1
FRA CASTORO,
Creazione della sua donna SOC
COSTANZO-
Le sne querele faranno fede del-
l' onesti di sua donna. 506
reme siagli fatto dono della vita. . . m
1 tormenti gli sarebbero dolci se po-
tesse sperarla vicina tt't
BERNARDO TASSO-
Alla sua donna, che va a marito. .
5C7
r RAS CESCO COPPETTA.
Amore gl'lnaegni » levarli di terra. 5G8
JACOPO MARMITTA.
Quanto possa il guardo della tua
donna Mg
8IMONETTI.
Domanda alle Muse soccorso per
cantar la sua donna Mi8
FIRENZUOLA.
Ai luoghi in che la vide per la prima
volta.
_5G9
SAI. VACO.
Al Silenzio ,
5G9
BICRELANGELO.
Ad Amore E70
TOBITANO.
Teme e spera.
570
CELIO MAGNO.
Ad Amore 571
REM .
I.a Scuola d’ Amore 5*3
Per Marte della, sua donna.. .... _ro
MANFREDI.
Alla sua donna fatta monaca. 571
Tardo sdegno, e pietà dopo morte. 674
PINDARICI
CHIABBEBA.
Per Giovanni de’ Medici 575
Per Francesco Gonzaga iti
Per vittoria delle galee toscane con-
tro iTurchL 57C
Par Giovanni de' Medie». ■ ■ ■ ■ ... 577
Per Latino Orsino 578
In Morte di Fabrizio Colonna. — . 57 9
Alla granduchessa di Toscana 580
Per vittoria delle galee toscane sopra
le turchesche 5»l
Per altre vittorie de* Toscani contro
I Turchi rii
Per l' Edificazione di Livorno. .... 581
Per l’ Esaltazione di Tritano Vili. . 583
TESTI.
583
Prega che Cinzia non neghi più a
lungo d’ aprirgli le porte 581
Sulla caduclU delle umane gran-
dezze . e sulla pace della » ita pri-
vata ù8ó
Contro gli eccessi del lusso 586
All’ lulia «I»
L'baldo parla a Binaldo fuggito dal
palazzo d' Armida 4*1
La Nobiltà c la Virtù 488
Quanto le umane opere sieno fugge-
voll 489
F1LICAIA.
Vienna assediata 489
Liberazione di Vienna 491
A Sobieschi, re di Polonia 492
Conira un Potente superbo
INDICE.
GUIDI.
GAI Arcadi di Roma
All' Armonia .
MAZZA.
. fino
La Fortuna
In Morte del baron d’ Aste , ucciso
5»;
F ANTONI.
Sullo sialo dell’ Europa del 1*87..
. 601
sulla breccia di Buda
Per l’Elezione d' Innocenzo XII
598
599
Il Vaticinio..
CERRETTI.
Alla Postel i ti
■ 602
MORALI.
FAZIO DEGLI UDERTI.
Duolsl di sua povertà 603
BERNARDO TARSO.
Sulla Felicità pastorale. 608
ANDREA DLL BASSO.
Va sospirando la patria lonlaua 609
Contro la sua donna morta COI
CINGOLI.
La Virtù e la Fortuna 603
TIBALDEO.
Una sposa moribonda Darla allo
CELIO MAG30.
Per l'Anniversario della Morte del
padre 611
Meditazioni sulla Morte vicina 612
MARINO.
sposo 605
La Bellezza è caduca 6H
LEONARDO DA VINCI.
La Vita umana . . : 615
Che cosa a' abbia a volere 605
FILICAIA.
COSTANZO
La Provvidenza 61 &
In Morte del figlio 605
MENZINI.
DELLA CASA.
L’Invidia 615
Pentesl degli amori profani e chiede
ZAPPI.
mercè a Dio 606
Teme che 11 suo pentir non sia lardo. 607
Sopra l’Invidia 616
Duolsl delle indegne some di che si
MANPREDI.
gravò ivi
Sopra la Nobiltà 616
A una Selva . — . . . . non
BERTOLA.
Volgesi a mirar le maraviglie del
La Malinconia 016
CIV
BENHO.
Sulle discordie degl’ Italiani 618
ILI.
COSTANZO.
La Cetra di Virgilio 623
CU1D1CCIOXI.
DELLA CASA.
Sull’Italia 618
Sopra la città dì Venezia 624
ANMBAL CARO.
Sulle discordie de’ Fiorentini iti
La rcal Casa di Francia 620
ALAMANNI.
A Carlo V 021
Parla in suo nome c desìi altri esuli
MOLZA.
fiorentini dono cachila la renub-
Pel cardinale Farnese. 621
COPPETTA.
A Guidobaldo, duca d’ Urbino. . . . 622
JACOPO MARMITTA.
Miserie d'Italia 623
blica 624
MICHELANGELO.
Sopra Dante 62 4
BERNARDO TASSO.
Nella Morte di Carlo V 624
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722 INDICE.
MAGGI.
Sull’ Italia 62!»
Per la Nascila del principe di Sa-
voia 027
Filimi.
G1IEDIM.
Miserie il' Italia 026
Roma antica c moderna 027
Viltà (l'Italia iti
1.AZZA1UNI.
GL'IDI.
Sulla tomba del Petrarca 027
Per don Luigi delta Cerda G26
PONDI.
ZAPPI.
Nell* Abolizione dei (ìesuiti. 628
li MosO di Michelangelo 026
MANFREDI.
Al nipote dì Demente XI 626
ALFIERI.
L 'America riderà. Accenna lo ca-
gioni della guerra 029
ANACREONTICI.
POLIZIANO.
Il Maggio
031
ALGAROTTI.
li vero Amore
037
GRADENIGO.
FIGARI.
r.»i
Loda il riso c il pianto di Nigella. .
UZTASTASIO.
La Libertà, a Nice
038
CHS ASPIRA.
Duolsi d* Amore
632
039
Agli occhi della sua donna
ivi
ROLLI.
Dice che 1 sorrisi deila sua bella
Cerca la sua donna.'
040
Maggio
ivi
FRUGONI.
Lodi del sorriso di sua donna
031
Navigazione di Amore.
040
DI LEMENE.
SAV10LI.
UU7
La Ceiosia
. 042
ZAPPI.
All’Amata inferma
. 043
Il Musco d’ Amore
036
de’ rossi.
DEL TEGLIA.
L’ Arco d’ Amore
043
La pallidezza d’ Amore
C3G
Amore dà udienza
. 044
DITIRAMBICI.
CH1ADRERA.
REDI.
Prega una Ninfa di mescergli del mi-
Bacco in Toscana
048
gliorc
In lui vecchio il vino può assai più
dell* Amore
Potenza di Bacco
046
046
iti
BARUFFALDI.
La Tabaccheide
GASPARO GOZZI.
GÓ7
Presa Vulcano di fargli ima gran
Per le nozze di Sebastiano Mocenigo
tazza
647
con Chiara Zeno
_C18
GIOCOSI.
BURCHIELLO.
MACCHI A VELLO.
Contro il pigliar moglie ....
... 082
Canto de’ Diavoli
.. 084
POLIZIANO,
CINI.
A ima donna
... 083
Le llugie
.. 084
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NDICE. 723
UER NI.
Descrive i costumi e la rasa d’un
Capltulo I. Racconta i suoi tormenti
d’ amore. etti
prete 685
BALD0V1NI.
ANN1RAI, TARO.
L’Amante ricettato 696
Sonetti mattaccini contro il Castel-
In Morte deila sua diva 697
vetro fiR7
Chiede danari per la monacazione
della figliuola ivi
MATTIO FHANZESI*
Fa Barbatamente domanda di erano. 698
t Capitolo in lode della Tossa 600
PIETRO ARETINO.
T.apitolo al re di Francia G9I
11 Tempo fugge c la Morte s’accosta, iti
Dice come egli sia troppo tenero
della vita, da amare la guerra. . . iti
In lode de’ Fagiuoli 699
FIDENTIO.
Poesia pedantesca 693
FAVOLEG
VERDIZZOTT!
IPPOLITO POZZI.
Ad una Puerpera 701
GIATOIU.
I Topini 709
Della Volpe e lo Spino 703
Le due Scimmie e il Lucciolone... 7 1 0
Del Contadino e del Cavallcro iti
Dell’ Asino e del Vitello iti
L'Albero della Scienza o sia i Si-
stemi filosofici tei
11 Cavallo e il Bue 704
Il ltosignuolo è il Culo tri
Le Pietre iti
PASSERONI.
Il Fratello e la Sorella 711
La Chicchera e la Pentola tei
L’Uomo, il Gatto, il Cane e la
Mosca tei
Il Sorcio nella Nave 712
Il Vecchio e l’Asino 706
CLASIO.
Il Fumo e la Nuvola 708
UERTOI.A.
Le Api e il Ramerino iti
Il Fico e lo Spino iti
GASPARO GOZZI.
Del Fiume e della sua Fonte 713
Il Cardellino 109
Della Gamberessa e sua Figlia iti
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INDICE
Pia ORDINE ALFABETICO
DEGLI AUTORI CONTENUTI IN QUESTO VOLUME.
Accolti (Bernardo) 561
Amore lo accusa d'ingratitudine, tri
Ammari 435
Contro l’adulazione ... tri
Alamanni 344
Coltiraiione ivi
Libro I. Esortazioni all’ agricol-
tore. La vita dell’ agricoltore.
Lodi della Francia ivi
Libro HI. Lodi di Bacco e del
vino 340
Libro V. Provvide cure delF or-
tolano 347
Parla In suo nome e degli altri
esuli fiorentini dopo caduta la
repubblica 624
Alfieri 455
L'Educazione ivi
l'America libera 629
ALCAROTTt 637
Il vero Amore ivi
Andrea del Basso G04
Contro la sua donna morta ivi
Abetino (Pietro) 691
Capitolo al re di Francia tri
Autori Vari 320
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno ivi
Canto V. Bertoldo esce del sacco
e ruba la veste della regina. . ivi
Baldi (Bernardino) 367
Lo Nautica ivi
Libro I. Costruzione delie navi . tei
Libro II. Segni di fontina o di
calma 368
Libro III. Condizione dell’ agri-
coltore e del natigante 369
Libro IV. Varj prodotti della
natura 370
La Madre di famiglia 486
Celeo o l’orto 489
Baldoyini 507
Lamento di Cecco di Varlungn. . . ivi
L’Amante rigettato 69G
In Morte della sua diva 697
Chiede danari par la monacazione
della figliuola ivi
Fa garbatamente domanda di
grano 698
Il tempo fugge e la morte s’ ac-
costa. 698
È troppo tenero della vita da
amare la guerra itti
In lode de’ fagiuoli 699
Babcffaldi 360
Il Canapaio tei
Libro V. Trasformazione di Ca-
nopla e del figlio rèi
La Tabaccheide 657
Bembo 617
Gli ambasciatori della Dea Venere
alla duchessa d Triduo ivi
Sulle discordie degl’ IlaiianL .... 618
Benmocuo (Ercole) 421
Parla contro I capitani de’ suoi
tempi ini
Berni 268
Orlando Innamorato ivi
Canto XII. Storia d’ Iroldo c
Tisbina iei
Canto LXXVII. il Berni descrive
la sua natura e I suoi casi. . . 275
Descrive i costumi e la casa d’un
prete 626
Dertola 616
La Malincouìa fri
Il Cardellino 709
I Topini ivi
Le due Scimmie c il Lucciolone. . 7 IO
II llosignuolo e il Gufo ivi
Le Pietre ivi
Boc.cacc.io I
Tescidc. Arata moribondo dice a
Teseo il suo testamento it i
Bondi 628
Nell’ Abolizione de’ Gesuiti ivi
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126
Braccioli*!
La Croce conquistala
Libro HI. Casi (l'Elisa e d'Al-
ceste
Lo Scherno degli Dei
Calilo II. Citerca percote Cupido.
Canio XII. La battaglia de' Gi-
ganti
Canio XV. L’ abitazione della
Morte 3l0
Il Datino 513
Brurelleschi 492
Cerca di far pietosa la sua donna . ir»
Burchiello 682
Contro al pigliar moglie ivi
Caporali 303
Vita di Mecenate ivi
Parte 1. Nascita e costumi suoi, iti
Cariteo 564
Le dimanda solo uno sguardo. . . ivi
Caro (Annibal) 425
Corona di Sonetti contro al Ca-
stelvetro fri
La reai Casa di Francia 620
A Carlo V 621
Sonetti mattaccini contro ilCastei-
vetro. 687
Casaregi 500
Aci e Galatea fui
Poliremo briaco fui
Invito di Poliremo a Galatea fui
Cassia*! 546
Il Ratto di Proserpina ivi
Psiche fui
Celio Magro 561
Deus iri
Ad Amore 571
Per l’Anniversario della Morto
del padre 611
Meditazioni sulla Morte vicina. . . 612
Cerretti 602
Alla Posterità iti
Chiabrera 79
Delle Guerre de' Goti fui
Canto VII. Getulio sa da un guer-
riero le sorti della sua Idalia . fri
Lo conforta a difendersi dalle in-
vidie di Roma. 457
Mostra come nissuno sia contento
del suo stato fri
Dice die i tristi costumi sono ca-
gione delle nostre miserie 458
Svergogna con acute ironie la mol-
lezza della gente d' Italia fui
L' Assunzione di .Maria 553
Per santa Lucia 554
Per Giovanni de’ Medìd 575
Per Francesco Gonzaga fui
Per vittoria delle galee toscane
contro 1 Turchi 576
Per Giovanni de' Medici 577
Per Latino Orsino 578
In Morte di Fabrizio Colonna. . . 579
Alla granduchessa di Toscana... . 580
Per vittoria delie galee toscane so-
pra le turcbesche fri
Per altre vittorie de' Toscani con-
tro i Turchi 581
Per l' Edificazione di Livorno 582
Per l' Esaltazione di Urbano Vili . 583
Duolsl (l' Amore 632
Agli ocelli della sua donna. .... fui
Dice che i sorrisi delia sua bella
donna non lo vinceranno 633
Maggio fri
Lodi del sorriso di sua donna. . . . 634
Prega una Ninfa di mescergli del
migliore 645
In lui vecchio il vino pud assai più
dell’ Amore 646
Potenza di Bacco iri
Prega Vulcano di fargli una gran
tazza. 647
Circoli 605
La Virtù e la Fortuna fri
Ciri 684
Le Bugie iri
Clasio 7 OS
Il Fumo e la Nuvola iri
Coppetta (Francesco) 546
La morte di Didone iri
La Creazione 549
Amore gl' insegna a lev arsi di terra. 568
A Guìdobaldo, duca d' Urbino. . . 622
Costanzo 566
Le sue querele faranno fede del-
l' onestà di sua donna iri
Come siagli fatto dono della vita, fri
I tormenti gli sarebbero dolci se
potesse sperarla vicina iri
In morte del figliuolo 605
La Cetra di Virgilio 023
Cotta 556
L’ Esistenza di Dio fri
Datalo (Alfonso). 497
Improvvisa bonaccia ivi
Della Casa 549
A Dio iri
Prega le Muse di dargli stile su-
blinic quanto la sua donna .... 564
INDICE DEGLI AUTORI.
84
iri
iri
306
fri
308
— ■ j
INDICE DEGLI AUTORI. 727
La Gelosia 6C1
Servitù (l’Amore 565
Visse e vlvrii solo in lei tei
Insegna ad un uccelletto a diren-
dersi dalla sua donna tri
Uccelletto ammaestrato da lei . . . t'ri
Duoisi d’ essere amante canuto. . . tri
Pcntesì degli amori profani , c
chiede mercè a Dio COC
Teme che il suo pcntir non sia
tardo 607
Duoisi delle indegne some di che
si gravò iri
A una Selva 608
Volgcsi a mirar le maraviglie del
mondo iri
Sopra la cittì di Venezia 621
Sulle discordie de’ Fiorentini .... ivi
Dell’Uva (Benedetto) 225
Il Martirio di S. Catarina ivi
Dice alla Musa di cantare le Sci
Giornate 560
Del Teglia 636
La pallidezza d'Amore iri
De’ Rossi 613
L’Arco d’Amore ivi
Amore dì udienza 614
li Sorcio nella Nave 712
Le Api e il Ramcrino iri
Il Fico c lo Spino iri
Fastosi COI
Sullo stato dell’Europa del 1787. iri
Il Vaticinio iri
Fidestio 603
Poesia pedantesco. Racconta 1 suoi
tormenti d’amore iri
Figari 638
Loda il riso c il pianto di Nigella, ivi
Filicaia 589
Vienna assediata iri
Liberazione di Vienna 501
A Soblcsclii, re di Polonia 592
La Provvidenza 615
Miserie d’ Italia 625
Viltà d’Italia iri
Fiorentino (Salomone) 515
In Morte della sposa. iri
Il Rimorso della coscienza ivi
Fiorino de' Boninsegni 170
Uranio iti
Firenzuola 569
A' luoghi in clic la vide per la
prima volta iri
Fortigcerri 292
Ricciardetto iri
Canto III. Ferraù racconta la
sua conversione iti
Canto XX. Sventura e morte di
Ferraù 296
Fracastoro 566
Creazione della sua donna ivi
Franco (Niccolò) 197
Scampato da naufragio, consacra
un voto a Nettuno iri
Fa dono di coralli c di gemme a
Galatca ivi
Frugoni 516
Annibaie sull' Alpi. iri
Navigazione di Amore 610
GnEDiM 627
Roma antica e moderna ivi
Gianni 560
I.a Morte di Giuda ivi
Giusto de' Conti 561
Natura crea la più degna forma di
donna iri
Gozzi (Gasparo) 159
Ritratto degl’ innamorati moderni, iri
Glie la Natura non basta a fare il
poeta 160
De’ giudizj clic si danno intorno
a' poeti 161
Rende conto del passeggiare la
sera in piazza 162
Parla del villeggiare 163
Contro il gusto d’ oggidì in poesia. 165
Centra alla mollezza del vivere
odierno 166
Abbozza l'immagine della vera
poesia 167
Contro alla corruzione de' costumi
presenti iri
LaGhita c ii Piovano 5IO
Per le nozze di Sebastiano Mocc-
nigo con Chiara Zeno 678
Del Fiume e della sua Fonte. ... 713
Della Gambcrcssa c sua figlia.... iri
Gradenigo 631
Parla ad alcune viole iri
Graziasi. 91
Il Conquisto di Granata iri
Colombo racconta la sua prima
navigazione rei
Canto XXV. Parlata di Fernando
agli Spagnuoli e di Alimoro
ai Mori 95
Guidi 591
Al duca di Parma tri
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728
La Fortuna
In morte del bamn d' Aste, ucciso
sulla breccia di Buda 593
Per l’ElezIoue d’innocenso XII.. . 599
Per don Luigi della Orda 626
Gbidiccioni 618
Sonetti sull’ Italia iti
Latti 327
Snei de travestita iti
Libro I. Giunone eccita Eolo a
porre In tempesta le nari d’E-
nea tri
Lazzarini 627
Sulla tomba del Petrarca ivi
Leers (Filippo ì 500
Polifemo a Galatea tri
Lesene (De) 634 |
Scherzo sopra l’Amore tri
Leonardo dà Vinci 605
Che cosa s’abbia a roterà iri
Lionello Estense 561
Uuolsi d* Amore e dilettegli aiuto, iti
Lirn 311
Faimonliie racquistato iri
Cantare VII. Paride ascolta la
storia di Magorlo iti
Lorenzo de’ Medici 475
Apollo pastore iti
La Nencla da Barberino 503
Cerca per ogni dove Iddio 547
Per la Nascita di Cristo ... 548
Dolcissime rimembranze 561
Sempre bella , sia ridente o sde-
gnata iti
Vuoi dolersi di lei, poi la canta di
bel nuovo 562
A una Violetta iti
Chiama sè stesso il maggior ne-
mico di sua pace iri
Macchi* vello 684
Canto de’ Diavoli iri
Maggi 19°
Paria alle onde che accolsero li
sua donna iti
Sull’ Italia 625
Manfredi 555
La vista di Gesù lo croce lo guida
a pentimento iri
11 Nascimento di Maria iri
Per Monacazione iri
Alla sua donna fatta monaca 573
Tardo sdegno, e pieU dopo morte. 574
Sopra la nobiltà 616
Al nipote di Clemente XI 626
Per la nascita del principe di
Savoia 627
Nasino 49
Adone iri
Canto VII. I Fauni iri
Canto X. Le Meraviglie 50
Canto XIII. La Prigione 72
La Strage degl’ Innocenti 235
Libro IV iri
OtTre a una Ninfa alcuni coralli. . 499
A Tritone e Proteo iri
Narra alcuni amori di pesci iti
La bellezza è caduca 614
La vita umana 615
Marnitta (Iacopo) 568
Quanto possa il guardo di sua
donna. iri
Miserie d’ Italia 623
Martelli 521
Lode delle donne iri
Mascheroni (Lorenzo) 415
Invito a Lesbia iri
Mattio Frantesi 690
Capitolo In lode della Tossa. . . . iri
Mazza 000
All’ Armonia. iti
Menzini 394
Etopedia irt
Libro I. Natura del vero bene, iri
Libro II. La prevaricazione. . . 395
Libro III. Dcscrivesi l'ignoran-
za. Prudenza c giustizia fi-
gliuole della Sapienza 396
Libro IV. Gioventù e fortezza . 398
Dell’ Arte poetica 400
La Povertà de’ Poeti 430
Contro i falsi ministri di Cristo. 433
L’Api 492
La Guardia delle Viti iri
Presagj di tempo piovoso irà
Il Platano iri
Al Sepolcro di valoroso masliuo. 493
I Sogni, seguaci dei Dcslderj.. . . iri
Allegorie sopra il Dio Pane iri
Narra come crescesse a poesia e
come non fosse distornato dalla
nobile impresa 531
L’ Invidia 615
Metastasio 639
La Libertà, a Nice iri
Michelangelo. 570
Ad Amore iri
Sopra Dante 625
Minzùni 560
La Morte del Redentore iti
INDICE DEGLI AUTORI.
596
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INDICE DEGL! AUTORI.
Molza *79
La Ninfa tiberina in'
Pel cardinale Farnese 621
Oncaro 494
Alceo . iti
Paradisi (Agostino) 566
Il Natale fri
Passero*! ... 324
Ciceroni iti
Canto XVI. La genealogia iB rl-
cerone iti
Il Fratello e la Sorella 7 1 1
Poliziano 18
Stante per la giostra del magni-
fico Giuliano de’ Medici iti
Dialogo con pastorelle 472
Come la pastorella passi 11 tempo. 473
La Brunetta, canzonetta zinga-
resca iti
Alla sua donna Ippolita Leonclna. 516
A Maria 548
Parla ad ogni testimonio del suo
amore 563
Il Maggio 631
A una donna 683
Pozzi (Ippolito) 701
Ad una Puerpera iti
Pulci (Luigi) 244
Morganle Maggiore iti
Canto I. Gesta d’ Orlando .... iti
Canto XXV. Il diavolo Astarotte
e sua scienza teologica 251
Canto XXVII. Morte d’Orlando 2G3
La Beco 600
Q cinico Rossi 567
La presentazione al Tempio.... iti
Redi 673
La Scuola d' Amore iti
Per morte della sua donna iti
Bacco in Toscana 648
Rolli 649
Cerca la sua donna iti
Rota 495
Sebeto iti
Rocellai (Giovanni) 334
Le Api iti
Sacchetti (Franco) 470
Mira donne che colgono fiori in
un bosco ivi
Salvago 669
Al Silenzio iti
Salvator Rosa 446
La Poesia ivi
Sahhaizaro 476
Arcadia. iti
Ergasto sopra la sepoltura d’An-
drogeo iti
Savioli 642
La Gelosia iti
All’ amata inferma 643
Siiionetti 568
Domanda alle Muse soccorso per
cantar la sua donna iti
Soldani 427
Contro I Peripatetici iti
Speroni 485
Canti di Dafni iti
Spolverini 362
La Coltivatione del Riso iti
Libro I. Pernicioso dibosca-
mento del monti iti
Libro IV. La trebbiatura 366
Tarsillo 211
Lagrime di S. Pietro iti
Canto V. San Pietro entra nel
tempio e vedevi dipinte molte
storie passate c future iti
Canto XUI. Il Signore scende
nel Limbo 218
Tl Podere 349
Tasso (Bernardo) 276
Amadigi iri
Canto XII. Amadigi ode i con-
sigli del re suo padre iti
Canto C. Rassegna de’ letterati
e personaggi del suo tempo 280
Lodi ardite di un pescatore ad
Amarilli 497
Crocale e Galatea iti
Al slg. Cesare di Ruggiero 528
A Llgurfnó 530
Prega Iddio ad infiammarlo d’a-
more per lui 549
Non basta a cantar Dio s’ Egli
stesso non l’ inspira 660
Alla sua donna che va a marito. . 567
La Notte iti
Sulla felicità pastorale 608
A Lelio Capilupi 609
Nella morte di Carlo V 624
Tasso (Torquato) 98
Le Sette Giornale del mondo
creato iti
Testi .683
Lontra un Potente superbo iti
Prega che Cinzia non neghi più a
lungo d’ aprirgli le porte 584
Sulla caducità delle umane gran-
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130
INDICE DEGÙ ALTO DI.
dcue e sulla pace della vita pri-
vata 585
Contro gli eccessi del lusso 586
All’Italia tot
Ubaldo parla a Rinaldo fuggito
dal palano d* Armida 581
La Nobiltà e la Virtù 588
Quanto le umane opere sieno fug-
gitoli 589
Tasso*! 285
La Secchia rapila tot
Canto Vili. GII ambaseladori
bolognesi odono I canti di
Scarpìnello tot
Canto XI. Il Conte di Cuiagna. 288
Tuuldeo 605
Una sposa moribonda parla allo
sposo tot
Tohitaso 510
Teme e spera tot
Tonassi 493
Il capro Insolente tot
Tormelli 551
La Concezione di Maria Vergine, tot
Sopra la Natività di Maria Vergine. 558
Trissiso 32
Italia liberala tot
Libro IX. Il Capitano vede le
ombre illustri de' poeti, sofl e
guerrieri tot
Libro XXII. Morte di Corsa-
mente 43
Uberti (Fazio degli) 10
Dillamondo fot
Libro !. Faiio vede in visione la
Virtù, poi gli si offre il ro-
mbo Paolo clic lo conforta
con sapienti consigli fot
Duolsi di sua povertà 603
VaLVASO.iT. (E. asme di) IR
Angeleida iti
La Caccia 314
Canto II. Della cura de’ bracchi
e de' cavalli fri
Canto IV. Usi di varie fiere c
modi di cacciarle 311
Vasaio 532
Visione /. Per la morte di mon-
signor ltarberini . . fri
Visione II. '“er la morte di Anna
Enrichetta di Borbone 531
Visione F. La peste di Messina . 540
Visione i l . . 11 terremoto di Li-
sbona 542
Yemukotti 103
Della Volpo c lo Spino fri
Del Contadino del Cavaliero. . . tri
Dell'Asino e del Vitello ivi
L'Albero della scienza o sia i si-
stemi filosofici fri
li Cavallo c il Bue 101
La Chicchera c la Pentola iti
L’Uomo, il Gatto, il Cane c la
Mosca tri
Il Vecchio e l’Asino 106
VlSCIGCERH.V . 422
Flagella l’Invidia, l'Avarizia, l'A-
dulazione ed altri vizi fri
ZAiiriERi.. 556
Il Santuario del monte Galgano. . fri
Zappi 493
Sospira il giorno in clic vedrà la
sua donna 493
li Bacio fri
Sopra la statua di Giulio Cesare. 516
Giuditta 555
Sopra l'Invidia 616
Il Mosi di Michelangelo 626
Il Museo d’ Amore 635
7
n ■
/
FINE.
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KONSERVIERT DURCH
OSTERREICHJSCHE FLORENZH1LFE
Z
tu
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